L'Egitto in altre culture

PAOLINA E ANUBI

Di Giuseppe Esposito

Sicuramente tutti ricorderete, anni fa (ma non è che il fenomeno sia poi relegato ai soli tempi andati), una famosa urlatrice televisiva che distribuiva numeri al lotto per la modica somma di trecentomila lire (chissà perché, se era così brava a indovinarli, non se li giocava lei).

Se i numeri non uscivano, però, era chiaro che al malcapitato qualcuno aveva scagliato un anatema, lanciata una “fattura”, e il malocchio regnava sovrano. Niente paura, reclamizzava l’urlatrice, bastava investire altre somme, che potevano arrivare nel tempo addirittura a centinaia di milioni di lire (una vittima parlò di oltre 250milioni), per superare il brutto momento. Per sapere se tutto si era risolto, veniva tuttavia fornita (bontà sua gratis) una busta di sale con cui svolgere rituali magici. E se la sfortuna perseguitava ancora il malcapitato, era ovviamente proprio colpa di un errore nel rituale del sale o nella potenza della fattura.

Perché questa premessa? Se si considera che la Guardia di Finanza valutò il patrimonio raccolto dalla teleimbonitrice in oltre sessanta miliardi di allora, si capirà perché sarebbe stato davvero una manna se fosse esistito ancora il blachennomio; un nome che mette soggezione e fa anche un po’ paura, e bene sarebbe se facesse ancora più paura, visto che era la “tassa sulla stupidità” (Βλακεννόμιον τέλος: da blax = stupido e nòmos = legge) che esisteva presso i greci e che doveva essere pagata da indovini e maghi che si arricchivano proprio sulla semplicità, o stupidità, di chi a loro si rivolgeva.

ISIDE A ROMA

Vi starete chiedendo, come al solito, che c’entra questo incipit con l’argomento di cui mi accingo a scrivere. Un po’ di pazienza e un altro piccolo inciso sul culto di Iside a Roma.

Il suo maggior tempio era l’Iseo Campense, così detto perché si trovava in Campo Marzio[1], nei pressi del Pantheon, e in cui si veneravano Iside e il suo sposo Serapide.

Era, quest’ultimo, un Dio greco-egizio, ma secondo alcuni di origine babilonese[2], il cui culto era stato introdotto in Egitto, e segnatamente ad Alessandria, dai Tolomei con l’intento di creare una simbiosi divina accettabile dalle componenti multietniche e multireligiose che convivevano nella Capitale della Dinastia egizia-macedone.

Così, Serapide (contrazione dei nomi Osiris e Apis) presentava i caratteri di un classico Dio greco (e in particolare di Zeus, visto che era “barbato” e normalmente sedeva su un trono), ma recava sul capo un “modio” ovvero un antico recipiente usato come unità di misura per il frumento che lo associava perciò alle divinità della fertilità egizie. Ma i greci fecero ancor di più, per non inimicarsi nessuno fecero poggiare una mano del Dio su una delle tre teste del cane Cerbero, che gli sedeva ai piedi, così connotandolo come divinità ctonia e, d’aggiunta, gli assegnarono attributi tipici di Asclepio, il Dio della medicina. C’è da dire che Serapide non fu, però, mai accettato appieno come divinità dagli egizi se non perché imposto quale sposo di Iside; fu così che a lei, e non a Serapide, venne intitolato il massimo Iseo romano.

Dopo la spartizione dell’Impero di Alessandro Magno, a Iside venne perciò assegnato, come abbiamo già sopra visto, uno sposo nel Dio Serapide; considerata anche la Dea delle acque e del mare, a lei fu inoltre dedicato un enorme tempio sull’isola di Delo[3], crocevia delle rotte commerciali nel Mediterraneo, ove facevano scalo molti dei convogli mercantili provenienti o diretti in Italia. Fu così che Iside giunse a Pompei ove, nella zona dei Teatri e nei pressi della Palestra Sannitica, le fu dedicato un tempio (qui accanto la relativa planimetria).

Particolarmente devoti alla Dea furono, e per questo in origine il culto fu avversato dalla nobiltà, schiavi e liberti che ne fecero giungere il culto a Roma[4] ove, nel I secolo a.C., Publio Cecilio Metello Pio, fece erigere a proprie spese il primo Iseo che da lui prese il nome “Metellium”.

Nel 43 a.C., a un anno dalla morte di Cesare, i Triumviri Marco Antonio, Lepido e Ottaviano (il futuro Augusto), proprio per ingraziarsi la plebe, fecero costruire l’Iseo Campense.

Alla Dea furono particolarmente devoti Nerone e Caligola, mentre Tiberio, e siamo così giunti al vero motivo di quest’articolo, a seguito di uno scandalo decisamente scabroso, avrebbe fatto distruggere il tempio, gettare nel Tevere la statua della Dea e addirittura crocifiggerne i sacerdoti.

