Un caso di mummificazione spontanea con i polmoni ancora in situ
Come sappiamo, i polmoni erano tra gli organi che venivano estratti nel processo di mummificazione e conservati nei vasi canopi; nello specifico venivano messi sotto la protezione di Hapy, uno dei figli di Horus spesso raffigurato con testa di babbuino, ed affidati a Nephtys.
Il vaso canopo dedicato ai polmoni con Hapy a testa di babbuino di Psusennes I
La rappresentazione di Nephtys più famosa, a guardia del sacrario dei vasi canopi di Tutankhamon
Tale procedimento non ha sicuramente favorito la conservazione dei polmoni stessi, ridotti dopo millenni ad una poltiglia densa difficilmente studiabile. Al di là delle evidenze di tubercolosi emerse dagli scheletri pervenutici (vedi https://laciviltaegizia.org/2023/01/21/virus-e-batteri/) anche il buon Ruffer, che abbiamo conosciuto come uno dei massimi esperti nello studio delle mummie all’inizio del XX secolo, trovò infatti una marea di difficoltà a fornire informazioni affidabili. Credette di aver ritrovato tracce di polmonite, ma tale interpretazione è ancora molto discussa.
In anni più recenti è stato invece possibile identificare con relativa certezza i segni di silicosi dovuta alla sabbia ed alla polvere di roccia, frequente negli scalpellini ancora oggi, e di antracosi dovuta all’inalazione del fumo di carbone – probabilmente frequente nei lavoratori delle necropoli o comunque dovuta ai fuochi mantenuti accesi nei luoghi chiusi – oltre a tracce molecolari di diversi virus respiratori. In epoca Covid qualche studioso aveva proposto anche di studiare i coronavirus rintracciati nelle mummie egizie per studiarne l’evoluzione.
Radiografia di un paziente moderno affetto da silicosi. I cerchi blu evidenziano la presenza dei granulomi silicotici.
Depositi di fuliggine sul tetto a volta del tempio di Seti I ad Abydos. La stessa fuliggine doveva essere inalata dai lavoratori del tempio
Da quanto emerge dai papiri medici, raffreddori ed influenze affliggevano già gli Egizi: “quando i suoi occhi sono infiammati ed il naso cola…tu dirai: è frutto della putrefazione del suo muco…”; per i medici egizi però il catarro proveniva dallo stomaco, e la patologia dipendeva dal fatto che non scendesse nell’intestino per essere espulso.
Fibrosi massiva e progressiva nel polmone di un minatore affetto da antracosi
Il rimedio per raffreddori/influenze prevedeva una pagnotta di grano selvatico con molto assenzio, cipolla, aglio, carne grassa di bovino ed impastata con la birra; la pagnotta andava mangiata dal paziente accompagnata da “birra per le offerte” (un altro legame con la magia?) fino alla scomparsa dei sintomi.
Le aree scure al centro sono depositi di pigmento da depositi di carbone all’interno dei polmoni di una mummia del periodo tolemaico
Sicuramente la tosse derivante dalle infiammazioni ai polmoni era fonte di numerose chiamate per i medici di allora: ben 20 paragrafi del Papiro Ebers sono infatti dedicati ai rimedi per la tosse. La maggior parte contiene polpa di carrube mescolata ad acqua e bevuta per quattro giorni (il 4 sembra essere una sorta di prescrizione standard per la medicina egizia) – ancora una volta i medici egizi avevano scoperto empiricamente le qualità antiinfiammatorie della pianta.
Le carrube: il loro alto contenuto di flavonoidi ha effetti antiinfiammatori e vengono tuttora utilizzate nella medicina naturale
Alcuni rimedi sono abbastanza complessi; uno prevede l’uso di fichi, un frutto chiamato “balsamo egiziano”, uva, cumino, foglia di acacia, ocra, mentuccia, un’altra pianta sconosciuta chiamata gngnt fatti macerare in birra dolce e somministrati (ovviamente) per quattro giorni.
Altri rimedi sono francamente incomprensibili: si suggerisce di tritare finemente un dente di maiale e mescolarlo all’impasto di quattro tortine, da consumare una al giorno. In questi casi si scopre la dimensione ancora a metà tra scienza e magia della medicina egizia.
Ed infine, tra i rimedi sbuca proprio “quello della nonna”: latte e miele. A dir la verità, nella versione egizia prevede di usare la panna al posto del latte, di essere molto denso e di essere buttato giù con dosi abbondanti di birra raffinata. Ditelo alle vostre nonne: magari la tosse non passa ma si affronta con tutt’altro stato d’animo…
Il caro, vecchio latte e miele della nonna – la quale però non ci diceva di berci sopra un bel po’ di birra, mannaggia mannaggia…
Entriamo ora in uno dei campi più controversi e complicati della medicina egizia: le malattie cardiovascolari.
Sappiamo infatti che gli Egizi non compresero mai appieno il sistema circolatorio, anche se sapevano che “il cuore (“haty”) parla al corpo” attraverso i “metu” (vasi) – vedi https://laciviltaegizia.org/…/come-il-cuore-parla-al…/ – ma sappiamo anche l’importanza che il cuore aveva nel pensiero egizio.
Al cuore veniva data la massima importanza, sia in questa che nell’altra vita come ben sappiamo. Qui la descrizione della psicostasia dal Papiro dei Morti di Hunefer
Anche se il cuore normalmente veniva reinserito nel corpo mummificato, purtroppo i reperti giunti fino a noi sono stati poco utili per definire l’incidenza di tali patologie, e come al solito i termini tecnici usati nei papiri medici rimangono spesso oscuri – e forse erano oscuri anche per i medici del Nuovo Regno, tanto che un intero capitolo del Papiro Ebers, l’855, spiega a cosa si riferiscono dei vocaboli evidentemente antichi. Infatti, mediante l’osservazione ed il loro tipico modo di “raccontare” gli eventi, scopriamo che i medici egizi fin dall’Antico Regno avevano individuato diverse patologie cardiovascolari.
Sappiamo così ad esempio che “wegeg” è la debolezza del cuore dovuta all’età, e “amed” è la mancanza di pulsazioni.
L’enorme rischio di errore consiste nel “modernizzare” la medicina egizia e dare per scontate cose che per gli antichi medici non lo erano affatto. Nonostante questo, arrischiamoci a vedere le corrispondenze più significative.
ARITMIA CARDIACA
Il “cuore che danza” (Ebers 855n) potrebbe essere un modo di definire l’aritmia cardiaca (battito troppo lento, troppo veloce o irregolare); quello che non coincide è però la spiegazione nel Papiro Ebers: “il cuore si muove dalla parte sinistra del petto”, cioè il battito si sposterebbe dalla posizione normale.
Il “cuore che danza”, un’aritmia con extrasistole in un moderno ECG
FIBRILLAZIONE VENTRICOLARE
La fibrillazione ventricolare avviene quando il segnale elettrico che fa contrarre i ventricoli si irradia in maniera scoordinata a casuale. Gli Egizi lo descrivono così: “Quando il cuore è malato, svolge male il suo lavoro; i vasi che si irradiano dal cuore diventano talmente deboli che non puoi sentirli…Se il cuore trema, ha poca forza e cede, la malattia avanza”.
Il ritmo normale (sopra) a paragone con la fibrillazione ventricolare (sotto): “il cuore svolge male il suo lavoro; i vasi che si irradiano dal cuore diventano talmente deboli che non puoi sentirli…”
INSUFFICIENZA CARDIACA CONGESTIZIA
La debolezza del battito che conduce all’accumulo di sangue nelle vene e nei polmoni viene descritto come “Il cuore è invaso dai liquidi…allagato dal sangue che lo comprime” (Ebers 854k e 855b). Un’altra espressione collegata, “c’è del liquido in bocca” è stata associata all’edema polmonare con un essudato nei polmoni. La difficoltà del battito viene espressa in un modo straordinario: “il cuore è smemorato come chi pensa ad altro” (Ebers 855z)
INSUFFICIENZA CORONARICA
“Il cuore è debole. Un vaso chiamato “il ricevente” è quello che lo provoca. È questo vaso che dà acqua al cuore” (Ebers 855c). Il vaso che fornisce “acqua” sembrerebbe riferito alle coronarie, che per un’occlusione non forniscono più nutrimento al muscolo cardiaco.
