Di Andrea Petta e Franca Napoli
“Mi sono formato nella scuola di medicina di Heliopolis dove (…) mi sono state insegnate (…) le medicine. Mi sono formato nella scuola ginecologica di Sais, dove mani divine mi hanno dato le loro ricette. Ho tutti gli incantesimi preparati personalmente da Osiride. La mia guida è sempre stato il dio Thot, inventore di parole e autore di ricette infallibili, l’unico che sa dare reputazione ai maghi e ai medici che seguono le sue indicazioni. Gli incantesimi sono ottime medicine e le medicine sono buoni incantesimi” (testo risalente al regno di Ramses II).
SCIENZA E MAGIA
(Alla magia – “heka” – dedicheremo un articolo specifico per capirne meglio gli effetti “medici”)
Come in tutte le antiche civiltà, in cui molti aspetti della vita quotidiana non potevano essere compresi con quella che oggi chiamiamo “scienza”, le pratiche empiriche e razionali della medicina venivano affiancate da quelle magiche e religiose.
Il medico poteva debellare con la magia un demone maligno, poteva offrire i suoi preparati o la sua abilità chirurgica e poteva placare l’ira divina con i corretti rituali; le tre azioni si intersecavano inevitabilmente (“gli incantesimi hanno un grande potere sul rimedio”, Papiro Ebers).
In pratica, è un preludio a quello che i Greci divideranno in corpo fisico, mente (o psiche) e spirito (o pneuma). Per questo motivo degli incantesimi venivano pronunciati preparando il medicinale oppure quando veniva applicato. La pratica di scrivere incantesimi su un supporto come il papiro (e successivamente la carta) da aggiungere sminuzzato al preparato medicamentoso è sopravvissuta fino ai nostri giorni.
La magia era anche preventiva, per allontanare eventuali pericoli dalla vita di tutti i giorni.
Nella medicina egizia manca completamente un rapporto eziologico di causa-effetto: la malattia (“mr”) non era dovuta ad un malfunzionamento di qualche organo, ma piuttosto da uno spirito maligno o da un demone invisibile entrato nel corpo del malato. Il concetto di malattia coincide quindi con il concetto di sintomo, dovuto a non a malfunzionamento organico ma a presenze esterne.
Questa è la più grande limitazione della medicina egizia, e non è di poco conto.
La guarigione non era possibile finché tale presenza non fosse stata allontanata dal malato. Molti studiosi hanno cercato di costruire un parallelismo con virus e batteri della medicina moderna; è un concetto affascinante, ma non esiste nella medicina egizia una tale idea ed è chiaramente una forzatura dovuta alla nostra moderna mentalità.
Abbiamo esempi nelle cosiddette “lettere ai defunti” (su cui sarebbe interessante fare un approfondimento adeguato), in cui si invoca la protezione da parte del defunto, indicando che spesso la causa delle malattie era vista come la mancanza di tutela che avesse permesso ad una presenza maligna di affliggere il malato.


Ma la parte “scientifica” era sicuramente preponderante ed innovativa. Secondo un autore cristiano del secondo secolo, Clemente di Alessandria, già dagli albori del Periodo Dinastico i sacerdoti egizi avrebbero raccolto la loro sapienza in 42 libri di cui ben sei dedicati alla medicina, compreso un volume di anatomia redatto direttamente da Athothis (identificato con Djer, il terzo Faraone della I Dinastia) menzionato da Manetone e che secondo l’autore greco sarebbe stato un medico.
Purtroppo nessuno di questi volumi è arrivato fino a noi, se mai sono realmente esistiti, ma sappiamo che già dall’Antico regno la professione medica era già organizzata, con specializzazioni e gerarchie definite.

DEFINIZIONI E GERARCHIE
Abbiamo già visto che il medico veniva chiamato sinw o swnw, ed il titolo veniva scritto con i geroglifici per “uomo”, “borsa della medicina” e “freccia”; quest’ultima indicherebbe l’abilità di estrarle in battaglia. A volte il determinativo usato era quello per “uomo anziano”, sia per indicare un medico venerabile che per indicare il rispetto di cui godevano i medici.
Ma, attenzione, poteva non essere l’unico “guaritore”. Una delle fonti più importanti, il Papiro Ebers (che vedremo nel dettaglio più avanti in questo percorso), cita chiaramente i “medici” (“sinw”), i “sacerdoti di Sekhmet” (“wab”) ed i “maghi” (“sau”) come coloro che possono guarire l’infermo. La presenza dei sacerdoti potrebbe non essere legata solo alle preghiere: i chirurghi erano Sacerdoti di Sekhmet, ed anche i monaci cristiani praticarono la chirurgia fino al XII secolo quando fu loro proibito per la cosiddetta astinenza dal sangue (alla base anche del moderno rifiuto delle trasfusioni da parte dei Testimoni di Geova).
Ci sono pervenute diverse cariche ricoperte dai medici più eminenti: esistevano quindi dei “imy-r sinw” (sovrintendenti dei medici, soprattutto nei grandi cantieri statali), dei “wr sinw” (capi dei medici, sorte di primari odierni secondo Faulkner), dei “smsw sinw“ (medici anziani, probabilmente un titolo onorifico) ed infine dei “shd sinw”(ispettori dei medici, inviati dal Faraone), un titolo in uso nel solo Antico Regno. Una simile struttura gerarchica era presente anche a corte, dove compaiono i “sinw per aa” o Medici di Corte (ricordiamoci che “per aa” era la Grande Casa, cioè il Palazzo di Corte e per estensione, il Faraone stesso) ed i “sinw nesu” o Medici del Faraone
Al di sopra di tutte queste cariche c’erano i Supervisori dei Medici dell’Alto e Basso Egitto, che rispondevano presumibilmente ai Visir.

