MITI E REALTÀ
Di Andrea Petta e Franca Napoli
La possibilità di usufruire di anestetici ed analgesici è stato un requisito fondamentale per la chirurgia moderna. Da molto tempo gli studiosi disquisiscono su quali sostanze potessero essere utilizzate nell’antichità e fin dove si potessero spingere gli antichi chirurghi.

Si pensa che gli egizi conoscessero la mandragora ed i suoi effetti, legati al contenuto di atropina e scopolamina. La rappresentazione (forse) del suo frutto in diversi dipinti ci fa presupporre che l’azione narcotica ed allucinogena fosse sfruttata, ma l’identificazione del frutto non è né certa né tantomeno universalmente accettata – non solo non è originaria dell’Egitto, ma il termine egizio che la identifica – rermet – non viene mai menzionato nei papiri medici.

In più, la somiglianza dei suoi frutti con la persea (Mimusops laurifolia) che, al contrario della mandragora, cresceva in Egitto fin dal periodo predinastico, fa sì che diversi studiosi lo ritengano uno “scambio di pianta”. L’ennesimo mistero che abbiamo incontrato.

Esiste invece un florilegio di termini – piante, fiori, frutti – indicati nei papiri medici come “rimedi per il dolore” e che non sappiamo assolutamente a cosa corrispondano.
Abbiamo quindi un “aaut”, forse un mollusco marino, usato nella mialgia (Papiro Hearst, 8.17), una pianta “djareet” usata per i dolori addominali e le nevriti (Hearst 2.15) e, particolarmente interessante, l’erba “senutet”. Questa erba è descritta così:
“…i suoi fiori sono come il loto. I suoi germogli sono come il legno bianco. Se la si raccoglie e la si strofina sull’inguine, il dolore si allevia immediatamente. I suoi semi, impastati in una torta, vengono dati per alleviare il dolore”.
Si tratta probabilmente di una specie di convolvolo, il Convolvolus hystrix oppure il C egyptiacus, di cui ci sono reperti paleobotanici in Egitto e dal potente effetto sedativo.

E gli oppiacei?
Il Papaverum somniferum era già noto in Mesopotamia all’inizio del Nuovo Regno, ma le prove che fosse conosciuto ed usato in Egitto sono molto indiziarie. Diodoro Siculo fa risalire all’Egitto il primo utilizzo sedativo dell’oppio, ma non è per niente certo. La presenza di oppio fu inizialmente dimostrata in alcuni contenitori di olii vegetali dalla tomba di Kha e Merit, ora conservati al Museo Egizio del Cairo. Tale dimostrazione, effettuata nel 1925 all’Università di Genova fu successivamente smentita da analisi più moderne, lasciando un alone di mistero.

Il ritrovamento di alcuni vasi ciprioti a forma di capsule di papavero (i cosiddetti base-ring) e le analisi effettuate negli anni ’90 su alcuni reperti rendono estremamente probabile la presenza di oppio in Egitto all’inizio del Nuovo Regno, ma non esistono prescrizioni o medicamenti che lo utilizzino nei papiri medici.

Non ci sono inoltre pervenute “istruzioni” sul fatto di incidere le capsule per estrarne il lattice, da cui si ricava il principio attivo. Nello sforzo però di immaginare gli egizi incalliti fumatori d’oppio, soprattutto gli studiosi inglesi hanno voluto forzatamente vedere in alcuni oggetti raffigurazioni delle capsule di papavero – l’esempio più famoso riguarda gli orecchini della regina Tausert, moglie di Sethi I.

Possiamo quindi affermare che l’oppio fu effettivamente introdotto in Egitto durante il Nuovo Regno, ma che non fu mai utilizzato in ambito medico.
Gli studiosi sono invece concordi sulla presenza di cannabis (C. sativa) in Egitto, ma purtroppo anche in questo caso non ne furono riconosciuti gli effetti sul sistema nervoso centrale. Da notare che dopo lo “scandalo del tabacco” (identificato erroneamente sulla mummia di Ramses II, che era invece stata trattata con spennellamenti a base di tabacco per conservarla in tempi moderni), tutti i ritrovamenti di polline di cannabis o di tracce di oppiacei sono stati pesantemente contesati e, in linea di massima, quantomeno dubbi.
Un capitolo a parte lo merita il “loto”, su cui è stata fatta molta confusione. Il loto (Nelumbo nucifera) non è mai arrivato in Egitto prima della dominazione persiana. Quelli rappresentati nell’arte egizia sono fiori di NINFEA (Nymphaea caerulea o N. lotos a seconda del colore dei fiori). La ninfea contiene ben quattro alcaloidi narcotici, concentrati nei fiori e nei rizomi. È stato proposto che i boccioli di ninfea venissero aggiunti al vino come stupefacenti; le scatenate ragazze del papiro erotico di Torino vengono rappresentate con un fiore di ninfea sopra la loro testa ad indicare che erano sotto il loro effetto.

Non avrebbe invece avuto alcun effetto stupefacente annusare i fiori di ninfea, come viene spesso mostrato dei dipinti egizi.

Da non dimenticare che, infine, l’alcool era molto conosciuto ed abbondantemente “sfruttato” anche in campo medico (il Papiro Ebers nomina almeno 17 tipi di birre diverse usate nelle prescrizioni).
Tra gli analgesici di effetto MOLTO dubbio segnaliamo infine tra le pieghe del Papiro Ebers i topi e le ali degli scarabei.