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MERI-HATHOR

Le mani, grondanti acqua, si riappoggiarono su quella massa informe, umida e maleodorante premendola e lisciandola; affondarono in essa spremendone l’acqua e scivolarono trasformandola lentamente in esseri splendenti di vita.

Khnum, il Grande Vasaio, sorrise di certo guardando quel suo discepolo del mondo umano, lui, dio primevo che plasmava continuamente l’uomo sul suo tornio, non poteva che riconoscere la sua scintilla. Che plasmasse l’argilla, o picchiasse il suo mazzuolo sulla durissima diorite o sul granito, Thutmosi, scultore di Akhetaton, sapeva che suo compito era estrarre dalla materia ciò che essa certo già conteneva e che era lì, in paziente attesa di essere portata alla luce.

Sulle larghe mensole del laboratorio si allineavano, in buon ordine, piccole statue di ushabti, alcune di minor valore, altre in quella pasta azzurra che tanto lavoro comportava in fase di cottura… quante volte la temperatura troppo alta aveva vanificato giorni e giorni di lavoro, e quante volte gli apprendisti, troppo indaffarati a guardare le cosce delle lavandaie del vicino fiume, avevano fatto raffreddare il forno costringendo il maestro ad attendere che raggiungesse la temperatura giusta. Certo, mentre la temperatura del forno saliva, Thutmosi non aveva sprecato il suo prezioso tempo e aveva colto l’occasione per misurare le spalle dei suoi apprendisti con un flessibile giunco. Ma, sarà perché in quei casi ci vedeva poco (in realtà così non sembrava quando dipingeva minutamente le sue opere), sarà perché, a sua volta, era stato apprendista e ben ricordava le sode parti posteriori delle belle donne di Kemi, nessuno rammentava le staffilate che, spesso, colpivano il sacco su cui il malcapitato era sdraiato piuttosto che il fondo schiena. 

Thutmosi, burbero individuo sempre però pronto a perdonare o a far finta di non vedere, era stato allievo del grande Bak e quest’ultimo, a sua volta, era stato allievo dello stesso Akhenaton che gli aveva insegnato quel suo concetto di arte che così grandemente aveva scandalizzato l’aristocrazia reale e clericale: la rappresentazione umana non doveva essere l’idealizzazione dell’uomo, ma doveva essere l’uomo stesso con le sue paure, i suoi dolori, i suoi difetti. Di questa regola Thutmosi aveva fatto la propria ragion d’essere e da questa regola faceva scaturire la sua arte.

Lavorava lentamente, senza fretta, perché riteneva che solo accarezzando la sua argilla, o strappando alla pietra piccole schegge, avrebbe potuto individuare, nelle pieghe delle materie utilizzate, le vere linee che avrebbero fatto del suo lavoro un’immagine vivente. Era presuntuoso Thutmosi, sapeva che la sua arte era quanto di più prossimo potesse esistere alla capacità degli Dei di creare l’uomo e se Khnum, da parte sua, era un po’ invidioso dello scultore, Thutmosi lo era ben di più del Dio, perché non era ancora riuscito ad infondere la vita nella sua opera più importante che, ora, troneggiava su una delle mensole di un piccolo studiolo il cui accesso era precluso a tutti. Il busto  era gelosamente ricoperto da un pesante panno di cui conosceva ogni piega: non avrebbe tollerato che qualcuno lo sollevasse.

Il suo studio si trovava in una traversa laterale della Grande Strada Regia che attraversava Akhetaton ed era separato dalla casa dove viveva, da solo, da un piccolo giardino ove un ombroso sicomoro allargava i suoi rami fin quasi a coprirlo per intero. Quante volte, la sera, lo scultore si era sdraiato sulla panca, che aveva disposto strategicamente sotto quell’albero, e guardava l’immenso cielo stellato che s’intravedeva tra i rami. Quante volte la Dea Iside, la Luna, si era rivolta a lui con la sua dolce voce accarezzandolo e mostrandogli interminabili strade, che si perdevano nel nulla, lungo le quali egli avrebbe voluto incamminarsi conversando della sua arte con un discepolo che, però, non esisteva poiché sembrava quasi che la razza stessa degli scultori di Akhetaton si stesse spegnendo con lui.