È perciò arrivato il momento di raccontare la vergognosa storia di…

PAOLINA e ANUBI

Siamo a Roma, il tempio di Iside in Campo Marzio è avvolto nell’oscurità e tutto è deserto e silenzioso, o quasi… già perché qualcuno si muove alla fioca luce delle poche fiaccole… l’ombra tremolante che proietta sulle pareti sembra appartenere a un essere mostruoso, sul corpo da uomo, infatti, si erge una testa di sciacallo: Anubi scivolando rasente ai muri, furtivamente si avvicina alla cappella ove sa che, ad attenderlo, c’è la bella e devota Paolina… la moglie di Saturnino

Ma andiamo con ordine.

Racconta Giuseppe Flavio (37-100 d.C.), ma il tutto è confermato da Svetonio (69-422 d.C.) e Tacito (55-120 d.C.), che Paolina, moglie fedele di Saturnino, era insidiata insistentemente dal Cavaliere Decio Mundo[5] che era giunto a offrirle duecentomila dracme per una notte d’amore ottenendo però un netto rifiuto. Tanto era la fiammeggiante passione provata per la casta nobildonna[6], che Decio decise di lasciarsi morir di fame[7]. Per fortuna Decio aveva, per amica e confidente, Ida «… esperta in ogni genere di malvagità…» (“Antichità Giudaiche”, XVIII, 69) che ottenne da Decio cinquantamila dracme per aiutarlo a ottenere i favori di Paolina.

«…ma la donna si avvide poi che quella signora non si poteva prendere con i denari e così non si attenne alla strada che aveva concertato. Conoscendo la grande devozione che aveva verso Iside, Ida macchinò un altro stratagemma…» (XVIII, 70)

Fu così che la furbastra riuscì a convincere alcuno sacerdoti della Dea e

«… promise loro la sicurezza e soprattutto diede subito venticinquemila dracme, ne promise altre venticinquemila una volta riuscito l’inganno…» (XVIII,71).

Il più anziano dei sacerdoti di Iside riferì allora alla nobildonna che Anubi in persona si era innamorato di lei e aveva chiesto «… la comunione del letto…» (XVIII, 73). La povera donna, avvertito il marito delle divine corna che avrebbe dovuto portare, e gli amici dell’alto onore concessole, si recò perciò all’Iseo Campense ove “si giacque” con Anubi

«…dopo la cena, quando giunse il tempo per dormire, le porte del tempio furono chiuse dai sacerdoti e le lampade vennero spente. Mundo, che fino allora era stato nascosto, non fu respinto e ottenne la comunione con lei…» (XVIII, 74).

Paolina, orgogliosa di essere stata scelta da un Dio, ne rese edotto il marito e se ne vantò con le amiche. Diciamo pure che forse tutto sarebbe filato liscio se Decio Mundo, il latin lover, e mai epiteto fu più azzeccato, non avesse pensato di gloriarsi della sua vittoria proprio con Paolina: «Due giorni dopo il fatto, Mundo l’incontrò e le disse:

“Paolina, tu mi hai fatto risparmiare duecentomila dracme[8], che avresti potuto aggiungere ai tuoi averi, e hai ancora portato alla perfezione il servizio che io desideravo compiere. Quanto alla tua voglia di burlare Mundo, io non m’interesso dei nomi, tuttavia per il piacere che mi è derivato dall’atto, ho adottato il nome di Anubi”. E con queste parole se ne andò.» (XVIII, 77).   

Arrabbiatissima, ferita e desolata, Paolina raccontò tutto al devoto (e cornuto) marito che, a sua volta, si rivolse addirittura all’Imperatore. Questi, fatta svolgere un’indagine e accertata la sussistenza del misfatto a carico dell’ignara matrona «…fece crocifiggere tutti e due (i sacerdoti di Iside), e Ida…. Indi abbatté il tempio e ordinò che la statua di Iside fosse gettata nel Tevere…» (XVIII, 79). Mundo se la cavò con l’esilio «… giudicando che avesse peccato per la violenza della passione…» (XVIII. 80).

Fin qui lo scabroso e boccaccesco racconto di Flavio Giuseppe da cui è desumibile che il “fattaccio” sarebbe avvenuto intorno al 19 d.C. ma…

Eh già! …come prevedibile, c’è un “ma”: l’episodio è, infatti, considerato un’interpolazione tarda (forse addirittura medievale) nell’opera di Flavio Giuseppe; inserita dai trascrittori cristiani (e non dimentichiamo che tutte le opere pervenuteci erano copiate nei monasteri), forse, per screditare gli adoratori degli Dei egizi e di Iside, in particolare, la cui figura, in atto di allattare Horus, era, ed è, ritenuta alla base dell’iconografia mariana della Vergine che allatta il Bambino.

Il racconto “piccante”, come visto, compare nelle “Antichità Giudaiche” e, in particolare, nel libro XVIII (paragrafi 65-84) che narra gli eventi compresi fra l’anno 6 (censimento di Quirino e probabile periodo di nascita di Cristo) e il 41 d.C. (morte di Caligola), in cui si colloca, peraltro, la gestione del Procuratore di Giudea Ponzio Pilato. Anche in questo, peraltro, si potrebbe individuare quanto sopra ipotizzato, e cioè un desiderio di sminuire il culto pagano di Iside affiancandolo, in qualche modo, alla condanna di Cristo.