Una moderna TAC cardiaca che evidenzia perfettamente le coronarie, il “vaso ricevente” dei medici egizi
“Il cuore è debole…” Restringimento su una coronaria discendente anteriore, al giorno d’oggi trattata in angioplastica
INFARTO
“Se esamini un uomo per una malattia al cuore e ha dolori alle braccia, al petto e a un lato del cuore…è la malattia “wadj”. Qualcosa è entrato nella sua bocca. La morte si avvicina.” A parte l’errore nella “causa”, è difficile qui non vedere alcuni tra i sintomi più comuni dell’infarto del miocardio. L’irradiazione del dolore al braccio sinistro era sempre sottolineato, tanto che gli Egizi chiamavano l’anulare sinistro “il dito del cuore”.
Infarto emorragico della parete posteriore del ventricolo sinistro con la rottura della parete stessa e morte sopravvenuta per emopericardio. Sicuramente in questo caso “la morte si è avvicinata” molto velocemente
CARDIOMIOPATIA DILATATIVA
“La debolezza è sorta nel suo cuore. Ciò significa che si inarca fino ai confini del polmone e del fegato. Lì accade che i suoi vasi diventino sordi, caduti a causa del loro calore” (Ebers 855d). L’immagine del cuore che si estende oltre il normale richiama immediatamente la cardiomiopatia dilatativa, quando la cavità cardiaca si allarga per la perdita di forza di contrazione del muscolo cardiaco, riducendo così in maniera sensibile la capacità che ha il cuore di pompare il sangue (“i vasi diventano sordi”, ossia non pulsano più).
In questa immagine però altri studiosi hanno individuato i sintomi degli aneurismi aortici
“(il cuore) si inarca fino ai confini del polmone e del fegato. Lì accade che i suoi vasi diventino sordi…” L’ingrossamento del cuore ma con l’assottigliamento delle pareti del ventricolo sinistro nella cardiomiopatia dilatativa
LE EVIDENZE
La testa di Ramses II, che secondo Cyril Bryan (il medico dell’Universiyty College di Londra che tradusse in inglese il papiro Ebers dalla versione in tedesco originale) mostra evidenze di arterie calcificate. La mummia di Ramses è stata una delle più studiate sia per la sua importanza storica che per l’ottimo stato di conservazione.
Fare supposizioni sull’incidenza di una patologia nelle antiche civiltà è molto speculativo, visto che i reperti sono sempre limitati, spesso danneggiati dalla decomposizione e rappresentano solo una parte della popolazione. Con gli Egizi il clima e la mummificazione aiutano un po’, ma si è dovuto aspettare lo sviluppo della microscopia elettronica e dell’istochimica per avere dati più certi. Anche se le prime scoperte risalgono addirittura al 1850 con Johann Czermach, che effettuò l’autopsia sulla mummia di un’anziana donna conservata a Vienna, fu infatti Marc Ruffer ad essere un pioniere in questo campo intorno al 1910, studiando una grande quantità di mummie prevalentemente del Nuovo Regno e del III Periodo Intermedio.
Sezione dell’arteria peroneale posteriore di una donna vissuta durante la XXI Dinastia (colorazione Van Gieson) con evidenziati (“b”) le placche calcificate. Dal lavoro originale di Ruffer (“On arterial lesions found in Egyptian mummies (1580 BC—525 AD).” The Journal of Pathology and Bacteriology 15.4 (1911): 453-462.”)
Sezione dell’arteria ulnare di una donna vissuta durante la XXI Dinastia (colorazione Van Gieson) con evidenziati (“a” e “d”) le placche calcificate e con “b” il rivestimento muscolare anch’esso calcificato. Dal lavoro originale di Ruffer (“On arterial lesions found in Egyptian mummies (1580 BC—525 AD).” The Journal of Pathology and Bacteriology 15.4 (1911): 453-462.”)
Grazie anche al suo lavoro sappiamo quindi che anche gli Egizi – o almeno le persone più abbienti – soffrivano di aterosclerosi. Se non ci stupisce che Ramses II alla sua veneranda età avesse le arterie con significative calcificazioni e che suo figlio Merenptah avesse un’aorta che era ormai rigida come il legno, ci potrà sorprendere che Lady Teye, una donna vissuta all’epoca della XXI Dinastia e morta all’età di 50 anni, ritrovata a Deir-el Bahari, avesse la valvola mitralica già calcificata, le coronarie occluse e l’aorta con ateromi nodulari.
Calcificazioni a livello delle arterie poplitee nelle gambe di Ramses II
Sezione dell’aorta di Merenptah, con le lamelle muscolari dell’intima media inframezzate da depositi di fosfato di calcio, nel disegno originale di Shattock del 1909 (A Report upon the Pathological Condition of the Aorta of King Menephtah, traditionally regarded as the Pharaoh of the Exodus. Proc R Soc Med. 1909;2(Pathol Sect):122-7
In tempi più moderni diversi istituti, tra cui il Manchester Project e il Pennsylvania Museum, hanno lanciato progetti di ricerca paleopatologica sulle mummie egizie. Lo stesso Museo Egizio del Cairo si è dotato di una TAC per esaminare le mummie custodite (a volte con esiti molto controversi, come abbiamo visto per Tutankhamon).
La TAC allestita nei pressi del Museo Egizio del Cairo, in questo caso durante l’esame di Esankh, un sacerdote vissuto nel III Periodo Intermedio (1070-712 BCE9 e deceduto intorno ai 35 anni di età
Placca ateromatosa calcificata sull’aorta addominale di Tjanefer, un altro sacerdote del III Periodo Intermedio
Nel 2010 lo “Studio Horus”, esaminando 42 mummie conservate al Museo Egizio del Cairo e vissute dal Medio Regno alla dominazione romana, ha trovato una percentuale sorprendentemente elevata di lesioni cardiovascolari (20/42, quasi il 50%); da notare però che l’età media alla morte di queste persone era superiore rispetto a quelle apparentemente sane da questo punto di vista. È probabile quindi che lo status sociale delle prime garantisse comunque una aspettativa di vita più lunga.
Placca ateromatosa calcificata sull’aorta addominale di Tjanefer, un altro sacerdote del III Periodo Intermedio
La stessa persona mostra anche una grave compromissione di entrambe le carotidi
A sinistra: calcificazione completa a livello della valvola mitralica nel cuore di una donna vissuta nel Nuovo Regno e morta a circa 45 anni a confronto con quella di una paziente moderna, a destra
Con le moderne tecnologie la percentuale di persone dell’Antico Egitto con problemi cardiovascolari sembra quindi essere inaspettatamente elevata. La dieta non doveva favorire tali patologie, se non nelle classi più abbienti (e molte mummie appartengono a queste classi sociali); gli studiosi stanno ipotizzando che il ruolo delle infiammazioni dovute ai parassiti o alle infezioni croniche (come tubercolosi e malaria) possa essere stato fondamentale.
Lady Rai, una dama di corte della regina Ahmose Nefertari e probabilmente tutrice di Amenhotep I, vissuta all’inizio della XVIII Dinastia e morta a circa 45 anni di età
L’arco aortico di Lady Ray mostra una placca ateromatosa calcificata, una dimostrazione che la vita di corte – con possibilità alimentari molto ricche e lo stress della corte faraonica – potesse avere un impatto negativo sulla salute anche delle donne.
Il cuore di Lady Rai, rimesso al suo posto nel processo di mummificazione, mostra i probabili segni di un infarto del miocardio sulla parete posteriore.
I RIMEDI
Un’intera sezione del Papiro Ebers (854-856) è dedicata al cuore ed ai “metu”, i vasi che dal cuore si irradiano per tutto il corpo e si ricongiungono nella medicina egizia a livello dell’ano. La sezione è talmente importante da essere definita “la conoscenza segreta del medico” come abbiamo visto qui: https://laciviltaegizia.org/2022/10/13/il-cuore/. È qui che si trovano descritte tutte le condizioni patologiche del cuore ma, curiosamente, non vi è descritto alcun rimedio per la maggior parte di esse, né medico né chirurgico.
La cipolla: ipoglicemizzante, diuretica, stimolante, fibrinolitica, battericida, antielmintica ed antispastica. La medicina egizia ne faceva un grande uso.
