Di Francesco Alba
Il faraone non manteneva solamente unito l’Alto e il Basso Egitto, egli era anche il tramite tra il mondo umano e quello divino; per questo motivo, era nella singola persona del re che la dualità dell’Egitto diventava una singola realtà. Benchè il re fosse egli stesso un essere umano, l’ufficio della regalità era divino; il corpo umano del re era l’involucro nel quale la divina regalità manifestava sé stessa nella forma del “ka reale” o forza vitale che veniva trasmessa da un re all’altro.
Dunque il re era in un certo modo simile, seppure non identico, agli dei, ed uno dei suoi titoli, netjer nefer, viene tradotto come “il Dio Perfetto”. In effetti il re poteva essere divinizzato dopo la sua morte o anche nel corso della sua vita, come dimostrano alcune raffigurazioni del sovrano vivente mentre compie atti rituali di fronte alla propria forma divina.
Per diventare un dio, il re era obbligato a compiere dei doveri che gli dei gli avevano imposto al momento dell’incoronazione. Questi doveri erano: costruire la propria tomba o casa dell’eternità; costruire templi per gli dei; sottomettere i nemici dell’Egitto; presentare offerte agli dei e non ultimo, garantire l’unità delle due Terre d’Egitto. Raggiungere tutti questi obiettivi innalzava il faraone alla statura divina. Nel costruire e decorare i templi o nel commissionare arredi e oggetti di uso cultuale, il re si impegnava a compiere veri e propri atti di creazione che rafforzavano l’ordine e mettevano al bando il caos.
L’autoconcezione divina di Ramses II
Ramses II tuttavia, portò la propria autoconcezione divina a un livello completamente nuovo. Molti sono i documenti storici dai quali si possono ottenere informazioni in merito. Ad esempio, la Stele 410 del Museo di Hildesheim indica Ramses II come “Re dell’Alto e del Basso Egitto, Signore delle Due Terre, Ramses-Meriamun, il Dio”. Ramses non si dichiarava soltanto re o sovrano ordinato da Dio ma, al contrario, definiva sé stesso “il Dio”. Si direbbe proprio che non si considerasse semplicemente un essere umano divinizzato, cioè un uomo convinto di condividere lo stato divino: al contrario, Ramses considerava sé stesso come una divinità che condivideva la condizione umana. Egli vedeva la sua persona godere di una categoria di esistenza completamente nuova: un re-dio al massimo grado, che viveva, respirava e governava sulla terra come Ra in cielo.

Ramses II non fu il primo a fare questa affermazione. Il faraone Snefru della IV dinastia (ca. 2600 a.C.) si dichiarò in un graffito “grande dio” (ntr a). Ma anche se Ramses non fu il primo a vedere sé stesso in questo modo, fu uno dei pochi a dichiararlo pubblicamente e con tale grandezza. Per mezzo di queste rivendicazioni e aspirazioni architettoniche, egli rese nota la propria concezione di sé su tutta la terra con una modalità che pochi faraoni avevano utilizzato prima e pochi avrebbero fatto dopo di lui.
Il Grande Tempio di Abu Simbel fornisce ulteriori prove del modo in cui egli vedeva la propria persona. Al di là dell’atrio, lungo la parete di fondo del santuario interno, troviamo una statua di Ramses II assiso accanto a Ra, Amon e Ptah. Il particolare non da poco è che la statua di Ramses è equivalente per dimensioni e dettagli alle divinità che gli stanno accanto. Queste statue non sono colossi come quelle sulla facciata dello stesso tempio. Ma il loro significato sembra piuttosto chiaro: il nostro si considerava degno di sedere accanto ai più grandi dei del cielo. Non sottomesso a nessuno, ma accolto fra i suoi pari, soddisfatto, con lo sguardo rivolto verso il mondo, accanto a queste divinità che sarebbero altrimenti trascendenti.
La divinità del faraone
Altrove, in questo tempio e in altri luoghi di Abu Simbel, Ramses II commissionò rilievi che raffiguravano sé stesso nell’atto di venerare la propria persona divina. Un rilievo ritrae Ramses due volte: qui un Ramses è seduto sul suo trono, con le corna della divinità sulla testa e il disco del sole divino che aleggia sopra di lui mentre l’altro Ramses è in piedi e presenta offerte al Ramses seduto. A livello elementare, il rilievo sembra raffigurare Ramses II sia come re (in piedi) che come dio (seduto) ma sembra esserci qualcosa di più. Dal momento che si trovano sia le rappresentazioni reali che quelle divine di Ramses II, si è propensi a credere che questo rilievo voglia sottolineare il concetto peculiare di “fluidità divina” attribuito al re. Egli sembrava aver compreso che gli dei potevano abitare più corpi contemporaneamente senza per questo perdere la loro singolarità. Sapendo questo, scelse di raffigurare sé stesso come se godesse della stessa esistenza “fluida” degli altri dei e cioè che anche lui, come loro, potesse abitare due corpi contemporaneamente, proprio come raffigurato in questo rilievo.

Non è del tutto chiaro se tutti i faraoni intendessero la loro costituzione ontologica e/o la funzione delle loro immagini in questo modo. Di certo, la maggior parte concordava sul fatto che, dopo la morte, i loro ka sarebbero tornati nel mondo per dimorare in immagini e statue con le loro sembianze.
Riferimenti:
- M. K. Shank, The Meaning of the Reliefs at the Temple of Abu Simbel. History 438. Prof. Benedict Lowe. November 15, 2009
- T.L. Putthoff, Gods and Humans in the Ancient Near East; Godlike Bodies and Radiant Souls – Divine Embodiment in Ancient Egypt. Cambridge University Press – 2020