Di Andrea Petta e Franca Napoli

Che la posizione per il parto fosse quella accucciata lo sappiamo dalle varie rappresentazioni pervenute fino a noi. Anche il simbolo Gardiner B3 che significa “nascita” rappresenta una donna accucciata da cui spuntano testa e braccia del neonato.

Il Papiro Westcar, risalente al Secondo Periodo Intermedio e che ci racconta la nascita divina di Cheope e dei faraoni successivi, ci fornisce un’idea di come probabilmente si svolgeva il parto. La partoriente è infatti assistita da quattro dee: Heqat, Iside, Nephtys e Meshkenet, una simbologia che si cercava di ripetere ad ogni nascita.
Di conseguenza, le donne che assistevano al parto avevano funzione magica, oltre che levatrici: una di fronte alla partoriente ad accogliere il neonato simboleggiava Iside, una dietro (Nephtys) a sorreggere la partoriente, una di lato (Heqat) a guidare il travaglio. Meshkenet era ovviamente rappresentata dai mattoni della nascita. È possibile che la partoriente si orientasse in direzione ovest-est o nord-sud per favorire il fato del nascituro, ma non ci sono prove documentate al riguardo. Non ci sono invece prove che esistessero levatrici di mestiere.
Il neonato, come oggi, veniva lavato subito dopo il taglio del cordone ombelicale e posto su un cuscino di forma quadrata, come quadrata era la disposizione dei mattoni della nascita secondo i punti cardinali.
Sicuramente il taglio del cordone era un passaggio di grande importanza. Fino a quel momento il nascituro non è “vivo” nel pensiero egizio, non è un essere a sé stante. Si pensa che il taglio avvenisse – soprattutto nell’Antico Regno – con il coltello psš-kf (“peseshkef”, “ciò che divide e toglie” – grazie a Livio Secco per la consulenza sul termine) che si biforca (divide) a doppia ansa in cima con la parte interna concava tagliente.

Nei Testi delle Piramidi il coltello peseshkef, coinvolto anche nel rito dell’apertura della bocca del defunto, “rende forte la mandibola”: dopo il taglio del cordone veniva mostrato al neonato, sporco di sangue, ad indicare che ora era separato dalla madre e che doveva avere la forza di succhiare il latte dal seno materno per crescere. Alcuni peseshkef predinastici sono stati ritrovati con ancora tracce di colore rosso, simbolo del rito in cui erano utilizzati.
Madre e figlio sono ora “divisi da ciò che è diviso”.
LA PLACENTA
Gli Antichi Egizi conoscevano abbastanza bene la funzione della placenta; sapevano che nutrisse il feto e la ritenevano la parte di sangue materno non utilizzata dal feto stesso, una sorta di riserva a cui attingere. Ma la sua funzione nel pensiero egizio non era solo fisiologica. Nelle rappresentazioni nel colonnato della nascita di Hatshepsut, infatti, il dio Khnum non crea UN bambino sul suo tornio: ne crea DUE e Meshkenet li pone ENTRAMBI nel grembo materno.

L’altro “bambino” sarebbe il “ka” del nascituro, e sarebbe la sua placenta che lo avvolge (“le braccia del tuo ka sono davanti a te e dietro di te”). “Ka” deriverebbe infatti da “kaw” = cibo, nutrimento. Il coltello peseshkef ha diviso anche il neonato dal suo ka, e sono ora due entità distinte.
Si pensa che la placenta del Faraone, soprattutto in era protodinastica, fosse conservata in un involto speciale e mostrata in circostanze speciali; potrebbe essere rappresentata anche nella celeberrima paletta di Narmer, portata in processione davanti al Faraone.

Quella dei comuni mortali veniva invece seppellita sotto il pavimento della stanza del parto o nel giardino di casa, da dove proteggeva il neonato nell’avventura della Vita che stava iniziando.
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