“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”, XVIII Dinastia

LA MASCHERA FUNERARIA DI MERIT

Museo Egizio di Torino, Suppl. 8473
Foto: Patrizia Burlini

Per compensare la mancanza di uno dei sarcofagi previsti per la moglie, Kha fece preparare per Merit una splendida maschera funeraria rivestita in oro e intarsiata con pietre dure e pasta vitrea.

Il vetro imita pietre più preziose quali lapislazzuli, turchese e corniola. La maschera fu trovata leggermente schiacciata, forzata all’interno dalla bara, l’occhio sinistro è stato restaurato mentre la maschera è stata rimodellata e consolidata
La maschera nel vecchio allestimento del Museo Egizio di Torino

Purtroppo l’utilizzo di una bara che non era stata preparata per Merit ha comportato doverla forzare la maschera all’interno della bara stessa, con il distacco di una parte della copertura in foglia d’oro e la deformazione del viso, corretta e restaurata dopo il ritrovamento.

Il particolare della maschera funeraria ancora sul corpo di Merit. SI nota come sia stata “forzata” all’interno della bara, danneggiandola.
La maschera appena estratta dalla bara
Dalla vista laterale si può notare come la parte laterale abbia subito i peggiori danni al momento della sepoltura

Si tratta di una delle più belle maschere funerarie non appartenenti alle famiglie reali.

Una prospettiva insolita, dal retro della maschera di Merit
Merit ci osserva nel suo sguardo senza tempo
Foto: Patrizia Burlini

Fonte: Museo Egizio di Torino

Foto: Museo Egizio di Torino, Patrizia Burlini

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”, Sarcofagi, XVIII Dinastia

LA BARA INTERNA DI MERIT

Museo Egizio di Torino, cat. Suppl. 8470

Come abbiamo visto, Merit morì prematuramente e fu necessario adattare una delle bare predisposte per Kha per accogliere la sua salma.

A questo punto però si poneva un problema: mancava una bara del “set” usuale per l’epoca, che rappresentava il viaggio del defunto verso la rinascita – dal nero del sarcofago esterno all’oro della bara interna (che abbiamo visto per Kha).

Il sarcofago è finora unico nel suo genere, perché fonde in sé i due diversi modelli decorativi osservabili. rispettivamente, sul sarcofago mediano e quello interno di Kha: la cassa è coperta infatti da resina nera con figure ed iscrizioni in foglia d’oro, mentre il coperchio è completamente dorato. È stato ipotizzato che ciò abbia forse permesso di integrare in un solo sarcofago antropoide la funzione simbolica dei due normalmente previsti all’epoca. Il fatto però che i testi funerari siano a nome di Kha rende dubbia questa ipotesi, in quanto non sarebbe stato concepito per questa funzione

Secondo l’ipotesi più accreditata, gli artigiani dell’epoca ebbero però un’idea geniale, rimasta unica nell’arte egizia: “fusero” le due bare interne (o meglio, le loro “funzioni” simboliche) in una sola.

La cassa della bara interna di Merit, infatti, ricorda la seconda bara di Kha, con il fondo nero ma con le scritte e le immagini dorate, mentre il coperchio è interamente dorato.

Da notare però che le iscrizioni funerarie sono rimaste a nome di Kha, e che quindi sarebbe stato già inizialmente concepito con questa doppia funzione.

Difficile dire se il volto della bara interna sia quello di Kha o se sia stato “adattato” a quello di Merit

Al momento della scoperta, il sarcofago interno di Merit era avvolto in un telo e racchiudeva, proteggendole, la mummia della donna e la preziosa maschera funeraria posta sul capo.

Si notano bene nelle fotografie originali le lenzuola usate come imbottitura per riempire lo spazio derivante dalla “taglia” sbagliata e la maschera funeraria
“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”, Sarcofagi, XVIII Dinastia

IL SARCOFAGO DI MERIT

Museo Egizio di Torino, cat. Suppl. 8517

Con ogni probabilità, Merit morì prima del marito ed in maniera inattesa. Si dovette quindi adattare la sua sepoltura, utilizzando una parte del corredo già preparato per il marito e finendo in fretta ciò che faceva parte del suo.

Il sarcofago esterno è un po’ più semplice di quello di Kha, senza la struttura a forma di slitta sottostante, e conteneva una sola bara antropomorfa, le cui iscrizioni erano per Kha. Costruito in legno di sicomoro e formato da cinque pezzi più il coperchio, il sarcofago esterno è lungo 228 cm per una larghezza di 97 ed un’altezza di 113.

