Il faraone Amirteo, unico rappresentante della XXVIII dinastia, finalmente un egizio, non ebbe però molta fortuna. Le congiure ormai erano di casa il tutte le famiglie reali, volete che l’Egitto fosse da meno?
Nel 399 a.C. ci pensò il principe di Mendes, Nefaaud, con un colpo di stato defraudò e poi uccise Amirteo, si proclamò “Re dell’Alto e Basso Egitto” ed assunse una titolatura reale tipica dei sovrani della XXVI dinastia. Cambiò il suo nome in Nepherites (I suoi Grandi sono prosperi), fondando così la XXIX dinastia e fissando la sua capitale a Mendes. Conosciamo questi avvenimenti in quanto sono riportati in un documento aramaico (il papiro Brooklin 13).
Sempre contrario all’impero persiano, accettò di allearsi con Agesilao II di Sparta al quale, sempre secondo la “Cronaca Demotica”, mise a disposizione 500.000 staia di grano oltre all’equipaggiamento per cento triremi, fu convenuto che la flotta spartana dovesse andare a prendersi il generoso sussidio a Rodi. Prima però che gli spartani raggiungessero l’isola l’ammiraglio ateniese Conone, al servizio di Artaserse II, conquistò l’isola e confiscò tutta la merce.
Nepherites I non fu certo un grande costruttore, forse fece costruire un tempio al dio Thot a Mendes dove è stato rinvenuto parecchio materiale litico. Una sua statua è stata rinvenuta a Buto mentre dal Serapeo di Saqqara proviene una placca in faience che cita il suo nome.
Dalla suddetta Cronaca Demotica si rileva che Nepherite I regnò sei anni, cosa che confermano anche gli epitomatori di Manetone; su di una benda di mummia viene citato il suo 4º anno di regno che è la data più alta fornita da reperti archeologici.
Nepherites I morì nel 339 a.C. e la sua tomba, con i resti di un sarcofago in granito nero e del corredo funerario, venne rinvenuta durante gli scavi del gruppo di ricerca delle Università di Toronto e di Washington nel 1992-93.
Fonti e bibliografia:
Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano , 2003
Edda Bresciani, “L’Antico Egitto”, De Agostini, Novara 2000
Toby Wilkinson, “L’antico Egitto. Storia di un impero millenario”, Einaudi, Torino, 2012
Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
Jurgen von Beckerath, “Chronologie des Pharaonischen Agypten”, Ed. Zabern, 1997
L’Egitto è nuovamente libero ed indipendente. Siamo nel 402 a.C. e con il faraone autoctono Amirteo, inizia (e finisce) la XXVIII dinastia egizia che pone fine alla prima dominazione persiana.
Amirteo (Amonirdisu), fondatore, ed unico rappresentante della dinastia assume la piena titolatura reale egizia. Non esistono testimonianze su alcun monumento ma la sua esistenza ci giunge dalla “Cronaca Demotica”, un testo profetico egizio. Il testo, manoscritto, è contenuto in un papiro in demotico rinvenuto dagli studiosi al seguito della campagna di Napoleone (oggi conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi), nel testo si afferma che fu realizzato durante il regno di Teos (XXX dinastia) anche se in realtà venne scritto più tardi, nel III secolo a.C. sotto Tolomeo III Evergete. L’opera vuol raccontare le cronache delle dinastie XXVIII, XXIX e XXX, praticamente il periodo d’indipendenza egiziana interposto alle due dominazioni persiane. Lo scopo dell’opera non è tanto quella di parlarci dei vari faraoni che si sono succeduti in quel periodo bensì sull’operato e sul rispetto delle leggi di questi, affermando che la durata del loro regno, più o meno lungo e prospero, è dovuta al loro comportamento, come espressione del volere degli dei. Nel testo si parla anche del malgoverno dei persiani profetizzando il ritorno ad un’epoca dove regnino la legalità e la libertà (in pratica l’avvento dei tolomei). Di grande utilità si sono rivelate le cronache per gli studiosi che, nonostante il carattere esoterico e criptico del testo, hanno permesso di integrare le epitomi di Manetone fornendoci notizie riguardanti l’ordine di successione dei faraoni del suddetto periodo.
Amirteo lo troviamo anche citato in diversi papiri in aramaico rinvenuti ad Elefantina. Manetone lo cita nella sua lista chiamandolo Amyrteos, secondo Sesto Africano o Amyrtaios secondo Eusebio di Cesarea. Compare inoltre su alcune opere di storici greci che lo chiamano Amonortais.
Forse era il nipote di quell’altro Amirteo, principe del Delta fautore, con Inaro della rivolta contro i persiani nel 450 a.C. durante il regno di Artaserse I; entrambi forse discendenti della XXVI dinastia egizia. Già a partire dal 410 a.C. condusse numerose azioni di guerriglia contro i Persiani sfruttando la protezione delle intricate paludi del Delta del Nilo.
Alla morte di Dario II, nel 404 a.C. sfruttando la debolezza persiana dovuta alla contesa tra i suoi due figli, Artaserse II e Ciro il Giovane, Amirteo si proclamò “Re dell’Alto e Basso Egitto” cingendo la doppia corona e cacciando le guarnigioni persiane anche dal Basso Egitto. Dopo di ciò, nel 402 a.C., estese il suo potere anche sull’Alto Egitto regnando sulle Due Terre riunificate.
Secondo Manetone il suo regno durò sei anni e questa pare una durata accettabile in quanto nei papiri aramaici di Elefantina compare una promessa di pagamento di un debito che porta la data del suo quinto anno di regno. Le lotte intestine però prevalsero sugli eventi e dopo pochi anni, nel 399 a.C. Amirteo fu vittima di una congiura ordita dal principe di Mendes, Nefaarud, che usurpò il trono imprigionando a Menfi, ed in seguito uccidendo Amirteo, e fondando la XXIX dinastia attribuendosi il nome di Nepherites. Per il resto la figura di Amirteo è avvolta nella più cupa oscurità ad eccezione di una lettera dove il suo nome compare accanto a quello del suo successore Nepherites.
Fonti e bibliografia:
Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano , 2003
Edda Bresciani, “L’Antico Egitto”, De Agostini, Novara 2000
Toby Wilkinson, “L’antico Egitto. Storia di un impero millenario”, Einaudi, Torino, 2012
Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
Jurgen von Beckerath, “Chronologie des Pharaonischen Agypten”, Ed. Zabern, 1997
Figlio di Dario II e della moglie Parisatide, Arsace, divenuto poi Artaserse II fu re di Persia e re d’Egitto, ma solo dell’Alto Egitto.
