Di Ivo Prezioso
INTRODUZIONE
Secondo Erodoto, la fondazione di Menfi come capitale delle Due Terre, fu una delle più grandi imprese del leggendario Menes fondatore della I Dinastia. Ragionevolmente, si può concordare che un’amministrazione centralizzata potesse essere condotta in maniera ottimale nel luogo strategicamente più rilevante dell’epoca, vale a dire il punto di congiunzione ideale tra l’Alto Egitto (la Valle) ed il Basso Egitto (il Delta).
A Saqqara Nord è presente la necropoli ufficiale della regione menfita, la prima per le inumazioni regali assieme a quella di Umm el-Qaab, nei pressi di Abydos.
Poco a ovest di Menfi, presso il margine settentrionale della piana di Saqqara e non lontano dal luogo dove circa mezzo millennio più tardi Djoser avrebbe edificato il complesso della piramide a gradoni, Aha eresse la sua tomba a mastaba (denominata S 3357 e scoperta nel 1936 dall’archeologo britannico W.B. Emery), caratterizzata da una sovrastruttura modanata e da una fossa per barca. Da allora, i successori della I Dinastia seguirono questo esempio promuovendo lo sviluppo della necropoli di Saqqara Nord. L’egittologo tedesco Hans Wolgang Müller , con argomentazioni convincenti, documentò che le maggiori mastabe di Saqqara (contraddistinte dalla tecnica di modanatura tipica del Basso Egitto), dovevano essere considerate cenotafi (vale a dire “tombe vuote”) dei re protodinastici, mentre le sepolture che le circondavano appartenevano a membri della famiglia reale e a funzionari di alto rango. I veri sepolcri di questi sovrani, invece, si trovavano ad Abydos, nella necropoli di Umm el-Qaab.
Le tombe dei primi re della II Dinastia non sono state ancora localizzate, ma un’iscrizione sulla spalla di un sacerdote cultuale della III Dinastia, Hetepdfjef, elenca i nomi di Horo dei primi tre re di quel periodo: Hotepsekhemwy, Neb[i]ra (o Raneb) e Ninetjer, suggerendo che la loro sepoltura si trovasse nella necropoli di Saqqara. In effetti, le gallerie sotterranee di due grandi tombe, scoperte poco a sud del complesso di Djoser, nell’area della piramide di Unas (ultimo re della V Dinastia), potrebbero appartenere a Hotepsekhemwy (oppure a Raneb) e a Ninetjer. Inoltre, la stele funeraria di Raneb (Immagine n. 1), rinvenuta a Saqqara lascerebbe supporre che questo sovrano fu sepolto proprio lì.

Khaeskhemwy fu l’ultimo re del Periodo Arcaico e si fece seppellire ad Abydos. Il suo successore*, Djoser Netjerikhet (Immagine n. 2), quasi certamente fondatore della III Dinastia, segnò l’avvento di un’era di novità e progresso sia nel campo delle arti e dell’architettura, sia in quello della scrittura e dell’amministrazione. Ispirato dalla sua forza innovativa, questo sovrano fu capace di erigere un immenso complesso funerario sul plateau di Saqqara che gli consentisse di perpetuare nell’Aldilà le cerimonie che avevano caratterizzato la sua vita terrestre.

Questa straordinaria concentrazione di edifici, una vera e propria città nella necropoli, è considerata come la prima realizzazione monumentale costruita interamente con pietra da taglio. La piramide che la domina, inoltre, è la prima che presenta queste caratteristiche. Il possente recinto che delimita la tomba e i suoi edifici di culto insistono su un’area di circa 15 ettari, vale a dire delle dimensioni colossali e assolutamente fuori del comune per un complesso funerario (Immagine n. 3).

*Le liste dei re di Abydos e del Canone di Torino collocano Nebka (il cui nome di Horus, Sanakht, sembrerebbe a lui collegato) prima di Djoser, mentre la lista di Saqqara colloca Nebka dopo Djoser e Sekemkhet. Lo prove archeologiche,infine, mostrano che il fondatore della III dinastia fu molto probabilmente Djoser.
DJOSER
La III Dinastia fu l’ “Età della Piramide a Gradoni”, un’ epoca in cui l’impulso verso la conquista della magnificenza conobbe un’accelerazione impressionante. Gli “architetti” di Djoser e dei suoi successori posero le solide basi che avrebbero condotto alla costruzione delle grandi piramidi durante le successive dinastie dell’Antico Regno. Possiamo senz’altro definire questo periodo come la prima “Età dell’oro” della lunghissima storia egizia.
Dai manufatti superstiti coevi apprendiamo che Djoser (Immagine n. 4) era chiamato Netjerikhet: è questo, infatti, il nome con cui viene identificato nelle statue e nei rilievi rinvenuti sotto la Piramide a Gradoni, nonché nella relativa tomba sud*. In realtà, il nome proprio con il quale è molto più noto ai nostri giorni, compare per la prima volta nel famoso Papiro Westcar, risalente al Medio Regno.

Dai canoni regi di epoca ramesside (Abydos, Saqqara e Torino) in poi, Netjerikhet fu identificato unicamente con il nome Djoser. Colui che compilò il Canone Regio di Torino ne scrisse il nome con inchiostro rosso (anziché nero) per evidenziarne l’importanza; ciò lascia presupporre che il suo regno all’epoca, fosse considerato come il punto di partenza di una nuova era. Infine, Manetone, il famoso storico e sacerdote egizio, vissuto nel III secolo a.C. lo cita come Tosorthros.
Nella lista di Saqqara, Djoser viene indicato come primo re della III Dinastia, mentre i Canoni di Abydos e di Torino indicano Nebka come suo predecessore e, quindi, fondatore della stessa. Oggi, le evidenze archeologiche – in particolare il rinvenimento da parte di Günter Dreyer di sigilli d’argilla recanti il nome di Horo Netjerikhet nella tomba di Khasekhemwuy, ultimo sovrano della II Dynastia – permettono di attribuire, con ragionevole sicurezza, il ruolo di capostipite a Djoser. Probabilmente, Nebka deve essere identificato con un altro sovrano il cui nome di Horo, Sanakht, compare in due rilievi scolpiti nei pressi delle miniere di turchese nella penisola del Sinai (Immagine n. 5) e in alcuni sigilli rinvenuti nel tempio funerario di Djoser. Inoltre, una menzione di Nebka, anche questa proveniente dal Papiro Westcar, lo posiziona chiaramente tra Djoser e Snefru, fondatore della IV Dinastia.

Quando furono posate le prime fondazioni del complesso di Saqqara, nulla lasciava presagire ciò che sarebbe diventato. Sicuramente, Djoser aveva già dato prova di possedere un’ambizione smisuratamente maggiore rispetto a quella dei suoi processori accordando al suo “architetto” l’utilizzo integrale della pietra, ma, probabilmente, l’idea di una sepoltura destinata a rappresentare e favorire l’ascesa al cielo del re fu concepita in un secondo momento. Ad ogni modo, allo scopo di realizzare una tomba reale che dominasse tutto il complesso, furono concepite nuove forme e strutture; queste vengono tradizionalmente attribuite a Imhotep **, il “grande responsabile degli artigiani”, leggendario architetto (e non solo) che più tardi sarà elevato al rango di divinità (Immagine n. 6) .

