“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

SEKHMET A LONDRA

La statua di Sekhmet a Londra nella sua nuova sede

Uno degli episodi più curiosi delle vicende di Belzoni è legato alla vendita dei reperti rinvenuti dal nostro padovano nei suoi viaggi in Egitto. E come tutti gli episodi straordinari, una parte della storia si incrocia con la leggenda

Si narra infatti che di tutta la collezione di Belzoni andata all’asta presso Sotheby’s a Londra, sia rimasta invenduta (o meglio, battuta ma mai ritirata – e pagata) solo una testa di Sekhmet. Non sappiamo i motivi per il mancato pagamento, né il nome dell’acquirente svanito nella nebbia londinese. Sappiamo però che la gestione dell’epoca non volle rimettere all’asta il reperto, ma decise di lasciarlo a “sorvegliare” prima il portico di Sotheby’s a Londra e poi direttamente l’ingresso della nuova sede della famosissima casa d’aste.

Il nuovo ingresso di Sotheby’s, protetto da Sekhmet in persona. Acquirenti, siete avvertiti…

Una sua riproduzione ha inoltre adornato per più di un secolo lo storico podio da dove vengono battute le aste, forse un monito per ricordarsi di incassare.

D’altronde in molte aste scorre il sangue, Sekhmet sarà stata contenta.

Quanto sangue avrà visto scorrere di qui, senza uno Ptah a difendere i malcapitati…

Nota di cronaca: la testa di Sekhmet, battuta all’epoca (pare) per 40 sterline, viene stimata oggi più di due milioni di sterline. Pare che sia la più antica scultura di proprietà privata attualmente a Londra.

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

L’OBELISCO CONTESO

L’obelisco si staglia contro il cielo del Dorset. Per la sua importanza, darà il nome anche ad una sonda spaziale

Nel 1817 Belzoni risale il Nilo verso Ybsambul, come veniva chiamata Abu Simbel, per completare l’opera di sbancamento della sabbia che chiude l’accesso al Tempio Maggiore. Lasciata l’Isola Elefantina, Belzoni sbarca a Philae, perla del Nilo, l’isola sacra a Iside, dove varie dinastie avevano costruito e ricostruito i loro templi.

Un magnifico obelisco di circa sette metri d’altezza e in ottime condizioni giace a terra. Essendo vicino al fiume, non sarebbe difficile portarselo via, pensa Belzoni. Ma per ora ha altro da fare, e riparte per Abu Simbel.

L’obelisco era stato notato da William Bankes, uno dei più ricchi viaggiatori del Nilo, che ne aveva dissotterrato la base mettendo in luce le iscrizioni. Uomo colto e snob, Bankes ha capito che uno dei cartigli riporta il nome di Cleopatra e lo ritiene adattissimo alla sua casa nel Dorset.

William Bankes ritratto negli anni in Egitto

Il peregrinare di William Bankes, deputato alla Camera dei Comuni, così lontano dalle acque grigie del Tamigi era in parte dovuto al grave scandalo che lo perseguitava: era infatti stato arrestato “in flagranza di reato di pederastia” in un vespasiano nei pressi di Westminster – assieme oltre a tutto ad un soldato della guardia reale. Il reato prevedeva la pena capitale (dopo vari processi che avevano deliziato i giornali dell’epoca, Bankes nel 1841 fu effettivamente condannato a morte), e anche se spesso tale condanna non veniva eseguita per ricchi e nobili, Bankes aveva pensato che stare il più lontano possibile dall’Inghilterra avrebbe giovato grandemente alla sua salute. Nei suoi viaggi collezionò oggetti per adornare una casa nel Dorset, nella quale non avrebbe mai più potuto metter piede (oggi è affidata al National Trust e aperta al pubblico).

Uno dei libri dedicati all’eccentrico snob inglese ed alla storia di questo obelisco. L’obelisco in copertina è completamente sbagliato, peraltro, ma non importa…

Ma un anno prima dell’arrivo di Belzoni in Egitto quell’obelisco aveva attratto l’attenzione anche di Drovetti, il console francese che abbiamo già “incrociato”.

Mentre Belzoni lavora ad Abu Simbel, Drovetti manda un certo Lebolo, uno dei suoi agenti, a convincere l’Aga locale a cedergli l’obelisco. Lebolo ha sentito parlare del trucco di Belzoni ad Abu Simbel (“Un mio lontano parente…”) ed usa lo stesso trucco: finge di saper leggere i geroglifici dell’obelisco ed afferma che sia stato scolpito dagli antenati di Drovetti – quindi, proprietà del console francese. Roba da matti.

L’Aga tentenna, dà ragione a Lebolo che ne dà notizia a Drovetti. Ma Belzoni, di ritorno da Abu Simbel, si mette in mezzo. Dona all’Aga il suo orologio, fornisce altri bakshish ai capivillaggio. E l’obelisco è suo.

Trasportare l’obelisco sembra facile, dopo l’esperienza con il “Giovane Memnone”. Ma sull’imbarcadero costruito in fretta e furia per caricarlo su una chiatta, il peso dell’obelisco causa lo spostamento di alcune pietre, e l’obelisco cade nelle acque del Nilo. “Devo confessare che per qualche minuto rimasi di sasso. La prima cosa che mi venne in testa fu la perdita di un tal pezzo di antiquariato; il secondo era come sarebbero stati felici i nostri oppositori” scrive Belzoni.

Il “naufragio” dell’obelisco nel disegno di Belzoni

In effetti, che Belzoni sia riuscito successivamente a caricare l’obelisco ha del miracoloso. Con l’aiuto di corde improvvisate e qualche tronco di palma risolleva dall’acqua l’obelisco, che inizia così il suo viaggio alla volta di Kingstone Lacy, nel Dorset, dove nel 1829 (dopo una lunga sosta a Londra) verrà issato in un nuovo sito inaugurato dal duca di Wellington. Né Bankes né Belzoni, purtroppo, lo vedranno nella sua attuale sede.

L’attuale collocazione dell’obelisco di Philae a Kingstone Lacy, nel Dorset

Drovetti non la prende molto bene. Probabilmente aveva già comunicato a Parigi che l’obelisco era suo. Dover trasmettere che invece è finito nelle mani degli odiati inglese è un rospo troppo grosso da digerire.

Quando vede l’obelisco arrivare al Cairo, viene alle mani con Belzoni. Ci va di mezzo anche il console inglese Salt. Si parla di una sfida a duello, poi gli animi si calmano un po’.

Prima era stata una gara, anche leale, ed un’amicizia tra Drovetti e Belzoni. Di lì in avanti diventerà guerra. Forse anche per quello Belzoni, dopo il rientro in Inghilterra, rivolgerà altrove la sua fame di avventure.

L’obelisco, invece, lo rivedremo. O meglio, rivedremo le sue iscrizioni – che in Francia ci finiranno sul serio, e saranno molto più importanti delle stravaganze di uno snob inglese.

Riferimenti:

· Webster D, Giovanni Belzoni: Strongman Archaeologist, 1990

· Belzoni GB, Narrative of the recent discoveries in Egypt and Nubia, 1835

· De Andrade-Eggers, Discovering Ancient Egypt In Modernity: The Contribution Of An Antiquarian, Giovanni Belzoni. Herodoto, 2016

· Zatterin M. Il gigante del Nilo, 2002

· Sevadio G, L’italiano più famoso del mondo, Bompiani 2018

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

IL “GIOVANE MEMNONE”

Il Faraone accoglie i visitatori nella sezione del British Museum dedicata all’Antico Egitto. Con la giusta illuminazione si distinguono nettamente i due colori del granito in cui è scolpita la statua.

Si tratta della parte superiore di una statua colossale di Ramses II inizialmente posta, insieme alla sua gemella, davanti al Ramesseum. La parte inferiore della statua è rimasta in Egitto.

La base del “Giovane Memnone” ancora davanti al Ramesseum e una ricostruzione digitale della statua originale

Fu chiamato “il giovane Memnone” in onore del mitico re di persia e dell’Etiopia, figlio di Titone e di Eos, ucciso da Achille durante la guerra di Troia e che secondo Omero nell’Odissea fu “il più bello tra tutti i guerrieri che presero parte alla guerra di Troia”.

Fu quindi, in pratica, la prima opera egizia considerata “artistica” dagli inglesi, tanto da accostarla all’arte greca.

I visitatori del British Museum al cospetto di sua maestà

Ha la caratteristica di essere in granito di due tonalità (grigio e rosa); lo scultore ha sfruttato questa peculiarità scolpendo il viso nella parte più rosata per esaltarlo maggiormente.

Il sovrano indossa il classico nemes; l’ureo che adornava la fronte è andato perduto quasi del tutto. Da notare che gli ampi occhi a mandorla, in contrasto con l’iconografia classica egizia, sono leggermente inclinati verso il basso, come il Faraone divinizzato guardasse dall’alto i semplici mortali.

