C'era una volta l'Egitto, III Periodo Intermedio

IL TARDO PERIODO DINASTICO

Di Piero Cargnino

Con il termine “Tardo Periodo Dinastico” si intende quel periodo della storia egizia che segue la XXV dinastia. Comprende le dinastie dalla XXVI alla XXXI, e costituisce un’epoca particolare per l’Egitto che perde definitivamente la sua autonomia a causa delle diverse invasioni straniere che si susseguono nell’occupazione del territorio.

Con la fine della XXV dinastia, sconfitta da Ashurbanipal, la potenza degli assiri era al suo apogeo. Il re assiro aveva sconfitto ovunque i regni della regione mesopotamica ma da qui ad essere tranquillo ce ne vuole. I monarchi sconfitti erano troppo fieri della loro indipendenza per sopportare troppo a lungo l’occupazione straniera.

Fu il regno di Elam, nell’attuale Iran occidentale, il primo a sollevarsi contro l’invasore, intorno all’VIII sec. a.C., ma Ashurbanipal contrattaccò subito e  conquistò Elam per la terza e ultima volta giungendo fino alla capitale Susa che saccheggiò e incendiò. Superato da poco questo pericolo, il fratello di Ashurbanipal, il traditore Shamashshumukin, sovrano semiindipendente di Babilonia, si coalizzò con numerosi stati confinanti i quali si rivoltarono contro l’oppressore assiro.

A questo punto si presentò per gli assiri un grosso problema per quanto riguarda il possesso del Delta del Nilo a causa della scarsità di truppe che poteva ivi lasciare. Si trattava dunque di fidarsi dei governatori locali, da lui stesso nominati, metodo usato in precedenza dal sovrano Esarhaddon.

Ashurbanipal scelse dunque Necao, principe di Sais, che aveva in precedenza catturato e tradotto a Ninive, tuttavia Necao, unico tra i congiurati, venne graziato da Assurbanipal che aveva riconosciuto in lui un uomo abile e intraprendente tanto che, coi tempi che correvano lo reinsediò a Sais, gli perdonò la sua ribellione, lo coprì di doni, vesti, gioielli e altri tesori e suo figlio Psammetico venne fatto signore di Atribi.

Manetone lo pone come terzo re della XXVI dinastia saitica ponendo davanti a lui due misteriosi, e non meglio identificati sovrani, Stephinates e Nechepsos.

A questo punto, prima di affrontare la storia dei faraoni che appartengono alla XXVI dinastia è necessario fare chiarezza tra le varie notizie di cui disponiamo. Manetone, per mezzo di Eusebio da Cesarea, riporta come primo sovrano della dinastia Ammeris l’Etiope. Non esistono dati archeologici ai quali sia possibile collegare questo nome. Poiché Manetone lo chiama l’Etiope ciò porta a pensare che costui fosse un comandante militare nubiano di Shabaka (XXV dinastia) che l’avrebbe posto al governo della città di Sais dopo la sconfitta di Boccoris (XXIV dinastia).

Sempre Eusebio da Cesarea, riportando Manetone pone al secondo posto nella XXVI dinastia un certo Stephinates che, come sopra, non compare su alcun reperto archeologico. contrariamente ad Eusebio, Sesto Africano, che ignora Ammeris, lo pone invece come fondatore della XXVI dinastia. Secondo alcuni autori l’assonanza del nome Stephinates (forma grecizzata) con quello egizio di Tefnakht farebbe pensare che questi avrebbe potuto essere allacciato all’antica casata che governava da tempo la città di Sais, forse un parente discendente del primo Tefnakht oltre che uno dei suoi successori al governo di Sais. In questo caso potrebbe aver regnato in posizione di vassallaggio più o meno indipendente dalla XXV dinastia e, sempre secondo Manetone, aver lasciato il governo al suo successore Nekaub (o Necheopsos) che, secondo Kim Ryholt sarebbe il padre del futuro Necao.

Anche Nekaub, che Manetone pone al terzo posto nella XXVI dinastia, lo troviamo solo in Sesto Africano e Eusebio da Cesarea, per una volta concordi nel chiamarlo Necheopsos ed assegnargli un regno di sei anni.

Dopo tutte queste notizie è opportuno dire che per la maggior parte degli studiosi nessuno dei tre sopra citati abbiano ricoperto un ruolo di sovrani della XXVI dinastia ma siano stati semplicemente principi di Sais vassalli della XXV dinastia. 

Fonti e bibliografia:

  • Salima Ikram, “Antico Egitto” , Ananke, 2013
  • Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
  • Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bologna, Bompiani, 2003
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
  • Jurgen von Beckerath, “Chronologie des Pharaonischen Agypten”, Ed. Zabern, 1997
  • Kenneth Kitchen, “Il terzo periodo intermedio in Egitto (1100–650 a.C.)” 3a ed, (Warminster: 1996
C'era una volta l'Egitto, III Periodo Intermedio, XXV Dinastia

LA DINASTIA DELLE DIVINE ADORATRICI DI AMON

Di Piero Cargnino

Per secoli il titolo di “Sposa del Dio” era riferito alla moglie del faraone con un valore religioso mai chiaramente spiegato.

Il titolo di “Divina Sposa di Amon” (Hemet Netjer) fu introdotto durante la XVIII dinastia come titolo onorifico e costituiva un privilegio della regina o di principesse rigidamente appartenenti alla famiglia Reale (salvo rare eccezioni), con il quale venivano insignite le mogli, le madri o le sorelle del sovrano, quali sacerdotesse di Amon. La presenza della Divina Sposa di Amon sul palco per la Festa Sed era indispensabile, il suo compito prioritario era quello di “soddisfare la potenza creatrice del dio”.

La prima “Divina Sposa di Amon” fu Ahmose Nefertari, la Grande Sposa Reale di Ahmose I, iniziatore della XVIII dinastia. Spesso il titolo veniva tramandato da madre a figlia come nel caso della regina Hatshepsut e di sua figlia Neferure, che andrà poi sposa a Thutmosi III. Il titolo cadde in disuso verso la fine della dinastia con lo scisma amarniano di Akhenaton, ma fu poi ripreso, in forma più che altro onorifica già dalla XIX dinastia.

