Di Andrea Petta e Franca Napoli

ANTICHI OCULISTI
“Non voltarmi le spalle; non sto bene. Non smetto di lamentarmi, poiché sono nelle oscurità e il mio Signore Amon mi [ha voltato] le spalle. Puoi portare del miele per i miei occhi, e anche dell’ocra per fare altri mattoni, ed il trucco nero per gli occhi? Presto! Guardami! Non sono tuo padre? Ora, sono mutilato; cerco la mia vista e non c’è” (ostrakon di Per-hameb, artigiano della Valle dei Re, XIX Dinastia).
Non si può parlare dell’oculistica egizia senza ricordare l’importanza dell’occhio di Horus nella mitologia. L’occhio destro di Horus, strappatogli da Seth, recuperato e guarito da Thot dopo le accorate preghiere di Iside venne utilizzato infatti così simbolo di protezione e cura. L’udjat divenne uno degli amuleti più utilizzati dagli Egizi (si veda https://laciviltaegizia.org/2021/09/30/ludjat/).

La suddivisione mitologica dell’occhio di Horus in 7 parti diede origine inoltre alle frazioni, usate estensivamente per indicare le proporzioni delle prescrizioni mediche.

A sentire Erodoto, un oculista egizio fu anche all’origine di una guerra: la vendetta di un medico inviato alla corte di Ciro il Grande da parte di Ahmose II (XXVI Dinastia) e soppiantato a Corte da un rivale determinò per ripicca l’invasione dell’Egitto da parte dei Persiani. Non sappiamo se sia vero, ma è una testimonianza del prestigio degli specialisti egizi all’epoca.
Dal momento che gli occhi venivano normalmente tolti dai corpi nel processo di mummificazione e sostituiti con occhi finti, la paleopatologia ci è nuovamente di poco aiuto in questo caso. Vivere in un ambiente molto arido e sabbioso però non era sicuramente favorevole per gli occhi: a testimoniarlo le numerose rappresentazioni di musici non vedenti, il numero di termini e prescrizioni riguardanti gli occhi ed infine il riconoscimento dell’oculista come medico specializzato. Nella descrizione dei metu, i vasi interni del corpo, viene specificato che “quattro vasi portano i liquidi agli occhi” ed erano considerati molto pericolosi perché erano “aperti agli occhi ed all’esterno”, riconoscendo la pericolosità degli agenti esterni nell’insorgenza delle patologie oculari.


Una delle prescrizioni comuni descritte nei papiri medici per le patologie oculari è la protezione immediata degli occhi dal riflesso solare. Purtroppo niente Ray-Ban all’epoca, ma applicazione di una tintura nera o verde sulle palpebre e sugli zigomi, simile a quanto fanno oggi i giocatori di football americano per proteggersi dal riflesso del sole o delle luci dello stadio e distinguere meglio luci ed ombre. Inoltre, gli ingredienti per preparare tali tinture comprendono la galena (solfuro di piombo) per la tintura nera e la malachite (idrossido carbonato di rame) per quella verde, componenti con azione battericida.



La terminologia egizia nelle patologie oculari è, tanto per cambiare, estremamente complicata. Ci manca un atlante di anatomia egizio, e dobbiamo sempre ricordarci che la medicina egizia cura i sintomi, ma non identifica le cause. Possiamo quindi dedurre che la “torbidità degli occhi” o la “vista nuvolosa” facciano riferimento alla cataratta, che nei casi peggiori diventa “oscurità”, mentre per altri termini, come per il tracoma (congiuntivite da clamidia) è stata sfruttata la diretta discendenza del termine greco per identificarlo.
PATOLOGIE OCULARI
CORPI ESTRANEI
È estremamente probabile che una delle attività più comuni per gli oculisti egizi fosse l’estrazione di corpi estranei. La celeberrima immagine tratta dalla tomba di Ipwi, in cui un medico tratta l’occhio di un paziente con uno strumento appuntito, viene oggi ritenuta l’asportazione di un corpo estraneo durante un lavoro di edilizia e non un intervento chirurgico.