Lo sguardo benevolo del Faraone si posa sui suoi sudditi. Secondo Belzoni, quando vide il busto per la prima volta “aveva il viso rivolto verso il cielo, e s’avrebbe detto che egli mi sorrideva all’idea di essere trasportato in Inghilterra”
Il sorriso di Ramses finemente intagliato nel granito

L’iscrizione verticale sul retro del busto riporta i nomi ed i titoli del Faraone ed una parte della dedica ad Amon-Ra.

Anche la visione dal retro con l’iscrizione di dedica ad Amon Ra evidenzia la doppia colorazione della statua

Le dimensioni sono impressionanti: è alto 2,66 metri e supera di poco i due metri in larghezza all’altezza delle spalle. Il suo peso supera le sette tonnellate e, come abbiamo visto, la sua difficoltà di trasporto si trasformò per Belzoni nell’opportunità della sua vita. Il foro nella spalla destra della statua, infatti, sarebbe frutto del tentativo fallito da parte dei francesi di rimuovere la statua prima di Belzoni.

La testa della statua gemella ancora al Ramesseum

Tra le leggende metropolitane che accompagnano questa statua, sarebbe stata la fonte di ispirazione del poeta inglese Shelley per scrivere il sonetto “Ozymandias”:

Percy Bysshe Shelley (1792-1822). Fu anche il marito di Mary Shelley, quella di Frankenstein per intenderci

Riferimenti

  • Webster D, Giovanni Belzoni: Strongman Archaeologist, 1990
  • Belzoni GB, Narrative of the recent discoveries in Egypt and Nubia, 1835
  • De Andrade-Eggers, Discovering Ancient Egypt In Modernity: The Contribution Of An Antiquarian, Giovanni Belzoni. Herodoto, 2016
  • Zatterin M. Il gigante del Nilo, 2002
  • Sevadio G, L’italiano più famoso del mondo, Bompiani 2018

Foto: © British Museum, Londra – Wikipedia

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

IL CIRCO IN EGITTO

GIOVAN BATTISTA BELZONI

Belzoni come apparirà nel frontespizio del suo libro “Narrative of the Operations and Recent Discoveries Within the Pyramids, Temples, Tombs and Excavations in Egypt and Nubia” che pubblicherà nel 1820

Giambatta dal seminario al “giovane Memnone”

Quando Napoleone invade l’Italia nel 1796, un diciottenne padovano grande e grosso, probabilmente spaventato all’idea di essere arruolato nell’esercito napoleonico, decide di seguire il suo spirito avventuroso e inizia a viaggiare in Europa.

All’anagrafe padovana risulta Giambatta Antonio Bolzòn, è “un barbiere, figlio di barbieri”. È andato a Roma dove ha studiato idraulica, poi è entrato in seminario per diventare frate cappuccino forse a seguito di una delusione amorosa (tale Angelica Catelani diventata poi cantante lirica; ah, le donne…) e all’arrivo di Napoleone, scappa. Vive di espedienti, un po’ imbroglione ed un po’ imbonitore. Per motivi che non sappiamo, va proprio a Parigi dove per un periodo vende immagini sacre, pare ancora vestito da frate. Torna a Padova, poi va ad Amsterdam e in Germania incontra un gruppo di saltimbanchi dove si esibisce un uomo forzuto nel numero della piramide umana, quasi un destino. Il tragitto europeo di Giambatta appare un po’ strano, ma pare coincida stranamente con le esibizioni liriche di Angelina Catalani…

Il giovanotto rimane folgorato dalla vita del circo e si improvvisa a sua volta “uomo forzuto” – d’altra parte è alto quasi due metri e pesa un centinaio di chili – mettendo su con suo fratello un piccolo spettacolino itinerante. A Londra viene ingaggiato dal Sadler’s Wells Theatre come “Golia italiano” e poi “Sansone Patagonico” esibendosi a sua volta nel numero della piramide umana.

Il Sadler’s Wells Theater in una locandina del primo ‘800. Fu qui che il giovane Bolzon divenne famoso nella Londra dell’epoca. La cosa in qualche modo lo danneggiò al suo ritorno dall’Egitto perché molte persone con cui venne in contatto lo ricordavano come saltimbanco e non degno di fiducia.
In effetti, i rappresentanti del British Museum non erano propensi a dare eccessivo credito al “Golia Italiano”, alias “Sansone Patagonico” come qui illustrato…
La prima piramide di Belzoni fu…lui stesso, spesso con dei volontari che sceglieva dal pubblico, come vediamo in questa locandina.

Cambia il suo nome in Giovan Battista Belzoni perché suona più italiano ed esotico rispetto a Bolzòn, che a Londra viene sempre anglicizzato in “Bòlson”. Arrotonda vendendo giocattoli ad acqua di sua invenzione; nel frattempo conosce Sarah Bane o Bannes, una ragazza molto emancipata per i suoi tempi e che diventerà sua moglie. Con lei dopo qualche anno si sposta verso il Portogallo, poi a Malta ed infine, nel 1815, ad Alessandria d’Egitto.

E a Londra sposa Sarah Banne o Bannes (la grafia non è certa). Nei carteggi non appare esattamente un amore romantico, ma piuttosto un affetto con enorme rispetto reciproco

È riuscito a strappare l’invito a presentare al viceré Mohammad Ali un congegno idraulico per l’irrigazione (una “machina” di cui null’altro sappiamo) ma la dimostrazione davanti al viceré non è convincente. Naturalmente nelle sue memorie scrive che non è colpa sua, ma che “fui fornito di legno cattivo, e di ferro altrettanto cattivo”.

Il Cairo nel 1815, disegno originale di Henry Salt che, come abbiamo visto anche con la Sfinge, era un bravo disegnatore

Il giovanotto di Padova è sul lastrico, ma per una fortunata coincidenza incontra il console inglese Henry Salt (ricordate? Quello che finanzierà il primo disseppellimento della Sfinge) che affida all’uomo forzuto l’incarico di risalire il Nilo e recuperare a Tebe una testa in granito di Ramses II (all’epoca nota come “il Giovane Memnone”) del peso di sette tonnellate e di trasportarla al Cairo per spedirla in Inghilterra.

Henry Salt nel 1815, appena prima di trasferirsi in Egitto

E Giobatta, o meglio Giovan Battista Belzoni, da saltimbanco si trasforma nel primo archeologo importante nella storia delle scoperte egizie.

Con un sistema di rulli di legno, che lui stesso ci tramanda in un disegno, riesce nell’intento di trasportare il busto di Ramses fino ad Alessandria, da dove proseguirà per il British Museum (dove tuttora risiede). Il successo in questa impresa gli vale un importante contratto con Salt.

La prima impresa di Belzoni: il recupero del “Giovane Memnone” nel disegno dello stesso Belzoni. Magari involontariamente, ma ricorda in maniera impressionante le ricostruzioni del trasporto di blocchi, colossi ed obelischi all’epoca dei Faraoni
Il Giovane Memnone, alias Usermaatra Setepenre Ramses Meriamon, accoglie tuttora i visitatori della Sala Egizia del British Museum. Perenne memento di un’era di pionieri, magari non sempre “legali” ma che attraversavano un mondo allora sconosciuto

Dal 1816 al 1819 viaggia per tutto l’Egitto, finanziato dal console inglese in una sorta di “corsa” alle antichità egizie. È convinto da Salt di lavorare direttamente per la Corona Inglese, in realtà non è proprio così e lo imparerà a sue spese.

La sua carriera di archeologo non è proprio tranquilla, si racconta che assalito dai beduini ne abbia afferrato uno per le caviglie ed usato come clava per allontanare gli altri. È un periodo senza regole, in cui moltissimi reperti lasciano l’Egitto in modo più o meno legale, molto spesso senza che le autorità locali se ne interessino minimamente. In più si aggiunge una rivalità tra francesi ed inglesi che influenzerà la vita di tutti gli archeologi dell’epoca. I francesi hanno perso la guerra, e sono a stento tollerati sul Nilo, ma sono stati i primi ad affrontare scientificamente l’Egitto e credono di vantare una sorta di primogenitura. Gli inglesi hanno vinto, ma la loro supponenza ed il loro superiority complex li rende odiosi ed odiati dal mondo arabo, che non vede l’ora di spillare i loro soldi.

Ed in mezzo ci finisce lui, Belzoni, e sarà la sua gioia e la sua croce.

Cosa se ne fa il tuo Re di una pietra?

Belzoni non è un francese, eppure utilizza sistemi simili per “registrare” ciò che fa. Non è un inglese, eppure lo appoggiano perché ottiene risultati. Forse non è neanche più italiano, ma la creatività rimane un suo tratto distintivo. E poi è un imbonitore nato, e gli verrà utilissimo. Capisce la mentalità dei nativi. Dove gli altri europei seguono le regole e la burocrazia, lui usa il “bakshish”, la piccola somma in regalo, per prendere scorciatoie. Noi oggi la considereremmo “corruzione”, all’epoca un’usanza imprescindibile.