Per tutta l’epoca Ramesside il faraone tornò ad esercitare in piena autonomia il potere che gli era riconosciuto. Con l’avvento della XXI dinastia, nota come la “Dinastia dei Profeti di Amon”, l’incoronazione di un sacerdote quale “Primo Profeta di Amon”, ingenerò l’assunzione di un maggior potere da parte del clero tanto che si può parlare di Teocrazia.

A questo punto anche la casta delle “Divine Spose di Amon” ne trasse beneficio. Al titolo originario venne loro attribuito anche quello di “Divina Adoratrice di Amon” (Dwat Netjer), carica che col tempo si evolvette al punto da divenire indipendente persino dal faraone stesso. Quest’ultimo titolo veniva attribuito in un primo tempo a una figlia del faraone ma, venendo meno il potere centrale, iniziò ad essere attribuito ad una figlia del Primo Profeta, e fu proprio con la nomina a Divina Adoratrice della figlia di Pinedjem I, Primo Profeta di Amon durante la XXI dinastia, che si creò un vero e proprio regolamento che prevedeva che le Divine Adoratrici di Amon dovevano restare nubili e vergini a vita.

Ad esse veniva attribuito il potere di consacrare monumenti e celebrare i rituali, godevano inoltre del privilegio di possedere lussuose dimore dove erano accolte le giovinette destinate a succedergli alle quali venivano impartite vere e proprie lezioni per la loro formazione futura. A dimostrazione dei benefici che il titolo comportava basta pensare che la Divina Adoratrice possedeva enormi ricchezze, controllava un gran numero di funzionari e, come solo al faraone era permesso, poteva fare offerte agli dei.

Solo le giovani gradite al faraone potevano ambire a tale titolo e per essere certi che ciò si verificasse il titolo poteva essere tramandato esclusivamente per adozione del successore da parte della Sposa del dio in carica e aveva carattere ereditario, in quanto una Divina Adoratrice non poteva essere sostituita.

Una volta investita dell’incarico alla nuova Sposa veniva consegnato un cartiglio con il suo nuovo nome derivato sempre dalla radice di Mut, in onore alla sposa celeste del Dio.

Gli attributi principali della Divina Adoratrice in carica li riscontriamo in numerosi rilievi dove appaiono nella loro ampia risonanza: “mano del dio” (in egizio: Djeret Netjer); “colei che rallegra la carne del dio”; “colei che si unisce al dio”; “colei che ha la gioia di vedere Amon”. Ma sarà solo durante il Terzo Periodo Intermedio, in particolare sotto la XXV dinastia che il titolo assumerà un’importanza assai rilevante, oltre al potere religioso, che già possedevano, le “Divine Adoratrici di Amon” acquisirono un notevole potere politico di controllo su Tebe, città sacra al dio Amon, e sulla regione circostante soppiantando quello precedente del “Primo Profeta di Amon”, provvedimento che i sovrani adottarono nell’intento di limitare lo strapotere dei sacerdoti.

Al fine di valorizzare ulteriormente il loro potere venne disposto che il loro nome venisse inscritto in un cartiglio, simbolo della regalità. Basti pensare che la Divina Adoratrice Nitokris I giunse persino ad adottare la titolatura regale attribuendosi un nome Horo. Anche se limitato alla sola regione di Tebe, durante la XXV dinastia, indipendentemente dal caos in cui versava l’Egitto, la tebaide mantenne la sua notevole autonomia sotto il governo delle “Divine Adoratrici di Amon” che costituivano quella che molti chiamano la “Dinastia delle Divine Adoratrici di Amon”.

Ritengo doveroso citare almeno i nomi di queste fiere donne che seppero, anche nei momenti più difficili, reggere il governo della tebaide, cosa che uomini guerrieri non seppero fare: Shepenupet I,  Amenirdis I, Shepenupet II, Amenirdis II, Nitocris I, Ankhnesneferibra, Nitocris II. Tanto gli è dovuto. Con l’avvento della XXVI dinastia i Persiani restituirono il titolo a fanciulle vergini, nate da famiglie locali.

Fonti e bibliografia:

  • Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bologna, Bompiani, 2003
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
  • Edda Bresciani, “L’Antico Egitto”, De Agostini, Novara, 2000
  • Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
  • Kenneth Kitchen, “Il terzo periodo intermedio in Egitto (1100–650 a.C.)” 3a ed, Warminster: 1996
  • Jurgen von Beckerath, “Das Verhältnis der 22. Dynastie gegenüber der 23. Dynastie”, 2003
  • Nicolas Grimal, “Storia dell’antico Egitto”, 9ª ed., Roma-Bari, Biblioteca Storica Laterza, 2011
  • Christian Jacq, “Le donne dei faraoni”, Mondadori, 1998
C'era una volta l'Egitto, III Periodo Intermedio, XXV Dinastia

I FARAONI NERI – TANUTAMANI

Di Piero Cargnino

E siamo così giunti anche all’ultimo faraone nero con il quale si chiuderà la XXV dinastia kushita.

Dopo un anno di coreggenza, alla morte di Taharqa, sul trono dell’Egitto e del regno di Kush sale il nipote Tanutamani (Tanutamon) il cui nome di Horo era Wah-merut. Manetone non ne fa cenno ma il suo nome compare negli annali assiri.

Iniziò bene il suo regno, trovandosi l’esercito assiro lontano dall’Egitto, Tanutamon tentò il colpaccio, armò il suo esercitò e discese il Nilo fino a Tebe che raggiunse in breve e venne accolto con tutti gli onori dal governatore Montuemhat e dalla “Divina Sposa di Amon” Shapenewpet II.