La qualità del legno è inferiore rispetto al sarcofago di Kha, con la presenza di alcune giunte e una copertura in resina stesa in maniera non uniforme, a testimonianza della morte prematura di Merit e della preparazione affrettata della sepoltura.

Fonte: Museo Egizio di Torino

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”, Mummie, XVIII Dinastia

LA MUMMIA DI KHA

Le mummie di Kha e Merit non sono mai state sbendate, ma gli esami radiologici hanno permesso uno sbendaggio virtuale che ha permesso di conoscere gli oggetti rituali che li hanno accompagnati nella sepoltura.

La mummia di Kha porta una particolare collana formata da numerosi dischi chiamata “shebyu”, che il re donava come “Oro dell’Onore” ai suoi funzionari più capaci e che Kha ha ovviamente voluto indossare nel suo viaggio ultraterreno. Kha porta inoltre una catenella con appeso uno scarabeo del cuore, un paio di larghi orecchini, due bracciali e due cavigliere, cinque anelli e due amuleti a forma di cobra e di nodo di Iside, rispettivamente collocati sul petto e sulla testa

Abbiamo quindi potuto scoprire che la mummificazione sarebbe avvenuta per semplice immersione in bagno di natron (non ci sono segni di eviscerazione, quindi non ci sono vasi canopi per la conservazione degli organi interni).

Nella proiezione laterale si capiscono bene le dimensioni dei gioielli indossati da Kha nella sepoltura

Le mummie furono esaminate ai raggi X negli anni ’60, e la conclusione di allora fu che, nonostante lo status di Kha e Merit, la mummificazione fosse stata fatta in maniera frettolosa e “povera”. Si ipotizzò addirittura che fossero stati semplicemente bendati e sepolti. Le indagini successive con la TAC hanno mostrato invece che i corpi sono molto ben conservati (soprattutto quello di Kha).

Il cervello di Kha non è stato estratto, come è evidenziato dalle frecce (da: Bianucci, Raffaella, et al. “Shedding new light on the 18th dynasty mummies of the royal architect Kha and his spouse Merit.” PloS one 10.7 (2015): e0131916.)

La mummia di Kha ci mostra che era alto circa 170 cm (168 all’ultimo esame nel 2014). Fu mummificato con le braccia distese lungo i fianchi e le mani sul pube. Era anziano per l’epoca, intorno ai 60 anni, quasi completamente sdentato (curiosamente aveva perso premolari e molari ma aveva mantenuto gli incisivi) e con segni di aterosclerosi e di artrite. Mostra anche la frattura di una vertebra, probabilmente un infortunio sul lavoro

La mummia di Kha indossa due grandi orecchini in oro, una collana in dischi d’oro e sei anelli. Kha è uno dei primi esempi di un personaggio egizio di sesso maschile che indossava grandi orecchini ad anello, molto spessi. Si pensa che questa “moda” sia stata importata dalla Nubia alla fine della XVII Dinastia. La collana invece è l’Oro dell’Onore, la massima onorificenza donata dal Faraone a chi si distingueva particolarmente nei suoi compiti. Si calcola che pesi tra un chilo ed un chilo e mezzo. La ricostruzione fa vedere molto bene anche lo scarabeo del cuore, probabilmente con inciso sul retro una delle formule magiche del Libro dei Morti. Sulla fronte, in posizione inusuale, una testa di serpente (ureo) normalmente posizionata sul collo del defunto. La posizione sulla fronte (come per l’ureo dei Faraoni) ha lasciato supporre un particolare onore reso dagli addetti alla mummificazione. Sotto l’Oro dell’Onore, un Nodo di Iside (“tiet”) probabilmente in pietra rossa. Due ornamenti in foglia d’oro avvolgono entrambe le braccia. Da: Bianucci, Raffaella, et al. “Shedding new light on the 18th dynasty mummies of the royal architect Kha and his spouse Merit.” PloS one 10.7 (2015): e0131916. 

La scelta di non sbendare le mummie è ovviamente comprensibile, ma su cui si può discutere; è un peccato non poter ammirare i gioielli di Kha e Merit “dal vivo”, ma in fondo sono rimasti dove dovevano essere. Un eterno dilemma in questo campo.

