Questo esotico signore, che sembra uscito dalle pagine di Marco Polo, è in realtà un vescovo anglicano del XVIII secolo. In un certo senso è un altro antefatto, perché prima ancora che Napoleone fosse nato lui aveva già girovagato in lungo ed in largo sulle sponde del Nilo, riportando i primi disegni “moderni” di una civiltà che stava per essere riscoperta in tutto il suo splendore.
Richard Pococke era nato nel 1704 da una famiglia di religiosi. I suoi studi sono quindi prettamente umanistici, ma non focalizzati sulla storia e risente molto della sua estrazione famigliare. Dopo aver effettuato un primo Grand Tour in Francia ed Italia (come stava diventando di moda per i britannici facoltosi) ne effettua un secondo tra il 1737 ed il 1741, stavolta in Medio Oriente, spendendo parecchio tempo in Egitto. Ne risulteranno due volumi di racconti di viaggio (“A Description of the East and Some other Countries”), uno specifico sulla terra dei Faraoni. Forse la prima pubblicazione a poter essere avvicinabile all’archeologia.
Pococke non si fa mancare nulla: da Alessandria risale il Nilo fino ad Assuan, anche se preferisce soggiornare al Cairo ed a Rosetta (più di sessant’anni prima della scoperta della famosa stele). È interessato soprattutto all’architettura egizia: riporta in patria la prima descrizione del tempio di Karnak, che chiama “Tempio di Giove a Tebe” ed un’attenta analisi dei capitelli delle colonne egizie.
Entra anche nella Grande Piramide, di cui disegna una sezione sorprendentemente moderna.
“Sfortunatamente” è molto più antropologo di formazione che archeologo; descrive molto meglio le usanze degli egiziani del XVIII secolo piuttosto che la storia antica.
Non conosce ovviamente i geroglifici e si limita a descriverli come figure, notando la ripetizione di determinati segni, come pure la moltitudine di animali e di figure umane a testa di animale, che correttamente identifica come divinità.
È anche il primo occidentale ad ottenere una “licenza”: il Grande Sceicco di Furshout gli concede di visitare con la guida del figlio di uno sceicco locale, oltre al tempio di Karnak, ben 14 tombe della Valle dei Re, di cui disegna diligentemente posizione e mappa (purtroppo, non le decorazioni).
Dopo aver girovagato come predicatore errante in Scozia ed Irlanda, troverà il suo destino in un colpo apoplettico nel 1765 proprio in Irlanda, nel castello di Charleville.
Forse per essere stato più un narratore dei suoi tempi che della storia passata (ma ricordiamoci che aveva oggettive difficoltà, senza poter leggere i testi), forse perché i tempi non erano maturi, Pococke rimane molto poco noto, nascosto tra le pieghe dell’archeologia moderna. Ed è un peccato.
Riferimenti:
Ceram, C. W. Civiltà sepolte: il romanzo dell’archeologia. Vol. 161. G. Einaudi, 1953.
Ceram, C. W., and Maria Grazia Locatelli. Civiltà al sole. 1958.
Pococke, R. A description of the East, and some other countries – Vol I – Observations on Egypt. Londra, 1743
Caduto il potere degli ultimi Faraoni (anche se Macedoni), l’Egitto ormai provincia romana perse gradualmente il suo fascino. Saccheggiato dei suoi obelischi e trasformatosi nel granaio dell’Impero, pur mantenendo la sua importanza culturale con la biblioteca di Alessandria divenne oggetto di mere manovre politiche e quasi nessuno si interessò alla storia passata. Non senza danni, però.
Prima intervennero le dispute teologiche nell’ambito cristiano e le ondate iconoclaste; Ario era infatti presbitero ad Alessandria, e all’inizio del IV secolo lo scisma legato all’arianesimo fu di fatto il primo della storia cristiana, con relative conseguenze. Un secolo dopo, sempre ad Alessandria, l’assassinio di Ipazia da parte dei cristiani capitanati dal vescovo Cirillo (assurdamente ancora venerato come santo…) pose di fatto fine alla cultura “classica”, considerata ormai pagana. La conquista dell’Egitto da parte degli arabi nel VII secolo chiuse definitivamente l’epoca greco-romana in Egitto.
I danni li possiamo vedere ancora oggi: statue e dipinti mutilati, deturpati, distrutti; edifici e tombe riadattati a monasteri o abitazioni comuni (a volte come stalle…); totale disprezzo per la storia e la cultura faraonica, caduta nell’oblio.