Le principali notizie della suo campagna militare che sono giunte fino a noi provengono dalla stele nota come “Stele del Sogno”, scoperta a Gebel Barkal, eretta dal sovrano stesso, (da non confondere con la più nota “Stele del Sogno” di Thutmasi IV). L’etiope narra che nel suo primo anno di regno vide in sogno due serpenti, uno a destra e l’altro a sinistra, e il sogno gli fu interpretato con queste parole:

Grazie all’appoggio dei tebani, Tanutamani marciò col suo esercito verso nord con l’intento di riconquistare il Basso Egitto, iniziò una battaglia contro i principi egizi rimasti fedeli al sovrano assiro che sconfisse presso Menfi dove cadde pure Necao I di Sais che secondo alcuni viene considerato il fondatore della XXVI dinastia. Nella sua Stele del Sogno, Tanutamani descrive nei particolari come i principi sconfitti, guidati da Peqrur di Per-Soped, gli resero omaggio sottomettendosi. Stranamente nell’elenco dei principi non viene fatto alcun cenno a Psammetico I di Atribi, figlio di Necao I. E’ interessante il fatto che la battaglia sia stata raccontata anche da parte assira su di un cilindro scritto in cuneiforme anche se ovviamente dal loro punto di vista.

Possiamo immaginare con quale contrasto vengano esposte le due versioni, in quella etiope il vincitore fu Tanutamani, in quella assira ovviamente fu invece Ashurbanipal. Tanutamani partì dunque per Napata

dove giunse senza alcun problema. Qui fece celebrare una grande festa in onore di Amon-Ra al cui termine discese il Nilo e andò ad Elefantina a rendere omaggio al dio Khnum, da qui poi si recò a Tebe per onorare il dio Amon-Ra.

Tornato in Egitto Tanutamani si diresse subito verso Menfi, durante il tragitto il sovrano venne accolto ovunque con scene di giubilo, dopo aver preso Menfi e ringraziato con offerte Ptah e le altre divinità, ordinò che a Napata venisse costruito un grande portale in ringraziamento agli dei. Tanutamani scese ancora verso il Basso Egitto per combattere gli ultimi principi ribelli i quali però si ritirarono dentro le loro mura e non uscirono a combattere con lui. Anziché assediare le città, forse per scarsità di soldati, il sovrano tornò a Menfi, non passò molto tempo che i principi gli mandarono a dire, per bocca del principe di Pi-Sopd, che erano pronti a servirlo ed a diventare suoi vassalli.

Tanutamani riunì allora tutti i principi nel palazzo reale e qui li informò che la sua vittoria gli era stata promessa dal suo dio, l’Amon di Napata. Terminato il banchetto il principi tornarono alle loro città, e l’iscrizione termina qui bruscamente. Ma il trionfo non ebbe lunga durata, Ashurbanipal scese nuovamente in Egitto, dove il suo esercito sconfisse quello di Tanutamani, dopo di che riconquistò Menfi, scese fino a Tebe che saccheggiò e derubò del tesoro del tempio di Karnak. Procedette quindi a dividere tutto l’Egitto in piccoli territori che affidò a principi a lui fedeli. Nei testi cuneiformi non troviamo più citato il faraone etiope ed a quanto pare neppure il re assiro. Tanutamani fuggì per l’ennesima volta e si rifugiò a Napata, pur continuando a considerarsi faraone legittimo, e qui morì nel 656 a.C. e fu sepolto a Kuru.

Da questo momento i sovrani etiopi non entrarono più in Egitto limitandosi a governare la Nubia e spostando la loro sfera d’influenza più a sud, dove daranno vita a quello che sarà il regno di Meroe.

Fonti e bibliografia:

  • Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bologna, Bompiani, 2003
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
  • Edda Bresciani, “L’Antico Egitto”, De Agostini, Novara, 2000
  • Gianpiero Lovelli, “Tanutamani, l’ultimo monarca della XXV dinastia”, da Strorie di Storia, 2020
  • R. William Gallagher, “Sennacherab’s campaign to Juda”, Boston, Brill Press, 1999
  • Marco Joshua J., “Esathaddon”, Enciclopedia della storia mondiale, (estratto), 2019
  • Radner Karen, “Antica Assiria: una brevissima introduzione”, Università di Oxford, 2015
  • Nicolas Grimal, “Storia dell’antico Egitto”, 9ª ed., Roma-Bari, Biblioteca Storica Laterza, 2011 A. Kirk Grayson, Sennacherib in Anchor Bible Dictionary, New York, 1992
C'era una volta l'Egitto, III Periodo Intermedio, XXV Dinastia

I FARAONI NERI – TAHARQA

Di Piero Cargnino

Non voglio indugiare oltre per scoprire se fu Shabaka o Shebitqo a regnare per ultimo ma proseguirò seguendo le linee accademiche in generale. Diciamo quindi che a Shebitqo successe il cugino Taharqa che per sua fortuna si trovò la strada spianata dalle campagne di successo di Pianki e Shabaka avviandosi a governare un prospero regno.

Per quanto riguarda la durata del regno di Taharqa la si evince dalla “Stele del Serapeum” (cat. 192) dove viene registrato che un toro Apis nato il “quarto mese della stagione di Akhet, giorno  9”, nell’anno 26 di Taharqa morì nel Anno 20 di Psammetico, “quarto mese di Shemu, giorno 20 dopo aver vissuto 21 anni”. Da ciò si deduce che Taharqa regnò almeno 26 anni.

Abbiamo già incontrato Taharqa quando, durante il regno del suo predecessore, guidò l’esercito egizio inviato a supporto della  coalizione anti-assira formata dal regno di Israele, da quello di Giuda e dalle città di Ascalon e Sidone, dove la coalizione fu sconfitta ad Ashod.

Rientrato in Egitto salì al trono dopo la morte di Shabaka o Shebitqo e lo descrive lui stesso esplicitamente nella stele di Kawa, riga 15:

Stranamente nella stele Taharqa non accenna mai chi fosse il Falco Reale. Pertanto rimane l’incertezza su chi dei due suoi predecessori abbia regnato per ultimo.

Affidò subito l’amministrazione dell’Alto Egitto al Quarto Profeta di Amon presso Karnak, Montuemhat, al quale concesse i titoli di “Governatore di Tebe” e “Sovraintendente ai Distretti Meridionali”. Stabilì la sede della sua corte nel Basso Egitto in modo tale da avere l’opportunità di  seguire meglio le complesse vicende palestinesi, nel contempo sottomise i piccoli dinasti locali, di origine libica, che spadroneggiavano ancora in alcune zone del Delta del Nilo.