Fonti:

  • Museo Egizio di Torino
  • Martina, Maria Cristina, et al. “Kha and Merit: multidetector computed tomography and 3D reconstructions of two mummies from the Egyptian Museum of Turin.” Journal of Biological Research-Bollettino della Società Italiana di Biologia Sperimentale 80.1 (2005).
  • Bianucci, Raffaella, et al. “Shedding new light on the 18th dynasty mummies of the royal architect Kha and his spouse Merit.” PloS one 10.7 (2015): e0131916.
“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”, Sarcofagi, XVIII Dinastia

LA BARA INTERNA DI KHA

ovvero dall’oscurità alla luce divina

La bara più interna di Kha, che conteneva la sua mummia, è anch’essa di pregevolissima fattura, interamente ricoperta da foglia d’oro posata su uno strato di gesso, a testimonianza ulteriore della posizione altolocata del defunto.

Era originariamente decorata da ghirlande floreali, e completa un “percorso” di rigenerazione: dal nero del sarcofago esterno alla luce dell’oro, passando attraverso la bara esterna dove dove gli esseri divini e i testi sacri sono mostrati “solarizzati” sullo sfondo nero.

L’espressione che è stata conferita al volto di Kha nella bara interna è di serenità estrema

Viene così ricreata la “camera sepoltura di Osiride” o “camera d’oro”, quel luogo segreto e magico in cui Osiride si unisce a Ra, la cui luce, come l’oro, risplende in eterno, nel percorso di resurrezione che si trasla anche al defunto.

Insieme alla bara esterna di Kha ed al suo sarcofago, rappresenta quindi uno dei reperti (a mio personalissimo parere) più simbolici ed affascinanti del Museo Egizio di Torino.

Fonti:

  • Museo Egizio di Torino
  • Sousa, R. (2019). Gilded flesh: coffins and afterlife in Ancient Egypt.
“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”, Sarcofagi, XVIII Dinastia

LA BARA ESTERNA DI KHA

Museo Egizio di Torino, Inv. Suppl. 8316/01

La bara antropomorfa esterna (o sarcofago intermedio) di Kha riproduce l’immagine della mummia rivitalizzata e, al momento della scoperta, vi erano appoggiate due grandi ghirlande di loto e un papiro contenente il Libro dei Morti.

La pregevole fattura della bara di Kha è pienamente rivelata dal suo volto. Ricordiamoci che Kha non era un faraone, ma un artigiano – sia pure di alto livello – e la sua vita deve essere stata di grande successo personale e professionale.

La superficie è caratterizzata da elementi in rilievo ricoperti da gesso e foglia d’oro che evocano la luce solare ed evidenziano i simboli del risveglio a nuova vita di Kha. Tra questi si notano la maschera funeraria, l’ampio collare chiamato “Usekh” e le bande (ad imitazione delle fasce che stringono il lenzuolo funerario intorno al defunto) che recano formule e preghiere a Nut, Thot, Anubi e i figli di Horus, divinità tradizionalmente associate con l’Aldilà e chiamate a proteggere l’integrità del corpo del defunto. Nekhbet in forma di avvoltoio dorato in rilievo protegge il petto della bara.

Nel dettaglio possiamo ammirare l’opera di rivestimento in foglia d’oro dei rilievi

Fonte: Museo Egizio di Torino

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”, Sarcofagi, XVIII Dinastia

IL SARCOFAGO DI KHA

Il sarcofago esterno di Kha è lungo tre metri, con una larghezza di 110 cm ed un’altezza massima di 160 cm – Museo Egizio di Torino, Inv. Suppl. 8210

Kha, come abbiamo visto, era un uomo facoltoso. Decise quindi di essere sepolto in una serie di sarcofagi come d’uso nella XVIII Dinastia, uno esterno squadrato e due bare antropomorfe interne.

Il sarcofago esterno di Kha, originariamente protetto da un grande lenzuolo di lino, è in legno di sicomoro ricoperto da una sostanza di colore scuro, a ricordare il colore della terra fertile, simbolo di rigenerazione. Contrariamente a quanto si pensava inizialmente, non è bitume ma pece riscaldata e mescolata con olio di cedro e carbone.

Il sarcofago di Kha come apparve ai suoi scopritori

La cassa è composta da cinque parti smontabili e da un coperchio di forma arcuata che gli conferisce l’aspetto di un santuario. La base è lavorata in modo da imitare la forma della slitta usata per trasportare il catafalco alla tomba durante il funerale.