Come abbiamo accennato in precedenza, la madre propendeva però per l’altro figlio, Ciro, al quale Dario II aveva assegnato la satrapia di Caria e Lidia che Artaserse II confermò su richiesta della madre. Ciro però non accettò la situazione ed armò un esercito di diecimila mercenari e mosse guerra al fratello. Lo scontro avvenne a Cunassa e Artaserse ne uscì vittorioso mentre il fratello Ciro morì nello scontro. Artaserse II nominò satrapo di Caria e Lidia, al posto del fratello, Tissaferne che partecipò attivamente alle guerre contro i greci. Le guerre contro i greci continuarono, non solo ma Artaserse dovette pure impegnarsi in altre guerre, prima contro Evagora I di Cipro poi contro i Carduchi, presso il Mar Caspio, dove il suo grande esercito riuscì con grande difficoltà a salvarsi dalla disfatta totale e Artaserse II fu costretto ad una pace senza ottenere alcun vantaggio. Non pago di guerre tentò più volte la riconquista dell’intero Egitto ma senza successo.
Ora, poiché il mio scopo è quello di raccontare la storia egizia, non vorrei perdermi ulteriormente nel raccontare quella persiana se non per quanto riguarda quel che resta della grandezza egizia. Purtroppo l’influenza achemenide sulla sorte dell’Egitto in questi periodi è solo quella di considerare quello che fu di questa grande civiltà una semplice satrapia periferica. Arrivo quindi alla fine del regno di Artaserse II quando cioè, sentendo avvicinarsi la sua fine, nell’intento di impedire ulteriori lotte fratricide, si affidò alle antiche regole e pose sul trono Dario, il maggiore dei suoi tre figli legittimi (alcune fonti riportano che ebbe 350 mogli che gli dettero 115 figli), conferendogli tutti i suoi titoli.
Dario si scontrò poi col padre a causa di Aspasia di Focea, un’etera che fu favorita di Ciro il Giovane ed alla sua morte di Artaserse II che gli riservò molti onori. Dario la nominò sacerdotessa di Anahita ed ordì un complotto per assassinare il padre. I congiurati furono traditi, e Dario venne condannato a morte con molti dei suoi complici. Gli altri due figli legittimi, Oco e Ariaspe, aspiravano entrambi a succedere al padre, Oco pensava di succedere al padre per diritto, Ariaspe aspirava pure lui in quanto più amato dai persiani per il suo carattere docile e amabile, ma Artaserse II avrebbe preferito Arsame, figlio di una delle sue concubine. Oco congiurò per portare Ariaspe alla disperazione e al suicidio e per assassinare Arsame. Di fronte a questi fatti di sangue nella sua famiglia, Artaserse II non resse al dolore e morì.
Ora ci inoltriamo in un vespaio in quanto Artaserse II aveva ereditato dal padre Dario II il titolo di “Gran Re di Persia” che mantenne fino alla morte avvenuta nel 358 a.C.. Al trono gli successe Oco che mutò il suo nome in Artaserse III. Aveva inoltre ereditato il titolo di “Re dell’Alto e Basso Egitto” anche se il suo effettivo potere si limitava al solo Alto Egitto.
Nel 402 a.C. gli venne strappato da Amirteo di Sais che già due anni prima aveva scacciato le guarnigioni persiane dal Basso Egitto ed assunto la piena titolatura reale egizia, Amirteo estese così il suo potere sull’intero Egitto ponendo fine alla prima dominazione persiana.
Fonti e bibliografia:
Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano , 2003
Salima Ikram, “Antico Egitto” , Ananke, 2013
Artaserse in “Dizionario di storia”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2010
Edda Bresciani, “L’Antico Egitto”, De Agostini, Novara 2000
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Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
Pierre Briant, “Storia dell’impero Persiano da Ciro ad Alessandro”, Fayard, Parigi, 1996
Franco Mazzini, “I mattoni e le pietre”, Urbino, Argalia, 2000
Jurgen von Beckerath, “Chronologie des Pharaonischen Agypten”, Ed. Zabern, 1997
Kenneth Kitchen, “Il terzo periodo intermedio in Egitto (1100–650 a.C.)” 3a ed, (Warminster: 1996
Artaserse I, figlio di Serse I, successe al padre, assassinato con il fratello maggiore Dario dal funzionario Artabano nel suo tentativo di usurpare il trono.
A tutti gli effetti fu anche il sesto faraone achemenide della XXVII dinastia egizia con il nome persiano di Artakhsassa (anche se parlare di titolo di faraone in questi periodi oscuri per l’Egitto non ha alcun senso). Per un amante della storia egizia è triste prendere atto che gli egizi non erano più in grado di esprimere il loro valore storico, culturale ed artistico, oltre che militare. Parlare di faraoni stranieri le cui dinastie, seppur nobili ed in grado di esprimere un livello di civiltà notevole, nulla hanno a che vedere con le dinastie egizie, neppure con quelle che, seppur di etnia straniera, regnavano sulle Due Terre ma soprattutto vivevano nel paese. Artaserse, come i suoi predecessori, forse non visitò mai la Valle del Nilo.
Di tanto in tanto però qualche anelito di libertà spirava anche in Egitto. Profittando della debolezza persiana seguita alla morte di Serse I, nella regione del Delta scoppiarono locali rivolte finché nel 460 a.C. avvenne un’aperta ribellione guidata da Inaros, il cui nome egizio significa “L’occhio di Horo [è contro di essi]”, figlio di Psametek, un principe imparentato con la decaduta dinastia saitica. Tucidide lo chiama “re dei Libu” con riferimento alle origini libiche della dinastia.
Inaros non si lasciò sfuggire l’occasione, dopo aver assoldato mercenari diede inizio alla rivolta dell’Egitto contro l’occupazione cui era sottoposto da sessant’anni. Con lui si schierò anche il governatore di Sais, il principe Amonirdisu (Amirteo) discendente della famiglia reale saitica annettendo il suo governatorato alla causa di Inaros. Intanto Artaserse I dopo aver consolidato la sua posizione di sovrano in patria, inviò in Egitto un’armata di 400.000 uomini con 80 navi guidati dal satrapo Achemene.