A cominciare dal recupero del “Giovane Memnone” mette sempre in risalto il fatto che non cerca tesori, oro o gioielli, ma sculture “da mandare al Re, in Inghilterra”. Una cosa tanto strana da far dire al viceré Mohammad Ali: “Ma cosa se ne fa il tuo Re di una pietra?” sottintendendo una certa stupidità dei suoi interlocutori.  Ma almeno Belzoni riesce a scivolare tra gli ostacoli.

Visita una prima volta la Valle dei Re (all’epoca “Valle delle Porte”) per “raccogliere” un regalo di Drovetti nella magnifica tomba di Ramses III (che vedremo separatamente) e si accorge che le guide assoldate sul posto gli hanno tenuta nascosta un’altra entrata alla tomba – lo scopre perdendosi dopo che un suo collaboratore è caduto in uno dei pozzi della tomba – da cui rafforzerà la sua diffidenza nei confronti degli arabi, che definisce con termini irripetibili nei suoi scritti.

Ma il suo “vero” progetto è un altro. Nel 1813 Johann Ludwig Burckhardt, un esploratore svizzero, mentre ammirava il Tempio Minore di Abu Simbel, quello dedicato a Nefertari e che era già accessibile, è praticamente inciampato nelle teste dei quattro colossi di Ramses II del Tempio Maggiore che emergono a fatica dalla sabbia. Burckhardt è attonito davanti alle dimensioni delle statue e di quello che ci può essere sotto la sabbia, ma è un’impresa troppo grande per lui.

Johann Ludwig Burckhardt. È famoso soprattutto per aver scoperto la città di Petra, la capitale dei Nabatei, in Giordania

Ci ha provato Costantino Drovetti a liberarle, ma è stato allegramente truffato dal capovillaggio locale e alleggerito di 300 piastre, una piccola fortuna per l’epoca. È una sfida irresistibile per Giambatta, che parte quindi per “Ybsambul”, dove arriva nel settembre 1816.

Abu Simbel è il capolavoro dell’imbonitore Belzoni. Prima inganna il capovillaggio locale dicendo che è “alla ricerca dei suoi lontani antenati, per capire se provenissero proprio da lì” per non destare sospetti di saccheggio (la barba e l’abbigliamento arabo lo aiutano), poi truffa clamorosamente i lavoranti sul valore della paga che gli sta offrendo. Si è infatti messo d’accordo con il capitano della nave che lo ha accompagnato, ormeggiata nei pressi, che garantisce ai locali un “cambio” piastre/mais molto favorevole. Peccato che salperà molto prima che l’inganno venga scoperto…

Abu Simbel, operai al lavoro per liberare l’ingresso del Tempio Maggiore

Non contento, promette di dividere a metà l’oro trovato sotto la sabbia, ma le “pietre” sarebbero state tutte per gli inglesi. In meno di due settimane libera le quattro statue colossali e ne “firma” una come testimonianza di dove è arrivato. Non sarà l’ultima volta.

La “firma” di Belzoni ad Abu Simbel. Guardiamola bene, ci “servirà” più avanti

La strada è aperta, ma servirà una seconda “missione” di Belzoni per penetrare finalmente nel Tempio Maggiore. Il 1° agosto 1817, dopo una sorta di sciopero degli operai e l’abbandono dei lavori per il ramadan, un piccolo manipolo di europei capitanati dal padovano entra nel tempio. Belzoni nota le scene di battaglia ritratte; sono riferite a Kadesh ma, non potendo leggere i geroglifici, Belzoni scambia gli Ittiti per Etiopi.  

Forse Belzoni non sarà stato il miglior disegnatore mai stato in Egitto, però i suoi disegni sono evocativi di situazioni, emozioni, scoperte. Qui il Tempio Maggiore finalmente liberato dalla sabbia.

Un archeologo moderno, di fronte ad una scoperta simile, camminerebbe sul Nilo per la gioia. Ma per un cacciatore di tesori come Belzoni la delusione è cocente: la spedizione riporta a valle solo due sfingi a testa di falco ed un paio di statue.

Forse il pezzo più interessante del magro bottino di Belzoni ad Abu Simbel è la statua policroma del viceré di Kush Paser, inginocchiato davanti ad un altare su cui spicca una testa di ariete. Sempre al British Museum, EA1376. Foto: © British Museum

Di oro non se ne parla, gioielli nemmeno. Il colpo potrebbe essere fatale per l’esploratore, che invece si ricongiunge con Sarah, che lo aspettava a Philae, e riparte per la Valle dei Re.

La “riscoperta” dell’Antico Egitto sta per fare un altro, colossale balzo in avanti.

LA “TOMBA DI PSAMMIS”

La tomba di Seti I, oggi

Completata l’impresa di accedere al Tempio Maggiore di Abu Simbel, Belzoni “punta” la Valle dei Re (all’epoca ancora “Valle delle Porte”) per rifarsi del magro bottino racimolato fino a quel momento.

Torna quindi nella Valle e organizza delle vere e proprie squadre di lavoro molto più moderne della sua epoca. Osserva attentamente il terreno e cerca “delle anomalie”, come faranno tanti suoi colleghi nei decenni a venire. Il successo sarà straordinario.

Dal 9 al 18 ottobre 1817 trova ben quattro ingressi in pochi giorni, due nello stesso giorno e penetra in diverse tombe, almeno sette od otto (c’è un po’ di confusione tra alcune di esse mancando la traduzione dei geroglifici).

La posizione delle tombe scoperte od esplorate da Belzoni nel 1817, tavola di Belzoni

Chiama una tomba il “Mausoleo di Hapi” intesa come divinità della fertilità perché vi aveva trovato la mummia di un toro. Era invece la Tomba di Ramses I, il fondatore della XIX Dinastia

Il 16 ottobre punta la sua attenzione su sito che apparentemente non dovrebbe promettere nulla di buono, uno strato argilloso soggetto ad allagamenti. Lo definirà “un giorno fortunato… probabilmente uno dei migliori della mia vita”. Il 17 trovano una pietra tagliata dall’uomo, il 18 entrano nella tomba di Seti I, una delle più belle della Valle.

Alla scoperta della tomba di Psammis, Belzoni guida i suoi uomini

Belzoni (che, senza uno Champollion a correggerlo, pensa di essere entrato nella tomba di “Psammis”, Psammetico I) scrive della sua gioia penetrando “primo fra tutti in un monumento ch’era perduto per gli uomini, e che da me veniva allora ritrovato così ben conservato che si sarebbe potuto credere fosse stato finito poco prima della nostra entrata”.

L’interno della tomba di “Psammis”, disegno originale di Belzoni
Una “ricostruzione” della tomba di Seti I basata sui disegni di Belzoni
La sala sepolcrale di Seti I, disegno originale di Belzoni
Seti I al cospetto di Osiride, disegno originale di Belzoni
Nekhbet, disegno di Belzoni

Hathor con Seti I, disegno di Belzoni (a sinistra) e il rilievo originale, oggi al Louvre (N 124; B 7; Champollion n°1)

Una curiosità: qualche “incertezza” nella copia delle decorazioni della tomba da parte di Belzoni…

Il sarcofago in alabastro traslucido, tanto sottile da vedere la luce di un lume in trasparenza, sarà oggetto di lunghe dispute in Inghilterra che vedremo a parte, perché merita un discorso separato. Il suo coperchio è a pezzi, frantumato dagli antichi tombaroli. Il British Museum ne ospita alcuni frammenti, altri hanno viaggiato con la vasca del sarcofago, molti sono andati perduti per sempre, purtroppo.

L’interno del sarcofago in alabastro di Seti I. Ne riparleremo più avanti
Il frammento più grande del coperchio del sarcofago di Seti I al British Museum (EA29948) con l’ala di una delle dee protettrici della salma del faraone. Foto Osama Shukir Muhammed Ami

Nel frattempo la moglie Sarah, tanto per non annoiarsi, si traveste da uomo e visita Gerusalemme e la sua moschea, forse la prima donna nella storia a farlo. Se l’avessero scoperta sarebbe stata messa a morte senza esitazione. Bel peperino anche lei.

Giambatta, messo in allarme da certe voci su Henry Salt e da una lettera nel frattempo pervenutagli, pensa bene di rendere immediatamente pubblica la scoperta della tomba.

Belzoni ha infatti un grande merito: scrive – e disegna – più che può. Arriverà a pubblicare un volume sui suoi viaggi (compreso un capitolo scritto dalla moglie sugli usi delle donne in Egitto) che, tradotto anche in francese e in italiano avrà un enorme successo e che avrà un grande impatto sugli archeologi delle generazioni future, compreso un certo Howard Carter. Il volume è figlio dell’epoca: oggi verrebbe definito impreciso e razzista (“mai fidarsi di un arabo” ricorre abbastanza spesso e, riferendosi ai templi di Karnak e Luxor: “è una vergogna che tali edifici siano abitati dagli sporchi Arabi e dalle loro vacche”) ma è affascinante perché Belzoni è sinceramente colpito dalla civiltà che si presenta davanti a lui e altrettanto sinceramente disgustato degli “eredi” di quella civiltà.