Nel frattempo, alla fine del IV secolo (precisamente nel 394, sotto Diocleziano) viene incisa quella che è considerata l’ultima iscrizione in geroglifici. Nesmeterakhem (o Esmet Akhom, a seconda delle traduzioni), scriba del tempio di Iside a Philae (ultimo baluardo “pagano” sopravvissuto grazie alla popolarità del culto di Iside), incide una preghiera al dio nubiano Mandulis. Con la morte del suo autore, dopo più di tremila anni tutti i testi faraonici diventano solo figure disegnate, illeggibili.
Per secoli l’Egitto diventa un luogo poco raccomandabile; meta solo di temerari pellegrini in viaggio per i luoghi biblici. La conoscenza dell’Egitto si limita al solo Delta o poco più. Le piramidi diventano “i granai di Giuseppe”, la Sfinge prende il nome arabo di Abol-Haul, “Il Padre del Terrore”, ed è solo “una testa che sporge dalla sabbia”, come scrive Abd al-Laṭīf al-Baghdādī, uno studioso arabo del XII secolo.
In Europa arrivano poche e confuse notizie, a volte riportate da chi in Egitto non è proprio mai stato. Soprattutto la piana di Giza attira curiosità “adattata” allo stile occidentale. La Sfinge viene disegnata quindi come una donna europea, con tanto di seno che sporge dalla sabbia, oppure come un clamoroso busto colossale romano, come un Cesare conquistatore. André Thevet, un frate francescano, nel 1556 disegna la Sfinge come la testa di un gentiluomo francese, con tanto di boccoli.
Forse la prima testimonianza “diretta” europea è del 1610, ed è in un resoconto dei viaggi di George Sandy, un figlio minore dell’Arcivescovo di York il quale, fallito il tentativo di laurearsi a Oxford, decise di spendere allegramente parte del patrimonio di famiglia girovagando in Europa e Medio Oriente raccontando le sue imprese in quattro volumi illustrati. In uno di questi volumi quella testa, già senza naso, emerge davanti alle piramidi.
Un disegno molto più accurato è del 1757 (“Testa colossale con le tre piramidi” di Norden), mentre negli stessi anni Diderot, nella sua Enciclopedia, inopinatamente le rimette il naso e una sorta di ureo sulla fronte, forse immaginandone l’aspetto originale.
Il conte Volnay, un altro che decide di spendere la sua eredità in viaggi, nel suo pensiero afrocentrico prende una svista colossale descrivendo nel suo “Voyage en Syrie et en Égypte” la Sfinge come “chiaramente di razza negroide” – un “peccato originale” che purtroppo semina frutti avvelenati tuttora.
L’Illuminismo sta comunque sortendo i suoi effetti. Tutti questi resoconti, le Piramidi, i colossali obelischi, stanno facendo nascere la curiosità in tutta Europa. La Francia è al centro di questo inesorabile movimento. E un francese, che ha “mancato” per pochi anni la possibilità di essere italiano (anzi, genovese…) sta per accendere la miccia. Della guerra, sì, ma anche di quella che i francesi chiameranno “Égyptomanie“.
Nella prossima puntata: quaranta secoli vi guardano!
Federico A. Arborio Mella, L’Egitto dei Faraoni. Storia , civiltà, cultura, Milano, Mursia, 1976
Ceram, C. W. Civiltà sepolte: il romanzo dell’archeologia. Vol. 161. G. Einaudi, 1953.
Ceram, C. W., and Maria Grazia Locatelli. Civiltà al sole. 1958.
Curto, Silvio. L’antico Egitto. Unione tipografico-editrice torinese, 1981.
Braun and Hogenberg, Civitates Orbis Terrarum (1572-1617).
Andrews, Carol AR. The Rosetta Stone. London: British Museum Publications, 1981.
Diderot, M., ed. “L’encyclopédie de Diderot et d’Alembert” (1778).
Piemontese ma di mentalità francese, francese ma di cultura italiana, italiano ma vicino all’Egitto, Drovetti è stato forse il primo a pensare ad un Egitto libero da tutti i Paesi colonizzatori, anche dalla Francia.