L’episodio in se, tuttavia, va dal paragrafo 66 all’80, ma che si tratti di un’interpolazione lo si può dedurre, in special modo, intanto dal paragrafo 65 in cui si legge:

«Nello stesso periodo un altro orribile evento gettò lo scompiglio tra i Giudei e contemporaneamente avvennero azioni di natura scandalosa in connessione al tempio di Iside in Roma. Prima farò parola dell’eccesso dei seguaci di Iside, tornerò poi in seguito alle cose avvenute ai Giudei.».

Il racconto principale, e verosimilmente quello originale e non manipolato, sembra chiaramente essere quello relativo a quanto sarebbe avvenuto di orribile, tanto da gettare scompiglio tra i Giudei di Roma, e l’interpolazione strumentale sarà ancora più evidente proprio al paragrafo 80, quello con cui si conclude la storia di Paolina e Decio Mundo, in cui il sedicente Flavio Giuseppe ritorna al racconto principale: « Ora ritorno a narrare la storia che ho promesso di raccontare su ciò che accadde ai Giudei in Roma…».

Nonostante la gravità dei fatti narrati inerenti la comunità ebraica, come vedremo, si tratta, fondamentalmente, di una narrazione brevissima (a fronte della vicenda di Paolina che occupa quattordici paragrafi) che si snoda in soli quattro paragrafi da 81 a 84. Si legge, infatti, che un Giudeo, fuggitivo dalla propria terra perché, diremmo oggi, ricercato dalla giustizia, risiedeva a Roma.

«… Costui arruolò tre mascalzoni suoi pari; e allorché Fulvia, una matrona d’alto rango, diventata una proselita giudea, incominciò a incontrarsi regolarmente con loro, la incitarono a inviare porpora e oro al tempio di Gerusalemme. Essi, però, prendevano i doni e se ne servivano per le proprie spese personali, poiché fin dall’inizio questa era la loro intenzione nel chiedere doni…» (XVIII, 82).

Sappiamo, perciò che la matrona d’alto rango si chiama Fulvia; ma, trattandosi di un’altra storia, ben potrebbe essere diverso il nome che non Paolina. Peccato che subito dopo, al paragrafo 83, si legga: « Quando Tiberio seppe questo da Saturnino, marito di Fulvia, investigò e ordinò che tutti i giudei fossero banditi da Roma…» e, al successivo 84: « I consoli redassero un elenco di quattromila di questi Giudei per il servizio militare e li inviarono nell’isola di Sardegna; ma ne penalizzarono molti di più, che per timore di infrangere la legge giudaica, rifiutavano il servizio militare. E così per la malvagità di quattro persone, i Giudei furono espulsi dalla città…».

Ci troviamo perciò, fondamentalmente, dinanzi a una truffa: danaro richiesto per beneficienza e invece sottratto per interessi privati (proprio vero che la storia non cambia mai) ed è noto che un provvedimento di espulsione dei Giudei da Roma, sotto Tiberio, si ebbe tra il 26 e il 36 d.C.

A questo si aggiunga che, poiché il lavoro di Flavio Giuseppe è incentrato sulle “Antichità Giudaiche”, il racconto di Paolina e Decio Mundo non sembra avere alcuna giustificazione, ma apparirebbe solo una sorta di pettegolezzo decisamente scollegato e con nessun riferimento al titolo del testo.

Tacito, negli “Annales” (2.85.4), riporta un provvedimento di espulsione dei Giudei da Roma, che corrisponderebbe a quello citato da Flavio Giuseppe, ma lo colloca, nel 19 d.C., anno della morte di Giulio Cesare Germanico:

«…Si discusse anche sull’opportunità di sopprimere i culti egiziani e giudaici e per decreto del senato quattromila liberti contaminati da quelle credenze superstiziose e in età di portare le armi furono trasferiti in Sardegna per reprimervi il brigantaggio. E si riteneva che, se vi fossero morti per l’insalubrità del clima, sarebbe stata una perdita di poco conto. Tutti gli altri seguaci di quei culti dovevano lasciare l’Italia a meno che, entro una data stabilita, avessero rinunciato ai loro riti profani…».

Il racconto di quello che possiamo, a tal punto, definire pseudo Giuseppe Flavio, invece, sembra potersi attestare al periodo in cui Pilato fu Procuratore di Giudea, ovvero tra il 26 e il 36. E l’argomento, relativo al rapporto tra il potere di Roma e i Giudei, potrebbe ancora svilupparsi, ma quel che qui c’interessa, nella frase di Tacito sopra riportata, è l’affiancamento, e la sovrapposizione, tra “i culti egizi e giudaici” quasi che l’autore, e il sentire comune dell’epoca, non facesse differenza tra le due religioni e le due culture.

Ci si chiede, perciò, se il cristianesimo delle origini possa essere stato considerato una superstizione giudaico-egiziana ovvero una derivazione degli antichi culti egizi. Non dimentichiamo, tuttavia, che nel Vangelo di Matteo, quello della nostra infanzia, si narra proprio della “fuga in Egitto” (Matteo, 13-15), quando Giuseppe, Maria e il Bambino fuggirono proprio in quel Paese, e di certo non poche sono le similitudini tra il culto cristiano e gli antichi culti egizi. A una abbiamo già sopra accennato, facendo riferimento alla Iside che allatta Horus, come molto probabile archetipo da cui è derivata la stessa immagine della Madonna che allatta Gesù.