Ma il tempo delle pubblicazioni è ancora lontano; in quel momento conta la gara, la competizione per i reperti più belli. E la corsa sta per tornare sulla Piana di Giza, proprio dietro alla Sfinge..

Violare la piramide di Chefren

Belzoni vedeva l’Europa come la salvezza dei reperti che scopriva (“la statua sembrava sorridermi al pensiero di andare in Europa” aveva scritto del busto di Ramses) un obiettivo da raggiungere a qualsiasi costo, anche distruggendone altri, considerati arbitrariamente meno importanti. È un’epoca di antiquari, più che di archeologi. E i danni furono notevoli.

Danni ne fa anche Belzoni, e tanti. Per prelevare il busto di Ramses, Belzoni non si è minimamente preoccupato di abbattere due colonne del Ramesseum che sbarrano la strada ai suoi rulli di legno, gli è caduto un obelisco nel Nilo (ma è riuscito a ripescarlo), ha usato l’ariete per entrare nelle tombe ma almeno non ha utilizzato la dinamite per entrare nella piramide di Chefren (come faranno gli inglesi con quella di Micerino-

Confessa candidamente di essersi addormentato sopra alcune mummie e di averle distrutte con il suo peso. Ma conta la corsa, arrivare primi.

E nel novembre del 1817 Belzoni, ormai già in rotta con Salt, torna al Cairo, dove trova una nuova corsa che lo aspetta. Per migliaia di anni, infatti, sull’onda di quanto aveva scritto Erodoto, la piramide di Chefren era stata creduta priva di camere o corridoi interni – una sorta di sasso pieno nel deserto. Salt e Caviglia, per giunta, ci si erano spaccati la testa per quattro mesi sulla facciata nord senza cavare un ragno dal buco.

Belzoni studia per qualche giorno la piramide di Chefren, studia anche l’ingresso di quella di Cheope e, convinto di poterci almeno provare, riparte con gli inganni. Ottiene i permessi per “qualche piccolo rilievo intorno alla piramide”, promette agli operai una percentuale sulle visite dei turisti e inizia a scavare. Trova il tempio funerario di Chefren e per primo ipotizza che piramide, tempio e Sfinge siano una sorta di struttura unica, costruiti contemporaneamente.

Il primo tentativo va “quasi” a vuoto; trovano uno dei cunicoli usati dai tombaroli per entrare nel corridoio principale, ma il cunicolo è impraticabile. Belzoni, allora, si arma di corda per misurare l’ingresso della piramide di Cheope, lavora di proporzioni e indica su quella di Chefren dove scavare esattamente. Bingo.

Belzoni entra nella Piramide di Chefren nel disegno da lui stesso preparato

Trovato l’ingresso, Belzoni percorre 37 metri di corridoio ma si scontra con un macigno posto dagli antichi costruttori a bloccare l’accesso. Rimuoverlo costa un mese di lavoro, ma finalmente il 2 marzo 1818 il padovano pensa di entrare per primo dopo millenni nella camera sepolcrale. O meglio, per secondo o terzo, perché prima bisogna allargare il passaggio, vista la mole dell’ex uomo forzuto del circo…

Nei cunicoli della Piramide

Ma poco importa; Erodoto è stato smentito. Anni dopo, venne per questo onorato in Inghilterra con una medaglia commemorativa, che riproduce però la piramide sbagliata. Beata ignoranza, in ogni epoca.

Finalmente l’ingresso nella camera sepolcrale della Piramide, sempre nei disegni dello stesso Belzoni
La camera sepolcrale come appare oggi

Dopo lo sgomento per non aver visto un sarcofago, lo trova praticamente incassato nel pavimento di pietra, dove numerosi fori testimoniano i tentativi di antichi predoni di trovare un tesoro nascosto.

Il sarcofago in granito incassato nel pavimento della camera sepolcrale

Tra le scritte indecifrabili sui muri della camera sepolcrale, una in arabo indica che tale Mohammed Ahmed vi era giunto nel XII secolo.

Un’altra cocente delusione per Belzoni, che lascia una scritta enorme nella camera, quasi a voler cancellare tutti i suoi “predecessori”. E, per giunta, nessun reperto. Solo un mucchietto di ossa nel sarcofago, di dubbia provenienza. Belzoni vorrebbe riprovare con la piramide di Micerino; indovina dov’è l’apertura ma il suo tempo a Giza è scaduto. È arrivato Salt al Cairo, ed inizia il tempo dei litigi.

Per non lasciare dubbi su chi fosse entrato “per primo” nella Piramide di Chefren

Il console francese Drovetti, geloso delle sue scoperte ed ormai suo nemico, cerca addirittura di distruggere alcuni reperti inviati da Belzoni al Cairo.

Tra i pirati, solo un pirata può sopravvivere. Non andrà altrettanto bene in Europa.

Il ritorno a Londra

Belzoni era sinceramente convinto di lavorare per il British Museum, e di conseguenza per il governo britannico. Dopo tre lunghi e fruttuosissimi anni, scopre invece di essere sempre stato alle dipendenze di Salt, e non la prende benissimo.

Eppure Salt aveva avvisato Belzoni. Così scrive nel 1817 a Beechey, un funzionario del consolato inglese assegnato al seguito di Belzoni, subito dopo l’apertura della tomba di Sethi I: “Dovete essere avvertiti del fatto che né lei né il signor Belzoni siete attualmente ingaggiati in missioni ufficiali; al contrario, siete due viaggiatori che stanno mettendo assieme una collezione ed avete diritto alla copertura che spetta a qualsiasi cittadino britannico […] io sostengo tutte le spese e colleziono a titolo personale, anche voi potete essere considerate persone che agiscono a quel titolo”. Belzoni non sa o fa finta di non sapere? Forse non lo sapremo mai.

Belzoni litiga una prima volta in Egitto, anche perché scopre che Drovetti e Salt si sono finalmente alleati per spartirsi i principali siti di Tebe e Luxor.

Senza un nuovo contratto con Salt, parte alla volta del Mar Rosso dove scopre l’ubicazione della città di Berenice, importante porto in epoca romana, e tenta di trovare l’oasi di Siwa, la sede dell’oracolo di Amon di Alessandro Magno – mancandola di un niente.

Terminati i denari, torna a Londra dove si iniziano a sistemare i tesori che ha inviato.

È rimasto l’imbonitore di sempre: sfoggia la sua lunga barba, l’abbigliamento orientaleggiante; viene definito dai racconti dell’epoca “il più arabo degli europei” e fa di tutto per propagandare le sue scoperte.

Dona anche due statue di Sekhmet, la dea leonessa assetata di sangue, a Padova dove, anche sotto l’impero austro-ungarico si ricordano di essere italiani e ci mettono nove mesi a sdoganarle con tanto di perizie e controperizie sul valore effettivo. Viene chiamato a stimarle anche un cavapietre, che le valuta “cinquanta lire l’una” perché “è pietra assai comune”. Ma non è finita: l’analisi archeologica viene affidata ad un numismatico, tale Meneghelli, che di Egitto non sa nulla, mette insieme la figura umana e la testa di leonessa e dichiara che si tratti di Iside nelle forme zodiacali di Leone e Vergine. A posto così.

Le due statue di Sekhmet a Padova: valore 50 lire l’una…

Venezia non è da meno: rifiuta l’acquisto di tre mummie egizie, praticamente già concluso, perché “Le mummie d’Egitto non sono un articolo assolutamente richiesto per gabinetti di Storia naturale delle università (…) ma si conservano in alcuni dei medesimi piuttosto per ornamento”.

Mentre inizia una lunga vicenda legale legata al sarcofago in alabastro di Seti I, Belzoni si inventa la prima mostra egizia della storia al Bullock’s Museum, proprietà di un altro eccentrico lord affascinato dall’Antico Egitto.

Il Bullock’s Museum, dove venne allestita l’Egyptian Hall di Belzoni nel 1821

Ricostruisce due sale della tomba di Seti, aggiunge alcuni reperti, tra cui due mummie, un diorama della tomba completa e uno in sezione della piramide di Chefren con tutte le sale ed i corridoi interni, e prepara un catalogo della mostra stessa con ben 45 illustrazioni. Una “exhibition” che non ha nulla da invidiare a quelle moderne, che portano in giro per il mondo, ad esempio, le copie dei reperti di Tutankhamon o di Ramses, e lontana anni luce dalla fredda esposizione dei musei convenzionali.