Intanto il re assiro Sennacherib venne assassinato in seguito ad un complotto, lo racconta Erodoto ed anche la Bibbia:

Non è detto che nell’uccisione di  Sennacherib Taharqa sia stato del tutto estraneo tanto che iniziò a coltivare alleanze con elementi in Fenicia disposti a rendersi più indipendenti dal potere assiro. Intraprese alcune campagne militari con successo ed invase la Palestina meridionale, come attestato dalla “lista dei principati asiatici conquistati” nel tempio Mut a Karnak e “popoli e paesi conquistati (libici, nomadi Shasu, fenici e Khor in Palestina) nel tempio di Sanam”.

Ma Taharqa aveva fatto male i conti, Esarhaddon succeduto a Sennacherib intraprese una campagna militare contro Khor (avamposto egiziano situato nel sud della Siria), distrusse Sidone e sottomise Tiro. si rivolse quindi all’Egitto, Taharqa fu sconfitto nel 677 a.C.; fuggì prima a Tebe poi, quando il governatore Montuemhat fu costretto a fare atto di sottomissione consegnando tutta la regione a Esarhaddon, dovette ritirarsi a Napata.  Esarhaddon invase e trasformò il Basso Egitto in una provincia assira, proseguì quindi, attraversando il deserto, fino a Menfi, che conquistò catturando la famiglia del faraone, le mogli reali ed il principe Nes-Anhuret che inviò in Assiria come ostaggi, impose tributi e poi si ritirò. Per la prima volta da secoli l’Egitto dovette subire un’invasione straniera.

Ma Taharqa tornò  portando truppe di riserva da Kush, come menzionato nelle iscrizioni rupestri e sconfisse gli Assiri nel 674 a.C., secondo i documenti babilonesi rioccupando Menfi ed il Delta. Secondo alcuni studiosi pare che questa sia stata forse una delle peggiori sconfitte dell’Assiria.

Nel frattempo l’improvvisa morte del re Esarhaddon fermò l’avanzata dell’esercito assiro, anche perché Ashshurbanipal, succeduto al padre, dovette accorrere in patria per risolvere una crisi politica scoppiata nel suo turbolento impero. Ne approfittò subito Taharqa che, tornato a Tebe riuscì in breve a formare una nuova alleanza con dinastie locali che avevano fatto atto di sottomissione all’occupante; alla coalizione aderì anche Necho, principe di Sais che fonderà la XXVI dinastia.

Ashshurbanipal, risolta la crisi interna, rientrò appena possibile in Egitto, sconfisse nuovamente Taharqa e avanzò fino a Tebe, ma non stabilì un controllo assiro diretto, nominò suo vassallo sovrano in Egitto Necho I e tornò in patria. Pochi anni dopo i sovrani di Sais, Mendes e Pelusium tornarono a complottare contro gli assiri cercando di attirare con loro Taharqa che si trovava a Kush. Assurbanipal scoprì quello che si tramava ai suoi danni, scese nuovamente col suo esercito e sconfisse i ribelli giustiziandone molti e deportando Necho I a Ninive. Ancora una volta Taharqa si rifugiò nella sua terra d’origine dove di li a poco morì.

Va riconosciuto a questo faraone che, nonostante un regno in continuo conflitto con la potenza assira, fu anche in grado di garantire un prospero periodo di rinascita sia in Egitto che nel suo paese Kush. Favorito da una eccezionale inondazione del Nilo, che permise un raccolto molto abbondante a tutto vantaggio della popolazione, il governo centrale fu particolarmente efficiente da sostenere molte  risorse intellettuali e materiali, la religione, le arti e l’architettura furono riportate alle loro gloriose forme dell’Antico, Medio e Nuovo Regno.

Taharqa e la XXV dinastia fecero rivivere la cultura egiziana, dalle numerose iscrizioni si riscontra che il sovrano fece grandi donazioni d’oro sia al tempio di Amon di Karnak che a quello di Kawa. Sotto Taharqa, l’integrazione culturale dell’Egitto e di Kush raggiunse un punto tale da non poter essere annullata, nemmeno dopo la conquista assira. L’impero della Valle del Nilo tornò grande come lo era stato nel Nuovo Regno.

Taharqa fu anche un grande costruttore, restaurò templi e ne costruì di nuovi, fece delle enormi aggiunte ai templi di Karnak e di Kawa oltre che al tempio di Jebel Barkal, la cui somiglianza con quello di Karnak costituì un punto centrale per i suoi costruttori.

Taharqa costruì anche insediamenti militari presso i forti di Semna e Buhen e il sito fortificato di Qasr Ibrim. All’ingresso del palazzo di Ninive furono trovate tre statue colossali di Taharqa,  probabilmente portate come trofei di guerra da Esarhaddon con altro bottino.

Taharqa morì a Tebe ma a differenza dei suoi predecessori non fu seppellito a el-Khurru ma nella sua piramide a Nuri, (piramide NU 1) anche se è nota una seconda piramide di dimensioni modeste, a lui dedicata e situata a Sedeinga. La piramide NU 1 di Taharqa è la più grande e meglio conservata, misura circa 52 metri per lato ed è alta 67 metri con un’inclinazione di 69 gradi, è la più elaborata tomba rupestre kushita.

La camera funeraria è una replica dell’Osireion di Seti I ad Abydos, ha sei colonne che sostengono un tetto a volta. Nella sua tomba furono deposti oltre 1070 ushabti di varie dimensioni fatti di granito, ankerite verde e alabastro.

Fonti e bibliografia:

  • Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bologna, Bompiani, 2003
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
  • R. William Gallagher, “Sennacherab’s campaign to Juda”, Boston, Brill Press, 1999
  • Marco Joshua J., “Esathaddon”, Enciclopedia della storia mondiale, (estratto), 2019
  • Radner Karen, “Antica Assiria: una brevissima introduzione”, Università di Oxford, 2015
  • Nicolas Grimal, “Storia dell’antico Egitto”, 9ª ed., Roma-Bari, Biblioteca Storica Laterza, 2011
  • A. Kirk Grayson, Sennacherib in Anchor Bible Dictionary, New York, 1992
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I FARAONI NERI – SHEBITQO

Di Piero Cargnino

A Shabaka succede il fratello Shebitqo (o Shebitku), entrambi figli di Pianki.