Neppure Atene, acerrima nemica dei persiani, si lasciò sfuggire l’occasione, inviò, in aiuto degli insorti, truppe di terra ed la flotta di oltre 200 navi, che si trovava a Cipro al comando di Caritimide di Cimone. I due eserciti, quello egizio-greco e quello persiano, si scontrarono a Papremi. I persiani furono sconfitti e lo stesso Achemene trovò la morte. Papremi era una città nel Delta del Nilo poco lontano da Xois; citata da fonti storiche ma a tutt’oggi non è stata identificata. Curiosità: racconta Erodoto che Papremi era l’unico luogo in tutto l’Egitto nel quale l’ippopotamo veniva considerato sacro. Nello scontro i persiani persero 100.000 uomini mentre il resto dell’esercito si ritirò a Menfi. La battaglia ebbe un seguito al largo dove la flotta ateniese con quaranta navi si scontrò con cinquanta navi persiane, i greci ne catturarono venti col loro equipaggio ed affondando le rimanenti. Finita la battaglia Inaros fece inviare al Gran Re Artaserse I il cadavere di Achemene. A questo punto Inaros poteva dirsi padrone di tutto il Delta ma non si attribuì i titoli regali. Forse però si montò un po la testa e diede l’assalto a Menfi che conquistò solo in parte. Artaserse I inviò nuovi rinforzi persiani guidati dal generale Megabizo che sbaragliò i ribelli i quali dovettero rifugiarsi nel dedalo di paludi del Delta del Nilo. I persiani riuscirono a catturare Inaros che deportarono a Susa dove nel 454 a.C. venne crocifisso (o impalato). Altre ribellioni scoppiarono durante l’occupazione persiana in Egitto ma quella di Inaros fu quella che lasciò una grande impronta nella storia egiziana. Persino Erodoto ne fu impressionato tanto che scrisse:
<<……..Nessuno ha mai recato maggiori danni ai Persiani di Inaros e di Amirteo…….>>.
Ma la rivolta egizia non finì così; Amirteo, che aveva trovato rifugio nelle vaste zone paludose del Delta nord-occidentale tornò a chiedere l’aiuto degli ateniesi i quali inviarono sessanta navi da Cipro. Queste però non giunsero mai: durante il percorso scoppiò un’epidemia tra i marinai ed il comandante Cimone perse la vita e di conseguenza la flotta non proseguì ma fece ritorno a Cipro.
Finì così nel nulla l’ultimo anelito egizio di riconquistare la sua indipendenza. Rassegnati, gli egizi si trovavano ora governati da una pacifica satrapia che si affermò nel 448 a.C. con la pace di Callia che poneva fine, per il momento, alle ostilità tra la Grecia e l’impero achemenide.
Con la nomina del nuovo satrapo Arsame, si instaurò un periodo di pace e prosperità economica conciliante con la popolazione egizia; Arsame restituì a Tannira, figlio di Inaros ed a Paosiri, figlio di Amirteo, la direzione dei distretti di cui erano originari.
Ostile come sempre ai persiani, Erodoto, che in questo periodo storico compì il suo viaggio in Egitto, afferma che non fu comunque un atto di benevolenza ma semplicemente un uso dei persiani presso le popolazioni sottomesse. Giungiamo così al 424 a.C. quando Artaserse muore lasciando il trono al figlio Serse II.
Fonti e bibliografia:
Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano , 2003
Salima Ikram, “Antico Egitto” , Ananke, 2013
Artaserse in “Dizionario di storia”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2010
Edda Bresciani, “L’Antico Egitto”, De Agostini, Novara 2000
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Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
Pierre Briant, “Storia dell’impero Persiano da Ciro ad Alessandro”, Fayard, Parigi, 1996
Franco Mazzini, “I mattoni e le pietre”, Urbino, Argalia, 2000
Jurgen von Beckerath, “Chronologie des Pharaonischen Agypten”, Ed. Zabern, 1997
Kenneth Kitchen, “Il terzo periodo intermedio in Egitto (1100–650 a.C.)” 3a ed, (Warminster: 1996
La storia egizia si incrocia anche con questi oscuri personaggi; forse Manetone aveva capito male o forse non ne tenne conto. Sesto Africano, nella sua epitome dello storico greco, inserisce questo “Artabano” tra i sovrani d’Egitto della XXVII dinastia, il quale pare abbia regnato per soli 7 mesi, anche se dire che ha regnato è del tutto fuori luogo.
Di lui ne parla a lungo anche lo storico greco Erodoto di Alicarnasso, il “Padre della Storia”. Artabano di Ircania, come abbiamo già detto in precedenza, era un potente funzionario, comandante della guardia del corpo reale e satrapo della Battriana. Era anche il fratello minore di Dario I quindi zio di Serse – va detto che finché il figlio di Serse non avesse raggiunto l’età per governare, lui sarebbe stato potenzialmente successore del fratello.
Nelle opere di Ctesia viene chiamato Artapano. Nelle Storie di Erodoto viene definito come un saggio consigliere; infatti sconsigliò Dario di scontrarsi contro gli Sciti ed il suo consiglio si rivelò esatto. La campagna fu un vero disastro, Dario avanzò per alcune settimane nelle steppe dell’Ucraina ma fu poi costretto al ritiro senza aver raggiunto gli obiettivi che si era prefissato. Erodoto racconta che il fautore della infausta campagna fu Mardonio che istigò il giovane Serse a dichiarare la guerra. Mardonio aveva sottoposto la decisione di entrare in guerra a un consiglio di nobili che furono tutti d’accordo tranne Artabano che arrivò anche ad accusare Mardonio e Serse di calunniare gli Elleni. Serse si limitò ad un solenne rimprovero ma poi, meditando tutta la notte convenne che Artabano aveva ragione, nonostante la notte stessa una visione gli avesse sconsigliato di dar ragione ad Artabano. A questo punto anche Artabano ebbe una visione notturna dove gli veniva detto invece di combattere: dopo di ciò, mutò parere e divenne un sostenitore della campagna. E qui non saprei se siamo ancora nella storia o nel mito, ma noi proseguiamo comunque.
L’esercito attraversò l’Ellesponto e pare che Serse nutrisse dei ripensamenti, mutava costantemente di umore e spesso piangeva. Notato ciò, Artabano lo avvicinò e gli chiese perché piangesse, dopo essere stato felice. Quello che ci è stato tramandato è che ne nacque una discussione durante la quale Artabano afferma che non è tanto la brevità della vita a renderla triste, quanto il fatto che sia piena di tormenti. A questo punto emerge il fatto che entrambi erano dubbiosi sull’esito dell’impresa.
