E' un male contro cui lotterò

APPUNTI DI MEDICINA EGIZIA

Di Giuseppe Esposito

Andrea Petta sta trattando molto compiutamente, e per gradi, l’argomento medicina nell’Antico Egitto; qui mi limiterò ad apportare qualche piccola informazione che, ne sono certo, incontrerete comunque, e ben più dettagliata, anche nei testi di Andrea.

Mi permetto, intanto, di rubare una frase del grande medico Paracelso[1] che chiarisce un concetto che, ai nostri tempi moderni, potremmo semplificare come “il troppo storpia”:

«Tutto è veleno e non esiste cura senza veleno, solo le dosi consentono al veleno di non essere veleno»

Ciò posto, partirei da uno di quei termini di uso comune, anzi comunissimo, che mai e poi mai crederemmo in qualche modo legato all’Antico Egitto: farmaco.

E’ chiaro che la prima risposta individuerà la parola “base” nel greco “pharmakon” (φαρμακον) che indicava, si, il rimedio, ma come sopra visto anche il veleno… in realtà la sua derivazione sarebbe ben più antica e dovremmo rifarci, di fatto, al termine egizio “ph-ar-maki” ovvero “che procura sicurezza”, che era uno degli attributi del Dio guaritore Thot.

Inutile dire che ancora dall’Antico Egitto deriva un’altra parola da noi usualmente impiegata. Uno dei nomi del Paese del Nilo era, infatti, Kemi, ovvero “Terra Nera”. Le scarse conoscenze che, nel corso dei secoli, hanno fatto dell’Egitto un luogo misterioso, hanno fatto sì che gli antichi cultori della “Scientia delle Scientiae” pensassero bene di far derivare il nome della loro passione proprio dalla denominazione della terra considerata più misteriosa: Al-Kemi, da cui Alchimia… e da alchimia a Chimica, il passo è davvero breve.

Ma passiamo ai medici veri e propri: il geroglifico che rappresentava il medico (come peraltro già meglio delineato da Andrea) era una freccia, o un bisturi, e un vaso globulare (contenitore per rimedi) affiancati dal determinativo “uomo”.

E’ bene, tuttavia, sgomberare il campo da equivoci che potrebbero fuorviarci nell’esame che segue (necessariamente breve): in Egitto NON esistevano medici “generici” ovvero che curassero tutto, ma specialisti; ecco perciò l’oculista (sunu-irti), l’ortopedico, il dentista (ibhi), il medico dell’addome (neru-khet), che era anche ginecologo, fino a giungere ad un medico la cui specializzazione era, quanto meno ai nostri occhi, singolare… suo campo di intervento era, infatti… inserire rimedi nell’ano dei pazienti (neru pehut)!

I “sunu“, ma anche “swnw” o “sinw”, ovvero i “medici”, erano perciò sempre specializzati in qualcosa… Fondamentalmente, i curatori egizi si suddividevano in due grandi categorie, i medici  propriamente detti di cui sopra si è parlato (sunu) che curavano il corpo, ed i sacerdoti di Sekhmet (uab) tra i quali esisteva l’ulteriore distinzione degli “incantatori di Selkhet”.

A proposito di questi ultimi, si può dire che erano medici particolari il cui campo di intervento era quello che vedeva quale divinità protettrice la Dea Selket[2]-Hetit, “colei che fa respirare la gola”, ma in connessione non con le malattie respiratorie, bensì con i sintomi dell’avvelenamento da morso di serpenti [non meravigli, peraltro, questa commistione di “sacro” e “profano” nell’arte medica poiché essa esisterà, più avanti nei secoli, anche nell’antica Grecia ove si differenziavano i “medici istruiti” –iatros (ἰατρός)-, dai “guaritori ispirati”, veri e propri sacerdoti, –iereus (ἱερεύς)-].

E’ bene precisare che anche le evidenze archeologiche non consentono di poter contare su una vasta casistica giacché sono stati censiti, a oggi, solo circa 150 sunu e le categorie maggiormente rappresentate sono quelle degli oculisti e dei dentisti.

