Luce tra le ombre

IL SITO DI WADI EL-JARF E IL PAPIRO DI MERER

A cura di Ivo Prezioso

Grazie agli appunti scritti da un viaggiatore inglese di inizio XIX secolo e di due piloti francesi negli anni 50 del secolo scorso, Pierre Tallet ha fatto una scoperta straordinaria. In una remota e desertica parte dell’Egitto situata a pochi chilometri dalla costa del Mar Rosso ha rinvenuto un insieme di 30 grotte, scavate in colline calcaree, ma sigillate e nascoste alla vista. Nel 2011, durante la sua prima stagione di scavo, si è reso conto che queste grotte erano servite come una sorta di deposito di barche durante la IV dinastia, vale a dire circa 4.600 anni fa.

Pierre Tallet presso l’antico porto di Ayn Soukhna sul Mar Rosso. Foto David Degner

Nel 2013 (e siamo alla terza stagione di scavo) si è imbattuto in qualcosa di stupefacente: interi rotoli di papiro, alcuni dei quali lunghi qualche metro e ancora relativamente intatti, vergati in geroglifico, oltre che in ieratico, scritti da uomini che parteciparono alla costruzione della Grande Piramide di Khufu. Tra i papiri c’era il diario di un funzionario di nome Merer che guidava un equipaggio di circa 200 uomini che viaggiava da un capo all’altro dell’Egitto raccogliendo e consegnando merci di vari tipo. In un vero e proprio giornale di bordo, redatto ad intervalli di mezza giornata, menziona di essersi fermato a Tura, una città famosa per le sue cave di calcare, caricando la sua barca con la pregiata pietra per consegnarla a Giza. In effetti, Merer fa questa segnalazione al nobile Ankhaf, noto per essere il fratellastro di Khufu ed ora sicuramente identificato come uno dei maggiori responsabili della costruzione della Grande Piramide.

Gli esperti sono entusiasti di questa scoperta. Mark Lehner, che ha lavorato per circa 40 anni alle piramidi e alla Sfinge, dichiara che è quanto di più simile ad un viaggio nel tempo che ci riporta all’epoca degli antichi costruttori. Zahi Hawass, con l’ entusiasmo talvolta un po’ roboante che lo contraddistingue, non esita a dichiarare che siamo di fronte “alla più grande scoperta in Egitto nel 21° secolo” (se non ricordo male non credo sia la prima né l’ultima volta che si sia espresso così). Lo stesso Tallet, infatti, si premura di parlare in termini più misurati. “Il secolo è appena all’inizio”.

Tallet, un uomo di bassa statura, è nato a Bordeaux l’ 8 luglio 1966, ha modi pacati e cita con grande rispetto e attenzione i contributi di altri studiosi. Predilige i luoghi remoti, lontano dal clamore dei grandi siti monumentali. << Quello che amo sono i luoghi deserti>>, afferma <<Non vorrei scavare in posti come Giza e Saqqara. Non amo molto scavare tombe. Prediligo i paesaggi naturali.>> Ed in effetti le sue convinzioni gli fanno preferire siti remoti alle località più famose. <<La maggior parte delle nuove prove si trova lì!>> L’amore di Tallet per la periferia risale agli inizi della sua carriera. E’ cresciuto a Bordeaux, figlio di un insegnante di francese nelle scuole superiori e di una professoressa di letteratura inglese. Dopo aver studiato alla École Normale Supérieure di Parigi, si è trasferito in Egitto per svolgere il servizio militare alternativo come insegnante in un liceo. E’ rimasto laggiù a lavorare presso l’Istituto Francese, dove ha mosso i suoi primi passi nell’ indagine archeologica. Inizia a setacciare in lungo e in largo il deserto libico e quello del Sinai, cercando e trovando iscrizioni rupestri egizie non ancora note. <<Amo le iscrizioni rupestri: ti offrono una pagina di storia senza la necessità di scavare>> Nel Sinai rinviene importanti prove che confermano che gli antichi egizi vi estraevano turchese e rame. Ciò si accordava perfettamente con la scoperta del porto di Ayn Soukhna che fu utilizzato già dall’Antico Regno.

La baia di Ayn Soukhna come appariva alla fine degli anni novanta del secolo scorso. Foto: Orient & Méditeranée, Ayn Soukhna

L’area non era stata riconosciuta come antico sito archeologico, finché non fu segnalato, nel 1999 dal professor Mahmud Abd el Raziq, un archeologo egiziano, che vi scoprì antichi geroglifici scolpiti delicatamente nella pietra. Da allora è cominciata l’indagine sistematica della zona ad opera di archeologi egiziani e francesi. Gli scavi sono cominciati a partire dal 2001 sotto la sovrintendenza di una missione composta da Mahmud Abd el Raziq (Universitè du Canale, Ismailia), Georges Castel (IFAO), Pierre Tallet (Université Paris-IV Sorbonne) e dal 2017 Claire Somaglino (Université Paris-IV Sorbonne). In questa località, posta sulla costa occidentale del golfo di Suez, a circa 120 Km dal Cairo, e il cui nome significa in arabo “la sorgente termale”, sono stati riportati alla luce resti di forni per la fusione del rame e la preparazione di cibi e una serie di gallerie che fungevano da ricovero per le barche. Inoltre, numerose iscrizioni geroglifiche incise sulle rocce attestano che fosse un importante porto faraonico a partire dall’Antico Regno sino alla fine della XVIII Dinastia.

Ayn Soukhna, parte retrostante di un edificio risalente all’Antico impero. Molte impronte di sigilli, che riportano i nomi dei re della IV ° e V ° dinastia, dimostrano l’antichità di questa struttura. Diverse iscrizioni sono state poste anche all’ingresso di alcune di queste gallerie: risalgono all’Antico Regno e specificano le mete e il personale di queste spedizioni. Foto: Orient & Méditeranée, Ayn Soukhna

Ayn Soukhna. Iscrizione risalente al regno di Djedkarê-Isesi posta all’ingresso della galleria G1. Foto: Orient & Méditeranée, Ayn Soukhna

Ma nel frattempo la curiosità di Tallet lo porta ben presto sessantadue miglia a sud di Ayn Soukhna. Qui, lungo la costa del mar Rosso si trova un secondo ed ancora più sperduto sito archeologico: Wadi el-Jarf. Unico punto di riferimento nelle vicinanze è il Monastero di San Paolo l’Anacoreta, un avamposto copto fondato nel V secolo d.C. nei pressi della grotta che fu abitata dall’eremita.

La posizione geografica dei due porti dell’Antico Regno di Ayn Soukhna e Wadi el-Jarf

L’area è praticamente “nel mezzo del nulla” e probabilmente per questo è riuscita a schivare l’attenzione sia degli archeologi, sia dei saccheggiatori. Tra le poche persone a notare il sito ci fu un esploratore britannico John Gardner Wilkinson, che nel 1823 lo descrisse nei suoi appunti di viaggio: “Vicino alle rovine c’è un piccolo poggio con 18 camere scavate e accanto, forse, molte altre il cui ingresso non è più visibile. Entrammo in quelle dove gli ingressi erano meno ostruiti dalla sabbia e dalle rocce crollate e trovammo che erano catacombe; sono ben tagliate e variano da circa 80 a 24 piedi per 5; la loro altezza varia da 6 a 8 piedi”. Probabilmente, avendo associato l’area al monastero, Wilkinson dedusse che il complesso di gallerie non fosse altro che una serie di catacombe. Evidentemente, la descrizione di questa serie di camere accuratamente scavate nella roccia, fa scattare l’intuizione di Tallet: gli ricorda troppo da vicino le gallerie per il ricovero delle barche che è intento a scavare ad Ayn Soukhna e riecheggiano anche quelle di un altro porto antico, Mersa Gawasis scavato da Kathryn A. Bard dell’Univerità di Boston e da Rodolfo Fattovich dell’Università L’Orientale di Napoli. Inoltre, due piloti francesi a metà degli anni 50 avevano notato il sito, ma senza associarlo ad un porto.

Resti della struttura portuale sul Mar Rosso e dei depositi di ancoraggio, nei pressi di Wadi el-Jarf. Foto: Pierre Tallet

Tallet riesce a rintracciarne uno e usando i suoi appunti , la descrizione di Wilkinson e la tecnologia GPS recupera la posizione. Dopo due anni di lavoro, lui e la sua missione, iniziano a liberare un piccolo passaggio all’ingresso delle gallerie delle barche, tra due grossi blocchi di pietra che erano stati usati per sigillare gli ingressi. Qui hanno ritrovato interi rotoli di papiro, incluso il diario di Merer.

Wadi el-Jarf. Localizzazione dei principali depositi di papiri all’entrata delle gallerie G1 e G2
Foto G. Marouard

<<Gli antichi>>, dichiara Tallet, <<buttarono dentro tutti i rotoli di papiro, alcuni dei quali ancora legati con una corda, probabilmente mentre chiudevano il sito>>.

A sinistra: Wadi el-Jarf, un’ancora in pietra. Foto Pierre Tallet. A destra: busto del Principe e Visir Ankhhaf, nonchè fratellastro del faraone Khufu. Museum of Fine Arts of Boston.