Che strano, gli stessi apprendisti che lavoravano nel suo laboratorio, maschi e femmine, gli erano stati affidati dai propri genitori timorosamente e, di fatto, erano più manovali che veri e propri apprendisti: nessuno di loro era interessato alla scultura, ad esempio, salvo a comprendere l’uso del mazzuolo e degli scalpelli di bronzo, quasi che nel loro futuro ci fosse un incarico da scalpellino, piuttosto che uno studio d’artista. Anche gli altri, quelli che più s’interessavano a manipolare le argille, somigliavano a costruttori di mattoni di fango e solo uno, la giovane Meri-Hathor, aveva dimostrato un barlume di interesse per la scultura, un barlume che era, però, durato lo spazio di pochi giorni giacché, improvvisamente, si era dedicata esclusivamente al suo lavoro manovale anche se, e Thutmosi lo aveva notato, di sottecchi guardava le mani del maestro correre sull’argilla con un interesse a stento mascherato sotto le lunghe ciglia nere.

Perché?” la interrogò Thutmosi un pomeriggio quando, andati via tutti gli altri, Meri-Hathor si era attardata per rassettare lo studio, “perché!” ripetè lo scultore e la giovane lo fissò negli occhi con i suoi velati palesemente dalle lacrime. Thutmosi vi lesse un misto di rimorso, vergogna, desiderio di fornire la risposta, paura… e proprio quella paura fu più eloquente di ogni altra giustificazione: le era proibito imparare quell’arte blasfema, che spingeva gli artisti a svilire gli esseri umani, a renderli simili a caricature, ad accentuare, addirittura, i difetti.

Un Dio, ed il Re era tale, non poteva essere rappresentato come un uomo qualsiasi. Come avrebbe potuto elevarsi al di sopra degli altri, imporre il proprio potere e giustificare il suo poter colloquiare direttamente con gli Dei se era così vicino alla terra? Come poteva mantenere la Maat sulle Due Terre se la sua mano poteva indebolirsi e lasciar cadere anche uno scettro? O se il suo collo diventava troppo sottile per reggere il peso delle corone?

Thutmosi non ripeté la sua domanda e, poggiata la sua larga mano sul capo della giovane allieva, la invitò a tornare a casa per non far stare in pensiero sua madre. Da quel giorno, Thutmosi non intervenne più verso la giovane apprendista, ma cercò ogni pretesto perché fosse presente mentre egli lavorava e, invitandola ora a porgergli l’acqua, ora a ricoprire di un telo bagnato l’argilla perché non asciugasse, cominciò discretamente a insegnarle tutto quello che sapeva della sua arte.

Un giorno, con la discrezione che gli era ormai abituale, Thutmosi porse a Meri-Hathor un gran pane di ottima argilla, “gettala, le disse, non riesco a ricavarne niente di buono e certo il dio Bes, l’ignobile nano, abita in quell’argilla e mai mi permetterà di trarne un’opera degna di questo nome…” la giovane si inchinò come prevedeva la sua posizione dinanzi al maestro e tentò una timida difesa dell’incolpevole argilla “maestro, esordì, non  mi sembra che questa argilla sia poi così cattiva, e la tua vena artistica non è certo la colpa del tuo insuccesso… ti ho visto lavorare questa mattina e le tue mani correvano sul tornio elevando vasi di incomparabile bellezza…

Ti ho detto di portarla via, Meri-Hathor, non voglio più vederla, fanne quello che ti pare…