Serse chiese ad Artamano se era il caso di aumentare il numero dei soldati, cosa che Artabano sconsigliò adducendo che un numero troppo elevato di uomini avrebbe creato maggiori problemi sia negli spostamenti che dal punto di vista logistico. Discorso che si confà ad una costante dei racconti di Erodoto: “ogni eccesso umano è punito dalla volontà divina”.
A questo punto Serse non ascoltò più i consigli di Artabano e lo rimandò a Susa. Come abbiamo detto sopra la campagna si rivelò un disastro e Serse se ne tornò a Susa. A questo punto avvenne la rivolta di Artabano contro Serse, che abbiamo già descritto parlando di Serse, e lo fece assassinare. Secondo Aristotele fece assassinare prima Dario poi Serse e “regnò” alcuni mesi fino a quando Artaserse, venuto a conoscenza del fatto, lo fece giustiziare insieme ai suoi figli.
Secondo lo storico romano Marcus Iunianus Iustinus, Artabano aveva mire sul trono achemenide e per questo fece uccidere prima Dario poi Serse. Il seguito è completamente avvolto nel mistero, potrebbe aver usurpato il trono oppure aver nominato Artaserse sovrano di Persia ed essersi autonominato reggente. Forse, in parte all’oscuro di come si erano svolti i fatti, Artaserse accettò la situazione ma appena a conoscenza della realtà si liberò subito dell’usurpatore. Come detto sopra non è chiaro perché Manetone lo abbia inserito nella XXVII dinastia achemenide come fosse un faraone.
Fonti e bibliografia:
Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano , 2003
Salima Ikram, “Antico Egitto” , Ananke, 2013
Edda Bresciani, “L’Antico Egitto”, De Agostini, Novara 2000
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Franco Mazzini, “I mattoni e le pietre”, Urbino, Argalia, 2000
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Kenneth Kitchen, “Il terzo periodo intermedio in Egitto (1100–650 a.C.)” 3a ed, (Warminster: 1996
Come abbiamo detto parlando di Dario I, dopo la sconfitta di Maratona, il re preparò una terza spedizione contro la Grecia ma nel frattempo in Egitto si ebbero numerose rivolte, tutto il Delta del Nilo si ribellò. Secondo l’egittologo statunitense Eugene David Cruz-Uribe le rivolte furono organizzate principalmente da un governatore locale che si proclamò sovrano con il nome di Psammetico IV, probabilmente riferendosi all’ultimo sovrano della XXVI dinastia, Psammetico III. In realtà pare che a guidare la rivolta fosse il satrapo persiano della zona.
Dario pensò prima a sopprimere la rivolta in Egitto ma doveva rispettare la legge persiana, che prevedeva che prima di partire per spedizioni pericolose il sovrano nominasse un successore. A questo punto, vista la sua salute precaria, Dario si fece preparare la tomba nelle pareti rocciose di Naqsh-e Rostam, quindi nominò suo successore il figlio avuto dalla sposa Atossa.
Dario però non si riprese e nell’ottobre del 486 a.C. morì. L’ascesa al trono di Serse non fu però così semplice, in linea di primogenitura il trono sarebbe spettato al suo fratellastro, Artabazane che era il più vecchio di tutti i figli di Dario. Alcuni studiosi sostengono che Dario designò a succedergli Serse in quanto figlio di Atossa, figlia di Ciro il Grande a dimostrazione della grande considerazione che aveva di Ciro e di sua figlia.
Artabazane era si il primogenito ma nato quando Dario era un semplice suddito e la madre era una persona qualunque. Salito al trono Serse represse in breve le rivolte in Egitto e Babilonia, dopo di che, secondo l’archeologo Roman Ghirshman, cessò di usare il titolo di “re di Babilonia” limitando il suo titolo a “re dei persiani e dei Medi”.
Pur dando per scontato che il giudizio dei greci sia inevitabilmente di parte, non si può negare che Serse, a differenza dei suoi predecessori, esercitò il potere spesso in modo eccessivamente violento. Nel reprimere la rivolta di Babilonia non ebbe riguardo del fatto che si trattava di una città sacra, ma distrusse le mura, i templi e le statue degli dèi.
Per quanto riguarda l’Egitto impiegò circa due anni per reprimere le rivolte scoppiate nella regione del Delta del Nilo con grande crudeltà lasciandosi alle spalle una scia di odio e rancore. Una volta riportato l’ordine nominò suo fratello Achemene satrapo dell’Egitto.
Scrive Erodoto che Serse: <<……….ridusse l’Egitto in una schiavitù assai più pesante di quella sofferta sotto il regno di Dario……….>>.
In ogni caso Serse, profittando della sua sovranità sull’Egitto, nel 480 a.C. affidò ad una flotta egizia, composta da circa 200 navi, al comando di Achemene, il compito di tentare una rivincita sui greci.
Per l’Egitto non fece nulla di buono, non costruì templi o palazzi e non utilizzò neppure funzionari egizi nell’amministrazione. Unico punto a favore fu che durante tutto il suo regno almeno l’Alto Egitto visse un periodo di relativa tranquillità.
Serse regnò una ventina di anni (trentasei secondo Sesto Africano ed Eusebio di Cesarea) trascurando l’Egitto considerato una turbolenta ed insicura provincia.
Dopo la sconfitta subita dai greci, Serse giunse a Sardi dove si innamorò della moglie di suo fratello Masiste facendo pressione per sottrargliela. Dopo aver dato in sposa al proprio figlio Dario la figlia di Masiste Artainte, s’invaghì di quest’ultima al punto da fargli dono di un mantello che sua moglie Amestris aveva tessuto per lui con le proprie mani. Scoperta la tresca, Amestris escogitò una vendetta terribile. Fece mutilare la moglie di Masiste, il quale fuggì coi figli nella sua satrapia di Battriana e cercò di sollevare una rivolta contro Serse il quale inviò un esercito che lo sconfisse ed uccise sia lui che i suoi figli.
Nel 465 a.C., il comandante della guardia del corpo reale, il potente funzionario Artabano, in virtù della grande popolarità di cui godeva negli affari religiosi e negli intrighi dell’harem, si rivoltò contro Serse e lo fece assassinare, poi assegnò ai suoi sette figli posizioni chiave così da spianarsi la strada per spodestare gli Achemenidi.