Immagine n. 6 Una delle rappresentazioni tipiche di Imhotep lo ritrae assiso mentre srotola un papiro, per dare risalto alla sua condizione di saggio. Il copricapo a calotta gli conferisce l’aspetto del dio Ptah, considerato suo padre. I suoi piedi, calzati con sandali, poggiano su una piccola base quadrata con inciso il nome di Imhotep e del dedicante, Pediamun, figlio di Bes e Irteru. Museo Egizio del Cairo, Epoca tarda, ca. 664-332 a.C (© Ali Radwan, “I Tesori delle Piramidi” a cura di Zahi Hawass, pag. 88)
Bisogna essere davvero dotati di un’immaginazione fuori dal comune per farsi un’idea di come potesse apparire questo gioiello architettonico il giorno dei funerali del re: una muraglia di cinta bianca, resa abbagliante dalla politura della pietra calcarea, si stagliava al centro di un scenario che all’epoca doveva essere piuttosto simile a quelle delle savane africane odierne; gli edifici di culto colpivano per la ricchezza dei soggetti dipinti i cui vividi colori aggiungevano alla trasposizione sulla pietra degli elementi vegetali l’illusione della vita terrena in un regno immobile quale quello dedicato ai morti (Immagine n. 7).

L’esplorazione moderna del monumento ebbe inizio solo a partire dal XIX secolo quando, nel 1924, iniziò lo scavo sistematico del sito sotto la direzione dell’egittologo britannico Cecil Mallaby Firth che, resosi conto dell’enormità del progetto si fece affiancare, a partire dal 1926 da un giovanissimo architetto e archeologo francese rispondente al nome di Jean-Philippe Lauer. Quest’ultimo, dopo la scomparsa di Firth, avvenuta nel 1931, riprese il cantiere in collaborazione con James Edward Quibell fino al 1935. A partire da quell’anno ne assunse, infine, la direzione. Lo studio del complesso l’avrebbe tenuto occupato per tutta la sua vita ed in modo così pregnante da lasciare un’impronta indelebile su questo sito prestigioso.
* Si tratta di una struttura, piuttosto enigmatica, situata nella parte meridionale del recinto piramidale. È dotata di gallerie ipogee simili a quelle che si trovano sotto la piramide stessa e contiene una camera sepolcrale che è, però, troppo piccola per ospitare una sepoltura.
** Per ulteriori approfondimenti sulla straordinaria figura di Imhotep:
Secondo l’egittologo tedesco Dietrich Wildung, Imhotep iniziò, con tutta probabilità, ad esercitare già all’epoca di Khasekhemwuy e morì sotto il regno di Huni, l’ultimo re della III Dinastia; non era di nobili origini (era forse figlio di un modesto architetto di nome Kanofer) e neanche, sempre secondo l’archeologo teutonico, vi sono prove assolutamente certe che fu mai innalzato alla carica di visir. Nondimeno, acquisì un’enorme fama non solo come architetto, ma anche come medico, scrittore e sapiente che, nel corso del tempo, non fece altro che accrescersi. Nel Nuovo Regno questo “genio” dell’antichità, fu considerato “patrono degli scribi” e nel Canone di Torino è menzionato quale “figlio di Ptah”, prima indicazione della sua antica reputazione di semidio che si sarebbe più tardi, in epoca saitica, trasformata in una vera e propria deificazione. La sua fama rimase invariata anche in epoca tolemaica (Immagine n.8) come attesta un’iscrizione scolpita sull’isola di Sahel, a sud di Aswan, in cui si fa menzione di Djoser e del suo famoso architetto (Immagine n. 9).

L’ ingegnosità di questo “Leonardo da Vinci” ante litteram, è contraddistinta tanto dall’utilizzo intensivo e innovativo della pietra per costruzioni (per la verità, la Pietra di Palermo, cita l’edificazione di un tempio con tali caratteristiche alla fine della II Dinastia, ma nulla prova che sia mai stato completato) quanto dalla geniale intuizione di sovrapporre forme nuove e tradizionali nell’edificazione dello straordinario complesso funerario di Djoser.

Il sito funerario di questo sovrano fu progettato su un’area soprelevata del plateau di Giza, in prossimità della grande necropoli dei dignitari della II Dinastia, al fine di poterlo erigere in posizione dominante rispetto all’antica capitale Menfi. Le mastabe sovrapposte, che diedero vita alla famosa piramide a gradoni, furono costruite su un’altura che sovrastava di qualche metro l’intero distretto. La presenza di notevoli dislivelli costrinse i costruttori a colmare le varie depressioni con circa 400.000 mc. di materiali di risulta costituiti da pietrisco, scarti da taglio, sabbia e argilla, per potere innalzare la piattaforma del complesso al medesimo livello del piano di sepoltura. Al limitare del terrapieno fu costruito un immenso muro di cinta a nicchie, di pianta rettangolare, lungo 544,90 metri da nord a sud e 277,60 metri da est a ovest: un perimetro, dunque, di 1645 metri! Questa colossale recinzione, probabilmente frutto di un successivo ingrandimento, era fiancheggiata da una quindicina di false-porte ad anta doppia delle quali soltanto una, quella posizionata sul lato est nei pressi dell’angolo sud-orientale (l’ingresso attuale), fu lasciata aperta al fine di permettere la comunicazione verso l’esterno. Fu ripreso, per questo elemento architettonico il motivo decorativo a “facciata di palazzo” tipico delle mastabe e dei recinti funerari del Periodo Arcaico, ma segnando una rottura con quel tipo di schema a nicchie grazie alla realizzazione di forme più essenziali e stilizzate e, soprattutto, rinunciando alla vivace colorazione.

L’unico ingresso della struttura, situato vicino all’angolo sud-est della cinta muraria (Immagine n. 10), si apriva su un corridoio che attraversava la parete da parte a parte. Una volta superato questo passaggio, quasi tutto era solo finzione scenografica. Si entrava, infatti, in un magnifico portico che si dirigeva verso ovest, fiancheggiato su entrambi i lati da una ventina di false colonne nervate, alte 6,60 metri e addossate a muri disposti a pettine. Queste non avevano alcuna funzione di sostegno per il tetto in quanto tale compito era svolto dalle pareti di collegamento, di cui costituivano le terminazioni ornamentali (Immagini n. 11-12).


L’imponente complesso di Djoser (Immagine n. 13), con la maestosa presenza della Piramide a Gradoni, aveva lo scopo di celebrare la natura divina del re defunto. Questo sito monumentale indica chiaramente che l’unificazione delle Due Terre era ormai saldamente acquisita, così come testimoniato dall’ impiego di differenti elementi architettonici caratteristici sia dell’Alto sia del Basso Egitto, combinati insieme in maniera armonica ed equilibrata.