Fonte: Museo Egizio di Torino

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”, Religione, XVIII Dinastia

IL LIBRO DEI MORTI DI KHA

Museo Egizio di Torino, Suppl. 8438

Nel “corredo” funerario di Kha e Merit non poteva naturalmente mancare il “Libro dei Morti” (ricordiamoci però che questo è un nome moderno, il nome originale era “Inizio degli incantesimi per uscire alla Luce”).

L’inizio del “viaggio verso la Luce” parte dal corteo funebre di Kha

Lungo ben 13,8 m ed alto 34 cm, è uno degli esempi meglio conservati del Nuovo Regno. Fu trovato posizionato sopra la prima bara di Kha, a coprirne la maggior parte della superficie.

Scritto in geroglifico corsivo da uno scriba molto bravo, contiene 33 formule magiche per guidare il defunto nell’Oltretomba, ognuna di esse separata con una doppia linea gialla di divisione.

Anche i migliori sbagliano: lo scriba si è dimenticato di terminare e colorare questa illustrazione inserita nell’incantesimo 74 – forse perché è l’unica posizionata in basso nel papiro.

Il nome ed i titoli di Kha compaiono nella formula usuale “parole dette da…”, ma…in due formule (la 13 e la 17, precisamente), lo spazio dopo “parole dette da…” è vuoto. Cosa vuol dire? Che il papiro, pur di eccellente qualità, era pre-confezionato. Una sorta di produzione in serie, a cui bastava aggiungere il nome dell’acquirente per renderlo efficace.

Si intravedono i segni del precedente “proprietario” del papiro, o di chi lo aveva commissionato originariamente.

Non solo: nella prima formula, i nomi di Kha e Merit sono sovrascritti sopra un altro nome, cancellato e non più decifrabile. Il papiro sarebbe quindi stato inizialmente destinato ad un altro funzionario e poi usato per Kha.

Anche la colorazione del bordo si interrompe a metà, per motivi sconosciuti.

Indicata dalle frecce, l’interruzione della colorazione del bordo, ad oggi un piccolo mistero

Una particolarità: la figura di apertura di Osiride mummiforme aveva originariamente il corpo ricoperto di piume (forse un richiamo a Iside e Nephtys o a Nut, le dee alate), poi ricoperte da uno strato di pittura bianca, probabilmente quando il papiro è stato “riusato” per Kha.

All’inizio del papiro, Kha e Merit in adorazione davanti ad Osiride. Da notare le tracce rimaste delle piume disegnate che originariamente coprivano il corpo e le gambe di Osiride, poi coperte dalla pittura bianca

Fonti:

  • Museo Egizio di Torino
  • Töpfer, S. (2024). Some Turin Papyri Revisited: A Look at Material Features and Scribal Practices. The Ancient World Revisited: Material Dimensions of Written Artefacts37, 221.
“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

LA GRANDE BELLEZZA

La Grande Bellezza, la Brutta Politica e la Pessima Comunicazione (Ernesto Schiaparelli e Nefertari)

Agli albori del XX secolo il mondo archeologico egiziano sta cambiando. L’epoca dei saccheggi, anche travestiti da presunti scavi archeologici, sta tramontando. Si seguono regole via via più precise e stringenti, servono permessi ed autorizzazioni e c’è una spietata concorrenza tra le diverse spedizioni europee per farseli assegnare.

La neonata Missione Archeologica Italiana (M.A.I.) ha sgomitato un po’ a Giza nel 1903 con le corrispettive missioni inglesi e tedesche, poi in maniera confusionaria ha ripiegato a Tebe. Ma la Valle dei Re è rimasta off-limits per i sabaudi, è stata assegnata loro la Valle delle Regine, l’antica Ta Set Neferu, il Luogo delle Bellezze. Le speranze sono comunque grandi per l’uomo a capo della spedizione, pensa che tra le tombe dei nobili si possa trovare qualcosa di grande valore archeologico.

Ernesto Schiaparelli non sa che sta per scoprire la tomba probabilmente più bella di tutto l’Antico Egitto.

