Di Andrea Petta

Un eretico genovese alla caccia di segreti

Nel novembre del 1816 il capitano genovese Giambattista Caviglia sbarca ad Alessandria, appende il timone al chiodo e si improvvisa esploratore. Profondamente religioso, è rimasto affascinato dall’aura di mistero esoterico legato all’Egitto, ai miti di Osiride, e cerca dei riferimenti che colleghino questi miti alla storia ebraica ed al cristianesimo.
Viene subito molto “benvoluto” dagli altri europei in Egitto. DI lui scrisse il console piemontese Pedemonte (che era però originario anch’egli di Genova): “Recatosi in Cairo abbandonò il mestiere di marinaio e dedicossi interamente, o per meglio dire intese dedicarsi, agli scavi archeologici, senza avere alcuna idea di quelle nozioni preliminari necessarie e indispensabili a chiunque voglia occuparsi di archeologia”, descrivendolo come “empio ed ignorante” e considerato dagli altri “grezzo ed imbecille”. Ebbe da dire anche con il console napoletano Fantozzi (Riccardo, non Ugo…).
Incrocerà Belzoni (che lo chiama “Captain Cabillia”) ma, divisi da propositi diversi, non collaboreranno mai. Anche Champollion diffiderà di lui, considerandolo un superstizioso ignorante e rifiutando una proposta di Caviglia di accompagnarlo nel suo viaggio in Egitto.
Un po’ esploratore e un po’ guida turistica per i ricchi europei che iniziano a visitare l’Egitto, l’unico a considerarlo è il console inglese Henry Salt (che ritroveremo alle prese con altri personaggi), il solo che riuscì a dire di lui che “il suo carattere amabile si mescola all’entusiasmo per la ricerca archeologica”. Salt è appena arrivato in Egitto ed ha l’incarico di battere i francesi nella “corsa” ai tesori egizi ed al materiale per decifrare i geroglifici. Il suo agguerritissimo nemico sarà il corrispettivo francese, Drovetti, con cui mancherà poco alla sfida a duello. Salt fornisce quindi a Caviglia un budget sostanzioso e 160 uomini per lavorare sulla piana di Giza.
Caviglia si mette all’opera. Inizia con la piramide di Cheope, esplora il pozzo che parte alla base della grande scala ed entra per primo dopo molti secoli nella camera sotterranea. Nella camera principale la sua curiosità è attratta dai cunicoli Nord e Sud, e per primo prova ad investigare cosa celino con l’uso di lunghe pertiche. Invano. È convinto che portino a camere segrete, mai scoperte. Li ritroveremo più avanti. Caviglia fu forse il primo fanta-archeologo convinto che le camere della Grande Piramide nascondessero poteri esoterici
Deluso, inizia allora a lavorare intorno alla Sfinge. Il suo passato di capitano gli permette di organizzare gli uomini in squadre ordinate, ma non fa in tempo a liberare un settore che subito il vento del deserto lo ricopre. Però Caviglia fa in tempo a scoprire il tempietto di Tuthmosis tra le zampe della Sfinge e la Stele del Sogno, un frammento dell’ureo che adornava la testa della Sfinge e uno della barba.



Emerge anche una scalinata monumentale costruita dai Romani per giungere ai piedi della Sfinge, prima che la sabbia vinca la sua battaglia.


Caviglia si arrende; passa quindi a Menfi, dove scopre e disseppellisce il colosso di Ramses II vicino al tempio di Ptah. Lo offre a Leopoldo II di Toscana tramite Ippolito Rosellini, ma quando Leopoldo scopre quanto costerebbe trasportarla a Firenze fa sapere di non essere grullo e la rifiuta gentilmente. La stessa fine farà l’offerta al British Museum. Per la cronaca, nessuno si occuperà di spostare il colosso, intorno a cui crescerà invece un museo “in loco” per ospitarlo.

Preso dal suo misticismo, Caviglia pubblicherà quattro “Avvisi” nel 1827 in cui cercherà una sorta di fusione tra il mito di Osiride e il cristianesimo identificando Osiride con Abele e Seth con Caino. Caviglia intuisce uno stretto rapporto tra l’Antico Egitto e l’Antico Testamento, un’idea originale all’epoca, ma ne sbaglia tempi e modi. I suoi “Avvisi” gli varranno una scomunica e la fine della sua carriera di esploratore, non prima di aver partecipato con Richard Vyse allo scempio con l’esplosivo delle piramidi di Chefren e Micerino per entrarvi.
Epilogo

Un altro francese, Grébaut, nel 1887 riesce nuovamente a liberare le zampe, ma come per Caviglia è una vittoria solo temporanea.
Finalmente nel 1925 ancora un architetto francese, Emile Baraize, riesce nell’impresa ma ad un prezzo altissimo: la distruzione della scalinata romana. In compenso, appare il cosiddetto “Tempio della Sfinge” subito sotto. L’impresa verrà consolidata nel 1931 da Selim Hassan con un immane sbancamento di sabbia intorno al monumento ed un parziale restauro della testa.

E da lì la Sfinge ci osserva ancora, e protegge le Dimore dell’Eternità.