Le prescrizioni sono invece sparse nelle altre sezioni del papiro, spesso con difficoltà ad identificare gli ingredienti; è però interessante sapere come l’osservazione empirica aveva portato ad utilizzare spesso principi naturali corretti e tuttora in uso. Il rimedio più comune per ogni patologia del cuore è formato da miele, latte ed acqua (probabilmente il miele forniva l’energia dagli zuccheri che contiene per sostenere comunque il paziente). Nei casi più ostinati si ricorreva a cipolle, sedano, birra dolce, datteri ed una misteriosa pianta “jbw”.
Le patologie cardiache più gravi, indicate come “il cuore che danza”, “il cuore che dimentica” ed il dolore acuto al petto prevedevano invece:
Fichi (1/8)
Piante “jeneset” (1/8)
Frutto “sese” (1/8)
Sedano (1/16)
Ocra (1/16)
Miele (1/32)
Acqua
Mentre per l’infarto, oltre a tre piante sconosciute si usava il timo e grani rossi di semi di senape, bolliti in olio – sfruttando l’effetto vasodilatatore, con l’avvertenza di non ripetere mai la somministrazione al paziente.
Noi suggeriremmo di rivolgersi al pronto soccorso più vicino, ma se volete provare, non ci assumiamo responsabilità…
In generale il fico (anticoagulante), la cipolla (diuretica e antiaggregante), il sedano (diuretico), il coriandolo (stimolante ed antispastico), il cumino (stimolante), l’ocra e l’uva sono gli ingredienti più ricorrenti per i rimedi legati al cuore ed ai “metu”. Soprattutto sedano, cipolla ed uva sono tra i diuretici naturali noti, e probabilmente era dovuta a questa attività il loro beneficio terapeutico.
Il fico; la ficina contenuta è un anticoagulante naturale, digerendo la protrombinasi
Per le infiammazioni che si estendono dal cuore (“il petto brucia”) la cura prevista è formata da:
– Datteri freschi
– Frutto del sicomoro
– Foglie della pianta “kaka” (che ignoriamo quale sia)
mescolati con acqua a formare una poltiglia, da cui strizzare il succo e farlo bere al paziente per quattro giorni.
Il frutto del sicomoro, l’albero sacro a Iside.
Mentre se sono coinvolti i vasi delle gambe (“dolore attraverso le cosce e le gambe tremano”) il papiro suggerisce una miscela di latte fresco, assenzio e natron, da far bollire e far bere al paziente sempre per quattro giorni. Da notare che secondo alcuni studiosi questo passaggio si riferirebbe alle vene varicose.
Il sedano, diuretico grazie all’acido glicolico contenuto
Se invece il dolore è intorno alle spalle e le dita tremano, secondo il papiro è “una secrezione” (o “ghiandole ingrossate”) da combattere facendo vomitare il paziente con “pesce nella birra” e con carne o pianta “djs” (sconosciuta anch’essa finora) legando le sue dita con i viticci della cosiddetta zucca-bottiglia (Lagenaria siceraria), dopo di che “il paziente starà meglio”.
La zucca-bottiglia, i cui viticci dovevano essere utilizzati per legare le dita dei pazienti affetti da tremore alle mani dovuta ai “metu” delle braccia – chissà poi perché…
Se da un lato ci può far sorridere l’approccio medico, è sorprendente come fossero già riconosciute le proprietà terapeutiche di alcune sostanze e la loro applicazione. Vedremo invece nelle pratiche chirurgiche il trattamento degli aneurismi.
Ci sono poche evidenze di tumori maligni negli Antichi Egizi, con un progressivo aumento apparente dall’Età Predinastica al Nuovo Regno.
Le possibili cause di questa discrepanza con la medicina moderna sono probabilmente dovute ad una aspettativa di vita molto più corta (si calcola che in età ramesside l’aspettativa di vita fosse intorno ai 39 anni), una dieta ovviamente molto diversa da quella moderna (si veda https://laciviltaegizia.org/…/il-cibo-nellantico-egitto/) e fattori ambientali decisamente differenti (non c’era molto inquinamento industriale all’epoca…)
Impressionante osteolisi del cranio di una donna, interpretata come conseguenza di metastasi ossee. Nuovo Regno, necropoli occidentale di Tebe.
Eppure, nella storia trimillenaria dell’Egitto faraonico c’è il tempo per “toccare” anche l’evoluzione delle patologie. Curiosamente, infatti, le evidenze di neoplasie maligne sono state riscontrate su mummie del Nuovo Regno, mentre sono assenti nei resti di epoche precedenti. Migliori condizioni di vita, interscambio con altri territori e culture, cibi (e vizi) diversi hanno preteso il loro prezzo in termini di salute. Anche senza coca cola.
Le evidenze più frequenti (e più facili da riscontrare) sono quelle di tumori ossei, prevalentemente osteocondromi (neoplasie benigne soprattutto delle ossa lunghe che appaiono come noduli duri che sporgono dalla superficie di un osso).
Moderna risonanza magnetica di un osteocondroma della parte distale del femore una ragazzina di 9 anni
Le moderne tecniche di indagine stanno via via attribuendo però diverse lesioni ossee come indizio di metastasi di tumori maligni. Probabilmente ne sapremo di più man mano che i progetti di ricerca avanzano, cosa che avviene più lentamente in questo campo per la mancanza di reperti “scintillanti” e la modesta eco mediatica di queste ricerche (con conseguente minori risorse).
Osteocondroma su una mummia dell’Antico Regno (Smith e Dawson, 1924)
Osteolisi (perdita di tessuto osseo) multipla su una vertebra con relativa TC, indizio di metastasi ossee di un sarcoma dei tessuti molli. Nuovo Regno, necropoli occidentale di Tebe.
È da notare che tutte queste patologie non hanno un riscontro diretto accertato nei papiri medici ma…
Gli studiosi dibattono da tempo se il termine bnwt nel Papiro Edwin Smith (casi 39 e 45) sia riferito ai tumori o alle ulcere gangrenose: il bnwt con “una testa che sporge dal petto” dovrà infatti esser trattato con il coltello arroventato per asportarlo.
Una prescrizione del Papiro Ebers (Ebers 813) fa riferimento ad “un male che mangia (o distrugge) l’utero della donna”; secondo alcuni studiosi sarebbe un riferimento al carcinoma uterino ma ci sono molti dubbi al proposito. Il termine usato, “wenemet”, indica di norma “mangiare” ed è senza dubbio un modo molto efficace per “raffigurare” un tumore.
Il cranio 12-5046 proveniente da Naga ed-Der (attualmente all’Hearst Museum, Berkeley Univ., California) mostra una distruzione praticamente totale della parte frontale da parte di un carcinoma esofaringeo (VI-XII Dinastia)
Anche nel Papiro Kahun si fa riferimento ad una patologia uterina chiamata “nemsu” che potrebbe far riferimento al carcinoma uterino, ma dipende più che altro dal fatto che è un termine trovato solo in questo contesto.
Il rimedio peraltro non sembra particolarmente efficace: una mistura di datteri freschi, una pianta “hekenu” sconosciuta e sabbia di fiume – oppure cervello di maiale e un’altra pianta chiamata “kesenty” – a formare un impacco da inserire per via vaginale.
Teschio maschile proveniente dalla tomba TT9 caratterizzato da una serie di fori di dimensioni variabili con l’aspetto tipico di metastasi diffuse da una sede primaria in altre parti del corpo. Relativamente pochi tumori si diffondono dai tessuti molli alle ossa e in un maschio adulto la fonte di origine più probabile è un carcinoma polmonare. L’incidenza basale del carcinoma polmonare è relativamente bassa ed è solo con l’abitudine diffusadel fumo di sigaretta che la malattia è diventata “importante” nel mondo moderno; un caso nell’antichità, sebbene non unico, è comunque di notevole importanza
Non ci sono tracce di tumori maligni al seno, ma sempre nel Papiro Ebers ci sono riferimenti e prescrizioni per il “seno che duole”, una “malattia che divora il seno” con “un gonfiore delle ghiandole” che potrebbero indicare il carcinoma della mammella.
Metastasi ossea sull’area occipitale del cranio di un individuo sepolto nella tomba di Monthemhat (TT34), XXV Dinastia
Da notare che la più grande raccolta di resti catalogati ed esaminati, provenienti dalla zona dove sarebbe stata costruita la diga di Assuan, è stata distrutta da un bombardamento durante la II Guerra Mondiale, privandoci della possibilità di riesaminare i resti alla luce delle nuove tecnologie.