Dovremmo poi soffermarci sul Talmud Babilonese[9] che vuole che in Egitto abbia avuto luogo l’iniziazione di Gesù, e la preparazione per il compimento dei miracoli (Sanhedrin, 107b). Ma se scendessimo in questa problematica dovremmo ampliare il nostro discorso a una congerie di autori latini, primo tra tutti il cosiddetto pseudo-Egesippo[10], che in una traduzione in latino del “Bellum Iudaicum”, la “Guerra Giudaica”, di Flavio Giuseppe, inserisce alcuni brani delle “Antichità Giudaiche” (il c.d. “Testimonium Flavianum”) in cui, tra l’altro, narra proprio dell’episodio di Faustina e Anubi.

Ma, come intuibile, un tale discorso ci porterebbe decisamente molto lontani dall’argomento originale di quest’articolo e verso studi e approfondimenti che poco o nulla hanno a che vedere con l’Egitto Antico.

Roma, 08/03/2023

Giuseppe Esposito           


[1]    Il Campo era dedicato al Dio Marte, da cui il nome, e qui si svolgevano gli addestramenti e le esercitazioni militari. Tale era l’importanza del luogo poiché si riteneva che proprio qui il primo Re di Roma, Romolo, avrebbe ucciso il gemello Remo poiché aveva attraversato in armi il confine tracciato. Ancora da qui Romolo sarebbe poi assurto al cielo. Poiché il Campo Marzio era al di fuori del recinto sacro del Pomerio, il confine della città che non poteva essere attraversato in armi, qui venivano ammessi gli Ambasciatori di paesi stranieri e qui venivano eretti i templi delle divinità straniere.

[2]     Forse derivante dalla divinità babilonese Sar-Apsi, “Signore degli Abissi”, cui i generali macedoni si erano rivolti, a Babilonia, per tentare di salvare Alessandro Magno. Più avanti, con l’avvento del cristianesimo, per qualche oscuro motivo Serapide fu associato anche a tale religione tanto che nella “Historia Augusta”, di autore/i ignoto/i forse composta durante il regno di Teodosio I, in una lettera attribuita all’Imperatore Adriano e diretta a Minucio Fundano, Pro-console d’Africa nel 125, si legge tra l’altro, a proposito dei cristiani d’Egitto: “…laggiù gli adoratori di Serapide sono cristiani, e quelli che si dicono vescovi dei cristiani sono devoti a Serapide… lo stesso patriarca d’Egitto per accontentare tutti è costretto ad adorare ora Cristo, ora Serapide…

[3]    Tempio di Iside a Delo in cui si venerava la triade Iside, Serapide, Anubi

[4]     Un divieto di Cesare proibiva il culto isiaco all’interno del Pomerio, il confine sacro di Roma, forse per tale motivo in età tardo Repubblicana (nel 43 a.C.) venne realizzato un primo nucleo del Tempio dedicato ad Iside nel Campo Marzio non escludendo che un canale che lo attraversava, l’Euripo, e che raggiungeva il Tevere, potesse essere considerato un sostituto del Nilo. Il culto era così radicato che non pochi furono gli Imperatori che intervennero nei decenni, e secoli, successivi per restaurare ed abbellire il tempio (restauri sotto Adriano, Commodo e Caracalla). L’Iseo cadde in disuso solo a partire dal IV secolo, dopo l’editto di Teodosio, o di Tessalonica, del 380 e la distruzione dell’Iseo di Alessandria.

[5]    Flavio Giuseppe: Antichità Giudaiche, XVIII , 67: «…Decio Mundo, persona distinta dell’ordine equestre si invaghì di lei…» tanto che «… in lui crebbe sempre più la passione fino a prometterle duecento dracme attiche purché per una sola volta potesse condividere il letto di lei…». Non è possibile fare un parallelismo con il valore attuale, ma si consideri che una dracma, in periodo attico, corrispondeva a 4,36 g d’argento.

[6]    Flavio Giuseppe: Antichità Giudaiche, XVIII , 67: «…non era donna che si lasciasse vincere da donativi, anzi non si curava dei moltissimi doni che le aveva mandato…»

[7]    Flavio Giuseppe: Antichità Giudaiche, XVIII , 68: « pensò che era meglio finire la vita d’inedia, a motivo del male che lei gli faceva soffrire…»

[8]    Al valore sopra indicato (nota 5) di 4,36 g d’argento per dracma, si può considerare che 200mila dracme corrispondessero a circa 872mila g (ovvero oltre 87 kg) di metallo prezioso il che, al prezzo medio di mercato di marzo 2023 di 0,46 €/g, sarebbe pari a ben 401.120 €.

[9]    Talmud= insegnamento, studio, riflessione; il Talmud Babilonese ( o Bavlì) è, con il più antico Talmud di Gerusalemme (o Yerushalmi), uno dei testi sacri dell’ebraismo. L’intero Talmud è composto da oltre seimila pagine ed è scritto in “ebraico tannaitico” e “aramaico giudaico babilonese”.