Sì, cose meravigliose vennero alla luce con Schiaparelli…

Figlio di un professore di Storia dell’Università di Torino, era nato 48 anni prima in un paesino del Biellese, Occhieppo Inferiore, un luogo che le cronache dell’epoca descrivono come “diversamente fortunato”: terreno poco fertile, clima freddo, niente pascoli montani e niente castagneti, che fornivano l’alimento per la sopravvivenza invernale. Gli Schiaparelli sono però benestanti da quando un lontano antenato ha iniziato a conciare le pelli e possono far studiare i figli.

Ernesto studia lettere a Torino, poi può permettersi di andare un anno alla Sorbona a Parigi, e quell’anno gli cambia la vita. Segue le lezioni di Maspero in quel periodo e la sua strada prende la direzione del Nilo. Dirige la Sezione Egiziana del Museo Archeologico di Firenze, poi direttamente il Regio Museo d’Antichità ed Egizio di Torino. In quel ruolo potrebbe limitarsi a gestire acquisizioni ed esposizione, ma Ernesto è “figlio” della scuola francese ed è convinto dell’importanza del lavoro sul campo.

È già stato un paio di volte in Egitto, ed ha partecipato alla scoperta della tomba di Harkhuf, un nomarca della VI Dinastia, che gli ha confermato quanto sia importante operare in prima persona.

I tempi sono però cambiati a Torino dall’epoca del “facciamo vedere ai francesi chi siamo!” e di fondi per gli scavi non se ne parla. Schiaparelli escogita allora una soluzione all’italiana: si inventa il fatto che Maspero gli abbia scritto pregandolo di organizzare degli scavi nella piana di Giza e scrive al Ministero della Pubblica Istruzione dicendo in pratica che non ci si può far scappare un tale onore.

La lettera originale di Schiaparelli al Ministro della Pubblica Istruzione con la richiesta di istituzione della Missione Archeologica Italiana.
Furbescamente non menzionò mai se una missione archeologica fosse più o meno dispendiosa dell’acquisizione diretta di reperti e menzionò una lettera di “invito agli scavi” di Maspero che in realtà non esisteva…

Nel 1903 riesce quindi a farsi assegnare un budget da Vittorio Emanuele III; con questa somma riesce a farsi dare i permessi dal suo vecchio insegnante, Maspero, che prima non gli aveva scritto un bel nulla. Il budget è in realtà irrisorio: l’equivalente di più o meno 90,000 euro attuali all’anno per soli quattro anni. Schiaparelli risparmierà peggio di un genovese negli scavi; lui stesso sfrutterà sempre l’accoglienza dei missionari invece degli alberghi (supporterà sempre l’opera delle missioni religiose).

Purtroppo per noi, anche il fotografo “arruolato” per la missione fa parte delle ristrettezze economiche: è un religioso, don Pizzio, già parroco in Brasile per gli emigranti italiani. Non sarà un disastro, ma ci andrà vicino.

E la concorrenza per le concessioni è spietata. I francesi fanno ancora la parte del leone; poi ci sono gli inglesi con Petrie che è una specie di macchina da guerra archeologica, gli statunitensi con Reisner (che porterà a Boston un mare di reperti) e stanno arrivando i tedeschi con Borchardt, che farà il “botto” ad Amarna. A stento, e apparentemente solo per la loro vecchia conoscenza, ha strappato a Maspero la concessione per la Valle delle Regine e le necropoli tebane. In realtà c’è un sottile gioco politico dietro, con un’alleanza italo-francese nell’area del Mediterraneo per limitare l’espansione britannica.

L’autorizzazione originale di Maspero agli scavi della M.A.I. nella Valle delle Regine
Per dare un’idea dell’affollamento a Giza nel 1903:
Seguendo le istruzioni del Maspero, Direttore Generale delle Antichità per il Governo Egiziano, si spartì l’area cemeteriale come segue:
1) agli Italiani era assegnata, del Cimitero Occidentale di Cheope diviso in tre striscie (sic) E-W, la striscia sud, inoltre del Cimitero Orientale di Cheope, diviso in due parti dal prolungamento della mediana E-W della piramide di Cheope, la parte sud;
2) ai Tedeschi, del Cimitero Occidentale di Cheope la striscia centrale, il Cimitero Meridionale di Cheope, il Cimitero Orientale di Chefren;
3) agli Americani, del Cimitero Occidentale di Cheope la striscia nord, del Cimitero Orientale di Cheope la parte nord, nonché il Cimitero Orientale di Micerino