Osteolisi di un corpo vertebrale di un uomo deceduto tra i 50 ed i 60 anni, un’età elevata per l’epoca; dai paleopatologi è considerato una conseguenza di un mieloma multiplo. Nuovo Regno, necropoli occidentale di Tebe
È un po’ più facile per noi cercare prove di alcune malattie genetiche, ovvero di quelle che hanno lasciato traccia nelle mummie e nei reperti pervenuti fino a noi. Nei papiri medici non c’è assolutamente traccia di queste patologie – anche perché non era possibile per i medici dell’epoca intervenire in alcun modo. Non solo: essendo ignota l’origine della patologia, soprattutto le deformità fisiche venivano viste come un intervento diretto delle divinità, e quindi una sorta di “dono” che rendeva le persone “speciali”. Il concetto di Ma’at imponeva di “compensare” le difficoltà degli altri e di non creare alcun tipo di emarginazione.
Non solo: negli “Insegnamenti di Amenemope” (uno scriba del periodo Ramesside) si trova una citazione diretta sulle persone affette da disabilità, come le chiameremmo oggi:
“Non ridere di un cieco né prendere in giro un nano
Né creare difficoltà ad uno storpio;
Non schernire un uomo che è nelle mani di Dio,
Né guardarlo accigliato se sbaglia.”
Erano un po’ più avanti di noi.
IL NANISMO
Peter Dinklage, probabilmente il nano acondroplasico più famoso dei giorni nostri, nei panni di Tyrion Lannister ne “Il Trono di Spade”
Abbiamo numerose testimonianze del nanismo sia dalle mummie pervenute fino a noi fin dall’epoca predinastica che dai ritratti. Il caso più antico, risalente al Badariano, è stato incredibilmente perso dopo essere stato analizzato a Londra nel 1932, un brutto episodio che dimostra l’approssimazione dell’approccio scientifico all’archeologia di quei tempi. Gli studiosi si sono presi la briga di contarli, arrivando a più di 200 rappresentazioni di nani conosciute; per la maggior parte di tratta di acondroplasia (termine di origine greca che significa mancato sviluppo delle cartilagini), dove tronco e testa vengono sviluppati normalmente, mentre gli arti – soprattutto quelli inferiori – sono molto corti).
Scheletro di un nano acondroplasico risalente alla I Dinastia. Il ritrovamento di diversi vasi ed oggetti nella tomba ha fatto supporre che si trattasse di un funzionario di rango abbastanza elevato
Da notare che anche il dio Bes è un nano, tipicamente rappresentato di fronte e non di profilo (come sarebbe stato normale nell’iconografia egizia) per mostrarne le gambe corte e storte.
Il dio Bes, raffigurato come un nano. Bes è una delle divinità più antiche; il suo ruolo era prevalentemente quello di allontanare i demoni e spesso è in associazione a Taweret nel proteggere le gestanti e gli infanti.
La figura dei nani nella vita quotidiana egizia era essenzialmente positiva. Erano in qualche modo “magici”, legati a Ra nelle sue molteplici forme e fornivano protezione contro i demoni – ma anche, prosaicamente, negli eventi terreni. Ben tre incantesimi contro i serpenti invocano un nano (riferimento indiretto a Bes?) ed un altro è legato direttamente al parto (più precisamente all’espulsione della placenta).
Il nano Seneb con la sua famiglia, uno dei gruppi statuari più famosi dell’Antico Egitto
Il ritrovamento della tomba di Perniankh nella stessa zona, un altro nano che diventò alto funzionario e forse padre di Seneb, ha dimostrato che la malformazione non era un ostacolo per l’ascesa sociale, quantomeno nell’Antico Regno.
Il nano Perniankh, forse il padre di Seneb. Perniankh era il “nano danzante di Corte”, “Colui che diverte Sua Maestà ogni giorno”. Di Perniankh ci è giunto anche il suo scheletro, che dimostra il suo nanismo acondroplasico.
Dalle rappresentazioni nelle tombe, per la maggior parte dell’Antico Regno, sappiamo che i nani erano soprattutto orafi, accudivano gli animali ed i vestiti/tessuti delle abitazioni in cui erano impiegati, ma erano anche musici, danzatori e probabilmente cantori/poeti. La presenza di un nano in casa era indizio del favore degli dèi e protezione dai demoni.
Nani impiegati nella produzione di gioielli. Tomba di Mereruka (visir e genero del Faraone Teti, VI Dinastia), Saqqara
Particolare in cui si apprezza come i tavoli (come le sedie) fossero fatti su misura per loro
I nani musicisti dalla tomba dell’Antico Regno del cortigiano Nykauinpu (V Dinastia)
Khnumhotep, un funzionario della IV Dinastia menzionato come “Supervisore dell’Abbigliamento” e “Sacerdote del Ka”. I suoi arti inferiori sono particolarmente corti, ma la qualità della sua statua testimonia il suo rango
Il sarcofago del nano Djuho, “danzatore per il toro Apis” vissuto ai tempi di Nectanebo II (XXX Dinastia, circa 350 BCE). Djuho mostra tutti i caratteri tipici dell’acondroplasia (fronte prominente, ponte nasale infossato, arti accorciati, cifosi), mentre il suo sarcofago è sicuramente di ottima fattura.
Le nane erano spesso ostetriche; probabilmente la somiglianza con il dio Bes suggeriva un ruolo benefico per la gestante ed il nascituro.
Non molti sanno che anche il dio-creatore Ptah è a volte rappresentato come un nano acondroplasico in età giovanile.
Ptah raffigurato come un giovane acondroplasico, con la treccia dell’infanzia. Non sappiamo cosa tenesse con le mani
PIEDE TORTO CONGENITO
Nelle persone affette dal piede torto congenito la parte esterna della pianta del piede tende a piegarsi verso la parte mediana del corpo, creando una sorta di torsione verso l’interno del piede stesso (talipes equinovarus).
Le posizioni del piede torto congenito
Una delle mummie che mostra possibili segni di talipes equinovarus è quella di Siptah, su cui però gli studiosi propendono per gli effetti della poliomielite, come abbiamo già visto.
La mummia di Khnum-Nakht attualmente a Manchester (e che abbiamo già incontrato in quanto affetto anche da bilharziosi) mostra anch’essa i segni di un possibile piede equino.
Il piede torto di Khnum-Nakht
TUTANKHAMON
Nonostante tutte le ipotesi fatte, il piede torto congenito declamato da Zahi Hawass nel 2010 per il piede sinistro del Faraone non rientra sicuramente tra le patologie di Tutankhamon – la cui mummia ha subito danni pesantissimi dopo la scoperta e la cui prima autopsia effettuata dal Prof. Derry nel 1925 non aveva evidenziato alcuna patologia simile.
L’apertura del sarcofago di Tutankhamon nel 1968 per le analisi con strumenti più moderni rispetto a quelli di Derry. Da notare la posizione del piede sinistro, assolutamente normale
Il piede sinistro di Tutankhamon, radiografia del 1968 del Prof. Harrison (da “Chronicle, Essays from Ten Years of Television Archaeology“). Nessuna traccia di piede torto o equino, deformità delle falangi o mancanza di alcune di esse. O Harrison si è radiografato il suo piede oppure i danni alla mummia sono stati fatti dopo il 1968
Zahi Hawass sottopose la mummia di Tutankhamon ad una famosa TAC nel 2005; il lavoro pubblicato (ben 4 anni dopo…) non evidenziò alcun danno al piede sinistro, salvo poi rimangiarsi tutto e ribaltare l’analisi un anno dopo con un lavoro controverso molto screditato dagli esperti del settore (“Tutankhamun’s left foot is not in equinus and not in varus, and is not a clubfoot”, Dr. Gamble, Stanford University, 2010). Non per niente il Prof. Rühli di Zurigo, uno dei massimi esperti mondiali di paleopatologia e co-autore del lavoro del 2009 con Hawass nonché di una sua analisi sulle patologie presunte di Tutankhamon, fu estromesso dal lavoro pubblicato l’anno dopo. Lasciamo a voi giudicare.
Tutankhamon potrebbe (condizionale d’obbligo) essere stato costretto a camminare appoggiando maggiormente il peso sull’esterno del piede sinistro per la malattia di Freiberg (necrosi della testa del metatarso, solitamente del secondo dito del piede), una condizione non invalidante ben diversa dal piede torto o equino.
