Di Piero Cargnino

Succeduto al fratello Pianki, Shabaka Neferkara-Meriamon marciò verso nord e sconfisse definitivamente gli avversari completando così la conquista dell’Egitto lasciata incompleta, dal fratello. Manetone racconta che:
<<……..catturò Bocchoris e lo arse vivo…….>>.

Autoproclamatosi faraone legittimo, il primo vero “faraone nero”, Shabaka procedette alla restaurazione degli antichi culti, cosa che vedrà la completa realizzazione solo con la XXVI dinastia.

A Menfi tornò il culto di Ptah, venne redatto il “Testo di teologia menfita”, la più articolata cosmogonia della tradizione egizia.
Alla sorella di Shabaka, Shepenupet, fu assegnato il titolo di “Divina Sposa di Amon” mentre il figlio di Shabaka, Harmakis, assunse il titolo di “Primo Profeta di Amon” con valenza prettamente teologica.
Shabaka si dedicò presto alla politica estera con particolare riguardo verso l’Assiria che minacciava i confini egizi, senza indugi provvide ad inviare doni a Sargon II per accattivarselo ma visto che la cosa non funzionava si fece promotore di una coalizione di stati palestinesi che si trovavano nelle stesse condizioni dell’Egitto minacciati dagli assiri.

Shabaka rinforzò il suo esercito, ormai composto per la maggior parte di mercenari, col quale affrontò l’esercito assiro. Le sorti purtroppo non furono favorevoli alla coalizione che venne sconfitta nella battaglia di Raphia. Fortunatamente per l’Egitto l’Assiria era travagliata da problemi interni per cui Sargon II non ebbe modo di sfruttare la vittoria.

Riguardo alla durata del regno di Shabaka le fonti dissentono, la data più alta registrata è il 15º anno di regno, Manetone gli assegna 14 anni, mentre per i suoi epitomi, Giulio Sesto Africano, sarebbero solo otto, per Eusebio di Cesarea sarebbero dodici. Nonostante avesse posto la sua capitale a Menfi, sono state rilevate alcune testimonianze anche a Tebe, Karnak e Medinet Habu dove si trovano alcune sue cappelle.

Fu sepolto nella necropoli nubiana di El-Kurru. Verso la fine del 1700, il conte George John Spencer, primo Lord dell’Ammiragliato britannico, noto mecenate e cultore di letteratura dell’epoca entrò in possesso di una stele, realizzata intorno al 710 a.C. per ordine del faraone Shabaka, che contiene la copia di un testo molto più antico, il cui incipit risale a periodi di molto anteriori, (2780 – 2260 a.C.). Sfuggita alle varie ricerche archeologiche in quanto, in epoca post-faraonica, essa fu utilizzata dai contadini come pietra per mulino. Lord Spencer ne fece poi dono al British Museum di Londra nel 1805.
Chiamata comunemente “Pietra di Shabaka”, consiste in una stele di granito nero di forma rettangolare, leggermente smussata agli spigoli, di 1,37 x 0,92 m., ove sono riportate delle iscrizioni in corsivo geroglifico molto rovinate, in un’area ristretta al centro del reperto di cm. 132 x 69.

Essa riveste grande importanza soprattutto nell’ambito della storia del pensiero filosofico. In detto reperto vengono infatti esposti i principi della cosmogonia menfita incentrata sul concetto del nous e logos, principi che, come acutamente osservò l’archeologo e storico statunitense James Henry Breasted, rappresentano uno dei pilastri, delle fondamenta su cui poggia la speculazione filosofica dei grandi pensatori greci. Una prima pubblicazione dell’iscrizione fu fatta da S. Sharpe nel 1837, dopo di che la stele finì chiusa nei magazzini del British Museum come in una specie di dimenticatoio, vi rimase per circa un secolo senza destare particolare interesse da parte degli studiosi.

Sarà poi solo a fine 800 che Breasted intraprese lo studio dell’iscrizione in maniera approfondita che pubblicò col titolo “The Philosophy of a Memphite Priest”, Leipzig, 1901. L’iscrizione inizia con un prologo dove viene precisato che si tratta della copia di un documento molto più antico, trascritto sulla pietra per essere conservato. Dal linguaggio arcaico utilizzato si presume che la stesura del testo debba essere fatta risalire all’antico regno, nel quale vediamo l’affermarsi di tre importanti centri religiosi: Eliopoli, Menfi ed Ermopoli.

Onde evitare di tediarvi eviterò di descrivere le differenze tra le tre teologie, che i più già conosceranno, ma rimarrei nella descrizione dell’iscrizione della Pietra di Shabaka. Breasted elaborò una ricostruzione dei vari geroglifici tracciando un particolare disegno che ne facilitasse la lettura. La scrittura si snoda nell’iscrizione come segue: dapprima appaiono due linee orizzontali per l’intera lunghezza nella parte introduttiva, seguono poi 61 colonne a raggiera che si dipanano dal centro, oltre alla linea n. 48 di breve lunghezza. In tutto 64 tra linee e colonne. Lo scritto è composto da tre parti, nella prima, (linee 1 e 2), viene citato a ricordo dei posteri la volontà del sovrano Shabaka di far copiare una antica iscrizione, notevolmente rovinata a quell’epoca, nella quale erano tracciati i principi della Teologia Menfita. Dalle linee 3 a 47 incluse viene raccontata la storia della unificazione dell’Alto e Basso Egitto dove Geb, in un primo momento assegna a Seth il Basso Egitto e l’Alto Egitto a Horus, salvo poi assegnare, in un secondo tempo, l’intero paese a Horus ritenendo che, in quanto figlio del proprio figlio primogenito Osiris, ne avesse maggior diritto. Nella terza parte (dalla linea 48 alla colonna 64), quella più importante, vengono esposti i principi fondamentali della cosmogonia menfita.

Fonti e bibliografia:
- Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
- Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bologna, Bompiani, 2003
- Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
- Mario Menichetti, “Teologia menfita – La Pietra di Shabaka”, Gubbio 29 maggio 2007
- Joshua J. Bodine, “The Shabaka Stone”, Studia Antiqua, vol. 7, 2009
- Henry Breasted, “The Philosophy of a Memphite Priest”, Leipzig, 1901)