L’argilla, come Thutmosi voleva, finì in casa di Meri-Hathor ed il maestro continuò nelle sue lezioni silenziose, anzi le intensificò poi, un giorno, mentre stava rifinendo un busto particolarmente bello: “…per Seth ed il suo animale misterioso, devo consegnare questo al nobile Ptahneb per la Corte del Re e mi fa male una delle corde della mano; non riesco a spingere sull’argilla con la giusta forza e rischio di deformare il viso di questa splendida fanciulla… eppure dovrò rinunciare all’incarico e reimpastare l’argilla per non farla seccare… perderò un ottimo cliente e certo la voce si spargerà… nessuno più vorrà avere a che fare con me, mi ridurrò ad ubriacarmi nella taverna del Coccodrillo, e finirò presto a faccia in giù in un fosso…

Se Meri-Hathor, che era lì accanto, considerasse quello sfogo quanto meno esagerato, certo non lo diede a vedere, avrebbe voluto dirgli che non sarebbe mai accaduto, che la sua arte le era dentro, che ogni piccolo particolare delle sue mani le era caro, che avrebbe voluto essere quell’argilla per essere da lui accarezzata, che solo lui poteva estrarre dalla materia informe le forme della bellezza,  ma si limitò a seguirlo con lo sguardo mentre lasciava il laboratorio. Una lacrima rotolò sulla guancia che ora si era imporporata per un misto di rabbia e vergogna, rabbia per non aver saputo mai dire al suo Maestro del suo amore, vergogna per non avere il coraggio di essergli vicino quando era triste e solo. Fu così che, mentre le lacrime rendevano sempre più incerta la sua visuale, Meri-Hathor si avvicinò alla statua di argilla… la sua mano sottile accarezzò la fronte di quella splendida donna, poi scese lungo il naso perfetto e si soffermò su labbra che non potevano non parlare e che, Meri-Hathor ne era certa, improvvisamente si sarebbero aperte per far sentire una voce calda e sensuale che le avrebbe portato via il suo amore.

Piano, senza fretta, con dolcezza, Meri-Hathor si trovò a premere sempre più sull’argilla e, quasi che le mani fossero indipendenti dalla sua volontà, si rese conto che stava proseguendo il lavoro di Thutmosi; dapprima timidamente, poi con sempre maggior coraggio, la fanciulla vide le sue dita proseguire e fondersi con la materia inerte, diventare la materia stessa e capì che nessun divieto, nessuna minaccia potevano allontanarla da Thutmosi, ne’ da quella sua arte che era entrata in lei con così abile dolcezza da non lasciarle più alcuno scampo!

Frattanto, dal suo studiolo, Thutmosi ammirava soddisfatto le mani affusolate della giovane fanciulla che proseguivano nell’opera da lui interrotta; da giorni aveva studiato il suo piano e, mentre da solo attendeva che il sonno venisse a cancellargli il ricordo del dolce viso della ragazza,  aveva studiato con ogni cura la posizione in cui avrebbe appoggiato il suo tornio per proseguire la sua nuova, grande opera. Gli era stata commissionata dal grande Ptahneb, dignitario di corte e preposto agli abbellimenti della reggia, ma derivava da un espresso desiderio del Re Akhenaton in persona.

Nessun altro può realizzare il mio sogno!” queste erano le parole del Re che Ptahneb gli aveva riferito, queste erano lo sprone a realizzare quanto mai egli era riuscito a creare, a dare vita alla vita, a lottare con Khnum nel suo stesso campo, in un blasfemo tentativo di superare il Dio Vasaio nella sua stessa arte.

Meri-Hathor lavorava assorta e nell’argilla prendeva vita la struttura di base che, lo sapeva bene, Thutmosi avrebbe ricoperta del sottile strato di gesso che avrebbe poi dipinto dei colori più vividi; Thutmosi, nel suo buio osservatorio, era combattuto dal desiderio di guardare la ragazza o il suo lavoro ed entrambi non si accorsero dell’ombra nera che, stagliatasi per un istante sul muro del laboratorio, si era poi dileguata e si era diretta, ombra tra le ombre della via, verso una casa poco distante da quella dello scultore.