DESCRIZIONE DEL SITO

Wadi el-Jarf è posizionata a 35 miglia dalle montagne del Sinai che costituivano un vero e proprio distretto minerario per l’ Antico Egitto. Nel porto, Pierre Tallet e il suo team hanno individuato un antico molo in pietra a forma di L, lungo oltre 180 metri, che fu costruito per consentire un riparo sicuro alle imbarcazioni. Dal sito sono state recuperate circa 130 ancore, quasi il quadruplo di quelle fino ad allora trovate. Sono state, inoltre, individuate una trentina di gallerie scavate nel fianco della montagna per il rimessaggio (di lunghezza variabile da 15 a oltre 30 metri), contro le 10 rinvenute ad Ayn Soukhna. Si tratta quindi di una struttura veramente imponente soprattutto considerando che è stata realizzata ben 4.600 anni fa. Eppure Tallet e i suoi colleghi raccolgono prove che indicano, senza ombra di dubbio, che fu utilizzata per breve tempo. Il porto fu attivo all’inizio dell’Antico Regno, ma in particolare sotto il regno di Khufu (Cheope).

Le coste del Sinai viste da Wadi el-Jarf durante una giornata particolarmente limpida. (Missione archeologica a Wadi el-Jarf: G. Marouard)

Appare subito chiaro, nel corso dello scavo, che era stato di fondamentale importanza nel colossale progetto costruttivo della Grande Piramide: gli egizi avevano bisogno di enormi quantitativi di rame, il metallo più duro allora disponibile per la realizzazioni di utensili impiegati nell’estrazione dei blocchi di calcare e la principale fonte di rame erano le miniere del Sinai che si trovavano proprio di fronte a Wadi el-Jarf. Il sito fu poi abbandonato in favore di Ayn Soukhna probabilmente per motivi logistici. Questa località distava infatti solo 120 Km. dalla capitale e, sebbene el-Jarf fosse più vicina al distretto minerario sinaitico, richiedeva un viaggio considerevolmente più lungo per raggiungerla.

Gli scavi di Ayn Soukhna hanno portato alla luce abitazioni, un’officina del rame, resti di navi e iscrizioni su pietra. Una di queste cita un “ispettore dei falegnami”, vestigia di un porto trafficato migliaia di anni fa. Alexander Stille; Photographs by David Degner

Dopo aver visitato la località, Mark Lehner, l’egittologo americano, è rimasto come folgorato dai collegamenti che lo associavano a Giza: << la possanza e la purezza del sito è così Khufu>> ha dichiarato <<la dimensione, l’ambizione e la sua raffinatezza; queste gallerie scavate nella roccia grandi come i garage per treni Amtrak (uno dei treni americani per eccellenza), questi enormi martelli di diorite nera e dura che vi sono stati trovati, la vastità del porto, la scrittura chiara e ordinata dei geroglifici dei papiri, che sembrano fogli di calcolo Excel dell’antichità: tutto ha la chiarezza, lo splendore, la grandiosità e l’eleganza delle piramidi, tutte le caratteristiche di Cheope e dell’inizio della IV Dinastia>>.

Carta che illustra le localizzazione di Wadiel-Jarf e dello Wadi Araba (D.Laisney, IFAO) e una veduta dello wadi Araba (foto Y Tristant)

Tallet, è convinto che porti come Wadi el-Jarf e Ayn Soukhna servissero soprattutto da snodi di approvvigionamento. Verosimilmente, a causa della scarsità di fonti di cibo nel Sinai, Merer e altri sovrintendenti avevano la responsabilità di fornire derrate alimentari, provenienti dalle ricche terre lungo il Nilo, alle migliaia di uomini impegnati nelle miniere per l’estrazione di rame e turchese. Con tutta probabilità le operazioni portuali avvenivano solo durante la primavera e l’estate, quando si poteva essere ragionevolmente certi che il mar Rosso si mantenesse relativamente calmo. Al termine della stagione operativa, trascinavano le imbarcazioni fino alla parete rocciosa dove venivano poste al riparo nelle gallerie fino alla primavera successiva.

Accampamento dell’Antico Regno (IV Dinastia) nella parte settentrionale del Wadi Araba (foto Y. Tristant)

Appare, quindi, inequivocabile l’enorme ruolo che ha ricoperto nel suo relativamente breve periodo di utilizzo. Situato sulla costa occidentale del golfo di Suez, a circa 100 chilometri a sud di Ayn Soukhna, (l’altro punto di ancoraggio faraonico sul mar Rosso), fu, come oramai sembra accertato, il porto di elezione, durante il regno di Cheope, per raggiungere le miniere di turchese e rame nel sud-ovest del Sinai. E’ ubicato di fronte ad un punto di sbarco contemporaneo identificato recentemente a El-Markha, sulla riva orientale del Golfo, separato da un braccio di mare largo meno di 50 chilometri. Ad ovest si collega alla valle di Nilo, all’incirca alla latitudine di Meidum (ove fu edificata la prima piramide di Snefru, il fondatore della IV Dinastia), attraverso un reticolo di piste che attraversano il Wadi Araba. Una delle ragioni principali della scelta di questo particolare punto del litorale fu senza dubbio la presenza di una importante fonte d’acqua dolce (oggi inclusa nel monastero di San Paolo, a circa 10 chilometri dal sito), che permetteva di rifornire le spedizioni che vi transitavano. Le vestigia, si estendono per 6 Km. da est ad ovest, dal primo contrafforte montuoso del deserto orientale alle rive del mar Rosso.

Mappa completa delle spedizioni reali e dei possibili sentieri che portano ai siti di estrazione del rame e del turchese del Sinai meridionale durante l’Antico Regno. Mappa G. Marouard, immagini satellitari © Google Earth.

Ritengo utile fornire una descrizione del contesto archeologico in cui sono stati rinvenuti gli straordinari frammenti di papiro al fine di chiarire e collegare tra loro i vari aspetti di una struttura che ha rivestito un ruolo di fondamentale importanza nel grandioso progetto concepito da Cheope. Saranno così di volta in volta descritte le diverse strutture, fino ad occuparci del contenuto del materiale papiraceo.

LE STRUTTURE

Le vestigia più occidentali del sito presentano un sistema di gallerie-deposito simile a quelli rinvenuti poco tempo prima negli altri due porti, ad oggi noti, di Ayn Soukhna e Mersa Gawasis. Si tratta di circa una trentina di gallerie, delle quali diciassette dislocate attorno ad una piccola sporgenza rocciosa, altre nove sul fianco orientale di un piccolo wadi che corre in direzione nord-sud. 

Immagine n. 1: Schema della posizione delle diverse installazioni del sito (D.Lainsney)
Immagine n. 2: Mappa della zona delle gallerie (D. Laisney)

Sono lunghe mediamente 20 m., larghe 3 m. e alte 2,5 m., ma alcune, come le gallerie G1 e G20, raggiungono 34 m. di lunghezza. Ai loro ingressi è sempre presente un sistema di chiusura elaborato: l’accesso alla galleria è stato spesso rimpicciolito dall’installazione di una lastra di calcare su uno dei suoi lati, prima della sigillatura ermetica costituita da una serie di grandi blocchi. (Immagine N. 3).

Immagine n. 3: Le gallerie G1 e G2, dopo lo scavo mostrano il loro sistema di chiusura (Credit: Pierre Tallet, BSFE N. 188, Febbraio 2014)

Questa parte del sito era riservata allo stoccaggio di materiali (parti delle imbarcazioni e attrezzi) e dei prodotti di prima necessità indispensabili per le spedizioni. Grossi vasi destinati a contenere acqua venivano realizzati nelle vicinanze prima di essere immagazzinati: due forni da vasaio utilizzati per la loro cottura sono stati scoperti sotto le gallerie da G3 a G6. Un centinaio di metri più a est, sulle ultime collinette calcaree che si affacciano sulla vasta pianura costiera che costeggia il Mar Rosso in questo punto, si trovano le aree previste per le abitazioni e probabilmente per l’ amministrazione. Un grande gruppo di strutture si distingue particolarmente e mostra almeno due grandi fasi successive di insediamento, entrambe datate agli inizi dell’Antico Regno, come dimostra il materiale ceramico osservato sulla superficie. A metà strada tra l’insediamento e la costa, nel cuore della piana litoranea, si rileva la presenza di un ampio edificio rettangolare in pietra a secco, molto insabbiato, che misura 60×30 metri ed è suddiviso internamente in tredici lunghi spazi trasversali. La funzione precisa di questa costruzione, la più grande d’epoca faraonica finora scoperta lungo il litorale del mar Rosso, è ancora da definire. 

Immagine n. 4: La costruzione intermedia vista da nord (Zona 5), dopo il completamento dello scavo. (Credit: Pierre Tallet)

Sulla costa si trova un ultimo insieme di strutture portuali. Con la bassa marea, si può vedere un pontile a forma di L, che è per lo più sommerso, ma la cui estremità del ramo est-ovest si adagia sulla riva.

Immagine n. 5: Il molo con la bassa marea (foto G. Marouard)

Questo pontile si prolunga sotto il livello dell’acqua in direzione ovest-est per una lunghezza di circa 160 metri. Si inclina successivamente, seguendo un tracciato meno regolare, verso sud-est per altri 120 metri circa. Nella sua parte emersa, si può osservare un assemblaggio piuttosto regolare di grandi blocchi e ciottoli, che assicurava la protezione di una vasta area di ormeggio artificiale estesa per più di 2,5 ettari. 

Immagine n. 6: Pianta del molo (D.Laisnay, G.Marouard, P.Tallet)

Una esplorazione sottomarina ha permesso di confermare la destinazione portuale di questa struttura: almeno 21 ancore in calcare sono state scoperte in situ, in una posizione riparata a sud del ramo est-ovest del molo. Anche diversi grandi vasi di stoccaggio, di produzione locale, fanno parte del materiale archeologico rinvenuto sott’acqua.

Dopo il primo sopralluogo, effettuato nel 2011, che ha permesso di tracciare il piano topografico di tutte le componenti del sito, successivamente lo scavo si è concentrato in particolare su due settori: il complesso gallerie-deposito e le installazioni della zona costiera.