E così, nel 1904 scopre tra le altre l’ingresso della tomba di Nefertari. La tomba è stata completamente saccheggiata ma le decorazioni sono straordinarie. Incredibilmente, ebbe a scrivere Schiaparelli: “Sebbene i corredi funerari rinvenuti fossero pochissimi, (noi) ci siamo comunque rallegrati del ritrovamento, poiché oltre ad essere la tomba di una delle più famose regine egizie, era anche di una singolare bellezza”. Rallegràti? Singolare bellezza? Se avesse trovato il busto di Nefertiti cosa avrebbe detto? “Bella statuetta”? In realtà la tomba verrà descritta come “la Cappella Sistina egizia” e la rivedremo nel dettaglio con tutto il suo splendore.

L’ingresso della tomba di Nefertari nella foto originale della spedizione. Foto Museo Egizio di Torino

Ma le difficoltà politico-diplomatiche non sono affatto terminate, anzi; acuite da gravi lacune nella comunicazione, stanno portando Schiaparelli sull’orlo del fallimento.

Stereografia (all’epoca andavano di moda) dell’ingresso della tomba di Nefertari. Schiaparelli è tutto a destra, con il cappello. L’arco appena costruito (con allegata porta in ferro) è quello menzionato da Carter nelle relazioni annuali dei lavori svolti

Schiaparelli, incredibilmente, non sfrutta la straordinaria scoperta della tomba di Nefertari; praticamente non scrive un solo rigo per pubblicizzare il lavoro della M.A.I. e gli scavi nella Valle delle Regine durano solo un anno.

Al termine di quell’anno Schiaparelli è in enorme difficoltà. I reperti disponibili per Torino sono pochi, paradossalmente Nefertari si rivela una cocente delusione in termini di oggetti da mostrare. Mettiamoci anche che Schiaparelli non è proprio un fulmine di guerra nelle comunicazioni – Belzoni probabilmente lo avrebbe preso a ceffoni al riguardo, e se li sarebbe meritati tutti – tanto da scrivere qualcosa sulle spedizioni della M.A.I. (nomen omen…) solo vent’anni dopo. La cosa avrà gravi ripercussioni.

La missione italiana, senza pubblicazioni eclatanti, politicamente conta veramente poco nel panorama dell’epoca. Negli Annali del Servizio delle Antichità Egizie il loro lavoro viene completamente ignorato. La nota di Howard Carter (!) del 1904 è: “Per le tombe recentemente scoperte di Nefertari-Meri-Mut e Seth-hi-khopesh-ef, sono stati costruiti archi sopra gli ingressi per proteggerli dall’acqua piovana o dalla caduta di pietre; si stanno realizzando porte placcate in ferro, e spero di farle riparare prima della fine dell’anno. Ho fatto qui l’esperimento di un nuovo progetto di porta di ferro fino ad ora utilizzata per le tombe”. Tutto qui. Più importanti le porte delle decorazioni.

Maspero addirittura si limita a “[gli italiani] hanno svuotato le tombe scoperte l’anno scorso e ce le hanno consegnate” manco fossero i corrieri di Amazon (1904); “[Schiaparelli] ha sgomberato diverse tombe nella Valle delle Regine senza trovare nulla di valore” (1905). Con tanti saluti a Nefertari ed agli artisti che hanno lavorato alla sua tomba, sic transit gloria mundi.

Rilievi nella QV66

E così il finanziamento del Re sta per scadere; per mesi gli operai continuano a imbattersi in tombe dove i saccheggiatori hanno già fatto man bassa di oggetti preziosi. Lo “salva” il sito (considerato fino a quel momento secondario) di Deir el Medina, dove in sua assenza notano una struttura a piramide che racchiude una cappella dipinta di grande bellezza.

Il pyramidion della cappella funeraria di Kha, involontario specchietto per le allodole che deviò l’attenzione dei tombaroli. Attualmente al Louvre, inventario E 13988

Verso la metà di febbraio 1906, una porta in legno al fondo di un angusto corridoio sotterraneo svela una delle più grandi scoperte dell’egittologia mondiale: la tomba intatta di Kha e della sua sposa Merit, un magnifico corredo intatto di oltre 500 oggetti rimasti sepolti per oltre 3000 anni. Degli oltre 30mila reperti che dal 1903 al 1920 giungono a Torino grazie alla Missione Archeologica Italiana, questo tesoro rimane tra i capolavori più ammirati del museo Egizio.