Dell’evento esistono due versioni contrastanti da parte di scrittori greci, secondo Ctesia di Cnido Artabano accusò dell’omicidio del sovrano il principe ereditario Dario convincendo il fratello Artaserse a vendicare il padre. Aristotele invece racconta che Artabano uccise prima Dario poi Serse; quando Artaserse venne a conoscenza del fatto fece giustiziare Artabano ed i suoi figli.
La dinastia Achemenide era salva anche grazie al fatto che il generale Megabizo, prima complice della congiura, in un secondo tempo passò dalla parte di Artaserse. Anche Serse sarebbe stato sepolto in una delle tombe di Naqsh-i-Rustam, conosciute localmente come le “croci persiane”, per la forma delle facciate delle tombe, nonostante il suo nome non compaia su nessuna.
La fine di Serse fu tragica come la sua esistenza; le parole di Eschilo al suo riguardo suonano come una condanna eterna:
<<……….Zeus veglia e punisce la superbia, esige il conto, giudice severo………>>.
Fonti e bibliografia:
Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano , 2003
Salima Ikram, “Antico Egitto” , Ananke, 2013
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Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
Pierre Briant, “Storia dell’impero Persiano da Ciro ad Alessandro”, Fayard, Parigi, 1996
Franco Mazzini, “I mattoni e le pietre”, Urbino, Argalia, 2000
Jurgen von Beckerath, “Chronologie des Pharaonischen Agypten”, Ed. Zabern, 1997
Kenneth Kitchen, “Il terzo periodo intermedio in Egitto (1100–650 a.C.)” 3a ed, (Warminster: 1996
Dario I di Persia successe a Cambise II sul trono achemenide; appartenente alla famiglia di Ciro era figlio di un dignitario persiano di nome Istaspe. Al fine di garantirsi il potere sposò Atossa, figlia del re Ciro II, sorella di Cambise, e dalla loro unione nacque Serse I, suo successore. Per avvalorare ancor più il suo diritto al trono, durante il suo regno Dario I fece incidere una gigantesca iscrizione sulle rocce di Bisotun affinché servisse da testimonianza per i posteri.
Il suo nome in persiano antico era Darayavahus che significa “Colui che possiede il bene”; oltre ad essere re di Persia fu anche sovrano d’Egitto con il nome di Stutra.
Subito furono evidenti i progetti che presero vita durante il suo regno; dapprima avviò la costruzione della sua nuova capitale Persepoli, abbandonando la vecchia capitale Pasargade, che considerava troppo legata alla memoria della dinastia di Ciro il Grande e di Cambise II sottolineando così la volontà di volersi distinguere.
Fece della sua nuova capitale una stupenda città d’arte con giardini e palazzi ed amministrata con giustizia. Persepoli vantava mura alte 20 metri e larghe 11, Anche le varie province videro un’intensa attività edilizia rivolta soprattutto alla realizzazione di strade ed altre vie di traffico. La sua magnanimità traspare anche dal fatto che nel 515 a.C. permise agli ebrei di riedificare il tempio di Salomone a Gerusalemme distrutto da Nabucodonosor nel 586 a.C..
Di grande importanza il suo interesse per l’antica civiltà egizia caduta sotto il suo dominio, troviamo il suo nome nei templi che fece costruire a Menfi ed a Edfu; permise inoltre la riapertura della “Casa della vita” a Sais.
Nel terzo anno del suo regno inviò un ordine al satrapo d’Egitto affinché radunasse gli uomini più saggi del paese, sia militari che sacerdoti che scribi affinché compilassero una raccolta di tutte le leggi egizie dagli inizi fino all’anno 44 di Amasis, compito che impegnò i responsabili per ben sedici anni. Questo episodio ci è noto solo attraverso una copia assai più tarda scritta dietro ad un papiro in demotico. Alan Gardiner non ha dubbi sull’autenticità del papiro che sarebbe confermata anche da Diodoro Siculo che nella sua opera definisce Dario I come il più grande legislatore d’Egitto.
Narra Erodoto che una delle sue opere più grandiose fu il completamento del canale fra il Nilo ed il Mar Rosso, che il faraone Necao II fece iniziare abbandonando poi il progetto. Dario non solo fece riparare la parte esistente ma lo fece completare e ci fece passare ventiquattro navi cariche di tributi dirette in Persia.
Tra le tante iscrizioni che ci parlano di questo periodo una su tutte è la più completa biografia in geroglifico scritta da un alto funzionario egiziano vissuto tra la XXVI e la XXVII dinastia Wedjahorresnet, noto per aver cercato di promuovere le usanze egiziane ai primi invasori persiani. Scrisse la sua autobiografia su di una statua che lo ritrae conosciuta come il “Naoforo Vaticano”, in origine si trovava nel tempio di Neith a Sais, oggi è esposta nel Museo Gregoriano Egizio di Roma.
Wedjahorresnet racconta che fu lui a comporre il nome egizio di Cambise:
<<……..e io composi la serie dei suoi titoli nel nome di Mesutira, re dell’Alto e Basso Egitto……..>>.
Racconta inoltre, con enfasi, come gli presentò l’Egitto:
<<……..e gli feci conoscere la grandezza di Sais, sede di Neith la grande, la madre che diede la vita a Ra e che fu l’iniziatrice di nascite, quando niente era ancora nato…….>>.
Dario viene considerato come un sovrano illuminato, non un despota avido di potere, si interessava personalmente delle sorti del regno e non si limitava a lasciare che fossero solo i suoi satrapi a curare il benessere dei suoi domini. Le innovazioni portate da Dario I nella gestione del potere centrale portarono però i governanti delle province più esterne dell’impero a credere in una certa debolezza da parte del re, cosa che pensarono potesse agevolarli nel tentativo di riottenere la propria indipendenza.
Ci furono ribellioni in Babilonia, a Susa, Media e Margiana dove sorsero piccoli regni locali che si dotarono di grandi eserciti. Nonostante il suo modesto esercito composto da Persiani e Medi, ma guidati da esperti e fedeli generali, Dario I, nel giro di un anno, riuscì a sedare tutte le ribellioni e ristabilire la sua autorità su tutto l’impero.
Durante tutto il suo regno, Dario I visitò l’Egitto una sola volta, nel 517 a.C. pur senza disinteressarsene, come abbiamo detto sopra. Ora noi non seguiremo le sue ulteriori imprese in quanto esulano dalla storia dell’Egitto ma ci trasportiamo all’indomani della sconfitta persiana a Maratona, nel 490 a.C., ad opera degli ateniesi. Dario I riuscì a mantenere il suo impero ancora per poco: nel 486 a.C., venne distolto dalla preparazione della terza spedizione contro la Grecia da una ribellione in Egitto ma poco dopo Dario morì dopo trentasei anni di regno.