LA ZONA COSTIERA

Le indagini delle strutture portuali si sono concentrate, nel 2013-2014, su un’area situata a circa 200 metri dalla costa. In questo settore erano visibili in superficie numerose tracce di muratura, la cui funzione non era chiara, e un’ancora di imbarcazione. Lo scavo sistematico, operato su una superficie di circa 1000 mq. ha fornito prove di due occupazione successive, non necessariamente lontane nel tempo ed entrambe databili all’inizio dell’Antico Regno.

La più antica è riconducibile a due grandi strutture in pietra, lunghe 30 metri e larghe da 8 a 12 metri e presenta cellule disposte a pettine. Le due installazioni sono state costruite contemporaneamente, e l’una parallela all’altra, lungo l’asse nord-sud, con la parte posteriore rivolta a nord al fine di proteggere gli spazi interni dai venti prevalenti e dal rischio di insabbiamento. La loro pianta generale è tipica dei depositi, conosciuti attraverso le spedizioni, degli inizi dell’Antico Regno. (Immagine n. 1).

Immagine n. 1 Pianta delle strutture a pettine della zona portuale (D.Laisney, G. Marouard, P. Tallet)

Erano originariamente dotati di una copertura realizzata con materiali leggeri, sostenuta da pali di legno il cui ancoraggio al suolo è stato messo in evidenza durante lo scavo. Nello spazio vuoto tra le due strutture è stato rinvenuto un deposito di ben 99 ancore di pietra per imbarcazioni: erano state accuratamente conservate lì durante la fase finale dell’occupazione dei due depositi (Immagine n. 2).

Immagine n. 2 Il deposito di ancore tra i due edifici (Foto G. Marouard)

Alcune di queste ancore, dalla forma estremamente varia, erano ancora dotate delle funi che le tenevano in posizione. Molte di loro recano ancora i segni, vergati con inchiostro nero o rosso, che fanno, con tutta probabilità, riferimento al nome dell’imbarcazione a cui erano destinate o, magari alla squadra che ne era responsabile (Immagine n. 3). 

Immagine n. 3 Dettaglio di un’àncora. E’ ancora parzialmente visibile alla sua base la corda servita per attaccarla. (Bulletin de la société française d’égyptologie,BSFE).

Sempre all’inizio dell’Antico Regno, ma dopo una fase di insabbiamento che provocò la quasi totale scomparsa dei depositi, fu realizzata una più modesta struttura rettangolare a sud-est dell’area, utilizzando blocchi di pietra prelevati dalle costruzioni precedenti. A questa seconda fase si deve la realizzazione di diverse installazioni leggere del tipo a “fondo di capanna” nella parte nord-orientale del settore ed una significativa attività di panificazione. Due sepolture, contenenti ossa di più individui, possono essere associate a quest’ultimo periodo di occupazione del sito che precede il definitivo abbandono della zona portuale di Wadi el-Jarf. Può darsi, ma è solo un ipotesi, che si tratti di membri di una spedizione deceduti nel corso delle operazioni e i cui resti sono stati portati lì per essere inumati.

Durante la campagna del 2015 si provvide ad effettuare un ampio sgombero dell’intera parte emersa del molo frangiflutti, operazione resa difficile dai fenomeni di marea che spesso ostacolavano lo scavo del tratto più vicino alla riva (Immagine n. 4). 

Immagine n. 4 Parte del molo di Wadi el-Jarf (missione fotografica Wadi el-Jarf)

Tuttavia, la struttura è stata identificata per tutta la sua lunghezza di circa 40 m, portando la lunghezza totale della sua sezione est-ovest a 205 m (circa 390 cubiti), aggiungendo i 165 m sommersi già mappati. Sulla spiaggia, la larghezza conservata della struttura varia notevolmente da 1,70 m a 6,50 m. In tutta la metà occidentale, protetta da un forte insabbiamento, sia la faccia esterna – nord, che quella interna – sud, si sono ben conservate e il molo presenta una larghezza omogenea da 5,75 metri a 6,25 metri (circa 11 o 12 cubiti). La facciata esterna è stata trovata in uno stato di conservazione eccezionale, rivelando una cura particolare nella costruzione e una disposizione tanto originale quanto inaspettata. I grandi ciottoli calcarei che compongono il molo sono disposti in modo ordinato e molto regolare. Il cuore del molo, invece, è costituito da un riempimento operato con pietre più piccole, ma estremamente solido, che è stato visibilmente compattato e cementato con un legante di argilla giallastra. L’osservazione dei blocchi ha rivelato una realizzazione tecnicamente avanzata nelle sezioni contigue (di circa 5,50 – 6,00 metri di lunghezza) i cui angoli sono stati sistematicamente assemblati con blocchi più grandi e incatenati. Ognuna di queste sezioni (ne sono state identificate almeno 5) ha una faccia che non è diritta, ma molto chiaramente concava, che è stata deliberatamente prodotta dai costruttori, senza dubbio per accentuare la resistenza di questa parte del molo, più esposta alle forti correnti litorali provenienti dal nord e ai ripetuti attacchi del moto ondoso (Immagine n. 5).

Immagine n. 5 Dettaglio della costruzione del molo (missione fotografica Wadi el-Jarf)

Indagini 2019

Le installazioni di fronte al molo (zona 6) sono state oggetto di studi supplementari all’inizio della campagna 2019 (dal 10 marzo al 30 marzo). L’area immediatamente a sud degli accampamenti è stata ripulita su una superficie di più di 200 mq , rivelando una zona di cottura dei cibi molto ampia e i resti di una ventina di focolari, talvolta delimitati da blocchi di pietra, i cui pavimenti sono costituiti da frammenti ceramici di grandi vasi di fabbricazione locale. Sono stati rimossi anche tutti i pavimenti in argilla delle stanze dell’edificio meridionale, al fine di verificare l’eventuale presenza di tracce di una precedente occupazione, come nella zona 5. Il test è risultato negativo e sembra confermare che il primo insediamento in questa parte del sito è effettivamente contemporaneo al regno di Cheope, del quale era stato rinvenuto un gran numero di sigilli nei pavimenti dell’edificio settentrionale. Ulteriori indagini sono state effettuate anche sulla costa, in linea con la parte meridionale del bacino artificiale delimitato dal molo. In questo punto, la presenza di una sporgenza sabbiosa, chiaramente di origine antropica, era stata notata fin dall’inizio dei lavori nel sito. Corrisponde palesemente ad una zona di depressione, immediatamente a sud del porto, costituita dallo sbocco verso il mare di un grande wadi che attraversa questa piana costiera. In questo punto, sono stati trovati due allineamenti paralleli di pietre, orientati da ovest a est. Sono ancorati alla riva e si estendono nel mare, dove sono ben visibili con la bassa marea. Probabilmente non corrispondono alla costruzione di un molo o di una rampa, come si era pensato inizialmente, ma alla delimitazione di un canale realizzata per proteggerlo dall’insabbiamento. In tal modo, la zona di depressione poteva essere utilizzata come zona di assemblaggio delle barche, in cui sarebbe stato sufficiente far penetrare il mare, con l’alta marea, per facilitare il loro galleggiamento. Questa ipotesi dovrà essere verificata in seguito, in particolare con una politica di scandaglio sistematico del cumulo di sabbia che è l’elemento più visibile di questo impianto.

Indagini 2020

E’ stato ancora una volta sgomberato l’eccezionale deposito di 99 ancore identificato nel 2013. Questa operazione aveva lo scopo di migliorare la copertura fotografica realizzata durante la sua scoperta iniziale, ma è stata anche l’occasione per effettuare una registrazione più sistematica dei segni che erano incisi su queste ancore dalle squadre che le avevano immagazzinate lì, controllando sistematicamente i lati nascosti di questi oggetti. Il totale di queste iscrizioni potrebbe così essere portato, al termine della campagna, a un insieme di 70 documenti, 32 “segni rossi”, che fanno riferimento al nome delle barche a cui appartenevano le ancore, nonché alle squadre ad esse associate, e 38 “segni neri” – tracciati per la maggior parte per mezzo di un pezzo di carboncino – che identificano phyla (squadre) e sezioni di queste stesse squadre (Immagine n. 4) Questo corpus permette così di ottenere un’immagine dell’ultima flotta di Cheope che frequentava il luogo, prima della chiusura definitiva di questi edifici in riva al mare, e di ricostruire, a grandi linee, le strutture ad albero di queste squadre (Immagine n. 6).

Immagine n. 6. Ancora per imbarcazione su cui è ancora visibile il nome della squadra “Dwa Wadjet” (Bulletin archéologique des Écoles françaises à l’étranger, BAEFE)

IL COMPLESSO DELLE GALLERIE DEPOSITO

Il complesso di gallerie fu scavato a circa 7 km dalla battigia. Furono utilizzate come deposito per portare al riparo imbarcazioni, o loro parti smontate, e per conservare attrezzature, cibo, acqua e i materiali in attesa di essere spediti. Siccome il porto veniva utilizzato solo in alcuni periodi, gli ingressi delle gallerie venivano sigillati utilizzando blocchi di calcare pesanti fino a diverse tonnellate. Spesso erano così accuratamente posizionati che per liberare l’accesso bisognava agire di mazza e scalpello per aprirsi un varco di accesso attraverso l’ostruzione creata per proteggere il contenuto delle gallerie. Per di più, alfine di tutelarlo anche dall’umidità si provvedeva alla sigillatura con malta di argilla, dopodiché i blocchi venivano contrassegnati con inchiostro rosso. Per facilitare la riapertura delle gallerie fu escogitato un sistema che permetteva un notevole risparmio di tempo e fatica: tramite un congegno basato su binari di legno, del quale sono ancora visibili le tracce, diventava possibile far scorrere i blocchi, liberando l’ingresso (Immagine n. 1).