Tuttavia, nonostante alcuni ritrovamenti di protesi dentarie o di crani sottoposti ad interventi di “trapanazione” (che inevitabilmente, nonostante le moderne credenze, si concludevano con la morte del paziente), non si può dire che le conoscenze mediche egiziane fossero eccelse (basta leggere le ricette di alcuni rimedi, che riporto più avanti, per restare esterrefatti per le “schifezze” che venivano somministrate e che erano sempre accompagnate da formule magiche).

Interessante il metodo, riportato nel Papiro di Berlino per conoscere il sesso del nascituro:

«…orzo e grano [in due sacchi di tela] che la donna bagnerà con la sua urina ogni giorno; … se [orzo e grano] germoglieranno entrambi ella partorirà. Se germoglierà [per primo] l’orzo sarà maschio; Se germoglierà [per primo] il grano sarà femmina. Se non germoglieranno, ella non partorirà.»

…a proposito, presso gli egizi la gravidanza durava… 10 mesi… niente paura, il periodo si basava sul mese lunare di 28 giorni…

…proseguiamo nella nostra disamina proprio “assistendo” alla visita tipo di un antico sunu egizio… questa era articolata in tre parti: un interrogatorio per sapere quali fossero i sintomi riscontrati dal paziente; un’ispezione del viso, delle urine, degli escrementi e dell’espettorato, cui seguiva la palpazione che aveva, principalmente, importanza simbolica e doveva, di fatto, servire a stringere il contatto fisico con il paziente per tranquillizzarlo; l’ultima parte era quella in cui venivano esposti i sintomi rilevati ed emessa la diagnosi.

Normalmente i medici si consultavano anche tra loro e concludevano le proprie visite con frasi del tipo “posso fare qualcosa per quest’uomo”, oppure “non v’è nulla che possa fare per quest’uomo”. Da questo momento in poi, di fatto, si limitavano a seguire l’evolversi della malattia somministrando rimedi che spesso poco avevano a che fare con il concetto di guarigione come lo intendiamo noi.

…scrive Diodoro Siculo:

«…impartiscono le loro cure secondo le norme di una legge scritta messa a punto col concorso di numerosi ed illustri medici dei tempi antichi. Nel caso in cui, pur seguendo le norme scritte…non riescono a salvare l’ammalato sono considerati innocenti e liberi da imputazioni; se invece non si comportano secondo le prescrizioni sono passibili di giudizio capitale giacché il legislatore ha ritenuto che pochi si sarebbero mostrati superiori in perizia ad un modo di cura collaudato da lunga tradizione e predisposto dai migliori esperti della materia…»;

…e Aristotele precisa:

«…ai medici è consentito intervenire dopo il quarto giorno; se lo fanno prima è a loro rischio e pericolo…»

In sostanza, i medici egizi si interessavano principalmente dei sintomi (tosse, febbre etc.) e curavano questi ultimi utilizzando indifferentemente la medicina e la magia, o entrambe contemporaneamente.

E’ interessante notare che esisteva, comunque, una gerarchia tra i vari medici (dentista, capo dei dentisti, supervisore dei dentisti etc.) così come esistevano le varie organizzazioni locali che andavano dal “corpo dei medici delle cave e delle miniere”, ai medici dei “villaggi operai”o delle “grandi proprietà terriere”; questo, però, non era assolutamente legato a strutture di tipo corporativo e la condizione sociale del medico variava a seconda dell’ambiente in cui operava: se era a disposizione di una cava o di una città operaia, in moltissimi casi, non godeva di nessun privilegio particolare e alcune volte era addirittura socialmente al di sotto degli ispettori oppure dei capi operai. Naturalmente se un medico operava all’interno del Palazzo Reale, o nei templi, godeva dei privilegi adeguati al proprio rango e, visto che in Egitto era in uso il sistema di sommare le varie cariche, molte volte un medico poteva anche essere un nobile, oppure un alto Funzionario di Corte.