[10] Pseudo-Egesippo: il nome nasconderebbe un effettivo autore identificato, a seconda degli studi, in Sofronio Eusebio Gerolamo (San Gerolamo 347-420), padre e dottore delle chiesa; Aurelio Ambrogio, o Ambrogio da Treviri (Sant’Ambrogio 339-397), dottore della chiesa d’Occidente; o Tirannio Rufino, o Rufino d’Aquileia (345-411) teologo e storico.

L'Egitto in altre culture

CENERENTOLA E RADOPIS

A cura di Giuseppe Esposito

Quando ho pensato di scrivere questo articolo ero convinto che sarebbe stata una passeggiata, «che ci vuole…», mi sono detto, «…a scrivere qualcosa di un’antica favola?». Ma tra il dire e il fare qualche volta c’è di mezzo… il Nilo (tanto per restare in tema).

Mi sarei potuto limitare a raccontare la storiella (come ho visto in tanti altri siti), senza riferimenti, solo per raccontare questo gossip di 2500 anni fa, che ancora si riverbera in tempi moderni, ma, come ormai avrete capito leggendo altri miei interventi, non è il mio stile poiché rispetto troppo chi legge i miei articoli e cerco, sempre, di metterlo nelle migliori condizioni di verificare che non “vendo tappeti”… e allora eccoci a parlare di quest’antica storia, trasformatasi in fiaba, per grandi e piccini… Buona lettura e, visto che quasi ci siamo, Buon Natale!

CENERENTOLA

Boongggg! «…otto… ancora quattro rintocchi alla mezzanotte… debbo andare…”, “…aspetta, resta ancora…», «…non posso anche se vorrei…, non posso…» e, con il cuore in gola, era già sullo scalone del Palazzo, inseguita dal Principe… un lieve inciampo e una scarpa persa, ma non poteva certo fermarsi a recuperarla… Boonggg! Era l’undicesimo e doveva correre… ma il giorno dopo Asso di Bastoni, l’araldo del re, iniziò a percorrere le strade basolate di Napoli e a narrare il Cunto

«…Aieressera a palazzo riale s’è perza na chianella ‘mmiez’ ‘e scale![1]», e le lavandaie spettegolavano sulla misteriosa fanciulla «penzate a cchella c’ha perzo ‘sta scarpa! Na corz’all’alba cu ‘e guardie appriesso e ‘o core ‘nganna p’ ‘a paura![2]», e ancora «…chella parev’ ‘a Maronna![3]».

Forse l’inizio vi ha un po’ spiazzato, e vi state chiedendo quale sia, in realtà, l’argomento di quest’articolo in un sito di egittologia… cerchiamo perciò, intanto, di mettere un po’ d’ordine: l’inizio è di certo il più noto poiché è una libera rivisitazione della parte finale della fiaba di Cenerentola, secondo le versioni di Perrault[4] e dei fratelli Grimm[5]; più difficile sarà stato, forse, individuare la parte in napoletano che ho tratto dalla “favola in musica in tre atti” di Roberto De Simone[6]La Gatta Cenerentola[7]”, decisamente più aderente, anche nel titolo, alla originale versione di Giovan Battista Basile[8]. Un ulteriore problema credo lo ponga l’accenno mistico/religioso alla Madonna, ma anche qui, rifacendoci alla tradizione popolare napoletana, esiste un suo perché. Narra, infatti, una delle versioni, che ogni sera, la Madonna portava il Bambino a passeggiare sulla spiaggia di Mergellina, ma una sera perse una scarpa, o meglio, una “pianella”. Questa, rinvenuta dai devoti, venne custodita dapprima in una piccola cappella, poi trasformatasi nella Chiesa di Piedigrotta[9].

La chiesa di Piedigrotta a Napoli

NEL TEMPO E NEL MONDO

Ok, sono certo che vi state ancora chiedendo dove voglio arrivare, ancora un po’ di pazienza… come al solito la prendo alla larga con la mia mania di scivolare tra le pieghe del tempo per raggiungere il nocciolo della questione… e questa volta, oltre al tempo, vi costringerò a scivolare brevemente anche nello spazio poiché risale al IX secolo il racconto cinese di Yen Xian che, tuttavia, potrebbe aggiungere alla nostra eroina “moderna” una giustificazione, relativa alle dimensioni del piede, che, altrimenti, non avrebbe logica secondo la nostra cultura: Yen Xian, infatti, è nota, in tutta la Cina, per avere i piedi più piccoli, ed eleganti, dell’Impero[10]. E ancora, potremmo fare riferimento alla fiaba africana di “Natiki[11], o a quella persiana de “Il vasetto magico[12], passando per la danese “Il Cavaliere Verde”, per arrivare, escludendo le più moderne teatrali, o cinematografiche, a oltre 300 versioni (c’è chi porta il numero addirittura a 1500).

Tutte, però, avrebbero una fiaba capostipite, quella di Radopis.