Bernardino Michele Maria Drovetti era nato nel 1776 a Barbania, vicino a Torino. Figlio di un notaio, si era laureato in Legge a Torino ma si era presto rivelato un figlio ribelle, arruolandosi nell’esercito napoleonico. Drovetti è affascinato dalle idee rivoluzionarie francesi e dalla figura carismatica di Napoleone. Nella battaglia di Marengo si era distinto a tal punto da essere promosso capo di stato maggiore facendo scudo a Murat e perdendo alcune dita della mano. Lo stesso Murat l’aveva segnalato a Napoleone, che nel 1802 gli diede l’incarico di sottocommissario alle Relazioni commerciali ad Alessandria d’Egitto.
L’incarico è altisonante ma lontano da Parigi; il Console Generale De Lesseps, che del caldo egiziano non ne può più, gli molla l’incarico e torna sulla Senna. Drovetti vorrebbe seguirlo, ma si innamora di tale Rose Ray Bathalon (cherchez la femme, sempre…) che, ahimè, è sposata. Chiede il divorzio, ma i documenti tardano ad arrivare dalla Francia. Per “colpa” del cuore e della burocrazia francese, Bernardino rimane in Egitto e sarà uno dei padri fondatori dell’egittologia.
Drovetti in realtà ha anche un ruolo nello spionaggio francese e diventa grande amico del Pasha d’Egitto Muhammad Ali dopo avergli salvato la vita da un attentato inglese (evidentemente è la sua specialità). Questa amicizia gli verrà molto utile nelle relazioni locali, ma sarà fonte di invidia e di astio soprattutto nei confronti degli Inglesi.
Dopo Waterloo perde il suo incarico, e si reinventa commerciante di antichità, in diretta concorrenza con Salt e Belzoni, con cui all’inizio era anche in buoni rapporti. Come abbiamo visto Il “furto” di un obelisco da parte di Belzoni terminerà l’amicizia tra i due, e si rischia l’incidente diplomatico con Salt.
Drovetti è un carattere molto “moderno”; credeva negli ideali della rivoluzione, nella liberazione dei popoli. Approfittando dell’amicizia del Pasha organizza una specie di Erasmus in Francia per gli studenti egiziani meritevoli, convince il Pasha della necessità della vaccinazione antivaiolosa per tutti e sovrintende la costruzione del Canale che collega Alessandria al Cairo. Fa arrivare delle pecore merinos dal Piemonte; per ricambiare, il Pasha dona ai Savoia un elefante indiano (Fritz) che farà mostra di sé a Stupinigi ed avrà una storia tragica. I suoi meriti gli fanno riconquistare il Consolato di Francia (e di Russia, misteri dell’epoca), ma lo stipendio da Parigi arriva a singhiozzo.
Drovetti decide allora di mettere in vendita la sua collezione di più di 8000 pezzi che comprende 169 papiri. 102 mummie, 95 statue di grande valore. Tra i papiri spicca il Canone Reale, che è alla base della cronologia egiziana e che vedremo con l’attenzione che merita. La offre ovviamente al Louvre, ma non se ne fa niente; troppo cara. Inoltre, pare che i nuovi reali francesi, già indispettiti dalla “fede” napoleonica di Drovetti, temano le ire del Vaticano che considera le antichità egizie in contrasto con cronologia e storia biblica.
Un viaggiatore piemontese, Carlo Vidua, vede la raccolta (non è chiaro se in Egitto o già a Livorno) e ne parla a Torino come “la più copiosa e la più ricca raccolta di antichità (…), pensando alla rarità e al merito di questa Collezione affinché il Piemonte non sia defraudato da un museo riunito da un Piemontese”.
Il re Carlo Felice ne è entusiasta; nel clima del suo regno, profondamente avverso ai vicini francesi dopo le vicende napoleoniche (“facciamo vedere ai francesi chi siamo!”) nel 1823 acquista la collezione per una cifra enorme: 400 mila lire, pari a circa 700 milioni di euro attuali. Per fare un paragone, equivalgono a 8 volte il prezzo pagato da Soane per il sarcofago di Sethi I. La collezione approda a Genova, poi viene trasportata via terra a Torino. Si narra che sul passo dei Giovi si sentano ancora le “benedizioni” di chi trasportava il colosso di Sethi I.
Il Canone Reale si frantuma nel viaggio, sarà oggetto di restauri e polemiche. I reperti vengono accolti nella Reale Accademia delle Scienze che diventa il primo museo al mondo interamente dedicato all’antico Egitto, l’8 novembre 1824.
Tra i primi visitatori Champollion che vuole verificare i suoi progressi nella traduzione dei geroglifici.
