Di Piero Cargnino

Non a torto Manetone fa finire la XXI dinastia con Psusennes II anche se non si sa in base a quale linea dinastica i faraoni che lo hanno preceduto siano saliti al trono.
Ora però con Sheshonq I si apre una dinastia del tutto estranea all’Egitto, la XXII dinastia dei faraoni di origini libiche. Attenzione però a non pensare ad una occupazione libica dell’Egitto, Sheshonq I come quasi tutti i libici che vivevano in Egitto non erano stranieri nel vero senso della parola. Essi erano gli eredi dei Mashwesh libici che furono respinti con tanta difficoltà prima da Merenptah poi da Ramses III quando tentarono di invadere il Delta e che poi finirono per scegliere di rimanere in Egitto integrandosi. Scelsero per modo di dire, direi piuttosto che accettarono di essere inviati nelle oasi per ripopolarle. Altri entrarono nell’esercito come mercenari ricevendo in cambio dai faraoni delle terre sulle quali si stanziarono e si integrarono creando delle vere e proprie enclave sotto la guida di un capo che si faceva chiamare “capo dei Ma”, dove Ma stava ad indicare Mashwash.

Va detto che in precedenza i Mashuash erano perennemente in conflitto con lo stato egizio anche se poi, durante la XXI dinastia, giunsero in numero sempre più numeroso insediandosi nella regione occidentale del Delta del Nilo della quale si impossessarono al tempo di Osorkon il Vecchio. Costoro, come abbiamo detto, adottarono abitudini e costumi degli egizi e ambivano ad apparire egizi di nascita senza però cambiare i loro nomi e continuando ad ornarsi il capo con delle piume che erano sempre state una caratteristica del loro costume, proprio in virtù di questa usanza gli egiziani usavano chiamarli “Gente che porta la doppia piuma”.
Che i Mashuash fossero di origini libiche lo apprendiamo anche dalla Stele di Pasenhor (detta anche Stele di Harpeson nella letteratura più antica); la stele risale all’anno 37 del regno di Sheshonq V (XXII dinastia) e venne rinvenuta nel Serapeo di Saqqara da Auguste Mariette nel 1851. Nella stele il sacerdote di Ptah e profeta di Neith, Pasenhor, descrive il rito al quale è chiamato ad officiare in occasione della morte di un toro Apis, con l’occasione riporta sulla stele la propria genealogia, risalendo per sedici generazioni, e sottolineando il fatto che il titolare della stele, (se stesso) è un discendente di “Buyuwawa il libico”. Esaminando poi i loro nomi, che come abbiamo detto sopra non cambiarono mai (Osorkon, Takelot, Nimlot, Sheshonq, ecc) non si può che prendere atto della loro reale provenienza libico/berbera.

Per quanto riguarda Sheshonq va detto che la sua famiglia era ormai da generazioni in Egitto e sicuramente aveva già superato quel processo di assimilazione della cultura egizia pur sentendosi legata alle origini. Stabilitisi nella regione di Heracleopolis, da sempre zona libica per eccellenza, i Sheshonq avevano servito i faraoni come capi militari ed in seguito come sacerdoti e fu grazie a questo titolo che Sheshonq di Heracleopolis ottenne da Psusennes II il permesso per instaurare un culto funebre, ad Abydos, in onore di suo padre Nemrod (o Nimlot), come pure l’ereditarietà dei titoli paterni.
Sheshonq I, alla morte di Psusennes II assunse il potere e rafforzò il suo diritto a regnare facendo sposare a suo figlio, e futuro successore, una figlia di Psusennes II, Maatkara. Certo è che questa presa di potere da parte dei libici non fu ben vista e fu anche causa di disordini in tutto l’Egitto. Pare anche possibile, nonostante non esistano prove, che una parte del clero di Amon si esiliò volontariamente in Sudan.
Questo è uno dei periodi più oscuri della decadenza egizia, certo i sovrani libici mantennero un carattere assai simile a quello della XXI dinastia, lasciarono la capitale a Tanis o a Bubastis anche se i sacerdoti di Amon a Tebe continuavano ad esercitare un indiscusso potere religioso, nonostante i rapporti tra le due parti del paese si trovavano in un clima fra l’amicizia e l’ostilità. Lo stato stesso di un’epoca così confusa non è certo di aiuto agli studiosi i quali non dispongono che di scarse fonti.
Forse l’unico sussulto dei sovrani libici per far sentire la presenza dell’Egitto in Palestina fu una spedizione organizzata da Sheshonq I con la quale attaccò e prese Gerusalemme saccheggiandone il tempio. Non si trattò di una conquista vera e propria ma semplicemente di un atto inspiegabile che però fruttò un ricco bottino per i templi egiziani.

Per quanto riguarda le successioni nulla era cambiato rispetto a prima, al sud l’influenza del clero di Amon era sempre molto forte. Per contrastare questa tendenza, nella ricerca di diminuire l’influenza della casta sacerdotale, i sovrani crearono un nuovo titolo religioso, quello di “Sposa del dio” o di “Divine adoratrici di Amon”; il titolo veniva dato alle principesse. Certo il risultato non fu quello sperato, col tempo si formò una vera e propria dinastia delle “Divine adoratrici di Amon” le quali acquisirono altrettanto potere di quello dei grandi sacerdoti, in particolar modo nella XXV dinastia, senza però essere più fedeli al re.
L’Egitto conobbe una divisione senza precedenti, più volte Tebe si ribellò al re del nord; con gli ultimi re della XXII dinastia si era in piena anarchia in modo particolare nella zona del Delta del Nilo. Il tutto, secondo Manetone, durò 120 anni ma gli studiosi sono propensi ad attribuirle due interi secoli. Vediamo ora nel dettaglio i nove faraoni di questo brutto periodo.
Fonti e bibliografia:
- Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
- Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bologna, Bompiani, 2003
- Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
- Alan Gardiner e R.O. Faulkner,”The Wilbour Papyrus”, Oxford, 1941-1952
- Alfred Heuss ed alt, “I Propilei”, Verona, Mondadori, 1980
- Nicholas Reeves, Richard Wilkinson, “The complete Valley of the Kings”, Thames & Hudson, 2000
- Christian Jacq, “La Valle dei Re”, traduzione di Elena Dal Pra, Milano, Mondadori, 1998
- Alberto Siliotti, “Guida alla Valle dei Re, ai templi e alle necropoli tebane”, White Star, 2010
- George Goyon, “La scoperta dei tesori di Tanis”, Pigmalione, 2004