Una categoria a parte era rappresentata dai chirurghi, chiamati come abbiamo visto “Sacerdoti di Sekhmet” visto il loro rapporto stretto con il sangue. Con ogni probabilità anche i dentisti erano una categoria separata dai medici generici (esisteva il titolo di “Capo dei dentisti” o “Capo dei dentisti di Palazzo”).
Da quello che si evince dai testi i semplici “maghi” (“sau”) – oggi li chiameremmo “guaritori” – facevano uso solamente di formule magiche ed esorcismi. Forse anche i moderni omeopati ricadono in questa categoria…
DIAGNOSI E PROGNOSI
Se l’eziologia delle patologie è un punto dolente della medicina egizia, l’approccio al malato da parte dei medici egizi è invece straordinariamente moderno.
L’intervento del medico avveniva in quattro fasi distinte, ben descritte in tutti i testi pervenuti fino a noi:
– L’ascolto dei sintomi del paziente (oggi sarebbe l’anamnesi)
– L’esame oggettivo utilizzando prevalentemente gli occhi e le mani
– La formulazione della diagnosi che doveva sempre essere detta al paziente (“Tu quindi dirai al/la tuo/a paziente questo:….”)
– Il trattamento
La diagnosi doveva comprendere anche la prognosi
– “È un male che posso curare” in caso di prognosi favorevole
– “È un male contro cui lotterò” in caso di esito incerto
– “È un male che non posso trattare” in caso di prognosi infausta o di intervento medico ritenuto comunque inutile

Detto in termini tecnici, la modalità diagnostica nella medicina egizia è nosografica, cioè consiste nel riconoscere la patologia in atto attraverso il confronto con la propria esperienza e comparando i sintomi osservati con quelli caratteristici di una determinata malattia.
La modalità diagnostica nella medicina moderna è invece fondamentalmente fisiopatologica, cioè consiste nel collegare e ricostruire tra loro i diversi eventi patologici rilevabili nel paziente, secondo rapporti di causa-effetto, per riconoscere la patologia in atto.
Per la nostra mente moderna, non sempre possiamo seguire la logica degli antichi medici. Non possiamo capire perché, ad esempio, una costipazione od un dolore allo stomaco fossero considerati dovuti al fegato, oppure perché molte patologie fossero ipotizzate dipendere dall’intestino – o meglio, possiamo comprendere come quest’ultimo fosse particolarmente importante perché doveva procedere ad espellere con le feci ogni cosa ripugnante all’interno del proprio copro, compresa la malattia.

Alcuni passaggi dei papiri medici sono affascinanti per quanto si avvicinino a concetti moderni: “(Il cibo) contaminato dal caldo può far insorgere (il male)” rimane però un’osservazione empirica e non identificò mai nella medicina egizia la vera causa di un’intossicazione alimentare, ad esempio.
Fu solo con l’avvento della medicina scientificamente fondata (EBM, Evidence-Based Medicine) che la prognosi cominciò ad esprimersi in termini temporali, ossia indicando la quantità di tempo intercorrente tra la diagnosi della malattia e qualche evento importante che ne sarebbe conseguito.
Il trattamento si basava SEMPRE su basi empiriche. Ignorando i rapporti causa-effetto delle patologie, i rimedi si basavano sull’osservazione dei benefici ripetuti nei pazienti con gli stessi sintomi. Non per nulla, si trova molto spesso nei papiri medici la formula “veramente eccellente – un milione di volte” ad indicare che quel rimedio era stato efficace innumerevoli volte.
Infine, il medico DOVEVA esaminare nuovamente il suo paziente dopo un intervento/rimedio perché le condizioni del paziente stesso potevano essere cambiate – oggi lo chiameremmo “follow-up”.
Questo approccio formale, strutturato e logico costituisce la base della medicina moderna – oggi si parla di diagnosi differenziale – ed è (o meglio, dovrebbe essere…) riconoscibile nella pratica di ogni medico. È passato attraverso la scuola di Ippocrate in Grecia, quella di Galeno a Roma ed è arrivato fino a noi. Quello che fortunatamente è cambiato è la comprensione delle cause delle malattie, che continua a crescere ancora oggi.