Venne sepolto nel sito di Naqsh-e Rustam, dodici chilometri a nord-ovest di Persepoli, in una delle quattro tombe rupestri dei re achemenidi scavate nella roccia ad una notevole altezza dal suolo. La sua tomba è distinguibile dalle altre in quanto contiene un’iscrizione che la identifica come tale.
Le altre tre, senza iscrizioni, potrebbero appartenere a Serse I, Artaserse I e Dario II; ne esiste una quinta, mai terminata, che potrebbe essere di Artaserse III o di Dario III. Le tombe vennero tutte saccheggiate durante la conquista della Persia ad opera di Alessandro Magno.
Fonti e bibliografia:
Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano , 2003
Salima Ikram, “Antico Egitto” , Ananke, 2013
Edda Bresciani, “L’Antico Egitto”, De Agostini, Novara 2000
Toby Wilkinson, “L’antico Egitto. Storia di un impero millenario”, Einaudi, Torino, 2012
Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
Pierre Briant, “Storia dell’impero Persiano da Ciro ad Alessandro”, Fayard, Parigi, 1996
Franco Mazzini, “I mattoni e le pietre”, Urbino, Argalia, 2000
Jurgen von Beckerath, “Chronologie des Pharaonischen Agypten”, Ed. Zabern, 1997
Kenneth Kitchen, “Il terzo periodo intermedio in Egitto (1100–650 a.C.)” 3a ed, (Warminster: 1996)
Parlando di Psammetico III abbiamo detto che fu l’ultimo faraone di etnia egizia, ora però ci troviamo questo Petubastis III, principe locale, probabilmente imparentato con l’ormai decaduta dinastia saitica (quindi ancora di stirpe egizia), che si proclama faraone d’Egitto.
Non facciamoci trarre in inganno, la ragione per la quale Manetone lo abbia inserito nella XXVII dinastia ci è del tutto oscura. Petubastis III, come abbiamo detto, era un principe locale che capeggiò una rivolta contro gli occupanti persiani che, secondo il racconto scritto da un militare macedone, tale Polieno, si ribellò a causa dell’esorbitante tassazione imposta dal satrapo Aryandes il quale si era sicuramente montato la testa arrivando ad attribuirsi ampie libertà amministrative al punto da battere moneta a proprio nome e governando l’Egitto come fosse un feudo personale.
Ovviamente Petubastis colse al volo il malcontento che regnava tra il popolo approfittando delle ribellioni avvenute in varie parti dell’impero achemenide in seguito alla morte di Cambise II. Agli inizi del 521 a.C. Petubastis III insorse attribuendosi le insegne della regalità.
La sua figura è quasi del tutto sconosciuta ed oscura nella storia egiziana, come sconosciuta è la sua fine dopo essere stato sconfitto ma la sua esistenza è confermata dal ritrovamento di due sigilli, uno scarabeo con inciso il suo nome racchiuso in un cartiglio oltre ad un documento datato al 533 a.C. che fu il suo primo anno di regno, la cui durata fu meno di due anni.
Una sua rappresentazione si trovava sullo stipite di una porta del tempio di Amheida, un tempo ricoperto di foglia d’oro, che oggi si trova al Museo del Louvre e su una tavoletta conservata al Museo di Bologna (KS 289).
Nelle “Iscrizioni di Bisotun” volute da Dario il Grande, successore di Cambise II, viene citata una rivolta in Egitto. Non si sa quali provvedimenti abbia preso Dario contro i ribelli, è ancora Polieno che racconta che Dario si recò di persona a Menfi, arrivando mentre si celebrava la morte del toro Api, astutamente promise un’enorme ricompensa in oro a chi avesse fornito un nuovo toro Api; gli egizi rimasero impressionati da tale provvedimento che passarono in massa dalla sua parte. La rivolta però era già stata sedata da Aryandes e l’Egitto era già pacificato quando Dario giunse per la prima ed unica volta in Egitto nel 517 a.C..
Nel tempio, distrutto, di Thoth ad Amehida, nell’Oasi di Dakhla, su alcuni blocchi compaiono iscrizioni con il nome ed il titolo reale di Petubastis III da cui si pensa che possa aver fissato ivi la sua residenza, lontano dalla Valle del Nilo controllata dai persiani. Secondo alcuni da quella posizione Petubastis III potrebbe aver teso un’imboscata all’armata persiana inviata da Cambise II verso l’Oasi di Siwa, citata da Erodoto come “L’Armata Perduta di Cambise” che sarebbe stata sepolta da una tempesta di sabbia nel “Mare di Sabbia” del deserto occidentale.
Ovviamente in assenza di testimonianze che confermino tali affermazione noi restiamo fedeli ad Erodoto. In ogni caso a Petubastis III ci pensò Dario che lo sconfisse dopo di che si diresse all’oasi di Kharga e, dopo averne assunto il pieno controllo, intraprese un’attiva campagna di lavori la cui opera più importante fu la costruzione dell’imponente e ben conservato tempio di Amon.
Da qui, con ogni probabilità, cancellò ogni traccia di Petubastis, incluso il tempio di Amheida cancellando, probabilmente ogni traccia del passaggio dell’esercito perduto di Cambise.
Fonti e bibliografia:
Jean Yoyotte, “Petoubastis III”, Revue d’Egyptologie, Paris, 1962
Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano , 2003
Salima Ikram, “Antico Egitto” , Ananke, 2013
Edda Bresciani, “L’Antico Egitto”, De Agostini, Novara 2000
Toby Wilkinson, “L’antico Egitto. Storia di un impero millenario”, Einaudi, Torino, 2012
Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
Franco Mazzini, “I mattoni e le pietre”, Urbino, Argalia, 2000
Jurgen von Beckerath, “Chronologie des Pharaonischen Agypten”, Ed. Zabern, 1997
Kenneth Kitchen, “Il terzo periodo intermedio in Egitto (1100–650 a.C.)” 3a ed, (Warminster: 1996
E’ ancora Erodoto a raccontarci un avvenimento importante accaduto durante la conquista persiana dell’Egitto, anche se purtroppo si limita, nella sua opera, a riportarci solo quello che gli fu raccontato dai sacerdoti accaduto circa ottanta anni prima.