Immagine n. 1 Il sistema di chiusura e le marcature sui blocchi all’ingresso delle gallerie G5–G6 (Foto G. Marouard, disegni P. Tallet)

L’area delle gallerie deposito è stata oggetto di indagini molto intense. Al termine di tre campagne di scavo, tredici di queste, su un totale di circa trenta, sono state liberate. All’interno di tre gallerie era ancora visibile in superficie un grande deposito di grosse giare che erano probabilmente servite da contenitori per l’acqua da approvvigionare durante le spedizioni (Immagine 2). 

Immagine n. 2 Una delle gallerie in cui erano presenti depositi di giare in frantumi. (Pierre Tallet)

Presentavano sistematicamente un’iscrizione con inchiostro rosso, impressa prima della cottura, che ne indicava la destinazione. Questa dicitura designa invariabilmente una squadra che ha operato sul posto. Per esempio quella dei “rḫw bjkwy nbw” (i conoscenti del doppio Horus d’oro), che prende il suo nome da uno degli elementi della titolatura di Cheope (Immagine n. 3). 

Immagine n. 3 Giare di stoccaggio con le iscrizioni che menzionano la squadra operante sul sito. Le scritte, in un geroglifico molto “corsivo”, per il frammento superiore si leggono “rḫw bjkwy nbw” (i conoscenti del Doppio Horus d’oro) e “wr m3j” (Grande Leone o Grande è il Leone). Quello inferiore fa riferimento ad una squadra di lavoratori la cui lettura potrebbe essere “m3-wrrt “[di Cheope]”, ma il cui significato non è ancora stato chiarito. (P.Tallet, G. Marouard).

Alcune delle giare erano state addirittura prodotte in loco, e sottoposte a cottura nei forni trovati nei pressi della galleria G6. I vasi venivano prodotti in grandi quantità; la loro presenza è attestata, infatti, nel porto di Ayn Sukhna e numerosi frammenti sono stati ritrovati anche presso la fortezza di Tell Ras Budran, laddove approdavano le spedizioni verso il Sinai (Immagine n. 4). 

Immagine n. 4 I forni di cottura per la ceramica rinvenuti nei pressi della galleria G6 (Foto G. Marouard)

Le altre gallerie sgombrate sembrano essere state impiegate per la conservazione di elementi di imbarcazioni. Resta così poco di questi natanti smontati che è presumibile che siano stati recuperati quasi integralmente dagli stessi Egizi prima del definitivo abbandono del sito. Tuttavia, la presenza di alcune centinaia di frammenti di legno, tenoni, parti di remi, pezzi di raccordo e cordame lasciano pochi dubbi sulla loro presenza nelle gallerie in un dato momento della storia del sito.

Lo scavo sistematico delle discese che conducono all’ingresso delle gallerie di stoccaggio (in particolare quelle delle gallerie G1-G2 e da G3 a G6) ha fornito molteplici informazioni sulle diverse fasi di utilizzo del sito. I prodotti di scavo, furono in parte utilizzati per livellare il pendio naturale che conduceva agli ingressi. Su questo terrazzamento si riscontrano livelli di occupazione, contemporanei all’utilizzo delle gallerie, consistenti in focolari e accumuli di cenere. Siccome, la chiusura delle gallerie imponeva un grosso impegno lavorativo, si pensò di utilizzare grossi blocchi di calcare del peso di diverse tonnellate per erigere una barriera davanti agli ingressi, facendoli scivolare su una rampa di accesso lungo l’asse di ciascuna galleria. Nella fase finale tutte le gallerie furono sigillate con un grosso tassello di calcare spinto davanti a ciascun ingresso a mo’ di saracinesca e rendendo la sigillatura ermetica grazie all’impiego di una malta d’argilla nelle giunture. Sulla maggior parte di questi grossi blocchi si riscontrano numerosi marchi di controllo, databili al regno di Cheope. La formula più rimarchevole, ritrovata su almeno cinque blocchi menziona una squadra il cui nome fa riferimento a quello del re; “šmsw jn ẖnm-ḫw⸗f-wj nṯrtj⸗s”, che molto prudenzialmente si può tentare di tradurre come: [la squadra della] scorta di Khnum Khufu porta le sue Due Dee (Immagine n. 5).

Immagine n. 5 Marchio di controllo rinvenuto su uno dei blocchi all’ingresso della galleria G6. che menziona la squadra “la scorta di Khnum Khufu porta le sue Due Dee”* Notare come nel cartiglio è iscritto il nome completo di Cheope “ḫnmw ḫ f w” (per convenzione si legge Khnum Khufu, il cui significato è Khnum mi protegge).
*altra traduzione possibile, chiarisce Pierre Tallet, è “le sue Due Signore”

LA CAMPAGNA 2019

Dal 12 marzo al 18 aprile 2019 è proseguito lo scavo del sistema di gallerie-deposito del settore 4 (G18-G28), avviato nel 2017. Il complesso si sviluppa a sud dei settori 1 (gallerie G3-G6 e G7-G17), 2 (G1-G2 e G13-G16) e 3 (G8-G12) ed è costituito da 11 gallerie di cui una doppia (G28). (Immagine n. 1). 

Immagine n. 1 Pianta delle gallerie (D.Laisney)

Sono state costruite nel pendio di un substrato roccioso che costeggia a est il fondo del wadi. Per ispezionarle è stata sgombrata un’area di circa 560 mq. al fine di analizzare le varie fasi sviluppo di questi depositi: scavo, utilizzo e chiusura. (Immagine 2). 

Immagine n. 2 Veduta d’insieme delle gallerie-deposito G24-28 guardando verso nord (Credits: Mission Archéologique du uadi el-Jarf 17132_2019). E’ perfettamente ravvisabile il letto disseccato del wadi e la sponda rocciosa in cui è stata scavato qesto settore delle gallerie-deposito

Nel breve tempo disponibile si è proceduto alla misurazione e ad un sommario rilevamento del contenuto interno che riassumo in breve. La galleria G24, quella più a sud dell’area di scavo, è lunga 26 m. e larga all’ingresso 2,30 m. L’interno presenta uno spesso strato accumulatosi per lo sgretolamento del soffitto e delle pareti e per i depositi dovuti alle esondazioni del wadi. Conteneva grandi quantità di cocci ceramici e frammenti di tessuto (Immagine n. 3).

Immagine n. 3 Entrata della galleria G24 con il suo contenuto di frammenti di giare di ceramica (Credits: Mission Archéologique du uadi el-Jarf 17132_2019)

Nella galleria G25, lunga 28 m. e larga 3 m. all’ingresso, erano sparsi diversi pezzi di legno, ceramica importata e di produzione locale, frammenti di stoffa e corda ed una rete. La G26 misura 28 m. di lunghezza per 3 m. di larghezza d’accesso: ha restituito sette lunghi pezzi di imbarcazione mentre numerosi elementi più piccoli erano stati abbandonati su entrambi i lati della scala di accesso. Molte assi sono dotate di mortase, alcune delle quali accuratamente lavorate. Una delle mortase presenta ancora la sostanza utilizzata (resina?) per calafatare i diversi elementi del natante. La maggioranza degli elementi più grandi conserva tracce di pigmenti rossi o iscrizioni e segni che potrebbero riferirsi a indicazioni tecniche per lo smontaggio ed il rimontaggio dell’imbarcazione. Il contenuto della galleria G27, 30 x 3,30 metri, consiste ancora in frammenti lignei in uno stato di conservazione più o meno buono, nonché cocci di ceramica di produzione locale e giare di stoccaggio alcune delle quali contrassegnate (Immagine n. 4).

Immagine n. 4 Veduta d’assieme degli ingressi alle gallerie G27 e G28 (Credits: Mission archéologique du ouadi el-Jarf 17132_2019)

Infine della G28 è stato liberato, in questa sessione di scavo, solo l’ingresso principale del sistema (si tratta di una galleria doppia). La parte esplorata presenta al suo interno materiale nautico similmente a G25 e G26, vale a dire diverse parti di imbarcazioni in legno di cedro e tamerice, alcune delle quali recanti marcature dipinte in rosso. Erano sparse sui gradini di accesso e ricoperte da uno spesso strato di stoffa.

Sempre durante la campagna del 2019 si è condotto un esperimento al fine di comprendere come venisse manipolato e trasportato un blocco calcareo di quel tipo. Per poter esaminare e valutare i mezzi necessari si è deciso di spostare un blocco, estratto nel 2018, dalla cava al sito, vale a dire per una distanza di circa 400 metri su un dislivello negativo di 40 metri. Il blocco, poco più di un metro cubo, aveva un peso di circa 2,5 tonnellate ed il trasporto è stato effettuato in tre giorni. Per iniziare, si è supposto che il blocco potesse essere semplicemente trascinato sul suolo, preparato in modo da rimuovere le maggiori asperità, con l’aiuto di assi e spargendo sabbia. Per evitare che gli spigoli affondassero nel terreno sono stati leggermente arrotondati. Il primo tentativo, fallito, è stato effettuato impiegando quattro persone e una grande corda di canapa. Si è aumentato mano a mano il numero di braccia, sino a raggiungere l’impiego di 32 operai. In queste condizioni si è riusciti a spostare il blocco solo di qualche metro, finché ci si è resi conto che per migliorare la performance la posizione della corda assumeva un rilievo decisamente importante. Appariva chiaro che se era posizionata troppo in alto il blocco tendeva a sollevare la parte retrostante creando un forte attrito sugli assi di legno e non permettendo più l’avanzamento. Si è quindi optato per uno scorrimento legno contro legno inframmezzato da un velo di sabbia. In pratica il blocco è stato caricato su una specie di slitta di legno leggero sostenuta da due traverse. Con la corda ancora legata intorno al blocco è ripreso il test ed il sistema si è rivelato molto più efficiente: lo spostamento è avvenuto utilizzando solo 20 persone. L’utilizzo di leve di legno azionate sul retro del blocco si è rivelato indispensabile per fornire l’impulso iniziale alla partenza e mantenerlo in posizione corretta. Non essendo continua la trazione, ma a scatti successivi, lo sforzo di ogni individuo doveva essere perfettamente sincronizzato, per ottenere la massima efficienza (Immagine n. 5).