La mostra sulla tomba di Sethi I al Bullock’s Museum in un’illustrazione dell’epoca.

La mostra ha un successo enorme (duemila persone il giorno dell’inaugurazione!), tanto da essere replicata con ancora più successo a Parigi – dove la traduzione e le illustrazioni per il catalogo vengono fatte da tale “L. Hubert”, al secolo (pare) Jean Francois Champollion…

Ma in Patria le polemiche divampano. Henry Salt ha stilato un vero e proprio listino prezzi dei reperti egizi, di cui rivendica la proprietà. Belzoni non vuole cedere il sarcofago in alabastro per meno di 4,000 sterline, gliene offrono la metà e Salt ne rivendica la proprietà. In attesa di dirimere la questione, il sarcofago viene portato a Villa Soane, dimora di un eccentrico lord (che ha pagato duemila sterline direttamente a Salt), dove rimarrà fino ad oggi in condizioni di conservazione disastrose.

Belzoni si rifà mettendo all’asta gli oggetti della mostra; il solo diorama della tomba gli frutta quasi 500 sterline, uno sproposito per l’epoca.

Pubblica i resoconti dei suoi viaggi: un altro successo editoriale, tradotto subito in francese (sembra sempre con l’aiuto di “L. Hubert”) ma quasi clandestino in Italia. Un’altra delusione, di cui emergono tracce dalla sua corrispondenza con i familiari rimasti a Padova. Sarah ne scrive un capitolo aggiunto, in cui descrive la vita delle donne in Egitto come “sottomessa e molto lontana dalle abitudini europee”.

Una delle illustrazioni originali dei racconti di viaggio di Belzoni, raffigurante il “Panorama delle rovine del Grande Tempio di Carnac, scoperto da G. Belzoni”. Quasi tutte le illustrazioni erano di Alessandro Ricci, un medico “prestato” all’egittologia che accompagnerà anche Champollion e Rosellini qualche anno dopo

Eterno viaggiatore, Belzoni morirà alla fine del 1823 in viaggio verso il Niger, probabilmente di dissenteria, mentre andava a caccia di nuove scoperte verso la mitica Timbuktu.

La raccolta era cominciata, ora bisognava conservare e comprendere.

L’ultima firma di Belzoni

Mr. and Mrs. Belzoni

Dopo la morte di Belzoni la moglie Sarah è persa. Senza Giobatta vive in miseria; la notizia si sparge e viene prima fatta una petizione per assicurarle una piccola pensione (che avrà successo ma solo dopo molti anni, il nome di Belzoni risuona ancora a Londra ma non più come prima), poi una raccolta fondi.

Linsey Baxter nei panni di Sarah Belzoni in un docu-film della BBC

Si organizza una cena di beneficenza a suo favore a casa dello stesso Sir Soane. E qui succede qualcosa di strano.

Sulla parte superiore del sarcofago in alabastro di Seti I, ancora oggi è infatti possibile leggere la scritta “DIS.ED BY G. BELZONI” (“discovered by G. Belzoni”, scoperto da G. Belzoni).

La scritta sul sarcofago con la “N” rovesciata

Niente di straordinario, come abbiamo visto aveva “firmato” molte scoperte.

Però…

Però quando il sarcofago viene proposto al British Museum e poi acquistato da Soane, della scritta non c’è menzione.

Certo, potrebbe essere una svista, però…

Però qui la “N” è rovesciata, è sbagliata.

Impensabile l’abbia scritta lui, però…

Però a Philae c’è un’altra N rovesciata, nella “firma” di sua moglie Sarah Bane sul muro del tempio di Philae.

E quindi?

È estremamente probabile che Sarah, dopo la morte del marito, abbia approfittato di un momento di solitudine a casa Soane (forse proprio durante quella cena organizzata per raccogliere dei fondi per lei) per eternare anche su quell’oggetto i meriti del marito, che tanto aveva combattuto per trovarlo, estrarlo e portarlo in Inghilterra per poi vederselo portar via sulla base di cavilli legali.

Mi piace immaginarla in quella sala, illuminata dalle candele che dovevano fare scena, mentre incide con il primo oggetto appuntito trovato il suo marchio, il marchio di suo marito, “Mr. B”, come amava chiamarlo.

Una rivendicazione? Un atto d’amore?

Un eterno ricordo 

Dedicato a tutti i legami così forti da infrangere il tempo

La nota descrittiva del sarcofago al Soane Museum. Cari Inglesi, scrivete pure “there is no known reason for this”, io una ragione meravigliosa riesco a vederla.
Sarah e Giovanni nel fumetto dedicato a Belzoni dalla Bonelli
Sarah Bannes Belzoni a 80 anni
La tomba di Sarah al Mont à L’Abbé Old Cemetery di St Helier, Bailiwick of Jersey 

Riferimenti

  • Webster D, Giovanni Belzoni: Strongman Archaeologist, 1990
  • Belzoni GB, Narrative of the recent discoveries in Egypt and Nubia, 1835
  • De Andrade-Eggers, Discovering Ancient Egypt In Modernity: The Contribution Of An Antiquarian, Giovanni Belzoni. Herodoto, 2016
  • Zatterin M. Il gigante del Nilo, 2002
  • Sevadio G, L’italiano più famoso del mondo, Bompiani 2018
“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

LA BARBA ED IL NASO DELLA SFINGE

Il frammento al British Museum (Inv. EA58, “D” nei disegni originali più sotto). Foto: British Museum

La barba della Sfinge

Durante i suoi scavi del 1817 per liberare la Sfinge, Caviglia recuperò diversi frammenti della barba cerimoniale che adornava il mento della Sfinge. Non è tuttavia chiaro se la barba facesse parte della struttura originale della Grande Sfinge oppure se sia stata un’aggiunta successiva, magari proprio di Tuthmosis IV nella sua impresa descritta nella Stele del Sogno (vedi: https://laciviltaegizia.org/2020/12/31/la-stele-del-sogno-2/). Secondo alcuni studiosi, infatti, la “caduta” di una barba integrata dal principio avrebbe danneggiato il mento della Sfinge, che però non mostra segni di questo danno. Da notare però che la roccia della barba è congrua con gli strati corrispondenti al collo ed al petto della Sfinge.

I frammenti, disegnati da Henry Salt ma pubblicati solo nel 1837 nelle Operations Carryed on at the Pyramids of Gizeh in 1837 (Vol 3) sono ora divisi tra il British Museum a Londra ed il Museo Egizio del Cairo.

I frammenti della barba nel disegno originale di Salt

Da questi frammenti Mark Lehner ha tentato una ricostruzione della barba stessa, che sarebbe stata in origine lunga tra i 6 e gli 8 metri, collegata al petto della Sfinge da una lastra piatta di sostegno ed appoggiata ad una struttura sottostante in posizione simile a quella della “Stele del Sogno”.

Il disegno di Lehner che mostra la ricostruzione dei due principali frammenti (A+B) e (a sinistra) quello che rimane con il danno alla testa del Faraone raffigurato

I frammenti del Cairo mostrano sulla porzione che faceva parte della parte piatta di supporto  un Faraone raffigurato mentre fa un’offerta; i geroglifici che sono sopravvissuti vengono tradotti da Mark Lehner come ” vita e protezione intorno e dietro di lui “. La testa del faraone peraltro è andata persa; il frammento ha subito dei danni anche al Museo…

La ricostruzione effettuata da Lehner della barba della Sfinge con inseriti i frammenti descritti da Salt

Il naso della Sfinge

Per decenni il povero Napoleone venne accusato di aver sfregiato la Sfinge bombardandola e privandola del naso, probabilmente sulla base del disegno di Diderot che la raffigura con naso ed ureo. Ma i disegni antecedenti, come abbiamo visto, mostrano già la Sfinge priva del suo naso.

Un’immagine della Sfinge nel 1780, chiaramente mostrata senza naso. Da: The Antiquities, Natural History, Ruins and other Curiosities of Egypt, Nubia and Thebes (1780) di Frederik Louis Norden.

Sappiamo invece per certo che i Mamelucchi la presero per bersaglio delle loro esercitazioni con i cannoni, ma fortunatamente la pessima mira portò a danni solo sul corpo

Il naso potrebbe essere già stato danneggiato dall’invasione araba del VII secolo o, più probabilmente, dalla furia iconoclasta di un sufi, tale Muhammad Sa’im al-Dahr, che nel 1378 avrebbe scalpellato il naso per punire dei contadini del luogo che offrivano doni alla Sfinge chiedendo prosperità in un periodo di carestia.

Comunque sia andata, anche senza il suo naso lo sguardo ieratico della Sfinge rimane uno dei simboli più noti dell’Antico Egitto.