RADOPIS

Purtroppo, di questa fiaba, o storia, considerata l’archetipo di quella della nostra Cenerentola, non ci è pervenuta alcuna menzione diretta e ne conosciamo l’esistenza solo perché riportata da autori relativamente “moderni” tra questi, come al solito, la palma del primo va assegnata, sia pure indirettamente, a Erodoto[13]. Narrando della piramide di Micerino, infatti, l’autore contesta il racconto, a lui riferito, relativo alla costruzione della piramide stessa. La narrazione dei suoi “intervistati”, infatti, prevede che si tratti della piramide fatta costruire dalla cortigiana “Radopis” (“Viso di Rosa”), ma è lo stesso autore, scettico, che specifica (“Storie”, Libro II, 134):

«…parlano senza neppure sapere chi era Rodopis, altrimenti non potrebbero attribuirle la costruzione di una piramide come quella che costa migliaia di talenti, una cifra per così dire incalcolabile…»

E, più avanti:

«…inoltre Rodopis godette il massimo splendore all’epoca del re Amasi e non sotto il regno di Micerino, vale a dire parecchi anni dopo i re che lasciarono queste piramidi; Rodopis era di stirpe tracia, schiava di Iadmone di Samo, figlio di Efestopoli, e compagna di schiavitù di Esopo[14], il favolista…»

E così abbiamo intanto inquadrato il periodo storico in cui si sarebbe svolta la storia della bellissima etera Radopis, o Radopi, o Rodopi, ma anche Rhadopis: non al tempo di Micerino, cioè nella IV dinastia (circa 2500 a.C.), bensì non solo “parecchi anni”, ma svariate decine di secoli dopo, sotto il re Amasi[15], della XXVI dinastia (circa 530 a.C.). La nota di Erodoto, relativa alla piramide di Micerino e che comprende la storia di Radopi, prosegue nel paragrafo successivo, il 135 delle sue “Storie”, libro II:

«…Rodopis giunse in Egitto al seguito di Xanto di Samo, vi giunse per esercitarvi l’antica professione, e vi fu riscattata per una somma enorme da un uomo di Mitilene, Carasso, figlio di Scamandronimo e fratello della poetessa Saffo.»

Per conoscere, tuttavia, la storia di Radopis dobbiamo rifarci ad altri scrittori come Strabone[16] che, nel libro XVII della sua “Geografia”, al capitolo 33, sempre a proposito delle piramidi di Giza, scrive che due sono annoverate tra le Sette Meraviglie del Mondo, mentre una terza (in realtà quella di Micerino) è nota come:

«…“Tomba della Cortigiana” essendo stata costruita per la sua amante –la cortigiana chiamata dalla poetessa melica Saffo, Doricha[17], amata da suo fratello Charaxus [il Carasso ereodoteo] impegnato nel trasporto di vini di Lesbo a Naucratis per la vendita- ma altri danno di lei il nome Rhodopis[18]. …»

E, più avanti:

«…Di lei si racconta la storia favolosa che, mentre si bagnava [nel fiume], un’aquila s’impossessò di uno dei suoi sandali trasportandolo a Menfi. Mentre il re stava amministrando la giustizia nella corte aperta, l’aquila, fece cadere il sandalo nel suo grembo.

Il re, colpito dalla bella forma armoniosa del calzare e dalla stranezza dell’accaduto, inviò uomini in tutte le direzioni nel Paese alla ricerca della donna proprietaria del sandalo; quando fu trovata, a Naucratis, venne accompagnata a Menfi e divenne la sposa del re. Alla sua morte venne onorata con la tomba sopra detta…»

La storia, divenuta ormai famosa, venne ripresa anche da Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Historia” in cui, dopo aver trattato delle piramidi più importanti, aggiunge:

«…Queste sono le tanto meravigliose piramidi; e questa è maraviglia maggiore, acciocchè alcuno non si meravigli delle ricchezze dei re, che la minima d’esse, ma però la più bella, fu fatta da Rodope meritrice. Questa fu già serva, insieme con Esopo filosofo scrittor di fovole [sic], e abitava in una medesima casa; ma la maggior meraviglia di tutte è, che ella acquistasse tante facoltà con l’arte sua.» [19]

Anche Claudio Eliano[20], detto il “meliglosso”, ovvero “dalla voce mielata”, studioso di filosofia, si appassionò, principalmente a quella greca e a quella egizia, da cui ricavò la conoscenza della fiaba di Rodope narrata in una delle sue “Varia Historia”:

«Dicesi che Rodope fu meretrice egizia, di rara beltà. Stando costei una volta in sul lavarsi, la fortuna, la quale ama di operare cose strane ed inaspettate, le procacciò un’avventura ben degna, non già della sua condizione, ma di sua bellezza.

Imperocchè mentre essa si lavava e le fantesche custodivano le sue vesti, un’aquila ivi volatasi, rapì uno de’ suoi calzari, e ecco portandolo in Memfi, il depose in seno di Psammetico nel punto ch’ei teneva ragione. Avendone egli ammirato l’aggiustezza e la perfezione del lavoro ed insieme il fatto dell’uccello, comandò che per tutto l’Egitto si facesse diligente ricerca della donna di cui era quel calzare, ed avendola ritrovata, se la prese per moglie.»[21]

In questo caso, colpisce che il faraone toccato da tanta beltà non sia Amasi, come nella versione di Eliano, bensì Psammetico, ma è bene tener presente che, nella XXVI dinastia, successore di Amasi fu, appunto, Psammetico III[22].