Le numerose strutture presenti nell’enorme recinto rappresentano una selezione di tutti gli elementi essenziali alla vita ultraterrena del sovrano: la Tomba Sud con la relativa cappella di culto, le Cappelle per la festa “heb-sed” e il Tempio “T”, il Tempio funerario e il “serdab”, i Padiglioni del Sud e del Nord e, infine la stessa Piramide (Immagini n.14-15).


I tunnel ipogei, scavati sotto la piramide, i cosiddetti tumuli occidentali, i granai settentrionali e i due altari erano concepiti per assicurare un perenne approvvigionamento al defunto, ma anche il colonnato di accesso, così come ogni altro elemento presente, aveva la sua precisa funzione (ad esempio, le due edicole del cortile sud segnalavano le mete del percorso della corsa cerimoniale che il re doveva ripetere in eterno). In buona sostanza, l’intero complesso fu concepito per essere il luogo in cui sovrano avrebbe avuto la sua eterna dimora nell’Aldilà e dalla quale avrebbe continuato ad esercitare le sue funzioni di “Signore delle Due Terre”.
L’appassionata devozione alle tradizioni, che aveva contraddistinto la mentalità egizia sin dai primordi, conobbe un ulteriore impulso durante la III Dinastia e gli spettacolari esiti del regno di Djoser, ne rappresentarono senza dubbio l’apice. Uno sviluppo così rimarchevole deve essere stato dettato da una possente e consolidata credenza religiosa. Secondo l’egittologo tedesco Werner Kaiser, la maggior parte degli elementi del complesso fu costruita seguendo la più pura tradizione dell’Alto Egitto, sul modello delle recinzioni funerarie di Abydos. In realtà, nessuno è in grado di determinare quale fosse l’origine della tradizione di quella località. I tumuli fittizi all’interno delle recinzioni di Peribsen e Khasekhemwy, presenti in quel sito, erano, probabilmente collegati alla Collina Primordiale della teologia Eliopolitana, così come il sistema di modanatura di alcune mura di recinzione dell’Alto Egitto ad Abydos e a Hierakonpolis (attribuibili al regno di Khasekhemuy) può essere senz’altro collegato alla tradizione del Basso Egitto i cui esempi sono rintracciabili a Saqqara così come in tanti altri siti del nord.
In ogni caso, Il complesso di Djoser è l’esempio lampante della consolidata unificazione culturale, oltre che politica, dell’Antico Egitto alle soglie dell’Antico Regno: Da quel momento in poi ci sarà soltanto un’unica tradizione egizia.
Ritornando alla descrizione del complesso funerario, vale la pena ricordare che a sud del colonnato si rinvennero alcuni frammenti di statue scolpite con l’effigie di Djoser, uno dei quali recava il nome e i titoli del “gran maestro dei lavori” Imhotep. Questo maestoso viale conduceva direttamente al cortile sud, uno spazio di 175×108 metri delimitato dalla piramide a nord e da muri con leggere rientranze sui suoi altri tre lati. Come uniche costruzioni vi si trovavano un altare disposto ai piedi della piramide e, di fronte, due edicole a forma di B delle quali si conoscono alcune raffigurazioni presenti negli appartamenti funerari. Sembra, come già accennato in precedenza, che queste piccole costruzioni fungessero da punti di riferimento attorno ai quali il sovrano poteva compiere ripetutamente una corsa rituale ispirata alle feste giubilari dette “feste-sed”. Un secondo cortile di questo tipo, ma di dimensioni ben più modeste, si apriva a est della piramide. Anche qui erano presenti due piccole edicole che, in questo caso presentavano la forma di una D. Un ulteriore spazio a cielo aperto si trovava più a sud, a est del cortile meridionale. Di forma slanciata, disposto lungo un asse nord-sud, era delimitato sui lati est e ovest da due serie di cappelle addossate e sostenute da un basamento rialzato. Ciascuna era dotata di un piccolo cortile e di una scala in pietra che conduceva a una nicchia che serviva ad ospitare una statua. La copertura era a volta, per la maggior parte di esse, e le facciate presentavano colonnine scanalate. Si trattava, in ogni caso, di opere fittizie prive di ogni allestimento interno. Di fronte, altre cappelle, di dimensioni minori, presentavano una decorazione più sobria, senza colonne, né scale. Una piattaforma in pietra con doppia scalinata d’accesso troneggiava nella parte meridionale di questo cortile. Le caratteristiche comuni con il doppio padiglione reale raffigurato più volte sulle etichette dei vasi del periodo arcaico suggeriscono che qui venisse simbolicamente celebrata la capacità del re di regnare per sempre. Questo è il motivo per cui questo cortile è stato battezzato “cortile dello heb-sed” (Immagine n. 16).

Poco più a nord del cortile dello heb-sed, due grandi costruzioni rettangolari con copertura a volta, situate nell’ angolo nord-orientale della piramide, dominavano la zona orientale del complesso. La loro facciata, rivolta a sud, come quelle delle cappelle occidentali del “cortile della festa sed”, era fiancheggiata da colonnine scanalate (Immagine n. 17).

Molto si è dibattuto e scritto in merito a questi due padiglioni, ma la loro precisa funzione sembra ancora sfuggire ad una precisa collocazione. Siccome nei pressi furono rinvenuti frammenti di alcune stele con incisi i nomi delle principesse Hetefernebty e Inetkaes (Immagine n. 18), Cecil M. Firth ipotizzò che si trattasse della loro tomba.

Ma, dal momento che non vi si rinvenne alcuna traccia di sepoltura, il suo successore Jean-Philippe Lauer accantonò in fretta questa congettura, lasciando il posto ad un’interpretazione di carattere squisitamente simbolico. Basandosi esclusivamente sulle tracce archeologiche rinvenute in situ, l’egittologo si convinse che in quel luogo furono erette due “case”, quella “del Sud” e quella “del nord”, le quali rappresentavano rispettivamente l’Alto e il Basso Egitto. Questo punto di vista fu ampiamente condiviso dalla comunità scientifica, finché le esplorazioni e i rilievi geofisici, svolti durante gli anni 2000, dalla missione lettone diretta da Bruno Deslandes, non rimisero in discussione questa teoria.
Esistono due pozzi molto profondi localizzati a circa venti metri da ciascuna delle due “case”, entrambi esplorati a suo tempo da Jean-Philippe Lauer che aveva raggiunto due locali oblunghi nei quali aveva rinvenuto null’altro che frammenti di vasellame. Ciò gli fece concludere che doveva trattarsi di depositi per le offerte. Tuttavia, le investigazioni più recentisuggeriscono che una lunga galleria, completamente ostruita, potrebbe dipartirsi dal fondo di ciascun pozzo per dirigersi fin sotto la piramide, a nord degli appartamenti attribuiti alle principesse e ai figli del re. Il carattere squisitamente funerario dei complessi che comprendono i padiglioni nord e sud, sarebbe in tal caso avvalorato (Immagine n. 19). Se l’esistenza di queste gallerie sarà confermata, resterà solo da determinare se appartengano effettivamente alle principesse Hetefernebty e Inetkaes oppure ad altri membri dell’entourage reale.