Si sa dal Papiro Ebers che venivano usati, oltre agli strumenti in metallo, anche il talamo ed il rachide delle penne degli avvoltoi sia per instillare i colliri prescritti che per drenare l’eccessiva lacrimazione. Comodo e pratico

MIOPIA E IPOVISIONE NOTTURNA
Non esistono riferimenti diretti alla miopia (niente lenti correttive all’epoca) ma un generico riferimento ad una “cecità” in qualche modo trattabile con dei rimedi (di dubbia efficacia, come il liquido estratto dall’occhio di un maiale introdotto però attraverso l’orecchio– i “metu” di occhi ed orecchie sono collegati nella fisiologia egizia) ed alla difficoltà di visione.
Mai come in questo caso gli studiosi sono stati però tratti in inganno dalla loro “modernità”: il rimedio prescritto per una patologia chiamata “sharu” è infatti il fegato d’asino crudo; dal momento che l’unico componente attivo correlabile con le patologie oculari è la vitamina A contenuta, ne hanno dedotto che la malattia “sharu” sia l’ipovisione notturna da forte miopia. Purtroppo, senza ulteriori conferme rimane per ora solo una teoria.

CATARATTA
Se per i medici greci l’opacizzazione del cristallino derivava dalla caduta di un velo di liquido torbido dal cervello attraverso il nervo oculare (kataráktēs), per quelli egizi il liquido saliva dal basso (“l’acqua che sale negli occhi”), come la piena annuale del Nilo – ma gli effetti erano gli stessi. Il rimedio principale era costituito da malachite, galena e faience finemente triturati e mescolati a polpa di melone e miele, da applicare all’interno della palpebra; il Papiro Ebers ne riporta altri, sempre di alcuna efficacia.
Si discute ormai da decenni se fosse praticata nell’Antico Egitto una forma di chirurgia oculare per la cataratta spingendo il cristallino verso il fondo dell’occhio, come verrà poi fatto in Grecia e a Roma, ma non ci sono evidenze concrete. Flinders Petrie ritrovò ad Abydos nella tomba del faraone Khasekhemwy (c. 2700 BCE) una serie di aghi in rame senza occhielli compatibili con l’uso medico e oftalmico, ma in mancanza di altre prove anche questa rimane solo un’ipotesi.

Curiosamente, l’origine di queste “ipotesi” venne dallo stesso Ebers che scrisse un romanzo, “La principessa egiziana” (“Eine Aegyptische Konigstochter”) in cui descrisse il nome della procedura, (“taglio della pelle che copre la pupilla dell’occhio”); il nome del primo e del secondo paziente curato e il nome dell’inventore della procedura, tale “Nebenchari” che la avrebbe descritta in un papiro chiamato “Trattamento delle malattie degli occhi, del Grande Dio, Toth, appena scoperto dall’oculista Nebenchari”. Sarebbe questo Nebenchari il medico responsabile dell’invasione dell’Egitto da parte dei persiani. Peccato che fosse tutto inventato, e che fior di studiosi ci abbiano ricamato su per decenni…



Il romanzo di Ebers “ispirò” – ma solo per i nomi – anche un’operetta comica, messa in scena nel 1906 a Londra con grande successo (più di 200 repliche ed un tour in tutto il Regno Unito), di cui vediamo a sinistra l’improbabile Faraone Amasis IX interpretato da Rutland Barrington – un attore piuttosto famoso all’epoca – e a destra la soprano Ruth Vincent nei panni della principessa egizia Amasis
Da notare che nel corso degli anni gli studiosi hanno formulato ipotesi sulla presunta cataratta od altre patologie come il glaucoma dei personaggi i cui ritratti sono arrivati fino a noi, compreso il celeberrimo busto di Nefertiti, il cui occhio sinistro è rimasto bianco (estremamente improbabile), e la statua del sacerdote Ka’aper, il cui occhio destro è ritratto con una parte bianca.


TRACOMA
La congiuntivite da Clamidia era endemica nell’Antico Egitto e rappresentava il pericolo maggiore per la vista. Il tracoma è molto contagioso nelle sue prime fasi e viene trasmesso per contatto da occhio a occhio, da mano a occhio e dagli insetti che si posano sugli occhi.

I suoi sintomi principali comprendono la palpebra rivolta all’interno che si salda alla congiuntiva, le ciglia rivolte all’interno dell’occhio e l’alterata chiusura delle palpebre cui seguono cicatrici sulla cornea più o meno estese, fino alla sua opacizzazione completa (si forma un panno corneale e, quindi, l’occhio diventa biancastro).

I rimedi come al solito vedevano tra gli ingredienti vegetali e minerali quelli con capacità antiinfiammatoria e antibiotica (foglie di acacia, carrube e, curiosamente, bile di tartaruga)