L’ISTRUZIONE E LE CASE DELLA VITA
Da numerose iscrizioni sappiamo che gli insegnamenti “professionali” venivano spesso trasmessi dai genitori ai figli. Nonostante questo, ci sono pochissime evidenze dirette di medici figli di medici nell’Antico Egitto (ed anche queste oggetto di accesi dibattiti vista la presenza di nomi comuni e ricorrenti), ed è di per sé molto curioso.

La Stele di Iuny all’Ashmolean Museum, uno dei pochi esempi di medico figlio di medico: nel registro inferiore sono rappresentati il medico Huy e suo figlio, il medico Khay (XIX Dinastia, Ashmolean Museum cat 1883.14)

Huy deve essere stato un ottimo esempio per i suoi figli, perché al Louvre è conservata un’altra stele, sempre di Iuny, in cui viene rappresentato con un altro figlio, Kha-em-waset, anch’egli definito come “medico” (Louvre, stele c89)
Diventa ancora più curioso considerando un riferimento che si trova nel Papiro Ebers, dove viene menzionato che:
“Tu preparerai per lui (il paziente) medicine il cui segreto deve essere mantenuto dal medico tranne che nei confronti della propria figlia”. Perché proprio alla figlia non ci è dato sapere…
Possiamo immaginare comunque che l’esperienza venisse tramandata sia verbalmente sia tramite i papiri medici, che vedremo nel dettaglio. Si presume che i medici più facoltosi avessero le proprie copie di tali papiri, ma sicuramente le copie erano disponibili nelle cosiddette “Case della Vita” (“Per-Ankh”), che erano ubicate nei pressi dei maggiori templi delle città (Bubastis, Edfu, Abydos, Sais, Dendera, Deir el Bahari, Philae per nominarne alcune). Galeno scrisse nel II secolo che i medici greci visitavano ancora la biblioteca medica di Menfi, una diretta testimonianza del ruolo delle “Case della Vita”.

A lungo si è discusso se si trattasse di “università mediche”. In realtà si trattava di istituzioni un po’ a cavallo tra gli “scriptorium”, le biblioteche e consessi di sapienti che disquisivano anche di medicina, se vogliamo. Si sa però che a Sais esisteva una vera e propria scuola di ostetricia, molto più vicina alle istituzioni “moderne”.


Ad est del Palazzo Reale di Akhetaton, vicino al Palazzo della Corrispondenza del Faraone (dove furono trovate alcune delle “Lettere di Amarna”), sorgeva anche la “Casa della Vita”, che occupava gli edifici Q42.19 e 20. Lo sappiamo da alcuni mattoni ritrovati che portano impresso il timbro della “Per-Ankh”. A destra: una vista aerea di ciò che rimane della “Casa della Vita” di Akhetaton
Si immagina che i pazienti si recassero alle Per-Ankh per farsi visitare; ovviamente era d’uso che il paziente facesse un’offerta al tempio prima della visita ed anche (eventualmente) come ringraziamento per la guarigione.

La Per-Ankh più famosa e rinomata era quella di Menfi, fondata da Imhotep in persona, mentre quella di Sais, come abbiamo visto, era dedicata alle malattie ginecologiche ed alla formazione delle ostetriche
Dai ritrovamenti archeologici si pensa che le principali Per Ankh avessero un orto in cui venivano coltivate le principali erbe medicamentose utilizzate. Si ritiene che i medici preparassero da soli i propri medicamenti, tramandando conoscenze da padre in figlio che esulavano dai testi “standard”. Soltanto a corte esistevano dei “farmacisti” addetti alla preparazione dei medicamenti.
Per quanto riguarda la parte “pratica” e…monetaria, sappiamo che nei villaggi degli artigiani e nell’esercito i medici erano pagati direttamente dallo Stato o dai templi e non esisteva un esercizio privato della professione, ma al di fuori di questo contesto si hanno ricevute di pagamenti per le cure anche abbastanza ingenti – soprattutto nel periodo Ramesside.

È possibile che questi pagamenti fossero per le preparazioni più che per la diagnosi in sé; secondo Diodoro Siculo i medici che seguivano la legge e non percepivano compensi per le diagnosi non erano perseguibili in caso di morte o menomazione del paziente, mentre in caso contrario dovevano andare sotto processo con rischio di pesanti sanzioni fino alla pena capitale.