Erodoto cita una “armata perduta” a seguito di un disastro militare occorso all’esercito persiano di Cambise II durante la guerra per l’occupazione dell’Egitto. Lo storico stesso afferma però di non aver riscontri per convalidare o confutare quanto raccontatogli dagli indigeni.
In quel tempo regnava in Persia il re Ciro il quale, dopo aver annesso alla Persia tutti i regni limitrofi, nel 525 a.C. invase anche l’Egitto che fu sconfitto nella battaglia di Pelusio. Appena caduta Menfi, Cambise, che nel frattempo era succeduto a Ciro, si proclamò faraone d’Egitto assumendo come nome Mesutira Kamebet e, con la collaborazione del generale greco Fanes, disertore dall’esercito egizio, conquistò tutto il paese fino alla Nubia. Conquistata Tebe, Cambise divise in due armate il suo esercito, una composta da 30.000 uomini che inviò a sud per cercare di sottomettere il Regno di Kush. L’impresa fallì miseramente in quanto l’armata venne quasi completamente distrutta dalla malaria e dalla dissenteria tra Napata e Meroe ed i pochi superstiti si rifugiarono ad Elefantina.
La seconda armata aveva il compito di conquistare l’ultimo avamposto egiziano, l’Oasi di Siwa dove si trovava il famoso oracolo di Zeus Ammone.
L’Oasi di Siwa si trova in pieno deserto occidentale, a circa mille chilometri dalla Valle del Nilo, quasi ai confini dell’odierna Libia. L’Oasi si trova in una depressione di 18 metri sotto il livello del mare, con un’enorme ricchezza di acqua dolce grazie alla quale produce grandi quantità di palmeti da datteri di ottima qualità; poteva resistere a qualunque assedio per un tempo indeterminato.
Erodoto parla di due motivi che indussero i persiani a tentare di conquistare Siwa. Il primo era dovuto al fatto che Cambise, quando conquistò Menfi aveva profanato i templi di Amon per cui il celebre oracolo di Siwa aveva predetto la morte imminente del re persiano. Il secondo e più probabile motivo era che Siwa costituiva una tappa obbligatoria per la via carovaniera che, da Cirene, trasportava in Asia il Silphium, una sorta di finocchio selvatico (un allucinogeno) che cresceva unicamente in Cirenaica, oggi estinta a causa dell’eccessiva raccolta. Il Silphium, molto richiesto anche da Roma, veniva venduto letteralmente “a peso d’oro” dai mercanti di “Arae Philaenorum”, oggi Rà’s Lànuf sulla costa del Mediterraneo.
Va detto inoltre che il re di Cirene, Arcesilao III, dopo la rotta dell’esercito egizio a Pelusio, si era prontamente schierato dalla parte di Cambise. Anche la spedizione verso Siwa però si rivelò un disastro ancora peggiore di quella verso Kush. L’armata, partita da Tebe nell’inverno del 525 a.C., forte di 50.000 uomini tra cui persiani, fenici, greci e mercenari di varia provenienza, venne inviata attraverso il deserto occidentale con l’intento di prendere di sorpresa le truppe egizie che presidiavano l’Oasi di Siwa.
Va detto che appare subito esagerato il numero dei soldati inviati a Kush e tanto più di quelli inviati a conquistare una pacifica oasi, anche se questa era ancora presidiata da truppe egiziane. Poiché è nota l’avversione di Erodoto per i persiani c’è da pensare che questo lo abbia portato a dilatarne eccessivamente il numero.
Racconta Erodoto che dopo aver marciato per sette giorni (percorrendo all’incirca 180 km.) si imbatterono in una oasi che Erodoto chiama “Isola dei Beati” (probabilmente l’Oasi di Kharga). Una volta rifornito l’esercito puntò a nord seguendo le guide indigene dei Garamanti le quali scelsero il percorso più logico in termini di tempo e di distanza arrivando così, attraverso il Wadi abd el-Malik, ad attaccare Siwa da sud, mentre gli egiziani si sarebbero aspettati un attacco frontale, attraverso la via che costeggiava il Mar Mediterraneo, decisamente più comoda.
Certamente quella presa dalle guide fu la scelta peggiore e pericolosa in quanto durante il percorso non si incontrano più altre oasi ad eccezione della mitica Zerzura. Secondo una leggenda araba contenuta in un manoscritto del XV secolo, nel bel mezzo del “Grande Mare di Sabbia”, ad ovest del Nilo, tra Egitto e Libia, sarebbe esistita un’Oasi che veniva chiamata “Zerzura” (l’Oasi dei piccoli uccelli). Per anni archeologi ed esploratori l’hanno cercata ma invano.
Fu così che, dopo aver percorso altri chilometri – l’acqua ed i rifornimenti cominciavano a scarseggiare – i comandanti decisero di proseguire attraverso una delle zone più aride dell’intero deserto del Sahara. Un errore così enorme nel calcolare il percorso forse è in parte dovuto alla ben nota infedeltà dei Garamanti, che con ogni probabilità si dileguarono. A completare il disastro sopraggiunse il Khamsin, un forte vento stagionale che, tra aprile e giugno, genera violente tempeste di polvere che disidratano i corpi coprendo ogni cosa di sabbia, creando nuove dune e spianando quelle esistenti; basti pensare che queste dune possono raggiungere l’impressionante altezza di 200 – 300 metri.
Da questo disastro non si salvò nessuno. Una conferma a tale disastro potrebbe venire dal ritrovamento, da parte della spedizione dei fratelli Angelo e Alfredo Castiglioni del novembre 2009, di reperti che possono attribuirsi ad un esercito orientale e che confermerebbero la versione dei fatti tramandata dallo storico greco.
Aiutati forse dallo stesso Khamsin sono venute alla luce spade di bronzo, coltelli di ferro, punte di freccia in bronzo, uno scudo e un braccialetto d’argento oltre a diversi scheletri umani, tutto perfettamente conservato grazie al clima estremamente arido.
Alcuni studiosi contestano le scoperte dei fratelli Castiglioni; personalmente mi astengo da ogni giudizio. Anche Belzoni, spintosi in quest’area nel 1821 rinvenne una trentina di sepolcri a forma di parallelepipedo contenenti scheletri.
Erodoto racconta che:
<<…….quando aveva ormai percorso circa la metà del tragitto che la divideva dalla meta (Siwa)…….. mentre prendevano il pasto spirò contro di essi un vento di meridione potente ed insolito trascinando vortici di sabbia che li seppellì ed essi così sarebbero scomparsi……..Gli Ammonii dicono che questo è avvenuto di tale spedizione…….>>.