Naturalmente, tutti quelli che hanno letto o visto “Asterix e Cleopatra” sanno benissimo chi ha rotto il naso della Sfinge…

Riferimenti:

  • Lehner, Mark Edward. “Archaeology of an image: the Great Sphinx of Giza.” (No Title) (1991).
  • Wahby WS Restoring And Preserving Egypt’s Sphinx. 2005
  • Hawass Z et al. The Great Sphinx of Giza: Who built it, and Why? Archaeological Institute of America, 47:30-41, 1994
  • Vyse, Richard William Howard, and Richard William Howard Howard-Vyse. Operations Carried on at the Pyramids of Gizeh in 1837. Vol. 2. Cambridge University Press, 2014.
“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

LA PRIMA IMPRESA: LIBERARE LA SFINGE

“Guardami, osservami, figlio mio Thutmosis, io sono tuo padre Horemakhet-Khepri-Ra-Atum, io ti ho donato il regno”. Foto: kairoinfo4u

Un eretico genovese alla caccia di segreti

Giambattista Caviglia nell’unico ritratto pervenutoci, effettuato proprio dal Console inglese Salt

Nel novembre del 1816 il capitano genovese Giambattista Caviglia sbarca ad Alessandria, appende il timone al chiodo e si improvvisa esploratore. Profondamente religioso, è rimasto affascinato dall’aura di mistero esoterico legato all’Egitto, ai miti di Osiride, e cerca dei riferimenti che colleghino questi miti alla storia ebraica ed al cristianesimo.

Viene subito molto “benvoluto” dagli altri europei in Egitto. DI lui scrisse il console piemontese Pedemonte (che era però originario anch’egli di Genova): “Recatosi in Cairo abbandonò il mestiere di marinaio e dedicossi interamente, o per meglio dire intese dedicarsi, agli scavi archeologici, senza avere alcuna idea di quelle nozioni preliminari necessarie e indispensabili a chiunque voglia occuparsi di archeologia”, descrivendolo come “empio ed ignorante” e considerato dagli altri “grezzo ed imbecille”. Ebbe da dire anche con il console napoletano Fantozzi (Riccardo, non Ugo…).

Incrocerà Belzoni (che lo chiama “Captain Cabillia”) ma, divisi da propositi diversi, non collaboreranno mai. Anche Champollion diffiderà di lui, considerandolo un superstizioso ignorante e rifiutando una proposta di Caviglia di accompagnarlo nel suo viaggio in Egitto.

Un po’ esploratore e un po’ guida turistica per i ricchi europei che iniziano a visitare l’Egitto, l’unico a considerarlo è il console inglese Henry Salt (che ritroveremo alle prese con altri personaggi), il solo che riuscì a dire di lui che “il suo carattere amabile si mescola all’entusiasmo per la ricerca archeologica”. Salt è appena arrivato in Egitto ed ha l’incarico di battere i francesi nella “corsa” ai tesori egizi ed al materiale per decifrare i geroglifici. Il suo agguerritissimo nemico sarà il corrispettivo francese, Drovetti, con cui mancherà poco alla sfida a duello. Salt fornisce quindi a Caviglia un budget sostanzioso e 160 uomini per lavorare sulla piana di Giza.

Caviglia si mette all’opera. Inizia con la piramide di Cheope, esplora il pozzo che parte alla base della grande scala ed entra per primo dopo molti secoli nella camera sotterranea. Nella camera principale la sua curiosità è attratta dai cunicoli Nord e Sud, e per primo prova ad investigare cosa celino con l’uso di lunghe pertiche. Invano. È convinto che portino a camere segrete, mai scoperte. Li ritroveremo più avanti. Caviglia fu forse il primo fanta-archeologo convinto che le camere della Grande Piramide nascondessero poteri esoterici

Deluso, inizia allora a lavorare intorno alla Sfinge. Il suo passato di capitano gli permette di organizzare gli uomini in squadre ordinate, ma non fa in tempo a liberare un settore che subito il vento del deserto lo ricopre. Però Caviglia fa in tempo a scoprire il tempietto di Tuthmosis tra le zampe della Sfinge e la Stele del Sogno, un frammento dell’ureo che adornava la testa della Sfinge e uno della barba.

I frammenti trovati ai piedi della Sfinge, compreso il frammento di ureo (in alto)
L’ureo (presumibilmente) della Grande Sfinge. Foto British Museum
Il Tempietto di Tuthmosis con la Stele della Sfinge, sempre nei disegni originali di Salt

Emerge anche una scalinata monumentale costruita dai Romani per giungere ai piedi della Sfinge, prima che la sabbia vinca la sua battaglia.

La Scalinata della Sfinge nel disegno originale di Salt. La prospettiva è dal volto della Sfinge
La pianta della scalinata della Sfinge con le misurazioni originali di Salt. Come si vede, la scalinata terminava praticamente davanti alle zampe della Sfinge. Lo spettacolo all’epoca doveva essere grandioso.

Caviglia si arrende; passa quindi a Menfi, dove scopre e disseppellisce il colosso di Ramses II vicino al tempio di Ptah. Lo offre a Leopoldo II di Toscana tramite Ippolito Rosellini, ma quando Leopoldo scopre quanto costerebbe trasportarla a Firenze fa sapere di non essere grullo e la rifiuta gentilmente. La stessa fine farà l’offerta al British Museum. Per la cronaca, nessuno si occuperà di spostare il colosso, intorno a cui crescerà invece un museo “in loco” per ospitarlo.

I progressi degli scavi nel 1817

Preso dal suo misticismo, Caviglia pubblicherà quattro “Avvisi” nel 1827 in cui cercherà una sorta di fusione tra il mito di Osiride e il cristianesimo identificando Osiride con Abele e Seth con Caino. Caviglia intuisce uno stretto rapporto tra l’Antico Egitto e l’Antico Testamento, un’idea originale all’epoca, ma ne sbaglia tempi e modi. I suoi “Avvisi” gli varranno una scomunica e la fine della sua carriera di esploratore, non prima di aver partecipato con Richard Vyse allo scempio con l’esplosivo delle piramidi di Chefren e Micerino per entrarvi.

Epilogo

La Sfinge nel 1886 poco prima degli scavi di Grébaut. Quasi tutto da rifare

Un altro francese, Grébaut, nel 1887 riesce nuovamente a liberare le zampe, ma come per Caviglia è una vittoria solo temporanea.

Finalmente nel 1925 ancora un architetto francese, Emile Baraize, riesce nell’impresa ma ad un prezzo altissimo: la distruzione della scalinata romana. In compenso, appare il cosiddetto “Tempio della Sfinge” subito sotto. L’impresa verrà consolidata nel 1931 da Selim Hassan con un immane sbancamento di sabbia intorno al monumento ed un parziale restauro della testa.

Nel 1931 l’opera di disseppellimento di Selim Hassan è quasi definitivamente terminata, con i lavori di restauro sulla testa ancora in corso


E da lì la Sfinge ci osserva ancora, e protegge le Dimore dell’Eternità.

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

EGITTOMANIA – PARTE I

Un porta-documenti in mogano e argento del 1809 a forma di sacrario egizio, basato sui disegni di Denon

Non c’è una data precisa in cui esplose in Europa. O meglio, esiste (forse) una data di nascita del termine “egittomania” e, curiosamente è antecedente anche alla spedizione in Egitto di Napoleone.

In una lettera datata 20 marzo 1797 Frederick Augustus Hervey, quarto conte di Bristol e vescovo di Derry scrive infatti amabilmente a Wilhelmine Encke, contessa di Lichtenau, proponendole un viaggio in Egitto e menziona “l’egittomania di cui mi sono innamorato e di cui non riesco a fare a meno”. Non sappiamo se la proposta del conte celasse intenzioni più…maliziose, peraltro molto pericolose visto che la contessa era l’amante “ufficiale” di Federico Guglielmo II di Prussia, ma la morte del re di Prussia ed il conseguente arresto ed esilio di Wilhelmine pone fine a qualunque progetto. Il termine però era “nato”.

Frederick Augustus Hervey, quarto conte di Bristol. È lui l’inventore del termine “Egittomania”?
Wilhelmine Encke, contessa di Lichtenau. Non riuscirà mai a vedere l’Egitto, per sua sfortuna.

Sappiamo invece che divampò velocemente su entrambe le sponde della Manica, tanto che Sir Joan Soane (che molti di voi conoscono e che ritroveremo più avanti alle prese con Belzoni) nel 1806 si lamenta del “misero tentativo di imitare il carattere e la forma delle opere [architettoniche egizie] in spazi piccoli e limitati […] La mania egizia si è diffusa ulteriormente: persino i nostri mobili sono decorati con le forme simboliche dei costumi religiosi e di altro tipo dell’Egitto”.