Immagine n. 5 L’esperimento di spostamento di un blocco di calcare effettuato nel 2019 nel sito.(Credits: Mission archéologique du ouadi el-Jarf. 17132_2019)

LA CAMPAGNA 2020

Il lavoro sulle gallerie G18-G28 è proseguito durante tutta questa campagna. Si è potuto effettuare un rilevamento dei marchi di controllo che furono apposti sui blocchi di chiusura dei depositi dalle squadre che vi operarono e una revisione generale dell’abbondante epigrafia proveniente, in particolare, dai vasi che vi erano contenuti. L’assieme dimostra che anche questo secondo gruppo di gallerie ha conosciuto diversi periodi di occupazione successivi, da parte di diverse squadre di lavoratori, la cui presenza, molto probabilmente, va dalla seconda metà del regno di Snefru alla fine di quella del suo successore Cheope.

Veduta aerea del sistema di gallerie deposito di Wadi el-Jarf (©IFAO Mission Archèologique di Ouadi el-Jarf)

Durante questa campagna sono state liberate, almeno parzialmente quattro gallerie: G24, G26, G28A e G28B. Lo scavo dei primi 10 metri della galleria G24, dimostra che contiene esclusivamente le grosse giare di stoccaggio prodotte in loco e destinate per lo più ad assicurare le riserve d’acqua alle missioni inviate sul postoIl contenuto sembra simile per densità a quello osservato nelle gallerie adiacenti G22 e G23.

Interno della galleria G23 con i suoi depositi di giare (© Pierre Tallet)

Anche una metà della galleria G26 è stata scavata. Contrariamente agli abbondanti depositi di legno e corde provenienti da imbarcazioni che vi erano stati rinvenuti e che nel marzo precedente sembravano promettere ulteriori scoperte, in realtà si sono rivelate assai povere di contenuti: solo alcuni vasi frantumati giacevano sparsi al suolo. Il completamento dell’esplorazione, non essendo stato giudicato prioritario, è stato rinviato a campagne successive, magari avvalendosi di risorse umane meno limitate rispetto a questa spedizione. Pertanto, una cospicua parte del lavoro è stata investita nello scavo della galleria doppia G28A-G28B, posta all’estremità settentrionale del wadi dove è dislocato questo gruppo di magazzini. E’ stata liberata una metà della galleria G28A (il cui scavo era stato preparato già dal mese di marzo dell’anno precedente) da gran parte delle colluvie che la invadevano per un’altezza di 1,50 metri. Anch’essa contiene, per lo più, grosse giare di fabbricazione locale. Il materiale è misto: riunisce esemplari di questi recipienti, attribuibili a diverse produzioni successive, alcuni dei quali contrassegnati col nome della squadra wr m3j 😊 “Grande è il leone” oppure “Il grande leone”), che si stima essere la prima ad essere stata presente sul sito, altri recano la denominazione m3 wrrt 😊 l’ureo è la prua) che, viceversa, sembrerebbe essere stata l’ultima ad occupare i luoghi.

Gallerie G15-G16. E’ chiaramente visibile il pozzo di scavo (al centro) di una nuova galleria rimasta incompiuta. (Foto Mission Ouadi el-Jarf)

La galleria G28B ha restituito una gran quantità di materiali, ben più omogenei, simili a quelli recuperati, nel 2012, in G15B. I vasi sono stati palesemente utilizzati a lungo e presentano moltissime iscrizioni realizzate a carboncino oppure impresse nella ceramica (disegni e geroglifici) che sono, indubitabilmente, marchi di proprietà. L’esplorazione completa di questo magazzino, che si spera di portare a buon fine nel corso della campagna successiva, dovrebbe così restituire il più importante lotto di iscrizioni corrispondenti a questa antica fase di occupazione.

Studio dei forni per la ceramica della IV Dinastia

Forno 3052 per la cottura di ceramica (Foto Mission Ouadi el-Jarf)

Sulla riva nord del wadi che circonda le gallerie G1-G17, numerosi elementi rinvenuti in superficie già dalla prima campagna di scavi lasciavano supporre la presenza di forni destinati alla cottura della produzione locale di ceramiche. Due sondaggi hanno permesso di portare alla luce due forni in cavità protette sia da improvvise inondazioni sia dai venti dominanti provenienti dal nord. Le due strutture (denominate 3047 e 3052) si sono conservate al livello della camera inferiore di riscaldamento e presentano caratteristiche particolari (camera di riscaldamento ricavata nello strato roccioso inferiore, involucro dell’infrastruttura realizzato con blocchi di calcare) che furono già evidenziate nei due forni (1022-1030) rinvenuti nel 2012 sotto le gallerie G7-G17. Questi due nuovi esemplari presentano, però, dimensioni sensibilmente differenti. Il più piccolo (3047) a est, misura 2,60×1,80 metri, mentre il maggiore (3052) è circa 4 metri di lunghezza per 2,60 metri di larghezza, con la camera di riscaldamento inferiore avente un diametro di circa 2 metri.

L’interno della galleria G8 (© Pierre Tallet)

Questo forno, di conseguenza, sembra essere stato utilizzato per la cottura di grandi vasi di stoccaggio, mentre il minore, presumibilmente, era destinato a quella delle ceramiche più pregiate di produzione locale. In entrambi i casi si è fatto uso di mattoni crudi nella camera inferiore e la natura degli strati di riempimento esaminati sembra confermare l’uso di questo materiale di costruzione anche per la parte superiore del forno. Gli scarti della produzione ceramica furono gettati direttamente a lato della zona di riscaldamento. Ciò ha permesso di recuperare numerosi frammenti di ceramiche locali che presentano diversi gradi di cottura e un volume rilevante di frammenti di grossi contenitori ovoidali in argilla alluvionale così gravemente bruciati da ritenere che siano stati utilizzati per allestire la copertura termica superiore del forno durante le fasi di cottura.

I PAPIRI

Ritorniamo indietro di qualche anno e precisamente alla campagna di scavo del 2013 allorquando, procedendo nello sgombero dell’accesso alle gallerie G1-G2, la spedizione scoprì una documentazione tanto inaspettata quanto eccezionale: un cospicuo lotto di papiri risalente alla fine del regno di Cheope (Immagine n. 1). 

Immagine n. 1 Pianta delle gallerie G1-G2 (© G. Castel, D. Laisney, Bullettin de la Société Française d’Égiptologie, n. 188 Febbraio 2014)

Si tratta dei più antichi papiri con iscrizioni, mai rinvenuti sino ad oggi in Egitto*. Alcuni di essi, i più frammentari, erano sparsi su una grande superficie alla sommità dei blocchi che formavano la discesa alla galleria G2. Il lotto più numeroso e meglio conservato si trovava nell’argine di uno spazio angusto lasciato libero tra i blocchi di chiusura della galleria G1. Appare evidente che questo assieme di archivi, peraltro molto coerente, fu lasciato lì proprio nello stesso momento in cui le gallerie furono sigillate. Probabilmente i rotoli furono conservati all’interno di un sacco di tela in quanto sul posto erano presenti numerosi frammenti di questo tessuto. Il deposito fu disturbato a seguito di un tentativo, operato senza dubbio in epoca remota, di riapertura di questa cavità: ciò spiegherebbe la dispersione del materiale. Infatti, frammenti di uno stesso papiro sono stati ritrovati sia sul fondo della fossa, dove erano stati originariamente depositati, sia, quasi in superficie, sulla spianata posta davanti alle gallerie G1 e G2. Altri elementi degli stessi documenti sono stati recuperati in diversi livelli del riempimento finale della cavità. Al termine delle campagne di scavo avvenute tra il 2013 e il 2016, quasi 800 frammenti di varie dimensioni sono stati appiattiti sotto 70 lastre di vetro e consegnate al Ministero delle Antichità Egiziane. Un decina di questi papiri sono molto ben conservati e il foglio più lungo, rinvenuto in due frammenti che si è potuto raccordare, misura 85 cm.

Gli archivi sono molto coerenti e ci informano sulle attività di una squadra di operai chiamata la Ma-ouretet di Cheope, espressione il cui significato ancora non è chiaro, ma di cui resta traccia un po’ ovunque sul sito: questo nome figura, infatti, anche su un importante lotto di giare di stoccaggio prodotte sul posto e destinate a questa equipe di lavoro (Immagine n. 2). 

Immagine n. 2 Marchi su giare che menzionano l’equipe della “Ma-ouretet” di Cheope (© Bullettin de la Société Française d’Égiptologie, n. 188 Febbraio 2014)

La data dell’anno seguente al 13° censimento di Cheope compare in associazione al nome di questa squadra su uno dei documenti pervenutici, il che permette di collocare la redazione di questo lotto di papiri, senza alcun dubbio, alla fine del regno, dal momento che l’anno 26 o 27 è la data più tarda ad oggi conosciuta per questo sovrano**(Immagine n. 3-4). 