E queste furono le “cose meravigliose” che apparvero nella tomba di Kha e Merit. Coperto da un telo di lino, il sarcofago di Merit; addossato al muro sullo sfondo il sarcofago di Kha, anch’esso coperto da un telo. Sul pavimento, gli oggetti della coppia. Li vedremo meglio con il dettaglio che meritano.

Non pubblicando nulla, il “giudizio” del solito Maspero è però lapidario: “[Schiaparelli] portò alla luce, a Déîr-el-Médinéh, tre o quattro tombe danneggiate della XX e XXI dinastia (…) Schiaparelli oltrepassò le rive del Nilo quasi senza fermarsi lì, e i pochi colpi di piccone che diede sui luoghi concessi al governo italiano furono di poco frutto; “L’Italia, che ha molte località interessanti, ne ha utilizzate solo due”.

La “Stele di Kha e Meryt” era già a Torino (collezione Drovetti), come era nota la cappella piramidale che fece comunque da “guida” per gli scavi

Sull’onda dei reperti di Kha, il governo sabaudo prolungherà il finanziamento alla M.A.I. fino al 1920. Schiaparelli diventerà anche Senatore del Regno, ma per motivi umanitari legati alle missioni francescane ed al supporto agli emigranti italiani.

Schiaparelli non è stato il primo egittologo italiano in Egitto (Belzoni e Drovetti negli anni Venti dell’Ottocento peraltro furono collezionisti e non egittologi), ma il primo a cercare per conto dell’Italia come stato-nazione – nel bene e nel male. Ebbe dei meriti pionieristici e delle lacune anche caratteriali, ma ebbe il merito di portare in Italia un altro pezzo fondamentale del Museo Egizio di Torino.

Riferimenti:

  • Silvio Curto, Gli Scavi Italiani A El-Ghiza (1903). Roma, 1963
  • Enrica Parlamento, Ernesto Schiaparelli: insigne uomo di scienza e di fede dalle origini occhieppesi. Occhieppo, 2006
  • Ernesto Schiaparelli, Una Tomba Egiziana Inedita Della VI Dinastia- Accademia deio Lincei, 1892
  • Jarsaillon, Carole, “Schiaparelli et les archéologues italiens aux bords du Nil : égyptologie et rivalités diplomatiques entre 1882 et 1922”, Rivista del Museo Egizio (2017)
Amarna, “COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”, XVIII Dinastia

LE TAVOLETTE DI AMARNA

Con il nome di Tavolette di Amarna o Lettere di Amarna vengono indicate 382 tavolette in legno di cedro ricoperte di argilla e incise a caratteri cuneiformi.

Di queste, circa 300 furono trovate nel 1887 – secondo la “tradizione” scoperte per caso da una contadina egiziana – nell’area dell’antica capitale del faraone Akhenaton – Akhetaton – ora chiamata Tell el-Amarna.

Una ricostruzione di Akhetaton al suo massimo splendore

È invece storicamente vero che alcune tavolette furono mandate da tale Oppert in Francia, dove furono bollate come falsi. Anche al Cairo Grebaut, all’epoca capo del Dipartimento delle Antichità, le dichiarò di nessun valore. Furono quindi portate in sacchi di iuta a Luxor con splendidi risultati sulla conservazione di molte di esse. Ciò che era sopravvissuto al viaggio fu messo in vendita al Cairo l’anno successivo; al rifiuto da parte del British Museum di acquistarle, se non in minima parte, la maggior parte delle tavolette prese la strada per Berlino, mentre una serie ritrovata successivamente da Petrie quattro anni dopo rimase al Museo Egizio del Cairo.

Sono spesso sconosciuti sia il mittente che il destinatario delle missive: i loro nomi venivano impressi sui bordi delle tavolette che il tempo (ed il viaggio fino a Luxor…) ha sbriciolato. La datazione aiuta poco perché viene indicata come “Anno X del regno” come sempre nell’Antico Egitto.

La lingua usata è il cuneiforme accadico, lingua di provenienza assiro-babilonese utilizzata all’epoca come lingua franca nei rapporti diplomatici in tutto il Medio Oriente. È però adattata alle esigenze diplomatiche ed ai dialetti locali.