E’ provato che con un Kamsin molto forte se non si è ben riparati si può morire per sincope, collasso cardiovascolare ed insufficienza renale, peggio se il corpo è debilitato da una marcia forzata di quasi 1.000 chilometri nell’aridità del deserto. La tempesta di sabbia seppellì tutto e tutti e spostò le dune sopra i resti dell’armata a mo’ d’epitaffio. Quale che sia stato il destino dell’armata persiana, la sua storia non smette di affascinare e di stimolare la mente, le mani e la penna.
La XXVI dinastia egizia finisce così, miseramente con Psammetico III, con lui se ne vanno per sempre i faraoni egizi. Manetone prosegue chiamandole “dinastie” anche se a tutti gli effetti nulla hanno a che vedere con le vere dinastie egizie.
Ad inaugurare la XXVII dinastia fu Cambise II, che successe al padre Ciro il grande nel 529 a.C.. Fu re di Persia, della dinastia Achemenide, e fin da subito continuò l’opera del padre di consolidare l’impero conquistando l’Egitto.
Narra una leggenda che Cambise venne a sapere dai suoi oracoli che gli egiziani adoravano i gatti al punto da divinizzarli. Il re persiano ordinò quindi a seicento dei suoi guerrieri di legare gatti vivi ai loro scudi e li mandò davanti agli altri guerrieri. A questo punto gli egiziani smisero di attaccare i soldati per paura di uccidere i loro animali di culto venendo così travolti. Quando decise di scendere in Egitto per conquistarlo, nel timore di essere defraudato del regno durante la sua assenza, fece uccidere di nascosto il fratello Bardija (in greco Smerdi).
Con la XXVII dinastia l’Egitto diventa in realtà una satrapia dell’impero Achmenide dove Cambise II, re di Persia, dopo aver sconfitto e conquistato l’Egitto si fece incoronare faraone assumendo il nome egizio di Mesutira Kamebet e adottando la completa titolatura reale.
In realtà Cambise II non esercitò mai il potere di faraone in quanto egli considerava l’Egitto una satrapia persiana, infatti affidò il governo al satrapo Aryandes. Le mire di Cambise erano ben altre che limitarsi a governare l’Egitto, egli mirava alla conquista della Nubia, occupare le oasi occidentali fino a Siwa e conquistare Cartagine.
La spedizione in Nubia fallì a causa della malaria e della dissenteria che l’esercito contrasse tra Napata e Meroe e che decimò quasi completamente la sua armata mentre quella verso Siwa si risolse nella disastrosa scomparsa dell’armata (che descriveremo in seguito). La conquista di Cartagine invece non ebbe mai inizio poiché la flotta persiana, composta in massima parte da marinai fenici, si rifiutò di attaccare una città di origine fenicia.
Nonostante avesse fatto uccidere suo fratello Bardija, durante la sua assenza, in patria un sacerdote di nome Gaumata, grazie a una certa somiglianza con il fratello del re, favorito dall’impopolarità del dispotico Cambise, oltre alla sua lunga assenza de re dalla Persia, dovuta alla campagna di conquista dell’Egitto, ebbe relativa facilità ad assumere il potere. Non ebbe però modo di governare più di sette mesi quando, Dario, succeduto a Cambise lo mise a morte. Racconta Erodoto che, non essendo riuscito a raggiungere gli obiettivi che si era prefissato, a fronte di tutte queste sciagure Cambise II impazzì, commettendo atti disdicevoli e feroci, distrusse dei templi egizi, arrivando, in un momento di pazzia a commettere la sacrilega uccisione del toro sacro Api, per gli egizi l’incarnazione del dio Ptah.
Su di un testo ebraico, risalente al 407 a.C., è riportato che Cambise avrebbe ordinato “la distruzione di tutti i templi degli Egizi”. Gli studiosi sono scettici circa la veridicità del racconto che probabilmente risente dell’avversione dello storico greco nei confronti dei persiani come d’altra parte lo sarà sicuramente la fonte ebraica. Una smentita potrebbe derivare dal fatto che nel Serapeo di Saqqara si trova uno splendido sarcofago fatto costruire da Cambise per un toro Api morto durante il suo regno.
Nel 552 a.C. Cambise lasciò l’Egitto per correre a Susa dove il sacerdote Gaumata gli aveva usurpato il trono. Durante il viaggio però morì in circostanze misteriose.
Con la precedente XXVI dinastia l’Egitto era tornato un paese prospero al punto che, dopo la conquista persiana, sarebbe potuta diventare una “perla dell’Impero”, ma tra gli egizi autoctoni e gli occupanti persiani non corse mai buon sangue nonostante da parte persiana si cercò di stabilire una collaborazione pacifica che trovò però uno scarso entusiasmo da parte egizia.
Nonostante tutto vigeva una politica di distensione che si protrasse fino alla fine del regno di Dario I, ma si deteriorò in modo molto sentito quando i loro successori ed i satrapi iniziarono ad adottare misure odiose per gli egiziani. Tra le peggiori che vennero prese ci fu l’abolizione dello status regale per le “Divine Spose di Amon” e l’imposizione di tasse assai pesanti sulle rendite dei templi allo scopo di finanziare le guerre persiane. Iniziò quindi, fomentato dai collegi sacerdotali, un “nazionalismo egiziano esasperato e insofferente” che culminerà poi nel 404 a.C. con la cacciata dall’Egitto degli Achemenidi.
Fonti e bibliografia:
Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano , 2003
Salima Ikram, “Antico Egitto” , Ananke, 2013
Edda Bresciani, “L’Antico Egitto”, De Agostini, Novara 2000
Toby Wilkinson, “L’antico Egitto. Storia di un impero millenario”, Einaudi, Torino, 2012
Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
Giuseppe Zaccarino, “Le lacrime del faraone”, rebstein.wordpress.com, 2021
Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
Pierre Briant, “Storia dell’impero Persiano da Ciro ad Alessandro”, Fayard, Parigi, 1996
Franco Mazzini, “I mattoni e le pietre”, Urbino, Argalia, 2000
Jurgen von Beckerath, “Chronologie des Pharaonischen Agypten”, Ed. Zabern, 1997 Kenneth Kitchen, “Il terzo periodo intermedio in Egitto (1100–650 a.C.)” 3a ed, (Warminster: 1996