Il nome del complesso funerario di Djoser, “ķbḥw-nṯrw” (“libagione degli dèi”), sembrerebbe suggerire che la sala ipostila con le sue 40 colonne incassate, possa aver contenuto rappresentazioni delle divinità dei nomoi dell’Alto e del Basso Egitto. Comunque, anche se così non fosse, è rimarchevole notare che queste stesse divinità sono raffigurate nei cortili degli heb-sed associati alle cappelle presenti in entrambe le zone del paese.
La tomba di Anedjb (mastaba 3038)*, è stata anche proposta come prototipo della Piramide a Gradoni ed inoltre, è riscontrabile una certa affinità tra la planimetria del tempio funerario di Djoser e il luogo di culto adiacente al lato settentrionale della mastaba 3505 di Saqqara che, secondo alcuni appartenne a Qa’a, l’ultimo sovrano della I Dinastia, ma che il rinvenimento di una grande stele in calcare con relative iscrizioni di nomi e titoli, la farebbero con tutta probabilità attribuire al suo funzionario Merka, gran sacerdote e profeta di Neith.
* vedi, https://laciviltaegizia.org/…/tombe-della-i-e-ii-dinastia/)
Il tempio funerario era addossato al lato settentrionale della piramide. Una piccola costruzione chiusa, contenente una statua a grandezza naturale del re, precedeva l’ingresso sul suo lato orientale. Siamo in presenza del “serdab”; due orifici circolari, praticati nella parete a livello degli occhi della statua, permettevano al defunto di godere delle offerte che gli venivano fornite quotidianamente (Immagine n. 20).

Una volta mostratisi agli occhi del sovrano divinizzato, i sacerdoti penetravano nel tempio per poi avviarsi in un corridoio tortuoso che conduceva ai diversi ambienti dell’edificio cultuale: camere per le abluzioni e due cortili centrali affiancati da portici dotati di colonne scanalate. La più occidentale di queste sale ospita attualmente l’accesso agli appartamenti funerari.
Il motivo per cui il programma di edificazione della Piramide a Gradoni sia stato modificato diverse volte è ancora oggetto di dibattito tra gli studiosi i quali, spesso, non concordano neppure sulle fasi delle modifiche del progetto. Si può ipotizzare, a grandi linee, che inizialmente fu costruita una mastaba a pianta quadrata allineata, approssimativamente, ai punti cardinali e che l’architetto stesse già maturando l’idea di realizzare una costruzione a gradoni, in quanto questa struttura iniziale fu ingrandita sui quattro lati con un’aggiunta un po’ più bassa. Un’ulteriore appendice, di livello ancora inferiore, fu quindi realizzata lungo il lato est, dando il via al successivo stadio costruttivo che portò alla trasformazione della tomba reale in una piramide a quattro gradoni, corredata di un piccolo tempio funerario situato appena più a nord. Fu durante questa fase che sul lato orientale di questo edificio fu realizzato il “serdab” descritto in precedenza. Successivamente, questa prima struttura scalare fu ulteriormente ampliata fino a raggiungere la definitiva forma piramidale a sei gradoni, alta 62,5 metri, rivestita con calcare di Tura e poggiante su una base divenuta di 121×109 metri, a seguito di due ampliamenti a nord e a ovest.
Sotto la piramide si estende una singolare rete di gallerie e di piccole camere che si sviluppa per una lunghezza totale di alcuni chilometri (Zahi Hawass ne calcola lo sviluppo complessivo in 5635 metri). Il complesso è caratterizzato da un pozzo profondo 27 metri contenente al centro una camera sepolcrale in granito (Immagine n. 21).

Quest’ultimo ambiente fu costruito in funzione di sarcofago e misura 1,6×2,9 metri. La galleria orientale conserva l’ornamento a piccole mattonelle blu invetriate, a imitazione di stuoie di canne, e tre rilievi in calcare incorniciati da iscrizioni con il nome e i titoli del re (Immagine n. 22).

Un enorme massiccio costeggiava l’ala occidentale della cinta muraria. La sua configurazione tripartita era dominata al centro da una lunga sovrastruttura con tetto a volta, la cui forma ricorda molto da vicino quella della “tomba sud”, di cui ci occuperemo più avanti. Al di sotto si estendono diversi chilometri di tunnel sotterranei.
Centinaia di magazzini, disposti a spina e collegati a tre gallerie centrali, si sviluppano da nord a sud, per una lunghezza di oltre 300 metri. Tre pozzi, alle estremità e al centro, collegavano questo sistema all’aria aperta. Poiché la roccia friabile e argillosa minacciava di crollare in molti punti, non è stato possibile portare a termine l’esplorazione di questo immenso labirinto.
Tale tipologia di magazzini è ubicata lungo il lato nord della cinta muraria laddove un’ampia massicciata formava una terrazza rialzata a livello del cammino di ronda. Erano caratterizzati da una serie di muri divisori che ne ripartiva il volume interno e si trattava, probabilmente, di simulacri di granai disposti al di sopra dei magazzini sotterranei. Vi si è rinvenuto, infatti, un ammasso di orzo, mentre nelle gallerie sottostanti sono stati ritrovati pane e frutta. Queste provvigioni vanno sicuramente messe in relazione con il grande altare situato vicino all’asse centrale del terrazzamento.
Una scalinata conduce dal cortile ovest del tempio funerario settentrionale alle fondamenta della piramide e Il particolare orientamento dell’entrata del monumento suggerisce che quest’ultimo sia il risultato di una ben precisa pianificazione: il “ba” del sovrano dimorava perennemente nel cielo settentrionale tra le “stelle che non tramontano mai” (ossia le stelle circumpolari), sicché una siffatta collocazione del tempio funerario, o della cappella che lo sostituiva, permetteva ai sacerdoti di comunicare, durante il compimento delle cerimonie rituali, con l’aspetto vitale dell’anima del sovrano, il “ba”, per l’appunto.
Alcune delle undici fosse sottostanti la piramide furono utilizzate come luoghi di sepoltura per alcuni membri della famiglia reale ed in esse sono stati rinvenuti alcuni sarcofagi di alabastro e il sarcofago ligneo di un fanciullo morto all’apparente età di circa otto anni. Nelle gallerie degli altri pozzi furono immagazzinati oltre 40.000* vasi di pietra al fine di garantire al monarca il costante ed imperituro rifornimento di offerte (Immagini nn. 23-24-25).