Shebitqo, almeno inizialmente, si appropria di un ruolo di prestigio nella politica internazionale in modo particolare nel Medio Oriente. Il suo praenomen o nome del trono, Djedkare, significa “perseverare è l’anima di Ra”; sua moglie era una sorellastra figlia di Pianki, Arty – tanto si evince da un frammento della statua JE 49157 del Sommo Sacerdote di Amon Haremakhet, figlio di Shabaka, rinvenuta nel tempio di Mut a Karnak.

Shebitqo regnò forse dodici anni (Sesto Africano gliene attribuisce quattordici, Eusebio di Cesarea dodici, in realtà la data attestata più alta a livello archeologico è il 3° anni di regno).

In politica estera, Shebitqo, dovette sostenere il difficile confronto con la potenza assira che per la seconda volta si rivolse contro Israele alla cui richiesta di aiuto il faraone nero non poté sottrarsi. La vicenda della difesa di Gerusalemme è avvolta dall’alone della leggenda: sembra infatti che Shebitqo non si sia mai congiunto con le truppe nubiane del fratello Taharqa richiamate per l’occasione ed inviato in aiuto delle città fenice contro re Sennacherib che assediava Gerusalemme. L’assedio si concluse inverosimilmente con la fuga precipitosa dell’esercito assiro, causata da un avvenimento che le fonti tramandano come miracoloso. La Bibbia parla dell’intervento di un angelo sterminatore, Erodoto di un esercito di topi che avrebbe reso inservibili le armi dei nemici. Resoconti ambedue inverosimili; secondo gli storici si trattò forse di un’improvvisa pestilenza.

Certo è che Gerusalemme si salvò, ma non grazie a Shebitqo. E qui va detto che l’egittologo Brunet, prima e Baker poi, hanno fatto notare che i regni di Shabaka e Shebitqo andrebbero invertiti. Michael Bányai nel 2013 ha pubblicato, in una rivista mainstream, molti argomenti a favore di tale inversione. Dalle prove archeologiche evidenziate nel 2016/2017 appare chiaro che Shebitqo regnò prima di Shabaka; ciò risulta evidente nel bordo superiore dell’iscrizione sulla stele di Karnak.

Baker, e poi Frederic Payraudeau scrissero che la “Divina Adoratrice di Amon” Shepenupet I, l’ultima Adoratrice libica, era ancora in vita durante il regno di Shebitqo perché compare in atto di eseguire riti, descritta come “vivente” sul muro ed all’esterno della cappella Osiride-Héqadjet costruita durante il suo regno. All’interno, Amenirdis I, sorella di Shabaka, è rappresentata come Adoratrix con un nome di incoronazione.

Pertanto Sepenupet I successe a Amenirdis I come “Divina Adoratrice di Amon” durante il regno di Shebitqo; questo dettaglio dimostra che Shabaka non può precedere Shebitqo.

Una delle prove più evidenti che Shabaka governò dopo Shebitqo è stata dimostrata dalle caratteristiche architettoniche delle piramidi reali kushite a El Kurru. Solo nelle piramidi di Pianki (Ku 17) e Shebitqo (Ku 18) le camere funerarie sono strutture a taglio aperto con un tetto a sbalzo, mentre le sottostrutture delle camere funerarie completamente scavate si trovano nelle piramidi di Shabaka (Ku 15), Taharqa (KU 1) e Tantamani (KU 16). L’evidenza del design della piramide mostra anche che Shabaka deve aver governato dopo, e non prima, Shebitqo. Ciò favorisce anche una successione Shebitqo-Shabaka nella XXV dinastia.

Va detto inoltre che nella statua del Sommo Sacerdote di Amon, Haremakhet, figlio di Shabaka, si definisce

Da notare che sulla statua di Haremakhet non viene fatto assolutamente cenno a Shebitqo, che dovrebbe aver governato tra Shabaka e Taharqa. L’assenza di questo re è strana poiché l’intento del testo della statua era quello di rendere una sequenza cronologica dei re che regnarono durante la vita di Haremakhet. Questa sarebbe un’ulteriore prova a sostegno del fatto che fu Shebitqo a regnare per primo e Shabaka gli succedette. Una possibile spiegazione per l’omissione di Shebitqo dalla statua di Haremakhet era che Shebitqo era già morto quando Haremakhet nacque sotto Shabaka.

Per concludere vorrei evidenziare il fatto che da parte della loro patria nubiana ci siano giunte ben poche tracce sia di Shabaka che di Shebitqo, a parte le piramidi di Kurru ed un cimitero di cavalli sempre a Kurru. Su di una stele al Museo Egizio di Torino sono raffigurati Shabaka e Shebitqo seduti insieme (Shebitqo è seduto dietro Shabaka) di fronte ad un tavolo delle offerte. Secondo William J. Murnane questa è una prova che ci sia stata una coreggenza reale tra questi due re. Il Museo di Torino, prima, poi Robert Morkot e Stephen Quirke, hanno analizzato la stele ed hanno confermato che l’oggetto è un falso. Per la maggior parte degli studiosi non ci fu alcuna coreggenza tra Shabaka e Shebitqo.

Fonti e bibliografia:

  • Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
  • Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bologna, Bompiani, 2003
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
  • Frédéric Payraudeau, “Retour sur la succession Shabaqo-Shabataqo”, 2014
  • Robert Morkot, “The Black Pharaohs: Egypt’s Nubian Rulers”, The Rubicon Press, 2000 Henry Breasted, “The Philosophy of a Memphite Priest”, Leipzig, 1901
C'era una volta l'Egitto, III Periodo Intermedio, XXV Dinastia

I FARAONI NERI – SHABAKA

Di Piero Cargnino

Succeduto al fratello Pianki, Shabaka Neferkara-Meriamon marciò verso nord e sconfisse definitivamente gli avversari completando così la conquista dell’Egitto lasciata incompleta, dal fratello. Manetone racconta che:

Autoproclamatosi faraone legittimo, il primo vero “faraone nero”, Shabaka procedette alla restaurazione degli antichi culti, cosa che vedrà la completa realizzazione solo con la XXVI dinastia.