Una vignetta satirica sulla moda “egittomane” pubblicata il 24 ottobre 1798 dopo la vittoria ad Abukir. A sinistra, una donna indossa un abito bianco simil-mummia decorato da coccodrilli. Di fronte a lei, il vestito dell’uomo è ancora più stravagante, composto da cappotto, gilet e stivali di pelle di coccodrillo. Il suo cappello sfoggia anche un coccodrillo giallo brillante. Royal Museum di Greenwich, ID PAF3864

Tutto finisce nel calderone dell’egittomania: abiti, arredamento, accessori, architettura. Già nel 1798, una vignetta ironizza sull’abbigliamento stravagante che richiama la terra del Nilo dopo le vittorie di Nelson. Molte altre ne seguiranno.

In quest’altra vignetta del 1806 di Thomas Rowlandson intitolata “Antichità Moderne”, ora al Met, in una sala piena di oggetti d’antiquariato egiziani una giovane donna viene abbracciata da un ufficiale, che la trascina in un sarcofago per scopi non proprio archeologici. MetMuseum 56.567.5
Il Temple Mill a Leeds, completato nel 1840; particolare del cornicione con l’emblema del sole alato e capitelli dei pilastri papiriformi. Fonte: Historic England
L’invito alla sbendatura di una mummia, a quanto pare eventi popolari nell’Inghilterra di metà XIX secolo

Un anonimo servitore dell’aristocrazia scrive pochi anni dopo che il suo principale è caduto vittima di “quell’egittomania che è diventata così diffusa, e che ha minacciato a un certo punto di far ripiombare le nostre sedie e i nostri tavoli nella barbarie”. Decisamente non un estimatore del nuovo modo di adornare i mobili, ma c’è poco da fare: soprattutto nell’Inghilterra vittoriana l’egittomania diventerà una moda, un tormentone che troverà la sua apoteosi nell’Esposizione Internazionale di Londra del 1851.

L’apoteosi dell’egittomania vittoriana: l’allestimento del Crystal Palace all’Expo di Londra del 1851

Ma tutto questo non sarà nulla rispetto alla seconda “ondata” che seguirà la scoperta della tomba di Tutankhamon. Ma questa è un’altra storia…

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

LA DESCRIPTION DE L’ÉGYPTE

Una sorta di “autoritratto” di Denon intento a disegnare tra le sabbie

Quando è partito per la campagna d’Egitto, Napoleone non sapeva che l’unico successo della sua spedizione sarebbe stato legato proprio a quei 154 scienziati imbarcati con le sue truppe. Non che la loro vita sulle sponde del Nilo sia stata facile, tutt’altro. Prima abbandonati a loro stessi dalle truppe francesi tra caldo opprimente, difficoltà di comunicazione con gli egiziani ed inevitabili scontri – anche armati – con i mamelucchi in rotta dopo la sconfitta a Giza. Poi le incomprensioni culturali: le divise degli scienziati sono verdi, un colore riservato ai discendenti di Maometto per i musulmani, e agli egiziani, che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena, non può importare di meno degli esperimenti e delle ricerche dei francesi. Dopo la sconfitta di Abukir, anche gli scontri con gli inglesi peggiorano la situazione: quattro scienziati francesi muoiono nell’ottobre 1798 proprio in uno scontro a fuoco in cui vengono distrutte molte delle apparecchiature scientifiche scampate al naufragio della Patriote.

Nicolas-Jacques Conté, l’inventore francese che permise la spedizione scientifica in Egitto dopo l’affondamento della Patriote e la distruzione delle attrezzature da parte degli inglesi ad Abukir. Qui è ritratto dopo l’incidente in laboratorio che gli costò l’occhio sinistro nel 1784

Conté salva il futuro della spedizione con la sua capacità inventiva e ricostruendo sul luogo molte di queste apparecchiature. Possono rimettersi al lavoro ingegneri, naturalisti e fisici.

Ed anche un disegnatore.

È Dominique Vivant Denon, un ex-aristocratico (un barone, nientemeno) che, privato dalla Rivoluzione del titolo e di tutti i suoi beni, si è dovuto reinventare disegnatore per campare. Nella sua vita aristocratica aveva infatti scoperto di saper disegnare molto bene; un suo ritratto di Voltaire aveva fatto arrabbiare non poco lo scrittore-filosofo per il suo realismo. Anche durante i suoi viaggi in Italia come diplomatico si era dilettato in numerosi ritratti, sempre molto espressivi, tanto da essere eletto membro dell’Accademia delle Belle Arti a Venezia, dove si era rifugiato dopo la Rivoluzione.

È bravo, Denon; David, il pittore della Rivoluzione, lo presenta a Napoleone, che lo salva dalla ghigliottina e lo aggrega alla spedizione in Egitto.

Denon sa ben poco dell’Egitto, praticamente nulla, ma è curioso e disegna instancabilmente. Arriva fino ad Assuan riempiendo innumerevoli taccuini di disegni. Ad Elefantina disegna la cappella di Amenofi III e la salva dall’oblio, perché verrà demolita pochi anni dopo. Pubblica il suo “Voyage dans l’Haute et Basse Égypte” nel 1802 ed il successo delle sue 141 incisioni a corredo è talmente clamoroso (ben 40 edizioni solo nel XIX secolo) che vengono trovati fondi e supporto per un’opera monumentale, la “Description de l’Egypte”, 23 volumi pubblicati a partire dal 1809 in cui verrà raccolta buona parte del lavoro svolto dalla spedizione scientifica in Egitto.

Il frontespizio della prima edizione del “Voyage dans l’Haute et Basse Égypte” del 1802

NOTA: se volete curiosare l’opera di Denon, le sue incisioni del “Voyage dans l’Haute et Basse Égypte” sono disponibili in rete qui (magie di internet…): https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b53207750w

La Piana di Giza, disegno originale della “Description de l’Egypte”. Incredibile la resa della prospettiva aerea, considerando che non risultano sorvoli in mongolfiera della zona all’epoca
Il tempio di Philae, colorato a mano in una edizione della “Description de l’Egypte”

E la Sfinge è lì, in diversi disegni. Diventa un simbolo. Una ricchezza sepolta dalla sabbia. Tirarla fuori, esporla, ammirarla, salvarla come innumerevoli altri capolavori in Egitto. Mentre l’egittomania dilaga, ci proveranno in tanti, novelli Thutmosis, a togliere la sabbia e liberare il leone…

La Sfinge di Denon. Finalmente un ritratto degno di questo nome.
In questo secondo ritratto della Sfinge un esploratore esce dalla cavità sulla testa della Sfinge, successivamente chiusa maldestramente con una colata di cemento. Si ritrovano però qui le sembianze negroidi di Volnay
La Cappella di Amenhotep III a Elefantina, “salvata” da Denon. Furono in tutto 7 gli edifici eternati dal disegnatore francese ed in seguito distrutti.

L’eredità di Denon

Rientrato in patria, Denon sarà il primo direttore del Museo Centrale delle Arti, diventato poi Museo Napoleone, infine Museo del Louvre. Accoglierà le opere trafugate da Napoleone in tutta Europa, creando in dieci anni uno dei musei più importanti al mondo – da cui però dovette dimettersi dopo Waterloo.

Denon ritratto al Louvre nella sua impresa di catalogare tutte le opere trafugate da Napoleone

A Denon – e ai suoi colleghi, nonché a Napoleone – tutti noi appassionati di egittologia dobbiamo essere eternamente grati. Grazie alla loro opera scoppiò in Europa una Egitto-mania che non si è mai spenta. È vero, c’era stata un’altra Egitto-mania ai tempi di Cesare e dell’Impero Romano – che però si era limitata ad essere per lo più una moda, un trafugamento di statue, monumenti ed oggetti artistici all’inseguimento imperiale della grandiosità faraonica – interrotta dall’avvento del cristianesimo che iniziò a pretendere un’egemonia culturale non ancora sopita.

E tutto questo avvenne nonostante i disegni di Denon & C. fossero “muti”, i simboli disegnati non avessero voce. Doveva passare ancora un po’ di tempo prima che un altro francese, un colpevole di alto tradimento della Patria ma con un talento linguistico eccezionale, desse voce a quei simboli. E successe anche con l’aiuto della “Description de l’Egypte”.

Dominique Vivant, Barone di Denon, all’opera nei suoi ritratti. Grazie, Barone di Denon, per esserti reinventato artista ed aver acceso una luce.
“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

L’INSTITUT D’ÉGYPTE

Napoleone parla ai “sapienti” sul ponte della Orient in viaggio per Alessandria, il momento tradizionalmente considerato come la genesi dell’Institut d’Égypte

Nel 1798 la popolarità di Napoleone in Francia è immensa. Forse troppo.

La Campagna d’Italia è appena terminata con il suo clamoroso successo, ed il Direttorio rivoluzionario vede (giustamente!) con sospetto quel giovane generale che viene dalla Corsica. Decide allora di prendere due piccioni con una fava e bloccare la via terrestre per le Indie all’eterno nemico inglese conquistando l’Egitto e togliere dal territorio francese il piccolo generale.