Drovetti morirà nel 1852, povero in canna e alle prese con una malattia mentale che rese penosi i suoi ultimi anni di vita. Dispone l’autopsia sul suo corpo nel testamento per essere certo di non essere sepolto vivo.
Sulla sua tomba le parole:
Qui giace Bernardino Drovetti F. di Giorgio, insignito di molti ordini e ascritto a molte accademie d’Europa
Nato a Barbania il 7 gennaio 1776, morto in Torino il 9 marzo 1852
Fu dottore in ambe leggi, reggente il Ministero di Guerra, uffiziale e console generale di Napoleone I in Egitto
Promosse colà il progresso e vi raccolse preziosi monumenti onde si creò il Museo Egizio, precipuo ornamento di questa città
Morì qual visse: benefico, chiamando i poveri a suoi eredi.
A Drovetti dobbiamo il rispetto per chi, nonostante il pensiero coloniale dell’epoca, riuscì a contribuire allo sviluppo egiziano. I suoi metodi non furono dissimili dai suoi coevi: antiquario e collezionista più che archeologo, saccheggiatore più che conservatore. Ma alla sua raccolta ed a Carlo Felice dobbiamo il nucleo centrale del nostro Museo Egizio – che, ricordiamocelo, è secondo solo a quello del Cairo.
RIFERIMENTI:
– Zatterin M. Il gigante del Nilo, 2002
– Accademia delle Scienze di Torino
– Silvio Curto, Storia del Museo Egizio di Torino, 1976
– Giorgio Caponnetti, Drovetti l’Egizio. Utet 2022
Una curiosità sul nostro amico Belzoni: visto il clamore delle sue scoperte ed il successo della mostra sulla tomba di Seti I fu coniata in Inghilterra anche una moneta commemorativa per celebrare l’apertura della Piramide di Chefren
Questa medaglia, anche se datata 1818, fu coniata da Edward Thomason a Birmingham probabilmente durante la prima metà del 1821.
Il dritto dovrebbe basarsi sullo studio a matita di Brockedon conservato alla National Portrait Gallery di Londra e mostrato nella mostra tenutasi a Padova in occasione del bicentenario. Lo studio di Brockedon non è datato, ma sotto il busto di Belzoni ci sono deboli schizzi di piramidi, inclusa una all’interno di un cerchio, presumibilmente prove per il verso. Il ritratto sul dritto è straordinariamente accurato (come testimoniato da un amico di Belzoni, R. H. Norman).
Il rovescio non è così preciso; la piramide mostrata ha una parte superiore troncata e manca del residuo rivestimento esterno della Piramide di Chefren, rappresentando quindi la Piramide di Cheope. Ovviamente né Brockedon né Thomason avevano visto dal vero le Piramidi di Giza e furono indotti in errore da qualche altro dipinto dell’epoca, o forse dallo stesso Belzoni che, rientrato in Italia, usava un timbro con la sagoma della piramide di Cheope (!) e la scritta “APERTA 2 MAR 1818 DA G.B-“.
Ne esiste anche una versione in argento, di cui fu donato un esemplare al Museo Civico di Padova nel giugno 1821 dallo stesso Belzoni.
Se vi trovate una di queste monete in casa avete un piccolo gruzzolo da parte: alle ultime aste quella in argento è stata battuta a 2,400 $ mentre quella in bronzo intorno ai 1,000 $
Nel frattempo anche Padova aveva dedicato una medaglia commemorativa realizzata nel 1819 da Luigi Manfredini, incisore della Zecca di Milano, forse anche come “riparazione” per lo sdoganamento assurdamente lungo delle due statue di Sekhmet donate alla città e rappresentate sulla medaglia. Di questa fu fatta solo la versione in bronzo (poi dicono di noi genovesi…).
Per non smentirsi, però, anche qui le operazioni andarono per le lunghe. Il contratto con l’artista, al quale fu attribuito un compenso di 120 lire, fu firmato il 6 giugno 1820. La moneta sarebbe stata ultimata soltanto nel febbraio del 1821.
Oggi abbandoniamo per un attimo la storia degli uomini per un aspetto “tecnico”, legato comunque alle tecnologie a disposizione degli eredi degli scopritori che stiamo seguendo.
Il sarcofago di Sethi I è probabilmente il reperto più famoso delle esplorazioni di Belzoni in Egitto. Se ne è già parlato diffusamente sul Gruppo, e mostrato in quasi tutte le salse.