La maggior parte di questi reperti reca iscrizioni che riportano i nomi di quasi tutti i sovrani della I e II dinastia, in qualche caso anche raggruppati in ordine di successione. Su una ciotola litica proveniente da uno di questi magazzini si legge addirittura il nome di Narmer, segno evidente che Djoser riteneva di estrema importanza circondarsi di oggetti che evocassero la continuità della regalità divina dei sovrani sia nella dimensione terrena che in quella ultramondana. Inoltre, sembrerebbe che il suo intento fosse quello di voler essere il primo a legittimare la propria regalità raccogliendo una simile lista di re nella propria residenza per l’eternità. Curiosamente, sorprende il fatto che in nessuno di questi manufatti sia iscritto il suo nome: le gallerie hanno infatti restituito soltanto un sigillo di argilla recante il nome di Horo del monarca, Netjerikhet.

Il crollo parziale delle sezioni di muratura a est e a sud della Piramide ne ha rivelato le strutture interne permettendo, in tal modo, di ricostruire la storia del monumento. Il fatto che le varie modifiche al progetto inziale non abbiano mai contemplato demolizioni, ma solo aggiunte successive, ne ha facilitato la comprensione in modo tale che il grande egittologo francese Jean-Philippe Lauer (Parigi, 7/5/1902-Parigi, 15/5/2001) poté, individuarne i vari stadi.

In primo luogo, fu data alla tomba la forma di una mastaba (stadio M1). I costruttori tracciarono una base quadrata di 63 metri di lato ed innalzarono l’edificio fino ad un’altezza di 8,40 metri utilizzando una muratura in pietra calcarea locale legata con una malta d’argilla, il tutto disposto in corsi orizzontali. Il monumento fu successivamente rivestito con blocchi di calcare fine accuratamente posizionati, per uno spessore di 2,60 metri (Immagine n. 26). Si procedette successivamente alla smussatura dei blocchi di rivestimento in modo da conferire alle facciate esterne un’inclinazione di 8°30′ rispetto alla verticale.

L’innovazione non riguardava, quindi, l’aspetto, ma solo il materiale di costruzione: si abbandonava il tradizionale uso del mattone in favore di quello della pietra. A partire da questo stadio gli operai iniziarono a scavare gallerie e fosse, tra cui un grande pozzo centrale per realizzare la cripta, i suoi annessi e le tombe secondarie. All’esterno, su lato orientale, fu realizzata una serie di pozzi profondi oltre 33 metri, ciascuno dei quali conduceva ad una galleria orizzontale.
La sovrastruttura si poteva dire completata allorché fu apportata la prima modifica.
La prima modifica al progetto iniziale comportò l’aumento della dimensione di base che fu cinta da un involucro dello spessore di 4 metri, sempre disposto in strati orizzontali e costituito da blocchi del medesimo materiale. La superficie dell’edificio fu così portata a 71×71 metri (Stadio M2). Questa prima trasformazione dimostra chiaramente che la realizzazione di una piramide non era ancora stata presa in considerazione. Si decise,poi, per qualche motivo, di ampliare la struttura verso est aggiungendo una muratura di 8,5 metri di spessore (Stadio M3). Degli undici pozzi scavati in questo punto, i sei più a sud (numerati da VI a XI) furono colmati, mentre i primi cinque furono prolungati in modo da poter attraversare la sovrastruttura di M3. Nei pozzi III, IV e V furono rinvenuti basamenti di stele disposti davanti al rivestimento della mastaba, il che costituisce un chiaro indizio che lo scopo fosse quello di officiarvi dei culti regolari e che quindi, fino a quel momento, nulla lasciava presagire l’evoluzione verso ulteriori cambiamenti. Questo ampliamento non era ancora stato completato quando l’architetto cambiò nuovamente idea.
A questo punto, fu adottata una tecnica di costruzione completamente nuova addossando una sezione di muratura contro la facciata della mastaba M3 con fondamenta inclinate, questa volta, di 15°-17° rispetto al piano orizzontale. Questo procedimento, assolutamente innovativo, presentava un duplice vantaggio: in primo luogo, liberava i muratori dall’ onere del taglio obliquo dei blocchi di rivestimento; in secondo luogo, dotava la struttura di un sostegno equivalente a quello di un contrafforte avvolgente. Questa sezione, che è ancora visibile alla base del lato est della piramide, ha uno spessore di 2,90 metri e la base di questo edificio (Stadio P1) ora copriva un’area di 85 metri per 77. Appare molto probabile che, a questo punto, l’intenzione fosse quella di innalzare una piramide a quattro gradoni. Ma, un ulteriore ripensamento avrebbe finito per dare al monumento una dimensione completamente diversa. Si provvide ad ampliare considerevolmente la base dell’edificio, allargandola sia verso nord sia verso ovest, per costruirvi sezioni a corsi inclinati, addossati gli uni contro gli altri, fino a formare un nucleo centrale (Immagine n. 27).

Le nuove strutture non furono posate per accrescimento, ma per stratificazione dal basso verso l’alto; disposte a coppie, finirono per formare una sorta di scala di sei gradoni la cui sagoma è ancora oggi chiaramente distinguibile
Il tutto fu rifinito con un bel rivestimento in calcare fine, di cui rimangono solo alcuni blocchi sparsi; inoltre, l’inclinazione dei corsi addolciva visivamente il profilo dei gradoni di questa gigantesca scalinata.
Al termine dei lavori questa prima piramide presentava una base rettangolare di 109 metri da nord a sud e 121 metri da est a ovest, per innalzarsi fino a oltre 60 metri. (Immagini n. 28).

L’ipogeo di Djoser è costituito da due parti distinte: quella dedicata al re, che si estende sotto l’area centrale della piramide, e quella dedicata ai figli e alle principesse della famiglia reale, caratterizzata da undici gallerie situate nella parte più orientale e poste ad un livello inferiore rispetto agli appartamenti funerari del sovrano.
Quando furono gettate le prime fondamenta della mastaba, gli egizi scavarono un enorme pozzo a sezione quadrata di 7 metri per lato, nel quale avevano previsto di allestire la tomba reale. Per permetterne l’accesso, fu scavato un tunnel verso nord che terminava in una trincea a cielo aperto, in cui poter continuare a circolare e poi per essere utilizzata in previsione dei funerali. Siccome Il pozzo raggiunse successivamente una profondità di 28 metri, il tunnel fu notevolmente ampliato fino a raggiungere un’altezza di 15 metri e lo spazio aperto, dopo essere stato in gran parte riempito con muratura a vista, fu trasformato in una china che, attraverso la facciata nord della piramide, sbucava all’interno del tempio funerario (Immagine n. 29).