Il Porto di Alessandria nel 18° secolo

Nel maggio 1798, Napoleone si imbarca quindi da Tolone con 54,000 soldati su 400 navi alla volta di Alessandria. Già che c’è, nel mezzo invade e conquista Malta, da sempre approdo strategico nel Mediterraneo per le navi inglesi. Il 1° luglio sbarca con la nave ammiraglia Orient ad Alessandria e, incredibilmente, marcia sul Cairo a piedi nel deserto invece di risalire il Nilo; a completare l’opera i soldati francesi hanno le uniformi in lana e patiranno le pene dell’inferno.

Lo sbarco della flotta francese ad Alessandria, sbarco non privo di incidenti compreso l’affondamento della Patriote (Museo della Rivoluzione Francese).

Nonostante tutto, il 21 luglio l’organizzazione e la strategia di Napoleone disintegrano l’esercito dei Mamelucchi sulla piana di Giza (dopo il famoso monito: “Soldati! Dall’alto delle Piramidi quaranta secoli vi guardano!”), ma Nelson a sua volta tra il 1° ed il 2 agosto disintegra la flotta francese ad Abukir e sancisce la fine delle velleità militari francesi in Egitto. Dopo aver tentato la conquista della Palestina ed essersi scontrato con l’esercito turco, Napoleone riparte per la Francia, ma lascia in Egitto un altro piccolo “esercito”.

Napoleone davanti alla Sfinge. Olio su tela di Jean Leon Jerome (1886)
La battaglia delle Piramidi, dipinto di Louis-François Lejeune

Quando è partito per la sua spedizione in Egitto, oltre alla strategia militare Napoleone aveva infatti in testa un secondo obiettivo: creare un’istituzione scientifica in Egitto simile all’Institut de France da poco creato in patria e di cui faceva parte non per motivi “politici” (o almeno, non solo per quello…), ma come matematico. Sulle navi che hanno fatto vela per il Nilo, c’era quindi posto per più di 150 scienziati “capitanati” da Gaspard Monge, direttore del Politecnico (École Polytechnique) di Parigi. Tra i più illustri Fourier (matematico e fisico maledetto da generazioni di studenti), Berthollet (chimico), Dolomieu (geologo a cui dobbiamo il nome delle Dolomiti), Conté (pittore, chimico e fisico a cui dobbiamo l’invenzione della matita odierna) e un disegnatore, Dominique Vivant Denon, che conosceremo meglio in seguito.

Gaspard Monge ritratto da André Dutertre all’epoca della spedizione in Egitto

Napoleone ha infatti chiesto a Monge due obiettivi: poter costruire strade ed infrastrutture in Egitto, oltre al materiale bellico richiesto per l’invasione, e scoprire un mondo che era allora ampiamente sconosciuto sotto tutti i punti di vista.

In poco più di due mesi, Monge ha messo insieme una squadra che spazia dalla matematica alla zoologia, dalla medicina all’ingegneria, compresi musicisti, astronomi, scultori ed una schiera di tipografi per eternare le loro scoperte. Da notare che, visto il carattere militare della spedizione, sia la destinazione che la durata della missione rimasero segreti fino a quando non furono tutti imbarcati. Dell’organizzazione si occupa il generale Caffarelli, di origine italiane, che aveva perso una gamba in battaglia tre anni prima.

Solo dopo aver salpato da Tolone il 17 maggio 1798 in un momento immortalato da un autore sconosciuto, Napoleone parla agli scienziati più eminenti, che viaggiano a bordo della nave ammiraglia Orient e svela la destinazione ed il loro ruolo nell’impresa.

Anche le “truppe” scientifiche sbarcano ad Alessandria il 1° luglio, non senza intoppi: la Patriote si incaglia ed affonda nel porto con il suo carico di attrezzature scientifiche, di cui si riesce a recuperarne una parte. Poi si separano: le truppe marciano verso la battaglia delle piramidi, mentre gli scienziati si dividono tra Alessandria e Rosetta, dove avverrà una delle scoperte più importanti della missione.

Nonostante l’esito infausto della campagna d’Egitto, il 22 agosto 1798 Napoleone decreta la nascita dell’Institut d’Égypte “per il progresso e la propagazione dell’Illuminismo in Egitto”. Durerà solo fino al 1801, ma l’impatto culturale fu enorme.

La prima riunione dell’Institut d’Égypte, il 23 agosto 1798 al Cairo. Si distinguono, fra gli altri, Napoleone, Conté (con la benda sull’occhio), il generale Caffarelli (con la gamba di legno), Dolomieu (il più alto)

Monge ne è il presidente, Napoleone stesso il vicepresidente. L’Institut è diviso in 4 sezioni: matematica, fisica (storia naturale e medicina), economia politica e letteratura ed arte. Ogni sezione ha 12 membri e sarà indipendente, convergendo poi nella descrizione delle loro attività con la “Description de l’Egypte”, in cui verrà immortalata anche la loro prima riunione al Cairo.

La nostra storia, in pratica, comincia qui. Un gruppo di studiosi alla riscoperta di un mondo perduto.

Riferimenti:

· Reybaud, Louis, 1799-1879. Histoire scientifique et militaire de l’expédition française en Égypte. Paris: A.J. Dénain, Librarire-éditeur, 1830-1836

· Description de l’Égypte; ou, Recueil des observations et des recherches qui ont été faites en Egypte pendant l’expédition de l’armée francais. Paris: De L’Imprimerie impériale, 1809-1828

· Denon, Dominique Vivant, 1747-1825. Voyage dans la Basse et la Haute Égypte, pendant les campagnes du général Bonaparte. Paris: De l’Imprimerie de P. Didot l’aîné, 1802

· Institut d’Égypte, Cairo, Mémoires sur l’Égypte: publiés pendant les campagnes du Général Bonaparte, dans les années VI et VII [-IX]. Tome premier [-quatrieme]. Paris 1800-1803

· Andrews, Carol AR. The Rosetta Stone. London: British Museum Publications, 1981.

· Beaucour, Fernand, Laissus, Yves, and Orgogozo, Chantal. The Discovery of Egypt: Artists, Travellers and Scientists. Paris: Flammarion, 1990.

· Burleigh, Nina, and Cassandra Campbell. Mirage: Napoleon’s scientists and the unveiling of Egypt. New York: Harper, 2007.

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

JAMES BRUCE

James Bruce, ritratto di Pompeo Batoni

Trent’anni dopo Richard Pococke troviamo un altro britannico sulle sponde del Nilo. Questa volta è uno scozzese, che in realtà era destinato a ben altro. Nato nel 1730, studia giurisprudenza a Edimburgo; sposa poi la figlia di un mercante di vini ed inizia a viaggiare in Spagna e Portogallo a caccia di vini iberici. Viaggiare gli piace; la moglie muore però dopo soli nove mesi di matrimonio. Poco dopo James eredita la proprietà di famiglia a Kinnaird e, libero da ogni vincolo, si dedica a ciò che gli piace di più: girovagare per il mondo e descrivere i suoi viaggi.

Dopo il nord Africa, si dedica alla scoperta delle sorgenti del Nilo; dal 1768 risalirà il fiume fino in Etiopia per scoprire l’origine del Nilo Azzurro e scriverà le sue memorie di viaggio (“Travels to Discover the Source of the Nile”) in cinque poderosi volumi per più di tremila pagine complessive, prima di risposarsi e dedicarsi alle sue proprietà in Scozia. Tradito dal suo antico amore per il vino, troverà il suo destino cadendo dalle scale della sua dimora, appesantito da un fisico ormai pingue e annebbiato dai fumi dell’alcool.

Non è chiaramente un archeologo, ma trova posto in questa rubrica perché risalendo il Nilo fa tappa a Tebe ed entra nella tomba di Ramses III rimanendo affascinato dai dipinti murali che vede. Questa volta però, e a differenza di Pococke, Bruce disegna alcuni di quei dipinti. È rimasto colpito da due figure di arpisti in una stanza laterale della tomba (tanto da passare la notte nella tomba per ritrarle, con sommo terrore da parte delle guide che lo accompagnavano) e quei disegni vengono inseriti quasi per caso come tavole fuori testo nei suoi Travels.

Non sono rilievi precisi; piuttosto “interpretazioni” filtrate dal gusto inglese del XVIII secolo, ma sono le prime immagini di una tomba della Valle dei Re che arrivano in Europa.

La tomba di Ramses III diventa quindi “la tomba di Bruce” e sarà la meta preferita dei viaggiatori che seguiranno (non senza danni ingenti alla tomba, purtroppo).

Un altro piccolo passo verso la riscoperta dell’Antico Egitto è stato fatto.

Riferimenti:

  • Ceram, C. W. Civiltà sepolte: il romanzo dell’archeologia. G. Einaudi, 1953.
  • Ceram, C. W., and Maria Grazia Locatelli. Civiltà al sole. 1958.
  • Bruce, J. Travels to Discover the Source of the Nile – Vol. I. G.G.J. and J. Robinson, London 1790