Di Andrea Petta e Franca Napoli
INTRODUZIONE a cura di Giuseppe Esposito
Esistono vari gradi di infibulazione: la più innocua (e la meno praticata) è la cosiddetta “As-Sunna” (tradizione), che comporta la fuoriuscita di 7 rituali gocce di sangue.
Il secondo tipo è la clitoridectomia vera e propria, chiamata anche “Tahara” (purificazione).
Il terzo tipo, e siamo arrivati al punto, è “l’infibulazione o escissione faraonica”. Fra le tre è la più brutale e violenta ed è in questa che, oltre la clitoridectomia vera e propria si ha la “cucitura”.

Ma la domanda che mi ponevo allora, e che ancora mi pongo, è chi abbia deciso che il metodo più cruento si chiamasse “faraonico”? e perché?
Non è facile rispondere a questa domanda. Per moltissimi anni l’argomento è stato trascurato e sottovalutato. Si intrecciano motivi culturali, religiosi, sociali e medici in questa cappa di “omertà scientifica”.
Oggi si sa (o meglio, si ipotizza sulla base della diffusione) che la pratica dell’infibulazione, o comunque della mutilazione dei genitali femminili, sia nata tra le sponde occidentali del Mar Rosso ed il Sudan ai tempi della civiltà meroitica (quindi non prima del IX secolo BCE), e da lì si sia diffusa inizialmente in Africa per poi migrare in Asia.

Il primo a riferire dell’infibulazione in Egitto è il solito Erodoto, che parla di “circoncisione di ragazzi e ragazze” in Egitto nel V secolo BCE. Un papiro greco del 163 BCE, ora al British Museum, parla di un’operazione che doveva essere condotta su una ragazza di Menfi, tale Tathemis, al momento di ricevere la propria dote, e Strabone ne parla come un’usanza diffusa ai tempi di Augusto. Di lì in avanti ne ritroveremo traccia solo nel XVIII secolo, prevalentemente per la mancanza di scambi culturali tra le diverse regioni del mondo.

Ma non tutto è così semplice. Un antico incantesimo dei Testi dei Sarcofagi, quindi risalenti al Medio Regno, fa riferimento sia ad un uomo che ad una donna “non circoncisi”. In questo caso, però, il termine usato (“amat”) potrebbe fare riferimento ad una ragazza ancora non mestruata, quindi prima del menarca – uno dei tanti termini di cui la traduzione esatta è incerta.



Elliott Smith, che abbiamo incontrato innumerevoli volte nell’esame delle mummie egizie, non riporta casi di infibulazione accertata, ma riporta casi in cui le grandi labbra sono state ritrovate accostate verso il perineo in maniera simile all’infibulazione – senza specificare se sia stato un intervento pre- o post-mortem e soprattutto senza traccia di sutura delle labbra stesse. Nessuna possibilità invece di verificare eventuali clitoridectomie per le deperibilità dei tessuti molli. Barclay nel 1964 riportava che non esisteva traccia di infibulazione nelle mummie esaminate.
È stata avanzata l’ipotesi che quanto ritrovato da Elliott Smith fosse una pratica per prevenire profanazioni del corpo della defunta nelle case per la mummificazione, ma sembrerebbe estremamente improbabile (chi l’avrebbe fatto? I parenti della defunta? Un sacerdote “addetto”?). SI ritiene invece che fosse pratica più comune consegnare i cadaveri alle case della mummificazione diversi giorni dopo la morte come “deterrente”.
Riassumendo: l’ipotesi della infibulazione come pratica comune nell’Egitto Faraonico non sembra avere riscontri almeno fino all’Età Tarda o al Periodo Tolemaico; anzi è altamente improbabile che venisse effettuata prima di questo periodo. Le osservazioni di Erodoto e più tardi di Strabone hanno probabilmente indotto una distorsione nella percezione di questa pratica, da loro intesa come praticata da tempo immemore ed invece introdotta molto più recentemente lungo le sponde del Nilo.
La terminologia “infibulazione faraonica” potrebbe derivare quindi da una facile associazione Egitto (in cui nel XVIII era pratica generale) – Faraoni nata in piena epoca coloniale senza alcun riferimento concreto con le mummie ritrovate – anche perché, a quell’epoca, non era ancora d’uso una ricerca scientifica così approfondita su quei “corpi neri” che venivano trattati alla stregua di oggetti.
Nulla vieta, perciò, che il procedimento semantico nulla abbia a che vedere con le mummie su cui, solo successivamente, sia eventualmente stata riscontrata un’analoga usanza – decisamente non generalizzata e sorta in epoca molto tarda, altrimenti se ne sarebbe scritto per ogni mummia di sesso femminile rinvenuta.