E' un male contro cui lotterò

QUELLO CHE NON FU

Di Andrea Petta e Franca Napoli

Abbiamo già visto come uno dei pericoli peggiori nello studiare la medicina degli Antichi Egizi sia farsi “contaminare” dalle conoscenze moderne. Ciò che diamo per scontato non lo era affatto più di 4,000 anni fa, quando vennero presumibilmente scritti i papiri medici.

Anche in ambito chirurgico ci sono stati “voli pindarici” mai supportati da prove concrete – come nel caso degli oppiacei, che giunsero sì in Egitto, ma in epoca più tarda e mai usati dai medici – come abbiamo visto. Vediamone alcuni.

CHIRURGIA PLASTICA

Per un certo periodo si pensò che i medici egizi fossero in grado di intervenire con operazioni di chirurgia plastica mediante un “trapianto di pelle”.

La mummia di un’anziana sacerdotessa di Amon vissuta durante la XXI Dinastia, indicata dal Prof. Elliott Smith come “Nesi-Tet-Kab-Taris”, presentava diverse piaghe da decubito su spalle, schiena e natiche coperte da due quadrati di pelle bovina finissima – probabilmente di gazzella – cuciti alla pelle sottostante.

La mummia di “Nesi-Tet-Kab-Taris” disegnata da Elliott Smith. Si vedono chiaramente le due applicazioni di pelle di gazzella tra le spalle e sulle natiche per coprire presumibilmente le piaghe da decubito che afflissero questa anziana signora in vita.

Elliott Smith le descrisse nel 1904 come applicazioni post-imbalsamazione per mantenere l’integrità del corpo, ma in seguito Ruffer nel 1912 ed altri studiosi ipotizzarono che fosse un intervento di chirurgia plastica per alleviare le piaghe da decubito. Purtroppo ai tempi gli studiosi erano più interessati alle lesioni osteoarticolari e la mummia è stata smembrata per studiarne tali lesioni, ma è al limite ipotizzabile che la pelle di gazzella fosse una sorta di “cuscino” in vita e sia stata cucita alla pelle sottostante solo nel processo di mummificazione.

Quel che rimane di Nesi-Tet-Kab-Taris, la donna con la pelle di gazzella a coprire le piaghe da decubito. Soffriva di un’artrosi invalidante ad entrambe le anche e deve avere sofferto moltissimo nell’ultimo periodo della sua vita – ma la sua pelle non fu ricostruita dai chirurghi egizi.

TRACHEOTOMIA

In due rilievi trovati da Flinders Petrie ad Abydos e da Saad a Saqqara, entrambi risalenti alla I Dinastia, sembra essere rappresentata – con una certa fantasia – una tracheotomia effettuata su un paziente seduto a terra con le mani dietro la schiena.

Il rilievo pubblicato da Flinders Petrie e proveniente dalla tomba di Aha (I Dinastia), interpretato erroneamente negli anni ’50 come una tracheotomia (da Petrie, William Matthew Flinders, The royal tombs of the first dynasty. Vol. 2. 1901”).
La seconda “tracheotomia” ritrovata a Saqqara (da Emery, Walter B., and Zakī Jūsuf Saʻd. The tomb of Hemaka. Government Press, Bulâq, 1938).

A prescindere dal fatto che la posizione sia estremamente inusuale per una tracheotomia e che tale procedura non sia riportata in alcun papiro medico, vista la somiglianza della posizione del “paziente” con il simbolo Gardiner A13 (“prigioniero”), è stata proposta la teoria che si tratti di un sacrificio umano (reale o simulato).

Il simbolo Gardiner A13, il prigioniero inginocchiato con le braccia legate dietro le spalle

Ricordiamo che la pratica dei sacrifici umani terminò nel periodo Protodinastico – per chi volesse approfondire può trovare un dettagliato articolo di Giuseppe Esposito QUI – ed infatti non ci sono pervenuti finora altri esempi di “tracheotomia”.

In alternativa, alcuni studiosi ritengono che si tratti invece di un rituale magico per fornire al Faraone il “respiro della vita” nella cerimonia del giubileo “heb-sed” – ipotesi che però contrasta con la posizione delle braccia della persona raffigurata.

TRUCCHI DA IMBALSAMATORE

Da menzionare infine tutti i tentativi da parte degli imbalsamatori di “ricostruire” i corpi a loro affidati per renderli simili alle persone in vita – e che a volte sono stati scambiati per interventi in vita. Oltre ad alcune protesi dentarie (ma non tutte!) già viste, sono state trovate mummie a cui erano state aggiunte ossa lunghe alle gambe (Leiden, ma non era un innesto osseo, dovevano adattare la mummia al sarcofago!).

Da molto tempo si discute invece se gli antichi egizi usassero occhi artificiali per sostituire esteticamente quelli persi in battaglia o per una malattia, senza risultati conclusivi. Se è vero che il mito di Horus – che perde l’occhio sinistro nella battaglia con Seth, occhio magicamente ripristinato da Thot – farebbe immaginare che fosse possibile, non ci sono pervenute prove tangibili che fosse effettivamente stato realizzato se non come riempimento delle cavità orbitali delle mummie.

La mummia della regina Nodjmet (XXI Dinastia) con gli occhi artificiali applicati post mortem per rendere il viso il più possibile somigliante alla regina in vita

Da notare che l’occhio artificiale usato in vita più antico finora ritrovato appartiene ad una principessa mesopotamica e datato intorno al 2,800 BCE; quindi, sarebbe stato presumibilmente fattibile anche per i medici egizi. Dal V secolo BCE furono invece introdotti “occhi” in argilla dipinta, ma da indossare solo sopra l’orbita vuota.

Il primo occhio artificiale indossato in vita, ritrovato sul corpo di una principessa mesopotamica vissuta intorno al 2,800 BCE

Alcuni occhi in quarzo applicati alle statue (come quelli dello “Scriba seduto” del Louvre) e lavorati molto finemente – quasi delle lenti multifocali – hanno fatto pensare che fosse possibile nell’Egitto faraonico produrre tali lenti come ausilio esterno alla vista, ma sempre senza reperti giunti fino a noi.

L’effetto dello “sguardo che segue l’osservatore” dello scriba seduto conservato al Louvre, uno degli esempi più famosi di lavorazione del quarzo come lente dell’Antico Egitto.

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