Come per molte altre professioni, anche quella del medico si tramandava di padre in figlio anche se la preparazione era comunque completata dall’apprendistato, oppure dai corsi che si tenevano all’interno delle “Case della Vita” (le nostre Università).

…a carico dei medici era anche, sia pure molto parzialmente, il processo di mummificazione..

Partiamo però da una considerazione, l’uomo, infatti, non era considerato come una unità, ma come l’insieme di otto elementi intimamente connessi tra loro di cui quattro attinenti il mondo materiale (il corpo o khet –ovvero l’involucro di carne-; il nome; il cuore; l’ombra) e quattro sul piano astratto ed immateriale (il kha; il ba; l’akh; ed il sahu).

Poiché la morte comportava la dissociazione di questi componenti, la mummificazione doveva servire a mantenere intatto il corpo affinché potesse ancora accogliere le componenti immateriali che erano indispensabili per la vita ultraterrena (e che, come sappiamo, erano concentrate nel kha).

Potremmo perciò considerare la mummificazione non attinente al discorso sulla medicina che stiamo facendo, poiché l’opera non era eseguita da un medico, bensì da “tecnici” che appartenevano a una vera e propria casta, necessaria ma disprezzata, i cui rapporti con il medico erano praticamente inesistenti.

In compenso, e spesso al contrario dei medici, oltre ad avere una buona conoscenza delle ossa, dei muscoli e dei legamenti, tale casta di paria aveva una discreta conoscenza degli organi interni.

Mentre il medico aveva, infatti, una cognizione “topografica” esatta del corpo e delle sue parti (testa, collo, tronco, addome e arti), era però all’oscuro, quasi completamente, di quel che rappresentava lo scheletro nella sua totalità. Il sunu conosceva le ossa singolarmente, e sapeva anche ridurre le fratture molto bene e le necropoli degli operai sono, in tal senso, vere miniere d’interventi specifici di riduzione fratture o amputazioni andate a buon fine. A proposito delle amputazioni, esisteva inoltre, ovviamente per classi agiate e forse non tanto sotto il profilo medico quanto artigianale, lo sviluppo di protesi specie per gli arti inferiori.

Nel nostro immaginario collettivo un pirata che si rispetti deve avere almeno una benda su un occhio o una gamba di legno… possiamo anche soprassedere al pappagallo sulla spalla ma benda o gamba di legno debbono esserci. Scherzi a parte, menomazioni agli arti inferiori sono sempre esistite e più frequenti di quanto si possa oggi immaginare; di certo l’andare in giro scalzi, o con sandali, che ben poco proteggevano il piede, non agevolava.

Ebbene, se il pirata non poteva fare a meno della sua semplice e informe gamba di legno, anche se ricavata da un osso di balena o capodoglio, i nostri pro-pro-pro genitori egizi sapevano fare cose ben più complesse ed esteticamente anche “gradevoli”.

Nel corso di campagne di scavo della TT95 (Theban Tomb 95) Gli egittologi dell’Università di Basilea hanno rinvenuto quella che può, ad oggi, definirsi come la più antica protesi femminile da piede. Si tratta di un alluce in legno, articolato, che risale almeno a 3000 anni fa con una sorta di “imbragatura” in cuoio per fissarla al piede.

La stessa mostra segni evidenti di lungo uso e rispondeva, quindi, non solo a un bisogno estetico, ma anche a uno fisico. La fattura della protesi dimostra inoltre che chi la realizzò oltre ad avere una certa dimestichezza con l’anatomia umana, studiò un sistema che fosse anche confortevole per chi la indossava.

Per avere un’idea della differenza, si può fare riferimento a un’altra protesi, in cartonnage, risalente al Nuovo Regno oggi al British Museum (cat. EA29996/1881.0614.77)

A stretto giro, questa seconda non può ascriversi tra le protesi poiché, molto verosimilmente, non era destinata alla deambulazione, ma solo a riempire esteticamente un’amputazione per una mummia. L'”unghia” doveva originariamente essere di un materiale differente.