Per il loro stesso contenuto, questi archivi sembrano corrispondere a questa data, in particolare per la probabile menzione di Ankhaef, fratellastro di Cheope, il cui periodo di attività è ormai generalmente collocato alla fine del suo regno (Immagine n. 5).

Immagine n. 5 Busto del visir e direttore di tutti i lavori del re, Ankhaef, nonché fratellastro di Cheope (Museum of fine Arts di Boston)

* Un foglio di papiro, ma senza alcuna iscrizione, si trovava nella tomba del cancelliere Hemaka (I Dinastia). Questo dimostra che questo supporto fosse già utilizzato in quell’epoca. (W.Emery-Z. Saad The tomb of Hemaka, 1938, p. 41). I più antichi archivi su papiro, fino alla scoperta di Wadi el-Jarf, erano quelli di Gebelein che forniscono una documentazione datata, su criteri paleografici alla fine della IV dinastia (P.Posener-Krieger-S. Demichelis, I papyri di Gebelein – scavi G.Farina, 1935, 2004.

** Questo “anno 13° dopo il censimento” di Cheope è altresì attestata nella regione di Dakhla sulle rocce del “Wasserberg des Djedefre”, di fianco ad una menzione di Redjedef (o Djedefra), successore di Cheope. (K.P. Kuhlmann, Der “Wasserberg des Djedefre”)

I papiri si suddividono in due diverse categorie. La maggior parte di esse, circa i due terzi, è costituita da scritture contabili che registrano consegne giornaliere o mensili di derrate alimentari a beneficio della squadra. Un altro papiro diviso in 4 sezioni ci informa sui componenti di un’equipe che lavorava a Wadi el-Jarf: vi sono elencati i nomi di coloro che beneficiavano degli alimenti, nonché il nome dell’accampamento dove questi uomini dormivano. (Immagine n. 1-2).

Immagine n. 1 e 2: il papiro contabile prima e dopo il restauro (© Foto G.Pollin, IFAO)

Questo tipo di documento, organizzato in tabelle, è già ben conosciuto attraverso lotti di papiri più tardi rinvenuti, in particolare, nei complessi funerari dei re Neferirkara e Raneferef ad Abusir. Per ogni tipo di prodotto che deve essere consegnato all’equipe, sono state previste tre caselle: una per indicare la quantità della dotazione prevista, quella al centro indica ciò che è stato effettivamente consegnato, l’ultima ciò che è ancora in sospeso. Si osserva, inoltre, un particolare estremamente interessante sulla più completa di queste contabilità che registra il conferimento di differenti tipi di cereali: il titolo del documento, scritto sul retro, al fine di poterlo identificare una volta arrotolato il papiro, indica ḥsb n t: registro del pane (Immagine n. 3).

Immagine n. 3 Dettaglio del retro di una contabilità che indica il titolo del documento (© Foto G.Pollin, IFAO)

Il papiro ci informa anche sugli alimenti che venivano forniti: diversi tipi di pane, pesce fresco, una determinata qualità di birra vari tagli di carne. La provenienza delle derrate destinate alla squadra è regolarmente indicata nella parte superiore e si può notare che differenti nomoi sono alternativamente messi a contribuzione per il mantenimento delle équipes reali, senza dubbio per ripartire al meglio lo sforzo economico tra le varie province d’Egitto. Sicché, sui quattro mesi di consegne registrati sul documento, il nomo dell’Arpione (nel Delta Occidentale) è designato come fornitore dei prodotti per i primi due mesi menzionati, mentre il nomo del Delfino (nel Delta Orientale) subentra per i due mesi successivi (Immagini 4-5).

Immagine n. 4 Recto del papiro della consegna del pane dove sono evidenziati i nomi (province) da cui provenivano le merci. Evidenziato dal cerchio rosso il nomo del Delfino, mentre il simbolo nel cerchio blu indica il nomo dell’Arpione (© Foto Tiziana Giuliani)
Immagine n. 5 Da questo dettaglio del papiro che contiene il registro del pane possiamo ricavare una serie di informazioni: mese in cui è stato preparato il documento, luogo di provenienza delle derrate, le quantità consegnate di farina di grano, farina d’orzo, grano e la data di consegna del pane proveniente dal nomo dell’Arpione (nei pressi dell’attuale città di Rosetta). Con l’inchiostro nero è indicato ciò che è stato consegnato, in rosso ciò che la squadra doveva ancora ricevere. Nel recto di questo stesso papiro ritroviamo lo stesso schema, in cui vengono annotate due mesi dopo le merci proveniente dal nomo del Delfino, nel Delta Orientale. (© Foto Tiziana Giuliani)

La scoperta di questi papiri ci ha fornito molte informazioni sul funzionamento dell’amministrazione centrale che gestiva gli approvvigionamenti verso questo importante porto marittimo e dimostrano quanto fosse capillare, strutturata ed efficiente già all’inizio della IV Dinastia.

L’attenta analisi di questi documenti, in particolare la densità dell’inchiostro con cui furono vergati i segni, invariabilmente più evidenti all’ inizio di una sequenza giornaliera, mostra che non sono frutto di una compilazione effettuata in una sola volta, ma che sono stati registrati giorno per giorno dallo scriba incaricato della redazione. Già dalla sua scoperta questo insieme di papiri è stato chiamato “Diario di Merer” in quanto i suoi frammenti meglio conservati descrivono l’attività di un responsabile – l’ispettore Merer (sḥḏ Mrr) che dirige una “philè” (S3), generalmente stimata in 200 uomini, facente parte di un equipe (‘pr) di 1000 operai* (Immagine n. 1).

Immagine n. 1 Dettaglio di un foglio del “Diario di Merer”. E’ chiaramente leggibile nel cartiglio il nome del faraone Khwfw (Cheope). (© Foto G.Pollin, IFAO)

L’attività di questo gruppo può essere seguita per un lungo periodo sebbene in maniera discontinua. E’ possibile, in effetti identificare in questo lotto di documenti i frammenti di tre papiri distinti su ciascuno dei quali sono state registrate le attività della squadra. La lettura di questi frammenti di “giornale di bordo”, presenta subito un fatto sorprendente: non vi è alcun riferimento alle operazioni svolte a Wadi el-Jarf. Si tratta, infatti di un resoconto dettagliato delle diverse missioni effettuate dalla squadra di Merer – un’équipe di battellieri e trasportatori – in un periodo antecedente al suo arrivo su questo sito. Si riferisce in gran parte, ma non esclusivamente, alla costruzione della Grande Piramide di Cheope a Giza**. E’ probabile che il cantiere entrò nell’ultima fase di attività proprio quando fu redatto questo giornale, in quanto dai frammenti che ci sono pervenuti, si evince che Merer e la sua squadra sono essenzialmente incaricati di raccogliere blocchi di pietra, un calcare finissimo ampiamente utilizzato per la finitura della Grande Piramide, presso le cave di Tura (R3-3w) a sud dell’odierna Il Cairo (Immagine n. 2).

Immagine n. 2 la località di Tura espressa in geroglifico “R3-3w”: il primo segno in alto a sinistra raffigura una bocca. E’ un monolittero e si legge “R”, subito sotto il segno bilittero “3w” (che rappresenta una porzione di spina dorsale) seguiti dal pulcino di quaglia (w) che non si legge in quanto complemento fonetico del segno precedente. Gli ultimi due segni a destra, in questo caso, sono determinativi: quello in alto designa una zona montuosa o desertica (il valore fonetico, quando usato come ideogramma, è: “ḥ3st”) e quello in basso una città o un luogo geografico (il valore fonetico, quando usato come ideogramma, è: “niwt”). Anche i determinativi, al pari dei complementi fonetici non vanno letti, ma servono a chiarire la categoria cui appartiene il vocabolo

Il toponimo era già ben attestato prima della scoperta dei papiri***, ma attraverso questi documenti, apprendiamo che esistevano due località di estrazione in seno a queste celebri cave: a seconda dei casi, Merer è impegnato sia a Tura sud (R3-3w rsj) siaa Tura Nord (R3-3w mḥtj).**** I blocchi venivano poi inviati per via fluviale presso il cantiere della piramide di Cheope (3ḫt Ḫwfw lett. “L’orizzonte di Cheope) per la consegna (Immagine n. 3).

Immagine n. 3 L’orizzonte di Cheope (“3ḫt Ḫwfw” in egiziano antico) è il nome dato alla sua piramide. Leggiamo nel cartiglio il nome del Faraone Ḫwfw reso con quattro monolitteri: una placenta(?) o un tipo di canestro(?) con valore fonetico “ḫ”, un pulcino di quaglia con valore fonetico “w”, una vipera cornuta, “f” e ancora un pulcino “w”. Segue un ibis crestata, un bilittero, il cui valore fonetico è “3ḫ” e poi ancora il segno per “ḫ” che è utilizzato come complemento fonetico del bilittero precedente e quindi non va letto. In basso troviamo quella specie di mezza luna che, in realtà, rappresenta una pagnotta: è un monolittero e ha valore fonetico “t”. La sequenza è conclusa da un determinativo che altro non è che la rappresentazione di una piramide. Ci informa quindi che “3ḫt Ḫwfw” è il modo con cui veniva chiamata la piramide di Cheope. In questo esempio si nota un’altra particolarità del geroglifico: la scrittura seguiva un ordine prestabilito a prescindere dalla sequenza di lettura. Prima i nomi di divinità, poi quelli del sovrano. (Se il nome del sovrano includeva quello di una divinità, anche in questo caso la divinità veniva scritta per prima. Ad esempio Tutankhamon, conteneva il nome del dio Amon, per cui nel, suo cartiglio, osserviamo che la sequenza di scrittura è Amon tut ankh).