Giusto come memo, è lungo 284 cm, largo 112 e alto 81, ed è in alabastro egiziano traslucido spesso da 4.5 a 11.4 cm. Originariamente bianco, è diventato col tempo di color miele scuro a causa dell’inquinamento londinese e della cattiva conservazione al Soane Museum dove è arrivato dopo le peripezie che abbiamo visto.
È inciso sia sulla parte interna che su quella esterna con brani del Libro delle Porte, incisioni un tempo riempite con il cosiddetto “blu Egitto” ora quasi del tutto scomparse anche a causa della pulizia impropria del sarcofago negli anni (ma la candeggina su un sarcofago egizio???). L’interno del sarcofago è decorato con un’immagine splendida della dea Nut che sta diventando via via sempre meno visibile.
Nel 2017 è stata effettuata una copia del sarcofago in occasione di una mostra sul bicentenario della scoperta della tomba. È stata utilizzata una tecnica di imaging detta “fotogrammetria” che unisce immagini ad altissima risoluzione alla loro posizione spaziale. Sono state necessarie 4500 immagini scattate con una fotocamera Canon 5D (lo scrivo solo perché sono un canonista…) su una slitta motorizzata su 3 assi.
Lo “scheletro” del sarcofago riprodotto è in poliuretano modellato roboticamente e coperto da migliaia di strati di inchiostri acrilici fotosensibili sviluppati dalla Océ – ciascuno strato di 2-40 micron – fino ad ottenere uno “strato” di 1.5 cm assolutamente fedele all’originale. Visto che la “stampa” è stata fatta a settori, i giunti sono stati rifiniti a mano con vernici acriliche ed il tutto ricoperto da uno strato di cera per simulare la lucentezza del materiale originale. Lo stesso procedimento è stato applicato ai frammenti del coperchio ritrovato da Belzoni.
La copia fisica è stata usata per la mostra; la copia digitale è stata invece conservata per verificare nel tempo lo stato di conservazione del sarcofago originale e cercare di prevenire ulteriori danni.
Non solo: dulcis in fundo, il “blu Egitto” ha una caratteristica peculiare: è composto prevalentemente da un raro minerale naturale, la cuprorivaite (CaCuSi4O10) che ha la proprietà di assorbire la radiazione visibile riemettendo una radiazione infrarossa (IR). Con la fotocamera modificata per rilevare gli infrarossi, sono state ottenute immagini straordinarie delle iscrizioni che saranno utilissime sia per studiare in maniera organica le iscrizioni che per intervenire sul restauro dell’originale, ove possibile.
Quando si dice che copiare può servire per proteggere…
Abbiamo già incontrato più volte la figura di Bernardino Drovetti, console francese in Egitto. Il “rivale” di Salt, quasi un supercattivo della storia di Belzoni. Ma non è proprio così. Lo approfondiremo più avanti, perché anche Drovetti avrà un enorme impatto sulla nostra comune passione.
Inizialmente Drovetti vede in Belzoni un alleato: viene dall’Italia anche lui, seppur molto inglesizzato ormai; non è un superstizioso mistico come Caviglia; riesce ad arrivare dove Drovetti non può e non riesce.
Drovetti gira in divisa, Belzoni in abiti arabi. Uniti dall’ammirazione per la cultura egizia, divisi dalla provenienza, dall’estrazione sociale e dal carattere.
Sono anche quasi amici: Drovetti, infatti, subito dopo il recupero del “Giovane Memnone” offre a Belzoni il coperchio di “un sarcofago stupendo”, basta che riesca a tirarlo fuori dalla tomba in cui giace. L’amicizia con il viceré d’Egitto permette a Drovetti di gestire molti reperti come se fossero cosa sua; oggi potrebbe sembrare incredibile se non fosse che, come abbiamo visto, personaggi come Zahi Hawass si prestano a visite private in siti non aperti al pubblico, tanto per fare un esempio…
Belzoni ovviamente accetta la sfida. La tomba è la cosiddetta “Tomba di Bruce”, quella che abbiamo visto descritta per la prima volta con le immagini degli arpisti quasi 50 anni prima (https://laciviltaegizia.org/2024/04/23/james-bruce/). Quello che Belzoni non sa è che Drovetti in quella tomba ci è già entrato, ma è stato nuovamente ingannato dai locali che lo hanno fatto entrare da un passaggio da loro stessi scavato e che non consentirebbe di estrarre il sarcofago o il suo coperchio.