Erano passate le ore e il cielo, come solo nella terra di Kemi accade, era passato dall’azzurro, al rosso, al viola, al nero, ma Meri-Hathor sembrava non rendersene conto, continuava a lavorare quasi senza vedere… Thutmosi si agitò nel suo nascondiglio e causò, volontariamente, un piccolo rumore che ricordasse alla fanciulla che egli poteva tornare da un momento all’altro, scivolò poi, non visto, fuori dallo studio e si recò in casa ove prese una lucerna accesa e ritornò verso lo studio come se non vi mettesse piede da tempo.

C’è nessuno?” chiese al buio poi, senza neanche aspettare risposta, si voltò e sparì nel cortile; qui sollevò il palo che la richiudeva ed aprì la porta che dava sulla strada, quindi si allontanò e rientrò in casa lasciandola inspiegabilmente aperta.

Meri-Hathor comparve sulla porta dello studio poco dopo, si guardò intorno e si avvicinò alla porta del cortile… non riusciva a distogliere i pensieri dal lavoro che aveva appena sospeso ne’, principalmente, dal suo Maestro che sapeva, solo, sulla sua stuoia. Non poteva tenersi dentro tutto quell’amore, non poteva, ancora una volta, nascondere a se stessa che il suo respiro era niente se mancava dell’altra metà costituita da quello del suo maestro…

Meri-Hathor si soffermò sulla soglia e guardò la strada che si perdeva tra le case di Akhetaton, poi richiuse la porta del giardino, riabbassò il paletto che poco prima Thutmosi aveva sollevato ed entrò nella casa buia dello scultore…

Il mattino seguente, Khepri, il sole dell’alba, seppe che mai nessun amore era stato più dolce, mai nessun amante era stato più delicato, mai le parole avevano saputo narrare amore più grande ed eterno… Thutmosi era seduto sotto il frondoso sicomoro e guardava verso l’abitazione aspettando che ne uscisse il motivo stesso del suo sguardo. A che servivano gli occhi se non per ammirare l’amore? Davanti a lui, a terra, era disteso un largo pezzo di fine papiro su cui lo scultore aveva tracciato splendidi geroglifici; aveva iniziato alle prime luci dell’alba, anzi, quando era ancora notte ed il cuore gli aveva fatto capire che la gabbia del suo petto era troppo piccola per contenerlo.

Thutmosi aveva allora raccolto il rotolo di papiro, i suoi pennelli più belli, i colori e, silenziosamente per non svegliare Meri-Hathor, se ne era andato in giardino, ove ancora si trovava, ed aveva iniziato a dipingere così, quasi meccanicamente. E i segni si erano trasformati in parole, e le parole in frasi, e le frasi in quello che ora si trovava di fronte a lui e che egli avrebbe fatto leggere a Meri-Hathor. Avrebbero poi bruciato quel papiro e il fumo, salendo al cielo, avrebbe portato al Dio Aton, al Globo Solare, il loro amore che nessuno mai avrebbe potuto dividere:

Da quel giorno Meri-Hathor visse nella casa di Thutmosi e visse nel suo cuore… il bel busto, cui i due artisti lavoravano ora a turno, diventava sempre più splendido, ma, improvvisamente, gli altri apprendisti cominciarono a disertare lo studio e a nulla valsero gli sforzi di Thutmosi per capire cosa stesse succedendo.     

Era la solita storia, era chiaro che da ormai sei o sette anni la città stava morendo. Dapprima qualche Funzionario si era fatto destinare ad incarichi particolari presso la splendida Ipet-Eswe e qualcuno era tornato all’antica Men-Nefer. I più fortunati si erano fatti assegnare ad incarichi diplomatici; fu poi la volta degli artigiani, dapprima si trattò di incarichi di lavoro che richiedevano il loro intervento lontano dalla capitale, da Akhetaton, poi i lavori si erano prolungati sempre più e nei giardini avevano cominciato a spuntare alte erbacce, poi era giunto il desiderio di apprendere nuove tecniche e gli artigiani non avevano più fatto rientro.