Dai personaggi coinvolti e citati si viene a sapere che il periodo in cui furono scritte abbraccia il regno di due faraoni: quelli di Amenhotep III e del figlio Amenhotep IV/Akhenaton, il che crea diversi grattacapi: se fosse stata la corrispondenza della famiglia reale ad Akhetaton vorrebbe dire che Amenhotep III era vivo all’epoca della sua costruzione, alimentando le ipotesi sulla co-reggenza dei due Faraoni (ipotesi apparentemente accettata da Petrie stesso).

Flinders Petrie e la sua immancabile fotocamera

Il tono delle lettere cambia nel tempo: sotto Amenhotep III sono lettere cordiali, richieste di doni (“Nel paese di mio Fratello (il Faraone) l’oro abbonda come la sabbia…”). Sotto Akhenaton diventano lamentele per l’abbandono dei piccoli regni a loro stessi, le richieste diventano di soldati e di armi. Re Ribaddi di Byblos è il più “pressante” essendo il più vicino al Regno dei Mitanni ed il primo a subire incursioni e razzie.

Rimane sconosciuto il motivo della loro conservazione ad Akhetaton: erano documenti di archivio dimenticati al tempo dell’abbandono della città, o vecchie missive già tradotte e divenute inutili? In ogni caso, rappresentano un’insostituibile testimonianza di quali fossero i rapporti politici e commerciali dell’epoca in quel territorio.

La loro importanza è fondamentale da un punto di vista storico per capire la politica estera egizia ed i rapporti con i sovrani locali, per lo più piccoli regni autonomi sotto il protettorato egiziano. I piccoli re siro-palestinesi erano legati al sovrano egizio da un semplice giuramento di fedeltà mentre un controllo più diretto avveniva attraverso tre “province”: Amurru (sulla costa fenicio-libanese), Ube (all’interno della Siria) e Canaan (ovvero la Palestina). Frequentissime le richieste di doni e ricchezze all’Egitto che viene considerato una sorta di Eldorado.

I principali “giocatori” sulla scacchiera siro-palestinese del XIV secolo BCE. E’ triste pensare che più di tre millenni dopo non ci sia ancora pace nella Regione.

Doverosi i matrimoni politici: Amenhotep III accolse nel suo harem Gilukhipa, principessa di Mitanni giunta in Egitto con un seguito di 317 ancelle descritte come autentiche “meraviglie”. Venticinque anni più tardi, il re Tushratta inviò sua figlia Tadu-Kheba (Tadu’heba o Tadukhipa) con un seguito di 270 donne e 30 uomini, oltre a consistenti doni. Secondo diversi studiosi sarebbe lei Nefertiti, la “Bella che viene da lontano”.

La Tavoletta 19 di Tushratta di Mitanni: annuncia il matrimonio diplomatico di Tadukhipa (Nefertiti?) con Amenhotep III con tutti i doni inviati. La parola “oro” ricorre ben 21 volte. Ora al British Museum

Furono tutti però matrimoni “a senso unico”: mai una principessa di sangue reale egizia fu mandata in sposa in un Paese straniero: troppo forte la paura che fosse poi messa in discussione la successione.

Una delle tavolette amarniane (EA290) appare particolarmente interessante: Abdi-Heba di Gerusalemme (Ú-ru-sa-lim), infatti, chiede aiuto al sovrano egizio contro i “Khabiru” che stanno invadendo alcune città cananee.

La parte superiore della Tavoletta 290 inviata da Abdi-Hepa di Gerusalemme ad Akhenaton con la citazione degli Habiru. Conservata al Museo dell’Asia Anteriore di Berlino

Khabiru, o anche Habiru o Apiru, è un nome già comparso precedentemente nella storia egiziana: sotto Thutmose III sono indicati come “vignaioli” ed Amenofi II ne catturerà 3.600 durante una battaglia con i Mitanni. Nel caso della tavoletta amarniana, sembra si tratta di fuoriusciti egiziani che tentano di stanzializzarsi o di rientrare in Egitto.

Diversi studiosi vedono negli Apiru, o Khabiru, gli Ebrei. Altri ritengono di poter individuare con tale nome non un popolo, bensì una sorta di classe sociale, quella, appunto, degli immigrati o dei rifugiati, privi, cioè, di una connotazione etnica unica e di un proprio territorio, che si riunivano in bande armate per saccheggi locali.

Inutile dire che soprattutto sulle Tavolette che menzionano gli Habiru (o “Habiru Sagaz”) il confronto tra gli archeologi e gli storici è molto serrato…