Grazie a dati georeferenziati molto precisi, raccolti di recente dalla missione lettone guidata da Bruno Deslandes, è stato possibile stabilire che la discesa termina sul versante nord dell’ultima fase di costruzione. Questo accesso, ostruito in maniera così perfetta da non essere mai stato precedentemente rilevato, non fu certamente chiuso prima del completamento dei lavori, come si pensava, ma rimase in servizio fino al funerale.
Un altro ingresso (quello che oggi utilizzano i turisti) ha origine nel cortile occidentale del tempio funerario: attraversa un lungo fossato, per poi raggiungere, sotto forma di un corridoio sotterraneo che si biforca e si divide più volte, il pozzo centrale. Ci sono, però, tutte le evidenze per ritenere che questo elemento sia stato realizzato molto dopo la III dinastia, probabilmente nel periodo saitico (circa 664-525 a.C.). Gli egizi di quell’epoca scavarono altrove una vasta galleria con pilastri partendo dal cortile sud, per raggiungere la parte superiore del pozzo, al fine di svuotarlo completamente; una volta raggiunto il sarcofago e gli ingressi dei corridoi adiacenti, studiarono la struttura sotterranea e riposizionarono le gallerie orientali che erano state utilizzate come tombe per i parenti del re.
Quando fu ritrovato dagli archeologi il pozzo centrale si presentava completamente dissotterrato, con una copertura a forma di cupola che lasciava intravedere le cavità interne della mastaba M1 (Immagine n. 30). La particolare disposizione del tipo a volta, faceva sì che i blocchi si sostenessero a vicenda, dando così l’impressione di reggere l’intera massa della piramide; le pietre a rischio di crollo, inoltre, erano puntellate da una possente struttura realizzata con travi in legno di cedro. Quest’ultima aveva già mostrato segni di instabilità allorché, nel 1992, un terremoto finì per danneggiarla seriamente provocando la caduta di travi e pietre della mastaba.

Gli studi della missione lettone a Saqqara, incaricata di procedere alla verifica dello stato dei luoghi, hanno messo in evidenza che i poderosi rinforzi in cedro risalivano all’epoca di Djoser (avevano dunque la veneranda età di oltre 4.600 anni!) e che erano già stati sottoposti ad un intervento di consolidamento in epoca romana.
I lavori per la messa in sicurezza sono stati portati a termine di recente ed i turisti possono di nuovo accedere agli appartamenti in tutta tranquillità (Immagine n. 31).

La cripta funeraria del re fu collocata sul fondo del pozzo e costituisce un ibrido tra un sarcofago ed una camera funeraria: non corrisponde infatti alle dimensioni classiche dell’uno o dell’altra e nemmeno alle loro rispettive concezioni. È alta 4 metri ed è costituita da quattro assise di grossi blocchi in granito; internamente misura 2,96 metri di lunghezza, 1,65 metri di larghezza, per un’altezza di 1,65 metri. Si ebbe, inoltre, cura di lasciare sul soffitto un’apertura circolare di un metro di diametro per potervi introdurre il feretro del re defunto. Questo orificio fu quindi sigillato con una grossa pietra di granito del peso di 3,5 tonnellate. Tuttavia, ciò non scoraggiò i violatori di tombe che riuscirono nell’intento di svuotare l’intero contenuto della sepoltura, disgregando i blocchi disposti intorno alla chiusura.
Allorché si decise di occultare la mastaba del progetto originario sotto una piramide, si dovette provvedere, prima di tutto, a colmare completamente il pozzo centrale; ma, siccome rimaneva di fondamentale importanza mantenere l’accesso alla cripta, fu realizzata, al di sopra della sua apertura, una camera di manovra che è andata distrutta, ormai, da lungo tempo.
Nelle sue vicinanze, così come pure nei corridoi di accesso, furono rinvenuti frammenti di ossa e di pelle. I primi furono ritrovati da Henrich von Minutoli nel 1821, che dichiarava di aver raccolto parti di una mummia (scomparse, purtroppo, durante un naufragio); altri furono recuperati da Battiscombe Gunn nel 1926 e ancora, poco dopo, da Jean-Philippe Lauer, la cui maggiore scoperta fu un piede sinistro mummificato. Si suppose, allora che tutti questi resti umani appartenessero al corpo di Djoser, finché negli anni Novanta, non furono analizzati con le tecnologie più avanzate disponibili. Ne risultò che tutti i campioni erano databili al I millennio a.C. ad eccezione dello scheletro di una giovane donna, ritrovato in una delle gallerie a pozzo, che poteva quasi sicuramente risalire al regno di Djoser, se non addirittura ad un’epoca leggermente anteriore.
Da ciascuno dei quattro angoli alla base del pozzo si dipartono quattro gallerie che penetrano orizzontalmente nella roccia (Immagine n. 32): quelle situate rispettivamente a nord, sud e ovest si dirigono verso i magazzini disposti a dente di pettine, mentre quella orientale conduce verso ambienti decorati.

Quando si provvide al riempimento del pozzo tutti questi passaggi di comunicazione divennero inutilizzabili, per cui furono sostituiti da cunicoli estemporanei che partivano da nord. Mentre le pareti dei magazzini furono lasciate allo stato grezzo, quelle degli appartamenti situati a est furono parzialmente rifiniti con blocchi di calcare disposti accuratamente: si tratta delle cosiddette “camere blu” dalle quali è stata estratta una cornice incisa e intarsiata con maioliche blu, oggi esposta al museo di Berlino (Immagine n. 33).

Sono quattro gli ambienti di questo tipo presenti; tutti furono decorati con motivi che imitavano intrecci di canne e ricoperti da numerose piastrelle blu ingegnosamente incastrate e fissate con fili vegetali e tenoni perforati. Sormontati da cornici ad arco, ornati da pilastri Djed, alcuni pannelli inquadrano nicchie con stele. In particolare, la sala più meridionale, presenta alcune stele finemente incise in leggero rilievo che mostrano il re mentre celebra cerimonie o visita i santuari dell’Alto e del Basso Egitto. Queste scene rappresentano chiaramente i riti della festa “sed“che Djoser doveva perpetuare, attraverso gli edifici riprodotti a tale scopo, nella sua tenuta funeraria (vedi immagine n. 22).
La parte orientale della distribuzione sotterranea consiste in una sequenza di undici gallerie (numerate da I a XI) il cui pozzo di accesso fu allestito lungo la facciata orientale della mastaba iniziale. L’ampliamento corrispondente allo stadio M3 dei lavori costrinse i costruttori ad occultare i sei tunnel più a sud (quelli da VI a XI) e a prolungare i cinque più settentrionali (da I a V) attraverso aggiunte di muratura. Tutti i pozzi, infine, furono definitivamente resi inaccessibili allorquando si cominciarono a elevare le assise della piramide. Un’eccezione, tuttavia, è rappresentata della galleria I che fu collegata al cortile esterno per mezzo di una ripida rampa nella quale vennero accuratamente intagliati dei gradini. Questa via di accesso fu, molto probabilmente, opera dei costruttori stessi preoccupati di riservarsi una via di accesso ai pozzi e alle gallerie che erano stati ricoperti dall’edificio.
Le gallerie da I a V sono tutte tombe legate alla cerchia familiare del sovrano e si estendono ognuna verso ovest per una trentina di metri, con una leggera deviazione verso nord a fine percorso per quattro di esse, allo scopo di evitare il pozzo centrale. Rivestimenti in legno ricoprivano un tempo le pareti, ad eccezione della galleria III, più ampia e più alta delle altre, le cui pareti erano rivestite in pietra calcarea squisitamente lavorata e con giunzioni accuratamente rifinite. Hanno restituito numerosi frammenti di sarcofagi d’alabastro tra cui due basamenti nella galleria II e due sarcofagi nella galleria V, uno dei quali ospitò il corpo di un fanciullo della presumibile età di circa 8 anni (Immagine n. 34). Scoperti nel 1933, questi cinque tunnel, in realtà, avevano già ricevuto la visita degli Egizi di epoca saitica e poi, più tardi, quella dei romani che pensarono di collegarli tra loro per mezzo di cunicoli.

