C'era una volta l'Egitto, Nuovo Regno, XIX Dinastia

IL FARAONE SETI II

Di Piero Cargnino

Seti II salì al trono alla morte del padre Merenptah ed avrebbe regnato per circa sei anni anche se durante il suo regno dovette far fronte all’interferenza di Amenmesse, di cui abbiamo già parlato in precedenza. C’è da dire che questo è un periodo abbastanza oscuro per l’Egitto, i pochi dati di cui dispongono gli studiosi non permettono neppure di tracciare una sequenza sicura nella successione degli ultimi sovrani della XIX dinastia. Addirittura Ramses III, nella sua lista degli antenati, salta da Seti II a Sethnakht, suo padre, primo faraone della XX dinastia.

Come già ampiamente spiegato in precedenza, Amenmesse non ebbe mai il controllo di tutto l’Egitto ma solo quello dell’Alto Egitto e non è neppure certo che Seti II si sia imposto con una vera e propria guerra civile o più semplicemente con un serrato confronto politico. Alcuni sostengono che Seti II potrebbe aver sposato la regina Takhat dalla quale avrebbe avuto come figlio proprio Amenmesse, ipotesi ritenuta inverosimile in quanto Seti II era già in età assai avanzata, per quei tempi, cosa che renderebbe poco credibile che potesse avere già un figlio in età adatta a tentare la scalata al potere.

Sposò però la Regina Tausert dalla quale ebbe un figlio Siptah. Tausert, alla morte di Seti II diventerà coreggente del figlio ancora fanciullo ed alla morte prematura di Siptah diverrà lei stessa faraone.

Seti II esercitò una certa attività edilizia, inoltre restaurò ed ampliò altri monumenti oltre ad usurpare quelli di suoi predecessori in particolare quelli eretti da Amenmesse. Il suo breve regno non fu caratterizzato da guerre o campagne militari oltre i confini egiziani.

Alla sua morte Seti II venne dapprima sepolto nella tomba KV14 della Grande Sposa Reale Tausert, poi trasferito nella KV15 che era ancora in costruzione ma venne frettolosamente ultimata.

In seguito ai già più volte citati saccheggi, durante la XXI dinastia, la sua mummia fu trasferita nella tomba di Amenhotep II (KV35) dove venne rinvenuta.

La sua tomba, come molte altre, era già conosciuta fin dall’antichità, già nel 1737 Richard Pocoke eseguì una prima mappatura ma una mappatura più approfondita venne eseguita durante la spedizione di Napoleone nel 1799. In seguito venne esplorata da James Burton nel 1825, la tomba venne ulteriormente rilevata da Ippolito Rosellini ed in seguito da Karl Richard Lepsius nel 1844. Fu poi Haward Carter ad eseguire  scavi sistematici nel 1903.

L’ingresso alla tomba avviene attraverso una piccola entrata dalla quale si accede a  tre lunghi corridoi in leggera pendenza dopo i quali si accede ad un’anticamera sorretta da quattro pilastri, sempre proseguendo troviamo la camera funeraria, da questa prosegue un breve corridoio mai finito. Tutti i locali sono intonacati di bianco e denunciano la fretta che dovette assillare gli esecutori in quanto il re venne sepolto prima ancora che i lavori fossero ultimati, all’inizio si trovano dei bassorilievi mentre proseguendo questi sono sostituiti da decorazioni solo dipinte.

Le decorazioni della tomba si sono conservate molto bene, inspiegabilmente però si riscontra che i cartigli di Seti II furono dapprima scritti, poi cancellati ed in seguito riscritti, la motivazione di ciò è del tutto inspiegabile.

All’ingresso della tomba troviamo un motivo predominante che si ripete poi in altre parti della tomba, si tratta della rappresentazione della dea Maat inginocchiata sulle piante araldiche dell’Alto e Basso Egitto. Sulle pareti dei tre corridoi che seguono sono rappresentasti, a partire dal primo e poi a seguire, le “Litanie di Ra” ed il “Libro dell’Amduat”, segue una piccola camera dove sono rappresentate suppellettili funerarie in modo talmente realistico che ricordano alcune di quelle trovate nella tomba di Tutankhamon. L’anticamera è decorata con i testi del “Libro delle Porte” mentre i quattro pilastri presentano su ciascun lato una grande figura, il breve corridoio che segue non è mai stato ultimato.