IDROCEFALIA
L’idrocefalia è il risultato di un aumento della pressione del liquido cerebrospinale negli infanti quando il cranio non è ancora ossificato, con conseguente deformazione del cranio stesso mentre le ossa facciali rimangono normali. Può essere fatale e spesso conduce a forme più o meno accentuate di ritardo mentale.
Teschio di una donna nubiana con segni di idrocefalo, attualmente a Londra
Il prof. Derry descrisse nel 1912 un caso di idrocefalia in una mummia del periodo romano in cui lo scheletro mostrava uno sviluppo asimmetrico suggerendo una deambulazione appoggiato ad una gruccia.
Al British Museum è conservata una stele funeraria di Intef, un funzionario della XII Dinastia probabilmente affetto da idrocefalia, in cui utilizza un bastone come gruccia esattamente come suggerito da Derry. Prove indiziarie, in attesa di ulteriori riscontri.
Particolare della stele funeraria di Intef (British Museum EA269) in cui il defunto è raffigurato con un bastone usato come gruccia.
AKHENATON
Le congetture su presunte malattie congenite di Amenhotep IV/Akhenaton sono un ottimo esempio di come discipline diverse (archeologia e medicina in questo caso) dovrebbero lavorare insieme e non parallelamente.
Su Akhenaton si è scritto di tutto in campo medico. Sarebbe stato infatti affetto da: ipogonadismo, disfunzione ipofisaria, acromegalia, gigantismo, idrocefalia, sindrome di Frolich (distrofia adiposo-genitale che comporta sterilità, in un Faraone ritratto con sei figlie…), sindrome di Marfan (malattia ereditaria del tessuto connettivo che causa alterazioni oculari, ossee, cardiache, dei vasi sanguigni, polmonari e del sistema nervoso centrale) e probabilmente ce ne siamo dimenticati qualcuna. Tutto questo sulla base delle statue e rappresentazioni dell’epoca amarniana.
Con un briciolo di onestà intellettuale sarebbe stato chiaro che tali rappresentazioni corrispondono ad un canone estetico ed artistico e non alla realtà (lo dimostrano le rappresentazioni del Faraone stesso e dei suoi consanguinei prima della “rivoluzione amarniana” e dopo la restaurazione tebana).
Non solo: se effettivamente la mummia della tomba KV55 fosse quella di Akhenaton (cosa su cui non punterei nemmeno un euro) sarebbe la dimostrazione che Akhenaton era affetto da…pura normalità.
Il cranio dello scheletro KV55, sicuramente non idrocefalo
Dal greco polyos (grigio) e myelos (midollo), la poliomielite è una malattia di origine virale dovuta al poliovirus, che di norma si limita ad infettare il tratto intestinale ma che nel 5% dei casi si estende al sistema nervoso centrale causando la paralisi totale o parziale dei muscoli. Come sappiamo, è stata praticamente debellata solo negli anni ’50 grazie ai vaccini.
Come al solito, trovare traccia dell’agente infettivo in mummie vecchie di millenni è molto difficile, ma abbiamo “prove indiziare” della polio nell’Antico Egitto.
La stele di un sacerdote guardiano di nome Roma, risalente alla XVIII Dinastia, lo ritrae con una gamba più corta ed appoggiato ad un bastone per camminare. Secondo molti studiosi sarebbe la prima dimostrazione della polio nella storia umana.
La stele del sacerdote Roma (o Ruma): è lui la prima testimonianza della poliomielite giunta fino a noi?
Il particolare della gamba più corta e del bastone usato per camminare
Anche un famoso bassorilievo del periodo di Amarna, in cui il Faraone ritratto è stato di volta in volta identificato con Smenkhare o Tutankhamon, mostra il sovrano appoggiato ad un bastone ipotizzando una conseguenza della polio.
Questo famoso bassorilievo, ospitato anche sulla nostra pagina e rappresentante un sovrano dell’epoca amarniana appoggiato ad un bastone con la moglie, è stato indicato come un’altra dimostrazione della presenza della poliomielite nell’Antico Egitto
La mummia del Faraone Siptah della XIX Dinastia mostra la gamba ed il piede sinistro deformati, che sono attribuibili alla polio ma potrebbero essere dovuti ad una malformazione congenita
La mummia del faraone Siptah e la sua gamba sinistra più corta con il piede sinistro deformato
VAIOLO
Discorso simile si può fare per il vaiolo, causato dai virus del genere Variola e le cui eruzioni cutanee sono tristemente note. I papiri medici non citano condizioni simili, né tantomeno indicano una cura.
I virus del genere Variola, fortunatamente ormai debellati
Nel 1912 il solito Elliot Smith, che è stato un vero pioniere nel campo della paleopatologia, individuò sulla mummia di Ramses V (XX Dinastia) tracce di eruzioni cutanee sul collo, sul pube e sull’addome che attribuì al vaiolo – una diagnosi che, seppure contestata, è rimasta valida in attesa di prove certe che potrebbero venire come sempre dall’analisi del materiale genetico.
La foto di Elliot Smith della mummia di Ramses V
Da notare che Ramses V morì in giovane età (intorno ai 25-30 anni) dopo un breve regno di 5 anni e, secondo un papiro conservato a Torino (Papiro 1923) alla sua morte accaddero diversi strani eventi. La sua tomba originale fu abbandonata immediatamente ed un’altra (ancora ignota) fu scavata per il Faraone, mentre altre sei tombe vennero scavate in fretta e furia nella Valle delle Regine. Non solo: i corpi vennero sepolti nelle tombe ben 16 mesi dopo la morte, un fatto straordinario e per niente in accordo alla Ma’at, e agli artigiani che lavorarono alle tombe fu concessa una vacanza di un mese a spese del Faraone subentrato (Ramses VI). Tutti questi fatti hanno fatto propendere per una improvvisa epidemia di vaiolo che uccise diverse persone della famiglia reale, tra cui Ramses V, e che diverse misure di sicurezza vennero prese per evitare che l’infezione si propagasse ulteriormente.
La zona in cui il rash cutaneo è più evidente. Si è anche ipotizzato che le pieghe sulla pelle del collo siano dovute ad un gonfiore patologico prima della morte
La mummia di Nesparehan, un sacerdote di Amon della XXI Dinastia, fu esaminata nel 1920 da Ruffer e mostra i tipici segni del collasso dei corpi vertebrali dovuta alla tubercolosi e della conseguente cifosi
Fino a pochi decenni fa le prove delle malattie infettive nell’Antico Egitto erano sostanzialmente indiziarie, non potendo dimostrare la presenza dell’agente infettivo nelle mummie pervenute fino a noi. La possibilità di analizzare il materiale genetico o di rintracciare antigeni specifici costituisce ora un grosso aiuto, ma le difficoltà procedurali sono comunque notevoli – si vedano tutte le contestazioni fatte al lavoro pubblicato da Hawass nel 2010 sull’analisi del DNA delle mummie reali della XVIII Dinastia.
Non aiuta inoltre la quasi totale mancanza di riferimenti diretti nei papiri medici – ricordiamoci infatti che la medicina egizia trattava i sintomi, ma aveva scarsissima conoscenza delle cause.
Per questo motivo – la mancata correlazione diretta con le patologie – i rimedi utilizzati dai medici egizi verranno trattati successivamente sulla base invece dei sintomi.
LA TUBERCOLOSI (Mycobacterium tubercolosis)
Il Mycobacterium tubercolosis (Bacillo di Koch) come lo conosciamo oggi, al microscopio elettronico
Ci sono evidenze della presenza di tubercolosi, probabilmente veicolata dai bovini, fin dalle prime dinastie con statuette che raffigurano persone con il morbo di Pott (infezione della colonna, che inizia in un corpo vertebrale e spesso si diffonde a vertebre adiacenti, con un restringimento dello spazio discale tra di esse causando deformazioni tipiche della colonna vertebrale).