Intravedendo dei vasi di pietra attraverso la roccia friabile, verso la parte terminale della galleria V, Jean-Philippe Lauer comprese che doveva esistere a sud una rete di gallerie parallele a questa: si aprì dunque un passaggio e, una dopo l’altra, ne scoprì sei praticamente identiche a quelle descritte.
Nessuna di queste fu mai destinata ad ospitare sepolture, ma furono utilizzate come depositi, nei quali furono accumulati circa 40.000 vasi di pietra di ogni tipo, tutti risalenti alle prime due dinastie e di cui si è già parlato nella parte sesta di questo argomento.
All’estremità meridionale del recinto si trova una sepoltura sussidiaria: si tratta della cosiddetta “tomba sud” * (Immagine n. 34) che alcuni considerano come il prototipo delle piramidi di culto edificate accanto a quelle reali a partire dalla IV dinastia e per tutto l’arco temporale che va dall’ Antico al Medio Regno.

La costruzione possiede una sua propria cappella, ubicata a nord della struttura, le cui facciate sono decorate con leggere rientranze e sormontate da un superbo fregio costituito da cobra uraei per proteggerne la sommità o, come sostiene Robert K. Ritner, per illuminarla in quanto pensata per “rifulgere nell’oscurità”; simboleggiano, in pratica, la nuova vita in quanto manifestazioni dell’occhio risplendente del di sole “Írt-Rˤ” (Immagini n. 35-36).

La camera sepolcrale in granito della tomba sud fu realizzata, analogamente a quella presente al di sotto della Piramide a Gradoni, sul fondo di un pozzo che misura 7×7 metri e profondo 28 metri; è però molto più piccola della sua controparte (1,60×1,60 metri), risultando, pertanto, inadatta ad accogliere un adulto.
Una particolare importanza rivestono i vani ipogei della tomba decorati con mattonelle in faïence blu, corrispondenti a quelle dell’appartamento reale. La distribuzione sotterranea della tomba presenta numerose somiglianze con quella della Piramide a Gradoni, in particolare la discesa, il grande pozzo funerario, la struttura della cripta e gli appartamenti sotterranei, la cui pianta è del tutto simile anche se le dimensioni sono molto più ridotte. Il suo accesso discendente, che ebbe un ruolo fondamentale nella costruzione e nel trasporto dei pesanti blocchi di granito, ma soprattutto nel garantire la comunicazione nei giorni del funerale, fu liberato solo nel XX secolo.

Il grande pozzo, che come già detto in precedenza, ha le stesse dimensioni del pozzo centrale della Piramide, presenta sul fondo una cripta alta 3,20 metri, costituita da quattro assise di blocchi in granito. Un orificio di forma cilindrica che attraversava il soffitto permise, all’epoca, l’introduzione degli elementi funerari e, così come avvenne nella Piramide, anch’esso fu sigillato con un elemento circolare di granito; ciononostante, i ladri dell’antichità si erano già fatti strada per saccheggiare la tomba scavando un cunicolo verticale nel pozzo.
Anche per la tomba sud fu realizzata una camera di manovra al di sotto dell’apertura per poterne assicurare la chiusura dopo lo svolgimento dei funerali. Una via di comunicazione prosegue in pendenza e diritta verso est per arrivare agli appartamenti veri e propri dove, esattamente come nella sua controparte settentrionale, troviamo le stanze e i corridoi riccamente decorati da pannelli intarsiati di maiolica blu (cui si faceva cenno poco sopra), con arcate sostenute da pilastri Djed o che circondano stipiti incisi con i protocolli dello Horus Netjerikhet (Djoser). Sono ugualmente presenti delle stele false-porte che mostrano il sovrano intento a compiere riti che riprendono i temi rappresentati sotto la Piramide a Gradoni e, per di più, è evidente che questi ambienti, contrariamente a quelli della tomba principale, furono portati a termine. Le iscrizioni ritrovate all’ interno, inoltre, permettono di attribuirne l’appartenenza a Djoser, non essendovi inciso altro nome oltre al suo.
Si è molto dibattuto sulle ragioni dell’esistenza di questa tomba.
Herbert Ricke suggerisce che fosse destinata all’inumazione del “ka” e la assimila a quelle piccole piramidi satellite situate nell’angolo sud-orientale delle piramidi della V e VI dinastia per le quali, però, non c’è ancora alcuna prova che abbiano svolto una tale funzione. Jean Philippe Lauer, invece, in ragione delle sue dimensioni, ipotizzò che si trattasse di una cripta per i vasi canopi, oppure di un cenotafio, secondo un punto di vista che, all’epoca, tendeva ad attribuire le tombe thinite di Saqqara ed Abydos ai medesimi sovrani e che le prove archeologiche e i numerosi studi successivi, hanno definitivamente smentito.
*a tal proposito si veda lo splendido post di Luisa Bovitutti al seguente link: https://laciviltaegizia.org/2024/08/05/la-tomba-a-sud/
È stata avanzata più volte l’ipotesi che la recinzione a nicchie del complesso di Djoser non fosse altro che una imitazione delle mura di Menfi, tuttavia neppure si può escludere che riproducesse il muro di cinta di un palazzo del Basso Egitto del Periodo Arcaico dal momento che i blocchi di pietra con cui è stata edificata presentano lo stesso formato dei mattoni crudi utilizzati in passato. (Immagini n. 37-38).

Per contro, è molto più difficile spiegare perché il muro di recinzione sia dotato di 14 porte fittizie a fronte di un unico ingresso effettivo. Una possibile ipotesi potrebbe essere ricondotta al fatto che il dio Ra, con il quale il sovrano si identificava nell’Aldilà, lo si riteneva titolare di 14 “ka”, tanti quanti erano i luoghi sacri “iat” (nicchie destinate ai personaggi sacri o benedetti nella vita futura) del Mondo Ultraterreno. In tal caso anche il re avrebbe avuto i suoi 14“ka”, ognuno dei quali bisognevole di una falsa porta. Un’altra ammissibile spiegazione potrebbe trovare riscontro nel mito di Osiride, il cui cadavere fu tagliato dal fratello Seth in 14 parti che furono disperse e poi sepolte in altrettante località disseminate per tutto l’Egitto. Ad ogni modo resta il fatto che il numero sette (così come pure i suoi multipli) fu sempre considerato un numero sacro: Ra, per esempio, oltre ai 14 “ka”, possedeva anche 7 “ba”.