A Menfi tornò il culto di Ptah, venne redatto il “Testo di teologia menfita”, la più articolata cosmogonia della tradizione egizia.

Alla sorella di Shabaka, Shepenupet, fu assegnato il titolo di “Divina Sposa di Amon” mentre il figlio di Shabaka, Harmakis, assunse il titolo di “Primo Profeta di Amon” con valenza prettamente teologica.

Shabaka si dedicò presto alla politica estera con particolare riguardo verso l’Assiria che minacciava i confini egizi, senza indugi provvide ad inviare doni a Sargon II per accattivarselo ma visto che la cosa non funzionava si fece promotore di una coalizione di stati palestinesi che si trovavano nelle stesse condizioni dell’Egitto minacciati dagli assiri.

Shabaka rinforzò il suo esercito, ormai composto per la maggior parte di mercenari, col quale affrontò l’esercito assiro. Le sorti purtroppo non furono favorevoli alla coalizione che venne sconfitta nella battaglia di Raphia. Fortunatamente per l’Egitto l’Assiria era travagliata da problemi interni per cui Sargon II non ebbe modo di sfruttare la vittoria.

Riguardo alla durata del regno di Shabaka le fonti dissentono, la data più alta registrata è il 15º anno di regno, Manetone gli assegna 14 anni, mentre per i suoi epitomi, Giulio Sesto Africano, sarebbero solo otto, per Eusebio di Cesarea sarebbero dodici. Nonostante avesse posto la sua capitale a Menfi, sono state rilevate alcune testimonianze anche a Tebe, Karnak e Medinet Habu dove si trovano alcune sue cappelle.

Fu sepolto nella necropoli nubiana di El-Kurru. Verso la fine del 1700, il conte George John Spencer, primo Lord dell’Ammiragliato britannico, noto mecenate e cultore di letteratura dell’epoca entrò in possesso di una stele, realizzata intorno al 710 a.C. per ordine del faraone Shabaka, che contiene la copia di un testo molto più antico, il cui incipit risale a periodi di molto anteriori, (2780 – 2260 a.C.). Sfuggita alle varie ricerche archeologiche in quanto, in epoca post-faraonica, essa fu utilizzata dai contadini come pietra per mulino. Lord Spencer ne fece poi dono al British Museum di Londra nel 1805.

Chiamata comunemente “Pietra di Shabaka”, consiste in una stele di granito nero di forma rettangolare, leggermente smussata agli spigoli, di 1,37 x 0,92 m., ove sono riportate delle iscrizioni in corsivo geroglifico molto rovinate, in un’area ristretta al centro del reperto di cm. 132 x 69.

Essa riveste grande importanza soprattutto nell’ambito della storia del pensiero filosofico. In detto reperto vengono infatti esposti i principi della cosmogonia menfita incentrata sul concetto del nous e logos, principi che, come acutamente osservò l’archeologo e storico statunitense James Henry Breasted, rappresentano uno dei pilastri, delle fondamenta su cui poggia la speculazione filosofica dei grandi pensatori greci. Una prima pubblicazione dell’iscrizione fu fatta da S. Sharpe nel 1837, dopo di che la stele finì chiusa nei magazzini del British Museum come in una specie di dimenticatoio, vi rimase per circa un secolo senza destare particolare interesse da parte degli studiosi.

Sarà poi solo a fine 800 che Breasted intraprese lo studio dell’iscrizione in maniera approfondita che pubblicò col titolo “The Philosophy of a Memphite Priest”, Leipzig, 1901. L’iscrizione inizia con un prologo dove viene precisato che si tratta della copia di un documento molto più antico, trascritto sulla pietra per essere conservato. Dal linguaggio arcaico utilizzato si presume che la stesura del testo debba essere fatta risalire all’antico regno, nel quale vediamo l’affermarsi di tre importanti centri religiosi: Eliopoli, Menfi ed Ermopoli.

Onde evitare di tediarvi eviterò di descrivere le differenze tra le tre teologie, che i più già conosceranno, ma rimarrei nella descrizione dell’iscrizione della Pietra di Shabaka. Breasted elaborò una ricostruzione dei vari geroglifici tracciando un particolare disegno che ne facilitasse la lettura. La scrittura si snoda nell’iscrizione come segue: dapprima appaiono due linee orizzontali per l’intera lunghezza nella parte introduttiva, seguono poi 61 colonne a raggiera che si dipanano dal centro, oltre alla linea n. 48 di breve lunghezza. In tutto 64 tra linee e colonne. Lo scritto è composto da tre parti, nella prima, (linee 1 e 2), viene citato a ricordo dei posteri la volontà del sovrano Shabaka di far copiare una antica iscrizione, notevolmente rovinata a quell’epoca, nella quale erano tracciati i principi della Teologia Menfita. Dalle linee 3 a 47 incluse viene raccontata la storia della unificazione dell’Alto e Basso Egitto dove Geb, in un primo momento assegna a Seth il Basso Egitto e l’Alto Egitto a Horus, salvo poi assegnare, in un secondo tempo, l’intero paese a Horus ritenendo che, in quanto figlio del proprio figlio primogenito Osiris, ne avesse  maggior diritto. Nella terza parte (dalla linea 48 alla colonna 64), quella più importante, vengono esposti i principi fondamentali della cosmogonia menfita.

Fonti e bibliografia:

  • Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
  • Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bologna, Bompiani, 2003
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
  • Mario Menichetti, “Teologia menfita – La Pietra di Shabaka”,  Gubbio 29 maggio 2007
  • Joshua J. Bodine, “The Shabaka Stone”, Studia Antiqua, vol. 7, 2009
  • Henry Breasted, “The Philosophy of a Memphite Priest”, Leipzig, 1901)
C'era una volta l'Egitto, III Periodo Intermedio, XXV Dinastia

I FARAONI NERI – PIANKI (PIYE)

Di Piero Cargnino

In alcune liste lo troviamo al terzo posto dopo Alara e Kashta, ma dalla maggior parte degli studiosi viene a ragione, considerato il vero fondatore della XXV dinastia, Pianki è colui che per primo dette inizio all’espansione della Nubia fino a riunificare quasi tutto l’Egitto.