Al loro posto erano giunti altri artigiani dai capelli stranamente corti e Thutmosi, quando ne aveva conosciuto qualcuno, era rimasto colpito dalla superficiale conoscenza della materia di cui avrebbero dovuto essere maestri e, quasi sempre, dalla totale assenza di quei calli che, soli, potevano essere ornamento delle mani dei veri artigiani. Sembrava più che si trattasse di mani abituate a reggere l’alto bastone di un Dio, o i vasi delle offerte, …o il pugnale del sicario.

I nuovi giunti, che avevano occupato le case degli artigiani che erano partiti, sembravano in apparenza sconosciuti l’uno all’altro, ma fecero rapidamente, forse troppo, conoscenza tra loro tanto che non si mescolarono alla variopinta folla della città preferendo incontri nelle rispettive abitazioni. Qualche mala lingua raccontò di una statua d’oro del Dio nascosto, di Amon, che veniva conservata in una delle abitazioni e che, giornalmente, riceveva le previste attenzioni, ma nessuno seppe mai se questo corrispondesse alla verità ne’ la cosa suscitò curiosità eccessiva poiché mai e poi mai il Faraone Akhenaton aveva proibito il culto delle divinità.

Vero è che nella sua furia iconoclasta aveva chiuso il grande tempio di Ipet-Eswe, ed il clero del “Nascosto” si era, in gran parte, disperso nelle province di Kemi, ma questa dispersione rispondeva più a timori ingiustificati e al tentativo di mantenere, tra gli ignoranti, il potere ormai acquisito che non ad ordini perentori del Re. Si sparsero voci d’incontri notturni in cui il simulacro del Re eretico veniva trafitto da pugnali dopo lunghe litanie, ma anche questo non trovò riscontro.

Fu proprio in quel periodo che anche gli ultimi apprendisti lasciarono lo studio di Thutmosi e fu in quel periodo che la ragazza divenne più cupa e meno felice; più di una volta, ormai, aveva trovato nel giardino teste di serpente, gettate dall’esterno, che aveva fatto immediatamente sparire perché non turbassero Thutmosi, poi, un giorno, mentre lui era assente, accadde…

Thutmosi rientrò dal suo impegno a Corte,… mancavano solo piccolissimi dettagli al busto cui stavano lavorando e, in particolare, si era recato al Palazzo portando nella sua sacca il secondo degli  occhi di alabastro che aveva realizzato per la sua opera. Il primo era già stato montato, ma, in un ripensamento dovuto alla perfezione cui sempre tendeva, lo scultore voleva verificare che corrispondesse, in bellezza, a quello del modello.

Giunto davanti alla porta che dava sul giardino Thutmosi si rese subito conto che qualcosa non andava: la porta era semiaperta e nello spiraglio si intravedeva, a terra, il paletto spezzato; gettò in un angolo la sacca che conteneva l’occhio del busto incompiuto e subito si precipitò in casa.

Meri-Hathor giaceva nello studio, mentre tutte le mensole che contenevano le sue opere erano spezzate e centinaia di frammenti di argilla erano sparsi per la stanza. La donna aveva opposto una resistenza estrema e Thutmosi si rese conto che la sua difesa aveva scatenato le ire degli aggressori che non erano, però, riusciti ad entrare nello studiolo sulla cui mensola si trovava ancora il meraviglioso busto cui Meri-Hathor ed egli stesso stavano lavorando… quello della Grande Regina Nefertiti il cui unico occhio ora sembrò fissare il suo pianto disperato…

Thutmosi raccolse la piccola Meri-Hathor tra le braccia e la portò in casa; qui la depose delicatamente sulla stuoia, le lavò le ferite mortali e, con una sottile catena d’oro unico ricordo della madre, le legò al collo l’occhio di alabastro perché la guidasse nei sentieri dell’Occidente poi, presala tra le braccia, si avviò lungo la strada, stranamente vuota, verso la periferia della città, proseguendo lentamente verso il deserto amico da cui non ritornò mai più!

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