Benché alcuni studiosi riferiscano che entrambe potrebbero essere state funzionali, per la seconda che, essendo in cartonnage (lino e colla), senza articolazioni e senza altre dita, mi pare difficile potesse garantire una deambulazione “normale”: in fase di avanzamento del passo, infatti, la sporgenza costituita dall’alluce di “cartapesta” non avrebbe agevolato la camminata, ed anzi l’avrebbe non poco intralciata (provate, avendo peraltro tutte le altre dita del piede, a camminare senza articolare l’alluce). Se poi la si considera protesi come la gamba di legno, solo leggermente più esteticamente gradevole, ovvero con una deambulazione che comporta il sollevamento dell’intera gamba al momento del passo, allora potrebbe anche essere.

Come per l’apparato scheletrico, ogni organo era inoltre conosciuto e considerato soltanto nella sua globalità; per tutti possiamo citare il caso del cuore e del cervello. Il secondo, il cervello, era ignorato come organo (tanto che durante la mummificazione veniva distrutto).

Era conosciuto il complesso delle attività nervose, ma erano attribuite al cuore, l’organo più importante del corpo umano e “principio di tutte le membra”

ALCUNE RICETTE

Il “ricettario” più famoso è certo il c.d. “papiro Ebers (dal nome del primo acquirente, 1872 a Tebe), di cui ha parlato più ampiamente Andrea nella sua corposa e dettagliata monografia, conservato attualmente presso l’Università di Leipzing; scritto in ieratico e risalente al 1500 a.C. circa, sotto il regno di Amenhotep I, è lungo più di 20 m. e largo oltre 30 cm. Si tratta di 108 “pagine” che contengono 875 “ricette”. Ma esistono altri papiri “medici” come il c.d. “Edwin Smith”, o il papiro “Hearst”, o quelli di “Berlino(“piccolo” e “grande”), il papiro di “Kahun”, il “Chester Beatty 4”, i papiri magici di “Leida” e del “Ramesseo” … qui di seguito riporto alcune diagnosi e ricette… le più “strane”.

Per diagnosticare la sterilità di una donna. il Papiro Kahun 28 suggerisce:

«[…] farai in modo che uno spicchio di aglio inumidito di […] rimanga per tutta la notte, fino all’alba, nella sua vagina. Se l’odore dell’aglio raggiungerà la sua bocca essa sarà in grado si partorire, in caso contrario ella non partorirà mai»

Dal papiro di Berlino riporto nuovamente il metodo per conoscere il sesso del nascituro:

«[…] orzo e grano [in due sacchi di tela] che la donna bagnerà con la sua urina ogni giorno;… se [orzo e grano] germoglieranno entrambi ella partorirà. Se germoglierà [per primo] l’orzo sarà maschio; Se germoglierà [per primo] il grano sarà femmina. Se non germoglieranno ella non partorirà.»

Come detto più sopra, presso gli egizi la gravidanza durava dieci mesi giacché si basavano (forse più giustamente) sul mese lunare di 28 giorni;

Ancora in materia di parti, il Papiro Kahun 29 indica il sistema per sapere se tutto andrà bene:

«[…] devi pizzicarle il ventre […] l’estremità del tuo pollice deve collocarsi al di sopra di colui che palpita (il feto). [Se ….](il segno) sparisce partorirà in modo normale. [Se] non sparisce, non partorirà mai normalmente.»

E, dal papiro del Ramesseo IV, per sapere se il neonato vivrà:

«Il giorno che viene al mondo: prendi una pallina della sua placenta con [….] Pestala nel latte e dagliela in un vaso (henu). Se vomiterà significa che morirà, se la ingoierà, allora vivrà”»

(il concetto dovrebbe essere che se rifiuta la placenta, simbolo nutritivo per eccellenza, rifiuterà anche la vita).