Pianki (Piye) era un re kushita, figlio del suo predecessore Kashta e di sua moglie Pebatjma, governò sempre dalla sua capitale Napata nel profondo sud della Nubia, oggi Sudan.

Prese tre o quattro mogli, Abar che gli generò il successore Taharqa, oltre a Tabiry, Peksater e forse anche Khensa.

Approfittando del disordine che regnava in Egitto a causa della litigiosità dei governanti locali, Pianki discese il Nilo estendendo il suo potere oltre Tebe nel Basso Egitto. Abbiamo già accennato alla coalizione dei sovrani libici organizzata da Tefnakht di Sais che assediò Heracleopolis il cui re, Peftjauawybast chiese aiuto a Pianki. Pianki si trovava nel suo 20° anno di regno e colse subito la palla al balzo, Forte di un grande esercito invase il Medio e Basso Egitto arrivando fino a Tebe in tempo per partecipare alla grande festa dell’Opet.

A fornirci una documentazione sugli avvenimenti del suo regno ci ha pensato lui stesso facendo erigere una stele, la “Stele delle Vittorie”, scoperta a Gebel Barkal da un ufficiale dell’esercito del Pascià d’Egitto nel 1862, ora al Museo del Cairo. Sulla stele viene descritta la sua vittoria sulla coalizione, non viene però riportato il motivo che lo spinse, dopo la vittoria, a fermare la sua avanzata verso il Basso Egitto ed a ritirarsi a Napata lasciando al loro posto i principi sconfitti accontentandosi di un semplice atto di vassallaggio.

Lasciò a Tebe la propria sorella Amenardis con il titolo di “Divina sposa di Amon”, titolo che per importanza e potere aveva superato quello di “Primo Profeta di Amon”; dell’importanza e del potere assunto dalle “Divine spose di Amon” a Tebe parleremo in seguito.

Nella stele una scena rappresenta i principi e i re delle città egiziane di fronte a Pianki in atto di sottomissione mentre il re si proclama faraone. Il testo seguente descrive la vittoriosa campagna militare del re in tutto l’Egitto, offrendo una panoramica dello stato del paese in quel momento e in particolare delle principali città conquistate.

Per Pianki quella era una Guerra Santa, ordinava ai soldati di purificarsi ritualmente prima di ogni battaglia mentre lui faceva offerte al grande dio Amon. L’esercito nubiano marciò verso nord conquistando dapprima Heracleopolis poi Menphis. Assediò poi Hermopolis che cadde dopo cinque mesi di assedio e li ricevette la sottomissione dei sovrani ribelli del Delta, Iuput II di Leontopolis, Osorkon IV di Tanis mentre Nimlot, di Heracleopolis Magna, fuggì su un’isola del Delta rifiutandosi di rendere una sottomissione diretta, infatti inviò una lettera al re nubiano in cui accettava la sconfitta. Dopo aver ottenuto la sottomissione dei principi vinti, Pianki li lasciò al loro posto e scese a Tebe per poi tornare a Napata.

Nonostante la sua vittoria, quello che Pianki lasciò cambiava qualcosa solo a nord di Tebe fino alle oasi del deserto occidentale e ad Herakleopolis dove a governare era rimasto Peftjauawybast in qualità di vassallo della Nubia. Nel Basso Egitto la situazione era sempre la stessa dove Tefnakht e gli altri sovrani continuavano a regnare indisturbati.

La data più alta trovata per il regno di Pianki è quella che compare su una stele rinvenuta nel tempio Sutekh di Mut el-Kharab, nell’oasi di Dakhla dove viene citato “anno 24, III Akhet, giorno 10”. Stando però ai rilievi del Grande Tempio di Gebel Barkal questi rappresentano Pianki intento a celebrare la festa Heb Sed, se è stata rispettata la tradizione che voleva che la festa Heb Sed si celebrasse nel trentesimo anno di regno del sovrano, Pianki avrebbe regnato almeno trent’anni. Va però detto che non sempre questa tradizione veniva rispettata per cui non abbiamo alcuna certezza. Kennet Kitchen, basandosi su una stele di donazione riferita all’anno 8 del re Tefnakht, ritiene di poter dire che Pianki regnò 31 anni. Olivier Perdu, nel 2002, ha sostenuto che questa stele potrebbe riferirsi ad un eventuale Tefnakht per cui non sarebbe da prendere in seria considerazione.

Anche Pianki venne sepolto in una piramide a el-Kurru vicino a Jebel Barkal, oggi nel Sudan settentrionale. Alla piramide si accede attraverso una scala di 19 gradini rivolta ad est, da qui si entra nella camera funeraria scavata nella roccia e coperta da un tetto in muratura a sbalzo. All’interno della camera, su di una piattaforma di pietra, posta al centro, sulla quale era sistemato il letto fu sistemato il corpo del sovrano (non ho trovato se era stato imbalsamato o meno). Pianki fu il primo re a ricevere una sepoltura del genere in più di 500 anni. In seguito altri sovrani kushiti vennero sepolti in questo sito.

Fonti e bibliografia:

  • Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
  • Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bologna, Bompiani, 2003
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
III Periodo Intermedio, Mai cosa simile fu fatta

STATUA DI NESPAQUASHUTY

Statua dello scriba Nespaquashuty
Scisto, altezza 78 cm. XXVI Dinastia
Karnak, Tempio di Amon-Ra, cortile della Cachette
Scavi di G. Legrain 1904 – Museo Egizio del Cairo (JE 36665)

Questa statua raffigura il visir Nespaquashuty, seduto con gambe incrociate, che stringe l’estremità di un papiro aperto sulle gambe con le due mani chiuse a pugno

Si tratta di una delle varianti dell’iconografia di figure in posizione da scriba, che a differenzia da quella più diffusa in cui il personaggio stringe nella mano uno stilo.

Indossa una parrucca striata senza scriminatura, che gli lascia libere le orecchie e gli ricade sulle spalle.

Indossa un corto gonnellino trattenuto in vita da una alta cintura.