Riproduzione di una statuetta dell’Antico Regno con i segni di cifosi da tubercolosi
Segni di spondilite da tubercolosi in mummie della necropoli tebana (Nuovo Regno). Si nota la perdita di materiale osseo (osteolisi) che arriva alla perforazione dei copri vertebrali (da Zink, Albert, et al. “Molecular analysis of skeletal tuberculosis in an ancient Egyptian population.” Journal of medical microbiology 50.4 (2001))
Come appaiono con le moderne metodiche gli effetti della tubercolosi spinale con la distruzione dell’osso vertebrale: risonanza magnetica e TAC di un caso di tubercolosi spinale a livello delle vertebre lombari L4-L5 e della prima vertebra sacrale, con la cosiddetta “carie vertebrale” ed estese alterazioni erosive
Reperti radiografici di lesione distruttiva tubercolare a livello delle vertebre toraciche T5-T7 in un paziente di 14 anni, molto simile a quella della mummia di Nesparehan
Anche in questo caso, però, si è dovuta aspettare la fine del XX secolo per avere le prove definitive della tubercolosi nell’Antico Egitto. Anche la prima mummia in assoluto sottoposta ad esame autoptico (la cosiddetta “mummia del Dr. Granville” dal medico che la esaminò nel 1825) ed il cui decesso fu inizialmente (ed erroneamente) attribuito ad un carcinoma ovarico, fu causata dalla tubercolosi.
La “mummia del Dr. Granville” si chiamava Irtyersenu e visse nel VII secolo BCE. La sua autopsia aprì il campo alla paleopatologia moderna. Soffriva di un tumore ovarico, che alla luce delle moderne tecniche di indagine si è scoperto benigno, mentre i suoi polmoni erano devastati dalla tubercolosi.
Evidenza di tubercolosi in un bambino di circa 6 anni. La malattia ha colpito la colonna vertebrale in larga misura, distruggendo completamente i corpi di alcune vertebre lombari con conseguente collasso spinale e una forte angolazione della colonna vertebrale indicata come morbo di Pott.
LA LEBBRA (Mycobacterium leprae)
La lebbra è un’infezione progressiva cronica, acquisita con il contatto stretto e prolungato con la persona infetta (spesso un componente famigliare). Le manifestazioni più evidenti sono deformità dovute a noduli nella pelle e la perdita di sensibilità periferica che conduce spesso alla perdita delle dita delle mani e dei piedi.
La lebbra è causata dal Mycobacterium leprae, un patogeno obbligato che non può crescere se non in un ospite vivente; predilige cute e nervi causando neuropatia periferica con perdita definita di sensibilità e disabilità. Il Mycobacterium leprae può essere riconosciuto nei resti scheletrici umani dai tipici cambiamenti paleopatologici riscontrati principalmente nella regione naso-mascellare del viso, nelle ossa lunghe delle braccia e delle gambe e nelle piccole ossa delle mani e dei piedi. E’ simile al Mycobacterium tuberculosis, dal quale si distingue per una dimensione del genoma sensibilmente più corto. La malattia è nota all’uomo da tempo immemorabile. Il DNA prelevato dai resti di un uomo scoperto in una tomba vicino alla città vecchia di Gerusalemme è la prima dimostrazione della lebbra finora riscontrata. I resti sono stati datati con metodi al radiocarbonio all’1–50 d.C. La malattia probabilmente ebbe origine in Egitto e in altri paesi del Medio Oriente già secoli prima, ma al momento non ne abbiamo prove.
Ad oggi ci sono solo sospetti di lebbra in alcune mummie dell’epoca tolemaica (la prima apparizione relativamente sicura con l’esame del DNA risale al IV-V secolo CE), ma esiste un riferimento nel Papiro Ebers molto misterioso (Ebers 874) in cui si parla del “tumore di Khonsu” (aaa net khonsu):
“…è terribile ed ha molti noduli; ha qualcosa dentro come se fosse aria di cui è gonfio…non farai nulla per guarirlo”
I terribili effetti della lebbra: è questo il “tumore di Khonsu” del papiro Ebers?
È quindi “un male che non posso curare”; l’identificazione non è però così semplice: molti termini sono ancora oscuri e misteriosi, e alcuni Autori hanno riferito questi sintomi alla peste – di cui però non c’è traccia nelle mummie pervenute fino a noi e da cui l’Egitto apparentemente rimase immune fino alla conquista islamica.
La beneamata Bibbia non è sicuramente il primo libro a parlare del ruolo ambiguo dei serpenti nei confronti dell’uomo: nella mitologia egizia è infatti Apophis a sbarrare la strada al sole nel suo viaggio notturno (si veda https://laciviltaegizia.org/2021/09/15/apep-o-apophis/), ed il Libro dei Morti riporta diversi incantesimi per allontanare i serpenti dal viaggio ultraterreno del defunto.
Ma il ruolo dei serpenti nella medicina egizia è duplice: la dea Mertseger appare infatti in forma di serpente e veniva invocata per guarire gli ammalati. Il processo della muta, con il cambio della pelle dei serpenti, inizia infatti nella cultura egizia ad avere significato di rinascita e di guarigione, un ruolo che troverà il suo simbolismo definitivo nella cultura ellenica con Esculapio ed il caduceo, tuttora simbolo della medicina.
Ostrakon dedicato a Meretseger in veste di guaritrice, Museo Egizio di Torino
Esculapio ritratto con il caduceo
Curiosamente, né il Papiro Ebers né il Papiro Edwin Smith menzionano i serpenti. La nostra conoscenza dell’approccio medico ai morsi di questi rettili deriva dai Papiri Brooklyn (47,218.48 e 47,218,85), e c’è un motivo ben preciso: i serpenti non erano competenza dei medici “swnw”, ma dei sacerdoti di Serqet, come gli scorpioni.
Uno dei due Papiri Brooklyn
I Papiri Brooklyn elencano ben 21 tipi diversi di serpenti, con le loro descrizioni, come appaiono i loro morsi, a quale divinità sono eventualmente associati e le loro abitudini – tutto al fine di identificare il serpente e su questa base definire prognosi e trattamento. Praticamente un manuale moderno di ofiologia in tutto e per tutto, tanto che, nonostante i nomi egizi, gli esperti sono riusciti ad identificare la maggior parte delle specie descritte
Hathor, divinità benevola, è associata ad esempio ai colubridi, di norma non velenosi, mentre Sobek (il dio-coccodrillo) e Seth sono associati ai serpenti più velenosi. Sobek è associato al cobra nero del deserto (Walternissia aegyptia) ed alla vipera cornuta persiana (Pseudocerastes persicus).
Il cobra nero del deserto, associato a Sobek. Si sconsiglia vivamente l’incontro ravvicinato…
La vipera cornuta persiana, un altro serpente associato a Sobek molto poco raccomandabile. Nei Papiri Brooklyn viene menzionato che “il paziente si può salvare se sopravvive per tre giorni”
E, naturalmente, è citato Apophis (o Apep), la cui identità rimane però misteriosa. Viene descritto (diversamente dalle rappresentazioni del Libro dei Morti) come “interamente rosso, con il ventre bianco e quattro denti, il cui morso provoca una morte veloce”. Si è pensato al cobra egizio (Naja haje), ma non corrisponde alla descrizione fisica, anche se una variante araba è effettivamente rosso-arancio; il mistero rimane…
Sua maestà il cobra egizio (Naja haje)
La variante araba del cobra egizio, di colorazione prevalentemente rosso-arancio: è lui il serpente Apophis?
Tra i sintomi dei morsi, la mancanza di gonfiore indica una prognosi benigna (“non è un morso pericoloso; la carne non si gonfia”), mentre la zona morsa da una vipera cornuta “appare come uva secca” (necrosi dei tessuti?) ed è un male contro cui lottare.
La febbre è il sintomo più riportato, insieme al sanguinamento per alcune specie (riconoscendo l’effetto anticoagulante del veleno di vipera); ovviamente i sintomi riconosciuti come più gravi comprendono la difficoltà nel respirare, la cecità ed il coma (“la sua testa non comprende più ed i suoi occhi diventano ciechi”).
Un oscuro metodo prognostico viene descritto: “acqua, pianta djais (?) e carne dell’animale kady (?), mescolati e dati al paziente morso: se li vomiterà, morirà”. Peccato non avere identificato gli ingredienti.