La sala rettangolare a otto colonne incassate che segna l’estremità del colonnato di ingresso (Immagine n. 39) sarebbe connessa, secondo Ali Radwan, con la pratica di distinguere gli ospiti della festa “heb-sed” in categorie basate sullo “status” dove il re vivente e le persone più importanti accedevano dall’ingresso centrale, le altre da quelli ubicati a destra o a sinistra. Siccome l’egittologo tedesco Eberhard Otto (Dresda, 1913 – Heidelberg, 1974) considerava la celebrazione di questo festival come una cerimonia di tradizione puramente menfita, ne concluse che all’interno del complesso di Djoser l’influenza cultuale del Basso Egitto fosse assolutamente predominante. Del resto, l’incoronazione a Menfi rivestì un carattere di straordinaria importanza per tutta la lunga storia egizia, addirittura sino all’epoca di Alessandro Magno.

Il cosiddetto tempio “T” è una costruzione molto particolare che può essere considerata alla stregua di un piccolo palazzo oppure di una sacrestia in cui il re avrebbe avuto la possibilità di cambiare le insegne (in particolare la corona bianca e quella rossa) durante la festa, oppure come un “Palazzo per la statua del re”.
Una piccola cappella situata all’estremità nord-occidentale del cortile per lo “heb-sed” contiene un basamento con quattro paia di piedi che sono ciò che resta di statue ormai perdute e sulla cui identificazione sono state avanzate svariate ipotesi. Quella più condivisa dagli studiosi sostiene che rappresentassero Djoser e la regina madre Nymaathep accanto a due dame: la regina Hetephernebtye la principessa Inetkaes. L’egittologo tedesco Rainer Sadelmann ipotizzò che i soggetti fossero il sovrano, Anubi, Hetephernebty e Inetkaes, mentre Jean-Philippe Lauer riteneva che Djoser fosse ritratto due volte (una con la corona rossa e l’altra con quella bianca) ed al suo fianco ci fossero Hetephernebty e Inetkaes. Ali Radwan propende, infine, per una statua del re raffigurato con la doppia corona, affiancato dalla dea Hathor e da Hetephernebty e Inetkaes.

La rappresentazione antropomorfa degli dèi risale all’alba della storia egizia ed anche nel caso di Djoser alcuni frammenti provenienti dalla cappella reale di Heliopolis mostrano il dio Geb raffigurato in forma umana. Inoltre, Hathor, considerata simbolicamente come sua madre e moglie, assumeva un ruolo preminente durante le cerimonie del giubileo.
Il piccolo tempio (o cappella) posto presso l’angolo nord-occidentale del cortile dello “heb-sed”, fu visto da Ricke come un sacrario per il dio Khentiamentu (il “Primo degli Occidentali”), mentre Lauer vi ravvisava una cappella del re e delle due dame regali. È tuttavia proponibile anche l’ipotesi che servisse per il culto del sovrano defunto nella sua funzione di guida per i sudditi dell’Aldilà (Immagini n. 39-40-41).

I due padiglioni del nord e del sud rappresentano, secondo l’egittologo inglese I.E.S Edwards (1909-1996), i due santuari nazionali dell’Alto (Hierakonpolis) e del Basso (Buto) Egitto. L’altare a forma di zoccolo, ritrovato nel cortile dell’edificio meridionale, lascia supporre che entrambe le costruzioni fossero destinate alla celebrazione di riti cerimoniali. Ali Radwan, invece, preferisce considerarli come tombe simboliche dei sovrani predinastici dell’Egitto meridionale ( i “Baw” di Neken) e di quelli dell’Egitto settentrionale ( i “Baw” di Buto), ossia dei mitici antenati di tutti i re egizi. L’origine del fregio kheker che adorna le facciate dei due padiglioni (Immagini n. 42-43-44) la si può far risalire al regno di Aha ed in particolare ad una piccola placca in avorio rinvenuta a Naqada in cui viene raffigurato sopra una costruzione occupata da tre funzionari stanti.



Il serdab (Immagine n. 45) è dotato di un proprio cortile e non fu realizzato all’interno del vicino tempio funerario; pertanto, è molto probabile che la statua di Djoser, contenuta al suo interno, fungesse da sostituto del re defunto per mettere in evidenza la sua natura divina anche come monarca dell’Aldilà: si tratterebbe, in questo caso, di una delle prime attestazioni di divinizzazione di un re egizio.

Nell’ambito del complesso della Piramide a Gradoni, Djoser era, senza alcun dubbio, equiparato al rango del dio sole, come attesta il “nome d’ oro” (Rˁ-nwb) iscritto alla base del simulacro; ciò indica esplicitamente che la statua ricopriva la funzione di sostituto e rappresentante del sovrano.
Nel muro di cinta settentrionale sorge una cappella isolata posta di fronte alla Piramide, che contiene un altare intagliato nella roccia. Un tempo si riteneva che questo edificio fosse un tempio solare oppure un podio dotato di un baldacchino e due troni utilizzato dal re per la celebrazione di riti cerimoniali. Oggi, invece, si è propensi a supporre che fosse utilizzato solo per la raccolta di offerte e che fosse collegato con la parte settentrionale della recinzione.
In tutto il complesso di Djoser è ancor oggi possibile ammirare gli straordinari esiti della maestria di Imhotep, le cui vette più elevate consistettero nella creazione di una nuova architettura in pietra che imitava fedelmente i precedenti materiali da costruzione (mattoni crudi, legno, canne, stuoie ecc.).
Anche se nel complesso monumentale mancano colonne indipendenti, quelle incassate, fascicolate o scanalate e, ancor di più, le semicolonne papiriformi, costituiscono i primi esempi del genere espressi dall’architettura egizia. Tutto ciò finì per diventare un modello per le generazioni a venire non solo per l’uso della pietra come unico materiale da costruzione, ma anche, e soprattutto, per la perfezione raggiunta con la nuova tecnica, nonostante l’utilizzo di schemi del tutto tradizionali. Per citare un esempio, basti pensare che i rilievi della tomba sud furono fedelmente riprodotti in epoca saitica (ben duemila anni dopo!).
I lavori nel sito, iniziati da Cecil Mallaby Firth (1878-1931) e James Edward Quibell (1867-1935), furono proseguiti e in larga misura completati da Jean Philippe Lauer (1902-2001). Per anni questo appassionato egittologo francese si è dedicato all’esaltante ed impegnativo compito del restauro dei diversi elementi architettonici ritrovati sparsi all’intorno del sito, oltre che alla loro collocazione nella posizione originaria: gli esiti sono stati eccellenti ed il suo progetto di ricostruzione si è rivelato essere il più ambizioso e, con tutta probabilità, il meglio riuscito nella storia dei lavori sul campo in Egitto. Verrebbe quasi da pensare che Djoser, sia stato molto fortunato ad avere due architetti totalmente dediti a lui: Imhotep durante il corso della sua vita e Lauer a distanza di oltre 4500 anni.

Fonti:
- Ali Radwan ne “ I Tesori delle Piramidi” a cura di Zahi Hawass, pagg.86÷110
- Franck Monnier ne “L’Univers Fascinant des Pyramides d’ Égypte”, pagg. 26-43

























