  

Il volto, raffinato, ha un ovale sottile appena scavato da depressioni che creano delicate ombre sulla superficie levigata, le sopracciglia sono allungate verso le tempie, le linee del naso sottile e gli zigomi appena pronunciati formano, una sorta di cornice intorno agli occhi sottili e allungati; la bocca lievemente sporgente, è atteggiata in un delicato sorriso.

Se le spalle larghe, la sporgenza delle clavicole e i pettorali ben disegnati riprendono lo stile dell’antico Regno, la curva del torace verso verso la vita sottile e la larghezza innaturale dei fianchi allontanano questa scultura dai modelli più antichi.

  

La scultura è identificabile come produzione di epoca saitica per la scelta della pietra, il trattamento della superficie e la resa dei particolari, si noti per esempio la precisione delle colonne verticali di testo incise sul papiro, questa statua esemplifica la tendenza della XXVI Dinastia a riappropiarsi della tradizione culturale e artistica delle epoche più antiche, dopo il lungo periodo caratterizzato dalla presenza straniera in Egitto.

Fonte

Tesori Egizi nella collezione del Museo Egizio del Cairo – Rosanna Pirelli – Araldo De Luca – Edizioni White Star.

III Periodo Intermedio, Mai cosa simile fu fatta

STATUA CUBO DI HOR

Statua cubo di Hor, figlio di Ankhkhonsu. XX Dinastia; scisto, altezza cm 51
Karnak, Tempio di Amon-Ra, cortile della Cachette – Scavi di Georges Legrain 1904
Museo Egizio del Cairo – JE 37150

Questa bellissima scultura fu rinvenuta intatta all’interno della fossa, dove probabilmente in Epoca Tolemaica, furono sepolte le centinaia di statue che decoravano il tempio di Amon-Ra a Karnak.

Il personaggio effigiato si chiama Hor, ed era un sacerdote di Montu, la divinità con la testa di falco originaria di Armant, che prima di essere soppiantato da Amon-Ra, era patrono di Tebe.

Nonostante l’importanza di questa divinità fosse diminuita, Montu continuava ugualmente a ricevere l’appellativo di “Signore di Tebe’, come risulta dal l’iscrizione incisa sul davanti della statua.

Qui é anche riportata la genealogia di Hor, la cui famiglia, per almeno cinque generazioni, appare legata funzioni sacerdotali di ambiente Tebano.

Hor è effigiato nella classica posizione della statua-cubo, un tipo di scultura che fa la sua prima comparsa durante il Medio Evo e ricompare, a intervalli nel corso di tutta la storia faraonica successiva.

La scelta di questo modello statuario riporta all’arcaismo, che è una componente caratteristica di tutta l’arte della XXV Dinastia.

Il recupero di forme e stili di epoche anteriori rientra in quel tentativo, operato dai sovrani nubiani di affermare la propria legittimità al trono attraverso l’utilizzo di un linguaggio formale ispirato alla più pura “egizianità” riscontrabile in ogni manifestazione artistica del periodo.

Nella statua di Hor il rimando all’antico è testimoniato dalla scelta della doppia parrucca, che richiama i modelli del Nuovo Regno.

  

Si rileva anche una sorta di recupero degli schemi arcaici: lo dimostra il fatto che la statua-cubo non è risolta entro un’unità geometrica compatta, come negli schemi classici, ma attraverso una esaltazione del corpo dell’individuo, dove l’artista non conosce soltanto il modello da cui ha tratto ispirazione, ma anche dove questo tragga origine, ovvero dalla figura di uomo seduto sui propri calcagni.

In questo modo, contrariamente ad opere simili, la statua di Hor, più che racchiudere in un insieme raccolto il corpo della persona, gli permette di fuoriuscire in una serie di linee curve che rendono questa scultura vibrante e carica di tensione.

NOTA FILOLOGICA A CURA DI NICO POLLONE

Il testo inciso tra i piedi del personaggio riguarda le relazioni parentali, di nome proprio e di titolatura.

  

Li propongo così:

Fatto (generato-creato) dal grande figlio di suo figlio….

Grande padre…

Hor

Sacerdote stolista (il sacerdote addetto alla vestizione del dio) di Amon giustificato.

Fonte

Tesori Egizi nella collezione del Museo Egizio del Cairo – Francesco Tiradritti – Edizioni White Star

III Periodo Intermedio, Mai cosa simile fu fatta

STATUA DEL VISIR HORI

Basalto, altezza cm 96
Karnak, Tempio di Amon-Ra, cortile della Cachette
Scavi di George’s Legrain 1904 – XXII Dinastia
Museo Egizio del Cairo – JE 37512

Il visir è accosciato su una base parallelepipeda con gli spigoli posteriori smussati.

La posizione asimmetrica delle gambe, la destra ripiegata al petto e la.sinistra poggiata a terra, è piuttosto inusuale.

Appare sporadicamente nell’Antico Regno e, ripresa talvolts nel Nuovo Regno.

  

Hor Indossa unicamente un gonnellino corto completamente ricoperto di iscrizioni, che riportano i suoi titoli e quelli del padre, il sacerdote Iuatjek.

Completamente rasato, le orecchie piuttosto sporgenti ai lati del viso regolare, lineamenti delicati e sguardo sereno: le sopracciglia appena rilevate proseguono nella linea del naso diritto, le guance, piene, sono delimitate da due solchi poco profondi ai lati della bocca, piccola atteggiata a sorriso.

Il collo sottile poggia su ampie spalle modellate con cura, su cui sono disegnate a rilievo le clavicole.

Il resto del torace, più stilizzato, si restringe verso la vita, dove un’ampia cintura sostiene il gonnellino.

Minor attenzione sembra essere stata data a braccia e bacino e gambe, che appaiono piuttosto grossi e sproporzionati.

Manca il pilastro dorsale, fatto che, unitamente alla posizione di Hor e alla testa rasata, mostra una chiara volontà di riprendere modelli arcaici , risalenti all’ Antico Regno, cui la scultura di Epoca Tarda farà spesso riferimento.

Fonte

Tesori Egizi nella collezione del Museo Egizio del Cairo – Rosanna Pirelli – Edizioni Withe Star

Foto: Museo Egizio del Cairo, Heidi Kontkanen