Il trattamento è ambiguo: si parla di “incidere il morso/ferita con il coltello ‘des’ molte volte il primo giorno e farlo sanguinare. Applicare sale o natron e bendare la ferita con esso”, ma non è prescritto per tutti i morsi. L’effetto osmotico del natron riduce il gonfiore e viene sfruttato ancora oggi con il magnesio solfato. Il trattamento “farmacologico” prevedeva un centinaio di ingredienti diversi, ma quello ricorrente erano le cipolle mescolate a natron e birra (i bulbi di Crinum, – un parente degli amarilli – simili a quelli delle cipolle, sono tuttora usati come rimedio in Africa occidentale). L’uso della cipolla rientra anche nelle invocazioni a Ra, Horus e soprattutto Serqet – divinità fondamentale come abbiamo visto nel caso di scorpioni e serpenti.
Il Crinum, tuttora usato per i morsi di serpente in Africa occidentale
Come abbiamo visto, non tutto ciò che è legato ai serpenti è negativo, come nella tradizione ebreo-cristiana: ricordiamoci infatti che il cobra egizio raffigurato nell’ureo è il simbolo della dea Wadjet, una delle più antiche del pantheon egizio, e rappresenta il Basso Egitto nei simboli della regalità del Faraone.
Nella tradizione – ma probabilmente non nella realtà – sarà infine un serpente, identificato di volta in volta come una vipera o un cobra, a mettere simbolicamente fine all’Egitto dei Faraoni decretando la morte di Cleopatra VII (che Faraone non fu mai, ma la cui fine coincise in pratica con la trasformazione dell’Egitto in provincia romana).
Cleopatra morente morsa da un aspide (1648), opera di Giovanni Francesco Barbieri, detto Guercino. Palazzo Rosso di Genova
Allora come oggi, gli insetti erano visti come un disturbo – anche se spesso intollerabile – piuttosto che un pericolo per la salute. I papiri medici sono infatti ricchi di suggerimenti su come allontanarli senza sottolineare particolari pericoli.
Sappiamo quindi che il grasso d’oca era efficace per allontanare le mosche (particolarmente temute le mosche originate dalla putrefazione delle carni, gli insetti ᶜpšȜyt), mentre le uova di pesce evitavano il proliferare delle pulci. Ma la misura principale era la prevenzione: il Papiro Ebers suggerisce infatti di pulire le pareti di casa frequentemente con acqua e natron oppure con una sostanza chiamata bebit (bb-t), che sfortunatamente non sappiamo cosa fosse esattamente, mescolata a polvere di carbone.
Si raccomandava inoltre di fumigare la casa con il kyphy (kapet in egizio), una miscela di diversi ingredienti, tra cui la mirra, il ginepro e la trementina, bolliti e trasformati in palline da bruciare sul fuoco per allontanare gli insetti e profumare le stanze.
Tuttora si possono trovare in commercio le palline di kyphy, dalle formulazioni più disparate
LA LEGGENDA DI MENES
C’è però una notevolissima – e contestatissima – eccezione a questa mancanza di attenzione per i danni provocati dagli insetti: la morte proprio del primo, leggendario Faraone Menes a causa, secondo Waddell, dello shock anafilattico a seguito della puntura di una vespa.
Il Faraone Narmer/Menes, la cui morte è tuttora fonte di accese discussioni (Manetone la attribuì ad un ippopotamo)
Waddell, che scrisse le sue considerazioni nel 1930 ed è considerato inattendibile dai moderni egittologi, pescò questa idea bislacca da due iscrizioni su tavolette di ebano rinvenute presso le presunte tombe di Menes/Narmer, e dove identificò in un simbolo con una freccia il pungiglione di una vespa.
Il simbolo interpretato da Waddell come il pungiglione di una vespa
Non sappiamo quanto sia attendibile storicamente l’informazione (molto poco, probabilmente); gli studiosi hanno però cercato di identificare l’insetto ed il principale “sospettato” è la vespa del fico (Blastophaga psenes). Nel caso, sarebbe comunque il primo caso riportato di morte per puntura di un insetto.
La Blastophaga psenes (a destra mentre emerge da un fico dopo aver deposto le sue uova): è lei l’assassina di Narmer?
I TERRIBILI SCORPIONI
I testi egizi ci rivelano che era noto come una sostanza tossica (metut) fosse iniettata dal pungiglione degli scorpioni, causando dolore, difficoltà di respirazione e tachicardia. Il trattamento era spesso legato agli incantesimi, anche se si fa riferimento all’uso del coltello alla ferita.
La Stele di Metternich, ora al Met Museum di new York, è una cosiddetta “Stele di Horus sui coccodrilli” (vedi anche l’articolo di Luisa Bovitutti https://laciviltaegizia.org/…/le-stele-di-horus-sui…/) appartenente al regno di Nectanebo II (Età Tarda)
Il caso più famoso di incantesimo contro la puntura di uno scorpione ci è pervenuta sulla cosiddetta stele di Metternich, una sorta di libro magico inciso su pietra che rivedremo anche per i morsi di serpente. In questa stele si invoca Ra per salvare una gatta:
“O Ra, vieni da tua figlia (Bastet), punta da uno scorpione su una strada solitaria: le sue grida di dolore arrivano al cielo; ascoltala sul tuo cammino” (la stessa formula è iscritta sulla statua di Djedhor del Periodo Tolemaico al Museo Egizio del Cairo, JE 46341)
La statua-cubo di Djedhor, medico dell’Età Tolemaica, al Museo Egizio del Cairo
ma, soprattutto, Iside per proteggere i bambini – nella stessa stele viene narrato il salvataggio di Horus dalla puntura di uno scorpione – indicando alcuni “ingredienti” da usare:
“Oh, possa il bambino vivere e il veleno morire! Poiché Horus è guarito a motivo di sua madre, allora ugualmente anche ogni malato guarirà. È il pane di spelta che scaccerà il veleno, così che esso si ritiri. È lo hemen, la parte pungente dell’aglio, che scaccerà la febbre dal corpo” (traduzione Alberto Elli).
La parte pungente dell’aglio, la cosiddetta “anima”, indicata come rimedio per le punture di scorpione
Ma non solo magia ed ingredienti: Iside afferra Horus e si agita “come i pesci sulla griglia”, forse una stimolazione per evitare il coma indotto dal veleno.
Il Papiro Brooklyn menziona che tratterà delle punture di scorpioni, ma sfortunatamente non ne fa cenno – o quella parte è andata persa.
Abbiamo infine visto come la Dea Serqet fosse deputata a proteggere dalle punture di scorpione: il suo determinativo (come il simbolo solitamente raffigurato sulla testa della Dea) non ha infatti il pungiglione: ciò indicherebbe la natura benevola della Dea (che toglie pericolosità all’animale) e il suo nome si potrebbe quindi tradurre come “Colei che impedisce al respiro di accelerare”.
Serqet ed il suo simbolo senza pungiglione (Foto: Merja Attia)
La maschera funebre di ‘1770’ con ancora frammenti dell’antica placcatura in foglia d’oro
Non sappiamo come si chiamasse. Sappiamo che visse durante l’epoca tolemaica, e che morì intorno ai 13 anni. Una maschera funebre, anticamente coperta da una foglia d’oro, ricorda vagamente quella di Merit al Museo Egizio di Torino, così lontana storicamente da lei.
La radiografia laterale mostra il corpo minuto di ‘1770’ all’interno del cartonnage che lo copriva. In alto, la maschera funeraria vista di profilo
Ora ha solo un numero per nome, un po’ come altri, terribili numeri che abbiamo conosciuto solo il secolo scorso. Si chiama, semplicemente, 1770 ed “abita” a Manchester dal 1896, quando Sir Filnders Petrie la spedì in Inghilterra dai suoi scavi intorno ad Hawara. A Manchester, quasi cinquanta anni fa è partito un progetto di analisi paleopatologica delle mummie conservate in quel museo che ha fornito e sta fornendo preziosissime informazioni.
L’equipe multidisciplinare di Manchester che ha eseguito l’analisi sui resti di ‘1770’
La mummia di ‘1770’, purtroppo mal conservata, ci racconta una storia terribile. Mani pietose la seppellirono, cercando di ricostruire ciò che la Natura le aveva portato via.
‘1770’ è morta dopo una sofferenza atroce, dopo aver subito l’amputazione di entrambe le gambe, una sotto il ginocchio e l’altra subito sopra. Probabilmente è sopravvissuta per qualche giorno, prima di soccombere.