La mummia di Seti II venne sbendata da Elliot Smith nel 1905 e presenta un uomo di mezza età, alto 1 metro e 64 centimetri accuratamente imbalsamato anche se la violenza, di cui è stata oggetto da parte dei saccheggiatori in cerca di gioielli e amuleti preziosi, l’ha ridotta molto male, il capo è stato mozzato con asce o coltelli così come le braccia e le dita, tanto che l’avambraccio destro con la mano non sono mai stati trovati.

A dispetto di così tanta crudeltà e violenza, sono stati trovati alcuni amuleti in faience che erano stati legati ai piedi. Con spirito di umana pietà i sacerdoti della XXI dinastia restaurarono, per quanto possibile, la mummia in occasione del suo trasbordo dalla KV15 alla KV35, la avvolsero poi in un sudario sul quale trascrissero la vicenda dei suoi resti. A seguire vi parlerò della statua colossale di Seti II, che fa bella mostra di se, con i suoi 5,16 metri di altezza e del peso di 6 tonnellate, nella Galleria dei Re del Museo Egizio di Torino. Insieme a un’altra simile, oggi conservata al Louvre, questa statua si trovava originariamente davanti all’ingresso di una cappella edificata da Seti II nel gran cortile del tempio di Karnak.

IL TORINESE COLOSSO DI OSIMANDIA

Visitando il Museo Egizio di Torino, dopo aver ammirato i reperti esposti, si raggiunge il piano terreno e ci si trova immersi nella meravigliosa Galleria dei Re, allestita in occasione delle Olimpiadi di Torino del 2006 dallo scenografo Dante Ferretti, premio Oscar nel 2005, (“The Aviator” di Martin Scorzese). Sul fondo, si staglia una colossale statua.

Trattasi di una statua in arenaria quarzosa molto compatta di colore giallo rossastro, alta 5,16 metri e del peso di 6 tonnellate che raffigura il faraone Sethi II Merenptah in piedi con veste sacerdotale e regge un’insegna sacra. La postura, stante, caratteristica delle statue maschili antico egizie, col piede sinistro avanzato ed il peso del corpo insistente sulla gamba destra verticale costituisce un esempio di notevole statuaria monumentale capace di esprimere la stabilità e la forza del re attraverso l’armonia della muscolatura e la geometricità dei volumi e delle linee.

Sul capo cinge la corona “Atef” ornata lateralmente da due piume di struzzo. Al fianco sinistro porta uno stendardo sulla cui sommità si trovava un’immagine del dio Seth oggi non più presente. Tenuto conto che, a parte un’iscrizione sul retro della statua, tutte le altre iscrizioni sono state abrase, questo porta a pensare che, anche la mancanza dell’immagine di Seth, sia stata un’azione deliberata.

La statua, contrassegnata col n. Cat. 1383, faceva parte della Collezione Drovetti e ad essa era stato assegnato il nome de “Il torinese colosso di Osimandia”.

Così iniziano le “Osservazioni intorno all’età, ed alla persona rappresentata dal maggiore colosso del Reale Museo Egiziano di Torino”, opera del Cav. Giulio Cordero di S. Quintino, edita dall’Accademia delle Scienze di Torino in data 19 agosto 1824. L’opera viene pure ricordata dal Prof. Silvio Curto nel suo libro dove ne fornisce una dettagliata spiegazione.