Una vaga eco della storia, si potrebbe ravvisare anche in quella che viene considerata la più antica fiaba scritta tra quelle che si conoscano e che risale al XIII secolo a.C.: “la fiaba di Anup e Bata” o “dei due fratelli”. In questo caso, l’oggetto che suscita nel Re il desiderio di ricerca della donna da amare è una lunga treccia di capelli o, per meglio dire, il profumo da questa emanata[23].

Potremmo ancora proseguire e, come abbiamo sopra già accennato, venendo sempre più avanti nei secoli e nei millenni, giungere all’edulcorata fiaba narrata da Walt Disney, nel suo film del 1950, o nel pluritrasmesso (sinceramente ai limiti della noia) “Pretty Woman”, del 1990, ma quel che appare oggi di sconcertante attualità è, intanto, la sottolineatura del riscatto da una posizione inferiore, o addirittura infima di schiavitù, a quella di regina e, ancor più, il fatto che si tratti di…un’immigrata; si rammenterà, infatti, che già Erodoto la indica come “di stirpe tracia”.

Ma credo ora giunto il momento di terminare e che sia giusto lasciare ad Asso di Bastoni, filo conduttore della “Gatta Cenerentola”[24], il compito di chiudere questo articolo:

«… e mmò sunat’ ‘e campane,

sparate ‘o cannone,

ca chesta è ‘a riggina d’ ‘a pupulazione!»

15/12/2021


[1]    Roberto De Simone, “La Gatta Cenerentola”, 1977, Einaudi, p. 97.

[2]    Roberto De Simone, citato, p. 75.

[3]    Roberto De Simone, citato, p. 78.

[4]    Charles Perrault (1628-1703), autore de “Histoires ou contes du temps passé, avec des moralités”, noto anche con il titolo di “Contes de ma mère l’Oye” (Racconti di mamma Oca), del 1695. Il libro conteneva, originariamente, otto fiabe (tra cui “Cappuccetto Rosso”, “Il gatto con gli stivali” e “Cenerentola”). Perrault si rifece, per le sue fiabe, a quelle del “Pentamerone”, meglio noto come “Lo Cunto de li Cunti” di Giovan Battista Basile sfrondandole, tuttavia, delle parti più violente, oppure oscene, inserendo una morale che non sempre è esplicita nell’opera originaria e adattandole a un pubblico adulto e aristocratico. A lui si deve, nella fiaba di Cenerentola appunto, l’“invenzione” delle scarpette di cristallo da allora sempre utilizzata in tutte le trascrizioni e trasposizioni della fiaba. Per inciso, nella fiaba di Perrault, Cenerentola perdona le sorellastre e, portatele a Palazzo, le fa sposare con nobili cavalieri.

[5]    Jacob Ludwig (1785-1863) e Wilhelm Karl Grimm (1786-1859), linguisti e filologi, raccolsero fiabe della tradizione tedesca (“Fiabe del focolare”) e delle saghe germaniche in genere (“Deutsche Sagen”). Tra le altre fiabe, talvolta edulcorate e altre invece particolarmente cruente, era anche “Cenerentola” (titolo originale “Aschenputtel”), ed è noto che, nella biblioteca dei fratelli Grimm, esistessero sia “Lo Cunto de li Cunti” del Basile, sia la raccolta di fiabe di Perrault da cui, evidentemente, la fiaba è stata “copiata” e adattata. Per inciso, la fine della fiaba dei Grimm è alquanto cruenta giacché Cenerentola, in realtà una strega a sua volta, per vendicarsi delle vessazioni subite dalle sorellastre, durante la celebrazione del matrimonio con il Principe, chiama due magici colombi che strappano loro gli occhi costringendole a mendicare.

[6]    Roberto De Simone (1933), musicista, compositore, musicologo, regista teatrale, già direttore del Teatro San Carlo di Napoli e, “per chiara fama”, del Conservatorio San Pietro a Majella della stesa Città. Tra le altre opere, oltre “la Gatta Cenerentola”, si rammentano “Eleonora, Oratorio drammatico” (del 1999), incentrato sulla figura di Eleonora Pimentel Fonseca e sulla Repubblica Napoletana del 1799, e la “Messa di Requiem in onore di Pier Paolo Pasolini.  

[7]    Presentata al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1976 con attori/cantanti come Peppe Barra, Isa Danieli, Concetta Barra, Antonella d’Agostino, Fausta Vetere, Giovanni Mauriello. La versione registrata è stata inserita da “Rolling Stone” tra i “100 dischi italiani più belli di sempre”.

[8]    Giovan Battista Basile (1566-1632), funzionario pubblico, letterato e scrittore. Con il “Pentamerone”, meglio noto come “Lo Cunto de Li Cunti, overo lo trattenemiento de peccerille” del 1634, fu il primo a sfruttare la fiaba come espressione popolare. Benché considerabile come “capostipite” della moderna fiaba, con la sua “Gatta Cenerentola”, in realtà anch’egli attinse alla favolistica orale più antica. Per completezza, in questo caso non esiste alcuna “fata”, ma lo strumento delle magie è un alberello di “dattero fatato” portato in regalo a Zezolla, questo il nome della “Gatta Cenerentola”, ovvero sporca di cenere come una gatta che sta sempre vicino al focolare, dal padre al rientro da un avventuroso viaggio in Sardegna.   