Il papiro riveste particolare interesse non solo per la menzione dei luoghi – alcuni dei quali, del resto, già noti – ma soprattutto perché ci fornisce ulteriori indicazioni sul tragitto effettuato da una località all’altra. Alla data indicata nel documento, che è stabilita su base giornaliera, si aggiungono, riferite al corso di una stessa giornata, annotazioni in cui il redattore specifica i posti in cui si trascorre il giorno “wrš” o la notte “sḏrt”. Talvolta è finanche annotato il momento in cui viene intrapresa un’operazione che, a seconda dei casi, può avvenire al mattino “dw3” o nel pomeriggio “mšrw”. Altre indicazioni ci permettono di risalire ai luoghi citati nel testo in quanto viene regolarmente annotato se si naviga verso sud, risalendo la corrente del fiume (“m-ḫsfwt”) oppure procedendo verso nord (“m-ḫd”). Va considerato che la topografia della regione menfita, nell’Antico Regno, era del tutto differente da come ci appare oggi: all’epoca, a quella latitudine, il Nilo generava due rami secondari che scorrevano entrambi ad ovest dell’alveo principale e la regione di Tura non era, come oggi, a stretto contatto con il fiume. Pertanto, per giungere ai piedi del plateau di Giza, partendo dalle cave di Tura, era necessario navigare prima sul ramo principale del Nilo e poi, su quello occidentale (sicuramente all’altezza dell’odierna Bahr el-Lebeini). Tutto indica che gli scambi tra le due località avvenissero esclusivamente per via fluviale, il che lascia supporre l’esistenza di una rete di canali molto fitta e strutturata. Secondo il “Diario di Merer” occorrono due giorni per coprire i 20 Km. che separano le due località quando il convoglio, secondo l’indicazione del testo, è <<carico di blocchi (“3ṯp-m-jnr”) >>, mentre la stessa distanza viene ricoperta a vuoto, durante il ritorno, in una sola giornata nonostante si navighi contro corrente (Immagine n. 4).

Immagine n. 4 Un frammento del “Diario di Merer” nel quale è descritto il trasporto di blocchi di calcare dalle cave di Tura al cantiere della piramide di Cheope (©Pierre Tallet. Foto ripresa dal volume “L’Univers fascinant des piramides d’Égypte” di Franck Monnier ed. Faton, p.224) 

C’è un altro toponimo che compare con regolarità nel documento: si tratta di “R3-š-Ḫwfw” (letteralmente << la Porta dello Stagno di Cheope>>), che serve regolarmente da punto di snodo lungo il tragitto dalle cave di Tura alla piramide di Giza. Una sosta presso “R3-š-Ḫwfw” permetteva alla spedizione di passare la notte in sicurezza in attesa di completare la missione. Sembra, inoltre essere stata anche una delle sedi del centro amministrativo delle operazione diretto da Ankhaf che controllava il cantiere reale (Immagine n. 5).

Immagine n. 5 La scrittura in geroglifico della Porta (bocca) dello stagno di Cheope “R3-š-Ḫwfw”. Notiamo il cartiglio di Cheope già esaminato precedentemente; è seguito dal simbolo della bocca sotto il quale c’è un tratto verticale: si chiama segno diacritico e viene usato per indicare che il segno a cui è associato ha valore ideogrammatico e non fonetico, pertanto non si legge “R”, ma R3 (si pronuncia all’incirca Ro) che era il sostantivo egizio per “bocca”. Segue un rettangolo che rappresenta un bacino o comunque, uno specchio d’acqua, il cui valore fonetico è “š” e significa, appunto, lago, stagno, bacino ecc. 

Lo studio di questi papiri, potrebbe restituirci preziose informazioni sull’Amministrazione reale agli inizi dell’Antico Regno e chiarire numerosi punti sul suo funzionamento. D’altra parte, la sola presenza di questi papiri a Wadi el-jarf è sufficiente a confermare lo stretto legame tra questa installazione portuale e il cantiere della Grande Piramide di Cheope a Giza. E’ probabile che il porto avesse una funzione essenziale anche come punto di partenza per la traversata del Golfo di Suez per raggiungere le miniere del Sinai al fine di procurare il rame occorrente alla produzione di attrezzi per i costruttori del monumento.

* Stima della composizione dell’équipe in : M. Lehner, The Complete Pyramids, 199, pp.224-225)

** Un ultimo papiro, sfortunatamente molto frammentario, evoca la costruzione di un monumento nel centro del Delta, probabilmente sotto la responsabilità della medesima équipe, benché il nome dell’ispettore Merer non vi compaia.

*** Le attestazioni più antiche note prima della scoperta di Wadi el-Jarf risalgono al regno di Menkaure (Micerino), secondo l’inventario redatto da K. Zibelius in Ägyptische Siedlungen nach Texten des Alten Reiches, 1978 p.135.

**** Sui tre frammenti meglio conservati le cave di Tura Sud sono menzionate 7 volte e quelle di Tura Nord 6 volte. Il toponimo è utilizzato senza specificazioni altre 10 volte e gli ultimi quattro riferimenti sono incompleti.

I papiri A e B di Wadi el-Jarf, che possono essere considerati tra i meglio conservati del grande gruppo di documenti rinvenuti nelle gallerie G1 e G2 del sito, forniscono informazioni molto interessanti sull’organizzazione del cantiere reale della grande piramide di Giza in un momento che corrisponde, molto probabilmente, alla fine del regno di Cheope e al completamento del monumento. Una delle operazioni che verosimilmente era in corso in quel momento era, almeno in parte, l’installazione del rivestimento in calcare di Tura che un tempo abbelliva l’esterno del monumento e che oggi è quasi completamente scomparso. Per l’esecuzione di questa operazione, una squadra di battellieri, probabilmente composta da circa 40 uomini, sotto la direzione di un funzionario di medio livello, l’ispettore Merer (sḥḏ Mrr), effettuava ogni dieci giorni una media di due o tre viaggi di andata e ritorno, con una o più imbarcazioni, tra le cave di Tura e la zona del cantiere. La narrazione corrisponde, presumibilmente, a un periodo che va dal mese di luglio al mese di novembre dell’anno successivo al 13° censimento di Cheope (anno 26°), che è attualmente l’ultimo anno attestato del regno di questo sovrano, nel periodo in cui le acque alte del Nilo permettevano il trasporto di carichi pesanti da una sponda all’altra della pianura alluvionale del fiume. Il papiro A, forse cronologicamente il più antico, sembrerebbe registrare il movimento di una grande forza lavoro coinvolta nella messa in funzionedel bacino situato ai piedi dell’altopiano di Giza. Da questo documento apprendiamo, indirettamente, il modo in cui venivano sfruttate le vie fluviali. Si comprende che doveva esistere una fitta rete di canali, alcuni naturali, altri creati appositamente al manifestarsi della piena stagionale. Quando il fiume cominciava a ritirarsi i canali venivano chiusi da sbarramenti per trattenere l’acqua necessaria alla navigazione. Al ripresentarsi dell’inondazione si rimuovevano le dighe artificiali per ristabilire il flusso naturale.

Dopo questo inizio, i viaggi avanti e indietro della squadra sono rigorosamente registrati nel papiro B in modo piuttosto ripetitivo (Immagine n. 1). 

Immagine n. 1 Papiro B, il giornale di Merer. In questo documento, Merer annota il lavoro della sua squadra che per quaranta giorni ha effettuato viaggi dalle località di Tura Nord e Sud a Giza, trasportando blocchi di calcare. (© Tiziana Giuliani)

Tuttavia, alcune informazioni supplementari emergono man mano che questi rapporti giornalieri vengono redatti, il che fornisce un’idea delle condizioni di navigazione, gli sviluppi dei corsi d’acqua, i luoghi e il personale collegati al cantiere della piramide, compreso il famoso visir Ankhhaf, fratellastro del re ed, evidentemente, supervisore del progetto in questa fase avanzata del regno. Da questa sezione apprendiamo anche l’informazione relativa ai due toponimi di “R3-3w rsj” (Tura Sud) e “R3-3w mḥtj (Tura Nord), distanti tra loro circa 7 Km. e dove sono ancora visibili le tracce delle cave utilizzate al tempo di Cheope. Viene anche descritto un avvenimento molto particolare nella routine quotidiana della squadra: l’arrivo del “direttore dei 6”, Idjier(w), probabilmentecapo di un’imbarcazione che consegnava cibo, e probabilmente altri beni di consumo, provenienti da Eliopoli. E’ proprio questo importante funzionario a descrivere questo avvenimento, sicuramente molto atteso dai lavoratori della squadra (Immagine n. 2).

Immagine n. 2 Papiro B. Dettaglio in cui viene descritto l’arrivo di Idjier(w), il direttore dei 6. (© Tiziana Giuliani). L’importanza di questa circostanza è evidenziata dall’utilizzo di inchiostro rosso.

Appare strano, invece, che Merer non ci dica nulla sull’attività svolta dalla sua squadra a Wadi el-Jarf, ma questo potrebbe significare che il suo compito fosse di chiudere definitivamente le gallerie del sito. Ciò indicherebbe pure l’interruzione dell’attività estrattiva di rame dalle miniere del Sinai, metallo non più necessario dal momento che i lavori di completamento della Grande Piramide erano praticamente allo stadio conclusivo.