Gli effetti terribili della dracunculiasi: in alto la gamba sinistra amputata sotto il ginocchio e in basso quella destra, amputata sopra
A sinistra: l’imbottitura messa per riempire lo spazio tra le gambe amputate di ‘1770’ e i finti arti inseriti per “ricreare” le gambe della povera ragazzina
Una radiografia della sua parete addominale ha rilevato la presenza di un particolare parassita, un maschio di Dracunculus medinensis, detto anche filaria di Medina o verme di Guinea. È probabilmente l’omicida di ‘1770’.
Evidenziato dalla freccia, il maschio di D. medinensis morto dopo l’accoppiamento e rimasto nella parete addominale di ‘1770’
Il D. medinensisè particolarmente bastardo. Entra nel corpo umano quando ingeriamo piccoli crostacei infetti del parassita, le cui larve, liberate dai succhi gastrici dello stomaco, dopo averne “bucato” la parete si riproducono nella parete addominale. I maschi muoiono subito dopo l’accoppiamento, mentre le femmine migrano verso gli arti inferiori dove provocano infiammazioni, ulcere ed ascessi attraverso i quali la femmina spinge le uova all’esterno in modo che, quando l’ospite umano si immerge nell’acqua di uno stagno o di un fiume, il ciclo si ripeta.
L’unico modo di far uscire il parassita è quando la femmina depone le uova ed una parte spunta dall’arto infetto, cercando di farlo avvolgere su un bastoncino. È un processo lungo e pericoloso: se la femmina si spezza e muore durante il processo dà luogo ad una infiammazione molto più acuta che manda facilmente in sepsi l’arto.
È probabile che sia quello che è successo a ‘1770’. I mummificatori hanno cercato di “riparare” il danno, con delle canne strette da un tessuto a simulare le gambe amputate fino a ricostruire uno dei due piedi, e ponendo nella fasciatura anche due sorte di pantofole colorate, un particolare commovente nella sua semplicità.
Una delle finte gambe ottenute avvolgendo nelle bende dei piccoli fasci di canne
Allo stesso modo gli imbalsamatori hanno provato a ricostruire anche uno dei piedi
Le “pantofole” colorate inserite nel cartonnage in modo che ‘1770’ potesse camminare nell’aldilà, un particolare commovente.
I RIMEDI
Non esiste nei papiri medici una cura farmacologica per la dracunculiasi, che gli antichi medici chiamavano la “malattia aat”: viene specificato che si deve trattare “con il coltello des” (Ebers 875) aprendo la carne del malcapitato e cercando di estrarre il verme con uno strumento chiamato “henu” (forse un paio di pinzette, o possibilmente un bastoncino intorno a cui avvolgere il verme).
Una procedura estremamente pericolosa che, come abbiamo visto, purtroppo per la povera ‘1770’ non ha funzionato.
La ricostruzione del volto di ‘1770’ effettuata dall’Università di Manchester ci permette di pensare a lei come la ragazza che era, quasi in età da marito, e non come ad un caso di paleopatologia.
Durante il periodo faraonico, probabilmente la Terra di Kemet era il luogo dove l’igiene veniva maggiormente apprezzata e curata. Nonostante ciò, sappiamo che le infestazioni da parassiti sono sempre state uno dei problemi medici più rilevanti.
Molti termini che indicano delle patologie nei papiri medici (molti dei quali ancora oscuri) hanno infatti il determinativo a forma di verme che suggerisce un’origine parassitaria. Visto che i papiri medici non sono molto utili in questi casi (troppi termini ancora da chiarire), ci si è rivolti prevalentemente all’esame delle mummie.
La bilharziosi o schistosomiasi era il problema più grave – e lo è tuttora. Fino agli anni ’90 l’OMS valutava che più del 12% della popolazione in Egitto fosse infettata. Causata da organismi, detti platelminti o vermi piatti, del genere Schistosoma, viene diffusa in acque stagnanti dove le larve liberate da lumache che fungono da ospite intermedio possono venire a contatto con la cute e penetrarla, infettandoci.
Una coppia di S. haematobium “beccata” nella fase riproduttiva. La femmina, più sottile, sta uscendo dal canale ginecoforo del maschio dopo la fecondazione. Le ventose vengono usate per attaccarsi alle pareti delle vene dell’ospite. Il maschio è lungo circa 1 cm, la femmina il doppio.
La specie più pericolosa per l’uomo è lo Schistosoma haematobium che una volta penetrato si annida nelle venule del tratto urogenitale nutrendosi di globuli rossi e causando gravi infiammazioni – fino ad essere la seconda causa accertata al mondo del cancro alla vescica. Il sintomo più frequente è l’ematuria, ossia la presenza di sangue nelle urine. Tanto per dare un’idea della gravità, le truppe di Napoleone in Egitto parlavano di “mestruazione maschile”.
Il ciclo riproduttivo completo degli schistosomi. Nel corpo umano l’intero ciclo si compie in circa 6 ore ma non tutte le uova vengono eliminate nell’ambiente, alcune sono trattenute e mediante il circolo sistemico possono essere potenzialmente trasportate in qualsiasi tessuto, qui fermarsi e rimanere imprigionate dando luogo a fenomeni infiammatori o di ipersensibilità ritardata che conducono alla formazione di granulomi, edema, emorragie puntiformi e quindi fibrosi e, soprattutto nel retto, polipi sessili o peduncolati con diarrea muco ematica, tenesmo, prurito, bruciore che possono durare anche una settimana
Non scherza nemmeno lo Schistosoma mansoni, le cui uova sono provviste di un aculeo con cui si “piantano” nell’intestino crasso causando ulcerazioni e capaci di attaccare anche il miocardio. Quando si annida nell’intestino retto è molto doloroso, e potrebbe spiegare i rimedi descritti nel Papiro Ebers per “rinfrescare l’ano”.
Nessuno era esente dal rischio di infezione. Si pensa che Bak, il capo scultore sotto Akhenaton rappresentato in una famosa stele, fosse affetto da epatosplenomegalia dovuta alla bilharziosi. Su diverse mummie, tra cui quella di Nakht, un tessitore della cappella funeraria del Faraone Setnahkht della XXI Dinastia, è stato possibile identificare ed isolare le uova di questi parassiti. Anche il povero Ramses V sembra ne sia stato affetto, con conseguente allargamento patologico del sacco scrotale (anche se in definitiva morì di vaiolo). Uova di schistosoma sono state ritrovate anche all’interno di alcuni vasi canopi.
Bak, rappresentato a destra per chi guarda in questa stele, mostra i sintomi della fibrosi di Symmers, causata da epatosplenomegalia cronica da bilharziosiLa mummia di Ramses V. Anche i Faraoni potevano soffrire di bilharziosi
Lo S. haematobium trovato nella mummia di Nakht. A destra la tipica spina terminale
I casi studiati più approfonditamente sono stati i cosiddetti “due fratelli”: Nekht-Ankh e Khnum-Nakht, due mummie probabilmente della XII Dinastia conservate a Manchester, dove è stato possibile isolare anche il DNA dei parassiti. L’esame del DNA ha anche consentito di appurare che non erano affatto fratelli, anche se sui rispettivi sarcofagi sono entrambi indicati come “figli di Khnum-Aa, Padrona della Casa”. Un caso di adozione?
I “due fratelli” di Manchester: Nekht-Ankh e Khnum-Nakht
La mummia di Khnum-Nakht esaminata inizialmente nel 1908 dalla Dr.ssa Murray (la terza da sinistra)
Anche la “rigidezza del lato sinistro” descritta nei testi egizi dovrebbe essere una splenomegalia dovuta alla bilharziosi (o alla malaria).
La cosiddetta “Mummia A5” del periodo romano (Oasi di Dakleh), anche lui affetto da bilharziosi
I RIMEDI
Purtroppo gli antichi egizi non avevano né un microscopio né la biologia molecolare, per cui i loro riferimenti ai parassiti è estremamente dubbia. Uno dei riferimenti più “papabili” per la bilharziosi è la cosiddetta “Malattia aaa”, per la quale il rimedio è (Ebers 62):
Foglie di carice e di pianta “shames” (non identificata), tritate finemente e cotte con il miele; devono essere ingerite dal malato nel cui addome crescono i vermi hereret. È la malattia aaa che li ha creati. Non saranno uccisi da nessun altro rimedio
Piante di carice, il rimedio utilizzato per allontanare i vermi hereret
In realtà che i vermi hereret siano gli schistosomi è solo una delle possibilità. E sul rimedio potremmo avere più di un dubbio…