Dal papiro Ebers, n. 810, ma una ricetta molto simile si trova anche nel papiro di Berlino, si ricava un rimedio per curare dolori al seno dovuti all’allattamento o altre infiammazioni delle mucose e della pelle, una cura non proprio gradevole:

«[…] altro rimedio per un seno dolorante: calamina 1; fiele di toro 1; cacature di mosca 1; ocra 1. il composto deve essere lavorato fino ad ottenere una massa omogenea. Spalmarlo sul seno per quattro giorni»

Ma se il “cucciolo” piange troppo, interviene il papiro Ebers n. 782:

«[…] per scacciare il pianto continuo [di un bambino]: parte shepnu (?) della pianta shepten [forse il papavero?]; cacature di mosca dal muro. Creare una massa omogenea, filtrarla e assumerla per quattro giorni di seguito […]»

E dal papiro Ebers n. 325 deriva, invece, la cura per la tosse: si formava una sostanza costituita da miele, latte o polpa di dattero, meliloto (o erba delle mosche), una pianta contenente curarina e, stranamente, colaquintide che è un purgante (forse con l’evidente motivo di scacciare gli umori dall’ammalato), poi:

«[…] cerca sette pietre e scaldale al fuoco; prendine una e cospargila di tale medicamento. Le coprirai quindi con un vaso nuovo in cui avrai praticato un foro nel fondo. Inserirai un pezzo di canna nel foro e appoggerai la bocca sull’altra estremità per inghiottire i vapori che ne fuoriescono…» (un antenato del nostro aerosol?)

Ma anche le cure estetiche facevano la loro parte: per “cacciare le rughe dal viso” delle signore (Ebers n. 716),:

«[…] per rendere l’incarnato perfetto; polvere di alabastro 1; polvere di salnitro 1, sale 1; miele 1. Mescola fino ad ottenere una massa omogenea e spalmala sulla pelle»

…e per i signori uomini che hanno perso i capelli (Ebers n. 465):

 «altro [rimedio] per far crescere i capelli ad un calvo: grasso di leone 1; grasso di ippopotamo 1; grasso di coccodrillo 1; grasso di gatto 1; grasso di serpente 1; grasso di capra 1. prepara il composto fino ad ottenere una massa omogenea e spalma sulla testa» (…sai che profumo con tutto quel grasso…);

Il papiro Ebers 191, tratta probabilmente della diagnosi di un infarto:

«[…] se esamini un malato sofferente di stomaco mentre ha dolori al braccio, al petto, da un lato del suo stomaco, ha poche possibilità di rimettersi… è la morte che lo minaccia»

E adesso, che spero di aver ulteriormente aumentato la vostra curiosità sull’argomento, non posso che rimandarvi al certamente più articolato e completo lavoro di Andrea Petta e della D.ssa Franca Napoli dal titolo “E’ un male contro cui lotterò”.

Roma, febbraio 2009, aggiornamento settembre 2022


[1]    Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim (1493-1541), detto “Paracelso”, medico, astrologo e alchimista svizzero.

[2]    Selket, ma anche Selkis, era Dea della fertilità, della natura, degli animali, della magia, della medicina e della guarigione dalle punture da animali e insetti velenosi. Importante al punto di essere una delle guardiane delle quattro porte della Duat, era anche protettrice di uno dei quattro vasi canopici, ed esattamente di quello contenente le viscere. La cappella dorata del tesoro di Tutankhamon, contenente i vasi canopici, è protetta ai quattro lati da altrettante Dee: Iside (a ovest), Nephtys (a est), Neith (a nord) e Selkis (a sud). L’animale a lei collegato era lo scorpione il cui veleno, benché raramente mortale per l’uomo adulto, è costituito da neurotossine che provocano la paralisi dei centri nervosi compresi quelli della respirazione; ne deriva appunto il nome Selket tradotto con “Colei che fa respirare la gola”. 

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