Oltre alle informazioni storiche, questo documento narrativo, quasi unico per periodo così antico, presenta interessi grammaticali, lessicografici e paleografici che possono certamente essere sviluppati ben oltre i limiti di questo studio. La pubblicazione continua di questo insieme coerente di archivi – in primo luogo gli altri diari di bordo (papiri C, D, E e F), e poi i numerosi resoconti associati (papiri G, H, I, J, K, L e altri frammenti) – porterà senza dubbio ad una conoscenza più approfondita dell’organizzazione dell’amministrazione faraonica in questo periodo chiave della storia dell’Antico Egitto.

Qui di seguito, un piccolo esempio del contenuto del diario di Merer (per chi volesse saperne di più è disponibile il testo in inglese ed arabo al seguente indirizzo):https://amers.hypotheses.org/files/2017/03/1705_Tallet.pdf

<<[giorno 25]: l’ispettore Merer ha trascorso il giorno con la sua squadra caricando blocchi a Tura Sud (R3-3w rsj); trascorre la notte a Tura Sud.

[giorno 26]: l’ispettore Merer salpa con la sua equipe da Tura [Sud], con il carico di blocchi verso “l’Orizzonte di Cheope”(3ḫt Ḫwfw): trascorrere la notte presso lo “Stagno di Cheope”(R3-š-Ḫwfw)

[giorno 27]: salpare dallo “Stagno di Cheope, navigare verso “l’Orizzonte di Cheope”, con il carico di blocchi: passare la notte presso “l’Orizzonte di Cheope”

[giorno 28]: salpare da “l’Orizzonte di Cheope” al mattino: navigare, risalendo il fiume, verso Tura-Sud.

[giorno 29]: L’ispettore Merer passa la giornata con la sua squadra a caricare pietre a Tura Sud: trascorrere la notte a Tura Sud

[giorno 30]: l’ispettore Merer trascorre il giorno con il suo phyle caricando pietre in Tura Sud; trascorre la notte a Tura Sud >> (trad. dall’originale di Pierre Tallet) (Immagine n. 3).

Immagine n. 3 Papiro B. Dettaglio in cui Merer descrive il lavoro del suo team dal giorno 25 al giorno 30 (© Tiziana Giuliani)

ALCUNE CONSIDERAZIONI DI PIERRE TALLET E MARK LEHNER

Pierre Tallet sostiene che le attività marittime dell’Antico Egitto avessero anche una valenza politica e simbolica: era importante, per i sovrani avere il controllo di tutto il territorio nazionale per affermare l’unità sostanziale del paese. Afferma, ad esempio, che 

<<Nel Sinai le iscrizioni spiegano il potere e la ricchezza del re e come il re governa il suo paese. Ai limiti esterni dell’universo egiziano si ha la necessità di mostrare la potenza del re>>.

Il papiro H al momento della scoperta. (© Aurore Ciavatti, mission du ouadi el-Jarf)

In effetti, il controllo delle zone periferiche era piuttosto complicato e una territorio come il Sinai, arido e con la presenza di genti ostili, poneva non pochi problemi. Un’iscrizione riporta di una spedizione egiziana massacrata dai guerrieri beduini. Del resto, gli egizi non sempre erano in grado di difendere i loro insediamenti lungo il Mar Rosso.

<<Ci sono prove, ad esempio, ad Ayn Soukhna che il sito fu distrutto più volte. Ci fu una grande incendio in una delle gallerie…Fu probabilmente difficile per loro controllare la zona>>

Parte destra del papiro H. (© Gaël Pollin, Ifao)

Sembra che tutto l’Egitto fu coinvolto nel grandioso progetto della Grande Piramide. Il granito proveniva da Assuan, molto più a sud, il cibo dal Delta, vicino al Mediterraneo e il calcare da Tura, circa 12 miglia a sud del Cairo. In un suo saggio Tallet scrive

<<E’ certo che l’attività cantieristica fu resa necessaria dal gigantismo dei programmi faraonici e che la maggioranza dei natanti era destinata alla navigazione sul Nilo, ma l’installazione di Wadi el-Jarf, proprio nello stesso periodo, lascia intravedere, senza dubbio, l’estensione, in questo caso verso il Mar Rosso, del progetto dello Stato egizio>>.

Prestare servizio sulle barche reali, doveva comportare un certo prestigio. Dai papiri rinvenuti a Wadi el-Jarf, appare evidente come i lavoratori fossero ben nutriti e venissero riforniti di carne, pollame, pesce e birra. Non vi è dubbio che questi operai erano servitori dello Stato molto apprezzati.

Il Papiro H dopo una prima ricostituzione. (© Ihab Ibrahim, Ifao)

Secondo Tallet potrebbe apparire strano il ritrovamento dei papiri in quel luogo, dal momento che ci si aspetterebbe che i dirigenti delle squadre portassero sempre con sè questi documenti. La ragione per cui furono abbandonati può risiedere nell’ipotesi che quella dovette essere l’ultima missione del team, forse a causa della morte del re.

<< Penso che abbiano semplicemente fermato tutto e chiuso le gallerie; poi, prima di abbandonare il sito, hanno seppellito gli archivi nella zona tra le due grandi pietre usate per sigillare il complesso. La data sui papiri sembra concordare con l’ultima di cui siamo in possesso per Cheope, il 27° anno del suo regno>>

Un frammento del papiro B. (© Gaël Pollin, Ifao; a sinistra la Trascrizione di Pierre Tallet)

Il lavoro svolto da Tallet e dai suoi colleghi lungo il Mar Rosso, sembra collegarsi ed integrarsi con quello svolto da Lehner a Giza. Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, intraprese uno scavo su larga scala in quella che si è rivelata essere una zona residenziale nelle vicinanze delle piramidi e della Sfinge. Come ben sappiamo, la scarsità di informazioni sul numero necessario di addetti per l’attuazione di un così enorme progetto ha dato origine alle più bizzarre teorie alternative. Ma, nel 1999 Lehner iniziò a scoprire un grosso complesso abitativo che avrebbe potuto ospitare fino a 20.000 individui.

A giudicare dai resti rinvenuti, sembra che gli occupanti di questo complesso, al pari dei marinai del Mar Rosso, fossero ben nutriti. Mangiavano molta carne bovina, proveniente per lo più da animali allevati nelle tenute rurali e poi, probabilmente, trasportati su imbarcazioni agli insediamenti reali di Menfi e Giza per essere macellati. Il maiale, invece, sembra essere stato prevalentemente consumato dagli addetti alla produzione di cibo (panificatori, birrai ecc.). Inoltre, il rinvenimento in situ di oggetti abbastanza “esotici” come denti di leopardo (forse corredo di una veste sacerdotale), ossa di ippopotamo intagliate e rami di ulivo (un’ attestazione del commercio con il Levante), suggerisce che le persone presenti nel villaggio di lavoro scoperto da Lehner, fossero specialisti altamente qualificati.

Secondo il papiro di Merer, anche i marinai facevano parte del progetto. Esso menziona, infatti, il trasporto di blocchi di calcare sia fino al lago (o bacino) di Khufu, sia all’ Orizzonte di Khufu (la Grande Piramide). I papiri offrono un supporto importante ad una tesi che Lehner andava sviluppando da diversi anni. Secondo le sue ricerche, gli antichi egizi, maestri nelle opere idrauliche, costruirono un grande porto nelle vicinanze del complesso di Giza. Ciò permise a Merer di trasportare la pietra calcarea da Tura fino a Giza per via fluviale.

<< Penso che gli egiziani siano intervenuti nella pianura alluvionale in modo drammatico così come hanno fatto sull’altopiano di Giza>>, dice Lehner, aggiungendo: <<I papiri di Wadi el-Jarf sono un pezzo importante nel puzzle generale della Grande Piramide>>

Tallet è, invece, più cauto nelle sue conclusioni:

<< Non voglio essere coinvolto in nessuna polemica sulla costruzione delle piramidi, non è il mio lavoro>>, dice. Poi aggiunge:<<Di sicuro è interessante valutare questa ipotesi che merita uno studio molto approfondito>>.

Ipotesi ricostruttiva del complesso della Piramide di Cheope (© “I Tesori delle Piramidi” a cura di Zahi Hawass).

Tallet ritiene che il lago di Khufu, a cui si riferisce Merer, era più probabilmente situato ad Abusir a circa dieci miglia a sud di Giza.

<< Se fosse stato troppo vicino a Giza, non si capisce perché Merer impiegasse un giorno intero per navigare da questo luogo alla piramide>>, afferma.

Ma, Tallet ha finito per convincersi della bontà dell’ipotesi di Lehner circa la presenza, comunque, di un grande porto a Giza.

<<Ha perfettamente senso che gli egizi trasportassero materiali da costruzione e viveri in barca, piuttosto che trascinarli attraverso il deserto. Non sono sicuro che sarebbe stato possibile tutto l’anno, dovendo aspettare il periodo delle inondazioni. E presumibile che funzionassero per circa sei mesi in attesa della successiva esondazione>>.

Fonti:

  • David Degner/Getty Reportage
  • Orient & Méditeranée, Ayn Soukhna, Sito ufficiale dell’UMR (Paris)
  • Tiziana Giuliani: Wadi el-Jarf:il porto, i papiri e la costruzione della Grande Piramide. Sito Mediterraneo Antico
  • Pierre Tallet, Bulletin de la Société Française d’Egyptologie N. 188 Febbraio 2014.
  • Pierre Tallet, Rapport d’activité del la saison 2015 au ouadi el-Jarf, pubblicato il 01/01/2016
  • Bulletin archéologique des Écoles françaises à l’étranger (BAEFE),per le indagini 2019-2020
  • AMeRS Association Mer Rouge-Sinaï
  • Franck Monnier, L’Univers Fascinant des piramydes d’Égypte, editions Faton, p. 22
  • David Degner/Getty Reportage

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