Parlando della statua di Sethi II il S. Quintino racconta che essa fu trovata dal Drovetti nelle rovine di Tebe nel 1818, con un’altra uguale ma rotta in più pezzi che fu portata a Roma. Trasportata a Livorno con la nave norvegese Trondheim, vi rimase fino al 24 gennaio 1824 quando il re Carlo Felice concluse col Drovetti il contratto di acquisto della sua Collezione. Presa in consegna ufficialmente, il Cav. di S. Quintino la fece trasportare, sempre via mare, a Genova e da qui a Torino dove giunse a settembre 1824. Intanto Carlo Felice aveva fatto sistemare la Collezione Drovetti nel Palazzo dell’Accademia delle Scienze, costituendo così un museo che era unico del genere al mondo, non solo ma documentava compiutamente l’antica civiltà egizia, nell’arte, nella storia, nella religione ed in ogni altro aspetto. Direttore venne nominato lo stesso Cav. S. Quintino. Il colosso venne collocato nel cortile nel Palazzo dell’Accademia delle Scienze, dove rimase per tutto il gelido inverno torinese. Frattanto già dal maggio dello stesso anno era giunto a Torino un giovane orientalista di Grenoble che due anni prima aveva trovato la chiave per decifrare i geroglifici, tale Jean Francois Champollion. Accolto entusiasticamente dai più, lo fu meno dal S. Quintino, fermo nelle sue idee reazionarie mentre lo Champollion vantava un passato bonapartista. Tra i due ne nacque un contrasto che si accentuò quando Champollion, rese noto il suo sdegno nel vedere che il colosso, che secondo lui apparteneva al re “Osimandia”, se ne stava abbandonato alle intemperie. Nonostante tutto il Direttore, alle prese con i tanti problemi che causava la sistemazione dei reperti, ad un certo punto accettò una collaborazione pertanto favoriva in tutti i modi Champollion fino a diventare un suo ardente sostenitore circa la lettura fonetica dei geroglifici.

Sorse però una nuova contesa tra gli studiosi circa l’attribuzione al re “Osimandia” del colosso. Questo sovrano viene citato una sola volta da Diodoro Siculo nella “Biblioteca”, I, 47, dove lo storico descrive, ma non per conoscenza diretta, un grandioso edificio a Tebe, fronteggiato da due statue colossali, chiamato appunto “Sepolcro di Osimandia”. Quando poi Champollion si recò in Egitto con la spedizione Franco-Toscana del 1828-29, riuscì a stabilire che l’edificio in questione era appartenuto a Ramses, che egli individuò come il III. A questo punto gli studiosi chiarirono che “Osimandia” altro non era che il prenome di Ramses II il Grande ovvero “User-maat-Ra”.

La disputa continuò finché, nel 1839, il primo compilatore di un “Catalogo illustrato dei monumenti egizii del Regio Museo di Torino”, descriveva con esattezza la statua come appartenuta al faraone Sethi II della XIX dinastia. A puro titolo di curiosità possiamo dire che mancano iscrizioni dell’epoca di Seti II ma in compenso, come era in uso agli inizi dell’ottocento quando il commercio di reperti era ancora legale, troviamo le iscrizioni di coloro che scoprivano o negoziavano i reperti:

“DECOUVERT PAR. j. RIFAUD / sculpteur . au . SERVICE / DE . MR . DROVETTI / A Thebès . 1818”
“FORT FRA EGYBTEN / TIL LIVORNO . I . SKIBET / TRONHIEN cap n. RICHELIEU / 1819”.

Fonti e bibliografia:

  • Cyril Aldred, “I Faraoni: l’impero dei conquistatori”, Milano, Rizzoli, 2000
  • Sergio Donadoni, “Tebe”, Electa, 2002
  • Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bologna, Bompiani, 2003
  • Christiane Desroche-Noblecourt e AA.VV . “Egitto” – Rizzoli Editore, 1981
  • Mario Tosi, “Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto”, Ananke, 2006
  • Nicolas Grimal, “Storia dell’antico Egitto”, Bari, Laterza, 1990
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
  • Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
  • Alfred Heuss e atri., “I Propilei”, Verona, Mondadori, 1980

Per “Il torinese colosso di Osimandia”:

  • Prof. Silvio Curto, “Attraverso l’Egittologia”, ed. Egyptbook s.a.s. Dicembre 2001
  • Cav. Giulio Cordero di S. Quintino, “Lezioni archeologiche intorno ad alcuni monumenti del Regio Museo Egiziano di Torino”, Stamperia Reale 1824
  • Paolo Bondielli, “Anche le statue parlano, anzi…scrivono!”, Articolo da Mediterraneo Antico, 2020)

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