[9]    Chiesa di Santa Maria di Piedigrotta, dedicata alla Natività di Maria, risale al 1352-53 sul sito di una antica chiesa del V secolo, cui si era sovrapposta una chiesa bizantina dedicata alla Madonna Odigitria, a sua volta, ancora, sovrastante un tempio citato, peraltro, nel “Satyricon” di Petronio Arbitro, dedicato a Priapo.

[10] Il riferimento è all’antica e dolorosa usanza, detta del “loto d’oro”, risalente alla Dinastia Song (960-1279) e proseguita fino al XX secolo, di fasciare strettamente i piedi delle donne fino a deformarli per ottenere un’andatura molto particolare e considerata molto attraente. I piedi erano fasciati talmente stretti, e così a lungo durante la crescita, che, deformati, raggiungevano misure anche tra i 7 e i 12 centimetri.   

[11] Narrata anche da Nelson Mandela nel suo “Le mie fiabe africane” del 2004.

[12] In questo caso l’oggetto che permette il matrimonio tra il principe e la fanciulla, non è una scarpetta bensì un braccialetto di diamanti magicamente fornitole da un “vasetto magico” acquistato al mercato.

[13] Erodoto (484-525 a.C.) : “Storie”, libro II, 134-135.

[14] Esopo (620-564 a.C.), favolista greco. Poco o niente si conosce delle sue origini; secondo alcune ipotesi sarebbe stato originario di Menebria (attuale Nesebar in Ungheria), nell’antica Tracia (il che giustificherebbe la conoscenza di Radopis, a sua volta tracia), ma si ipotizza anche una provenienza dall’Egitto, da Atene, da Samo o dall’Africa subsahariana considerando “esopo” come una differente trascrizione del termine “etiope” con cui i greci indicavano tutti gli abitanti dell’Africa meridionale. Tale ipotesi viene inoltre suffragata dalla presenza, in alcune sue favole, di animali africani tipici, non presenti in Europa. Giunto in Grecia come schiavo di tale Xanthos, o di Iadmone (come indicato da Erodoto), originario di Samo, sarebbe stato condannato a morte a Delfi per suoi discorsi e interventi politici non graditi al potere.

[15] Amasi (586-526 a.C.), noto anche come Ahmose II per non confonderlo con il re omonimo fondatore della XVIII dinastia. Anche in questo caso, le notizie maggiori sul regno di tale sovrano si debbono a Erodoto.

[16] Strabone (prima del 60 a.C. – 20/24 d.C.), storico, filosofo e geografo greco

[17] Saffo (630-570 a.C.) ebbe tre fratelli, uno dei quali, Charaxus, commerciante di vini tra Lesbo e Naucratis, si sarebbe invaghito di un’etèra di nome Doricha (o Rhodopis). Per riscattarla Charaxus avrebbe dilapidato una vera fortuna creando, inoltre, notevole imbarazzo alla sua famiglia d’origine. Con un “propemtikon”, ovvero un poema per il ritorno di una persona cara, intitolato “Preghiera per Charaxus”, Saffo propizia il ritorno del fratello e, nel contempo, maledice Doricha/Rhodopis.   

[18] A proposito di tale duplice identificazione, Doricha=Rhodopis, Ateneo di Naucratis (non nota la data di nascita- morto dopo il 192 d.C.), scrittore egiziano, in una delle sue opere, i Deipnosofisti, ovvero “i Dotti a Banchetto”, in quindici volumi (giuntaci frammentaria), nel libro XIII, dedicato alle etère del passato e ai loro amanti, specifica che Doricha e Rhodopis sarebbero state due persone differenti e non la stessa.

[19] Caio Plinio Secondo (23-79 d.C.), “Della Storia Naturale”– Libro XXXVII – nell’edizione del 1844 – Vol. II- nella traduzione di M. Lodovico Domenichi (1515-1564), Venezia, tipografia Giuseppe Antonelli Ed., p. 1312.

[20] Claudio Eliano (tra il 165/170-235 d.C.), filosofo e scrittore romano, autore, tra le sue opere “Sulla natura degli animali” (in diciassette volumi), pervenutaci per intero, e le “Varia Historia”, in quattordici volumi, di cui ci sono pervenuti, completi, solo i primi due, mentre dei restanti abbiamo solo riassunti. Nel XIII, racconto 33, la storia di Radopi.

[21] Traduzione di Spyrídon Vlandís, erudito di origine greca, italianizzato in Spiridione Blandi (1765-1830).

[22] Psammetico III, non nota la nascita, salì al trono del padre, Amasi, nel 526 per essere poi deposto, un anno dopo, dall’imperatore persiano Cambise II che occupò l’Egitto nel 525 sconfiggendo l’esercito egizio, capeggiato proprio da Psammetico, nella Battaglia di Pelusio. Viene considerato l’ultimo faraone autoctono dell’Egitto.

[23] Papiro Orbiney, oggi presso il British Museum di Londra. Per le traduzioni e trascrizioni: Sergio Donadoni (1914-2015), Storia della letteratura egiziana antica, Milano, Nuova Accademia, 1957, pp. 190 e sgg. Edda Bresciani (1930-2020), Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Torino II ed., Einaudi, 1990.

[24] Roberto De Simone, citato, p. 107.