Il nostro eroe entra quindi in una delle tombe più lunghe della Valle (125 metri in totale) attraverso lo stesso passaggio percorso da Drovetti, tanto da descrivere “lo non potei comprendere come un sarcofago siccome mi era stato descritto avesse potuto essere introdotto in quella cavità che l’arabo mostrava a dito”.
L’impresa pare impossibile, ma visto che la fortuna aiuta gli audaci, Belzoni vede una delle sue guide precipitare in uno dei pozzi e ferirsi gravemente. Recuperando il malcapitato, scopre il corridoio principale e l’ingresso “vero” della tomba. Diventa quindi possibile estrarre il coperchio (in fondo pesa “solo” 7 tonnellate…) ma immediatamente viene accusato di furto da un solerte funzionario locale. Interverrà personalmente Drovetti per confermare il “regalo” del coperchio e prendere possesso del sarcofago.
E così il coperchio dello splendido sarcofago di Ramses III (perché sua era la tomba, la KV11) finirà al Fitzwilliam Museum di Cambridge, donato da Belzoni in persona, e il sarcofago al Louvre, donato da Drovetti.
Il coperchio è di una bellezza stordente (la descrizione è sotto la sua foto), probabilmente i due pezzi meriterebbero di essere riuniti.
Ma poco dopo l’amicizia di Belzoni con Drovetti svanirà dietro ad un obelisco conteso. Anzi, affonderà, letteralmente.
NOTA: esistono dei dubbi se effettivamente il coperchio del sarcofago di Ramses III sia quello “donato” da Drovetti o se sia stato recuperato da Belzoni in un secondo tempo. Secondo alcuni Autori, tra cui Bickerstaffe (Bickerstaffe, D. 2006. “Strong Man—Wrong Tomb: The Problem of Belzoni’s Sarcophagi”) la tomba da cui venne estratto il regalo di Drovetti sarebbe la TT289 del viceré della Nubia Setau. Salt donò (o millantò il dono) a sua volta a Belzoni il coperchio di un sarcofago (“the cover of a Sarcophagus found by him in one of the end-tombs of the Kings at Thebes”) ma, mannaggia a lui, non specifica QUALE tomba. Inoltre, non ci sono evidenze che Belzoni abbia portato via DUE coperchi di sua “proprietà” come sarebbe successo secondo la ricostruzione di Bickerstaffe, ed il coperchio proveniente dalla TT289 è stato venduto al British Museum da Salt e non da Belzoni… Sappiamo invece tutto dei due reperti dopo il loro arrivo in Inghilterra. Champollion in persona consigliò l’acquisto della vasca del sarcofago al Louvre (effettuato nel 1826), mentre Belzoni donò il coperchio al Fitzwilliam Museum probabilmente per ringraziare della raccolta fondi per la sua ultima spedizione in Africa di cui parleremo più avanti
Riferimenti:
Webster D, Giovanni Belzoni: Strongman Archaeologist, 1990
Belzoni GB, Narrative of the recent discoveries in Egypt and Nubia, 1835
De Andrade-Eggers, Discovering Ancient Egypt In Modernity: The Contribution Of An Antiquarian, Giovanni Belzoni. Herodoto, 2016
Zatterin M. Il gigante del Nilo, 2002
Sevadio G, L’italiano più famoso del mondo, Bompiani 2018
Dodson, Aidan. Rameses III, king of Egypt: his life and afterlife. American University in Cairo Press, 2019
Il coperchio del sarcofago di Ramses III (XX Dinastia, regno 1183-1152 a.C.). Fitzwilliam Museum – Cambridge
In granito rosso, dal peso di circa sette tonnellate e scolpito a forma di cartiglio, fu danneggiato nell’antichità dai tombaroli.
Il Faraone indossa la corona Atef ed è affiancato da Nephtis a sinistra e da Iside a destra, oltre che da due figure con corpo di serpente e testa di donna rappresentanti Nekhbet e Wadjet, protettrici dell’Alto e del Basso Egitto.
Il particolare della figura di Ramses III divinizzato. Fitzwilliam Museum – Cambridge
Ramses III fu vittima della cosiddetta “Congiura dell’harem” e fu assassinato tagliandogli la gola.
La sua mummia fu ritrovata nella DB320 a Deir El Bahari
Il sarcofago di Ramses III al Louvre.
Riporta capitoli del Libro dell’Amduat e del Libro delle Porte ma, benché attentamente scolpito, i testi non sono corretti – come se fossero stati copiati malamente da un artigiano non in grado di comprenderli.