Di Piero Cargnino

Poiché figlio di una sposa secondaria di Thutmosi I, Mutnafret, Thutmosi II, Aakheperenra (“Grande è l’immagine di Ra.”), diventò erede al trono solo dopo la morte prematura dei suoi fratelli maggiori Amenmose e Wadjmose. Per rafforzare ancor più i suoi diritti a salire sul trono sposò la sorella Hatshepsut, sempre figlia di Thutmosi I ma della Grande Sposa Reale Ahmose, ciò conferiva ad Hatshepsut una più piena regalità rafforzando così la posizione di Thutmosi II.

Gli storici stimarono che Hatshepsut avesse circa 12 anni quando divenne regina d’Egitto. Dal matrimonio con Hatshepsut nacque la principessa Neferura mentre dalla seconda moglie Iside nacque Thutmosi che gli succederà al trono sposando, forse, la propria sorella Neferura.

Gli epitomatori di Manetone riportano che lo storico greco lo chiamò Chebron e gli attribuì 18 anni di regno, durata contestata da alcuni che gliene attribuiscono invece solo 3.

Ancorché fosse ancora in tenera età quando salì al trono, Thutmosi II mise presto in evidenza il carattere proprio dei Thutmosi, nel suo primo anno di regno scoppiò una rivolta in Nubia, nella terra di Kush; non potendo partecipare direttamente per la giovane età, inviò una spedizione militare a reprimere la ribellione sotto il comando del vicerè Seni, questo è attestato da un’iscrizione rupestre a Sehel, a sud di Assuan.

Grazie sempre alle pitture che compaiono nella tomba dell’ufficiale Ahmose Pennekhebet (già più volte citato in precedenza, la cui autobiografia costituisce una fonte molto importante per seguire la storia d’Egitto da Ahmose I fino a Thutmosi III) apprendiamo che fu ordinata anche una spedizione militare in Palestina per combattere i nomadi Shasu. A lui vengono attribuite costruzioni a Semna e Kumma oltre che ad Elefantina.
Thutmosi II contribuì all’abbellimento del tempio dinastico di Karnak dove fece costruire una coppia di obelischi che furono poi rizzati da Hatshepsut al centro del cortile dove sono state trovate le fondamenta nelle sottostrutture del terzo pilone. Questi obelischi vennero in seguito abbattuti da Amenhotep III.
Thutmosi II morì intorno ai trent’anni e non si conosce il luogo dove fu sepolto anche se in un primo momento gli venne attribuita la tomba KV42, nella Valle dei Re. In seguito però Howard Carter, che nel 1921 scoprì il deposito di fondazione, la assegnò alla regina Hatshepsut-Meryet-Ra, moglie di Thutmosi III.

La mummia di Thutmosi II venne rinvenuta nel 1881 nella famosa cachette di Deir el-Bahari (DB320). Va detto che in seguito a recenti studi pare emergere un’incongruenza tra quella che dovrebbe essere l’età del faraone e la datazione che è stata riscontrata dalle analisi effettuate sulla mummia. Fu Maspero che nel 1886 provvide a sbendare la mummia rilevando subito una certa somiglianza del viso di Thutmosi II con quello di suo padre Thutmosi I. Come per molte altre, la mummia risultava brutalmente danneggiata dai razziatori alla ricerca di gioielli e amuleti. Presentava il braccio sinistro rotto e l’avambraccio separato di netto, il braccio destro era stato tranciato al gomito, la restante parte del corpo si presentava squarciata da colpi d’ascia e la gamba destra era mozzata.
Dalle analisi effettuate sulla mummia emerge che Thutmosi II morì probabilmente di una malattia, il corpo si presentava molto deperito e ricoperto di chiazze e cicatrici.
Nel 2015, nel corso di scavi nella zona orientale del canale di Suez, è stato scoperto un edificio residenziale che si potrebbe attribuire a Thutmosi II, si pensa possa trattarsi di una stazione di rifornimento per le campagne militari del faraone lungo la “Strada di Horus”.

Sarebbe una delle tre costruite a Tell el-Habua, nei pressi di Qantara, le altre due sarebbero successive e si riferirebbero a Seti I e Ramses II, lo si rileva dal ritrovamento in zona di sigilli reali su vasi di ceramica. Recentemente la missione dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Varsavia, sotto la guida del prof. Andrzej Niwiński, che stava scavando nei pressi del tempio di Hatshepsut rinvenne una cassa in pietra calcarea di 40 cm circa per lato e un involucro di lino nella fossa scavata.

Al suo interno vennero rinvenuti tre fagotti di lino. In uno venne trovato lo scheletro di un’oca, in un altro un uovo sempre di oca e nel terzo una scatoletta di legno contenente un uovo forse di ibis, tutti avvolti nel lino.

Poco lontano, sempre avvolto nel tessuto, all’interno, in una scatola di legno si trovava un cofanetto in faience dove era riportato il nome di Thutmosi II, “Aakheperenra” in geroglifico.



Secondo il prof. Niwiński la tomba sarebbe da attribuire al consorte di Hatshepsut, quindi a Thutmosi II. Per non trascurare nessuna ipotesi voglio riportare anche quella avanzata da alcuni storici e ripresa nel suo libro “Storia biblica: Antico Testamento” da Alfred Edesheim, secondo i quali Thutmosi II sarebbe il Faraone dell’Esodo. Ciò sarebbe dedotto dalla breve durata del suo regno e dall’improvviso crollo. Altro indizio che secondo Edesheim proverebbe la sua teoria sarebbe riconducibile al fatto che il corpo sfasciato del faraone presentava chiazze e cicatrici che potrebbero ricondursi ad una delle piaghe che hanno travolto il popolo egizio poco prima dell’esodo. Personalmente non concordo ma era doveroso riportare anche questa ipotesi.
Un’ultima notizia riguarda una statua trovata nell’ottavo edificio del Tempio di Karnak durante un importante lavoro di restauro insieme al Tempio di Luxor e a El Kebbash Road, il viale delle sfingi che collega i due templi. Il Consiglio Supremo delle Antichità ha confermato che verrà restaurata anche la statua di Thutmosi II.
Fonti e bibliografia:
- Cimmino Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano 2003
- Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Oxford University Press 1961 (Einaudi, Torino 1997)
- Alessandro Roccati, “L’area tebana, Quaderni di Egittologia”, n. 1, Roma, Aracne, 2005
- Tiziana Giuliani, “Vicini al ritrovamento della tomba di Thutmose II?”, da Mediterraneo Antico, 2020
- Christian Jacq, “La Valle dei Re”, trad. di Elena Dal Pra, Milano, Mondadori, 1998
- Mattia Mancini, articolo del 5 marzo 2015 su Djrd Medu
- David Mishkin, “La saggezza di Alfred Edersheim”, 2008, Wipf e Stock Publishers