Di Raffaele Biancolillo
Sappiamo quanto sia importante il culto dei morti nell’antico Egitto, ma, visto il periodo, mi piacerebbe fare alcune considerazioni in particolare sul culto degli antenati.
Per gli Egizi ricordare i morti ha diversi significati.
Innanzitutto, come intuibile, il primo obiettivo è sottrarre gli esseri all’oblio, e la memoria è senz’altro il modo per mantenere viva la loro esistenza.

Le scene dei banchetti spesso raffigurate nelle tombe egizie vogliono indicare la vicinanza tra vivi e morti in un luogo ideale, probabilmente proprio quello del culto, che riunisce i trapassati ai viventi.
È così, infatti, che si può scongiurare uno dei peggiori pericoli individuati dagli Egizi nella morte: l’ISOLAMENTO.
Ma partiamo, come sempre, dal mito originario della morte. che vede il dio Osiride assassinato, fatto a pezzi e disperso in tutto l’Egitto dal fratello Seth.
Questa morte crea una frammentazione del corpo psicofisico, occorre, pertanto, ripristinare l’unità, riunire i frammenti, ovvero le membra isolate, affinché si possa porre rimedio all’evento fatale.
Il punto decisivo è in questa saldatura che non riguarda solo il corpo fisico, ma anche la sfera spirituale e sociale.
Se Iside, infatti, ritrova le parti di Osiride e lo fa rinascere grazie ai riti funerari, il figlio Horus restituisce al padre il suo ruolo sociale.
Egli vendica Osiride, vittima di un delitto, e, dopo un lunghissimo processo, ottiene il legittimo ruolo di sovrano.

Il culto funerario, allora, che ha origine da questi antefatti, mediante l’amore dei congiunti, ha come funzione primaria quella di restituire l’integrità fisica, sociale e spirituale del defunto, così da farlo rinascere, se pure sotto altra forma.
C’è però un altro aspetto da considerare, rilevante per i vivi.
I riti funerari egizi intendono procurare una trasfigurazione del defunto che, grazie ad essi, e a prove specifiche, diventa un AKH, una creatura divinizzata, un fratello degli dei.
In alcune circostanze, dunque, in modo naturale o indotto, l’orizzonte, immagine cara al popolo del Nilo, che rappresenta il confine tra cielo, terra e mondo sotterraneo, si riduce, e, tramite l’avvicinamento ai defunti, i viventi hanno l’opportunità di affacciarsi a uno spazio condiviso dai propri cari con gli dei.

Sarà per questo che in prossimità della nota ricorrenza legata ai morti è possibile avvertire un singolare fremito, una trepidazione inspiegabile.
Forse accade esattamente quello che i testi del rituale quotidiano enunciano:
“Le due porte del cielo sono aperte,
le due porte della terra sono dischiuse”.
Peccato, allora, che, ai giorni nostri, questa fenditura nell’Aldilà sia un’eccezione legata a festività particolari, quasi una ferita, direi, che rievoca la separazione, mentre nei templi egizi ogni giorno le porte dell’eternità venivano spalancate per aprire il cammino verso gli dei.