Di Andrea Petta e Franca Napoli
Abbiamo visto come i “metu”, i vasi del nostro corpo, nella medicina egizia si irradiavano dal cuore e convergevano verso l’ano, da cui dovevano essere eliminate tutte le sostanze nocive per il nostro organismo – compresi i demoni – prima di tornare al cuore.
Si capisce quindi come i papiri medici facciano particolare attenzione al tratto gastrointestinale, a partire dallo stomaco – la “bocca del cuore” – a cui è dedicato tutto un capitolo del Papiro Ebers, il “Libro dello Stomaco”, tanto che Erodoto menzionò come gli Egizi fossero “ossessionati dal loro intestino”. Non per niente ben 3 dei 4 vasi canopi tradizionali erano dedicati all’apparato digerente:
– Duamutef, a testa di sciacallo, conteneva lo stomaco sotto la protezione di Neith

– Imseti, a testa umana, conteneva il fegato sotto la protezione di Iside

– Qebehsenuf, a testa di falco, conteneva l’intestino sotto la protezione di Selqet

Come anche per i polmoni, la conservazione nei vasi canopi non facilita l’esame dei resti pervenuti fino a noi. Da qualche anno è però partito il progetto “Canopic Jar” capitanato da Frank Rühli (che abbiamo incrociato nell’analisi della mummia di Tutankhamon) che ci permetterà nuove scoperte in questo campo. È già stato possibile dimostrare la presenza di Escherichia coli in un bambino morto durante il regno di Amenhotep II (XVIII Dinastia) probabilmente di setticemia causata da questo batterio.

Apparentemente il terrore dei medici egizi era il blocco delle funzioni a qualunque livello: la parola che ricorre di più nel Papiro Ebers è “shena” (ostruzione, blocco), con indicazioni per il medico su come riconoscere le contrazioni peristaltiche, la stenosi pilorica (ostruzione del flusso in uscita dallo stomaco) e, per la prima volta nella storia della medicina, come effettuare un esame delle feci.

Veniva intuita un’origine diversa per alcune patologie (“Se l’addome è caldo e c’è un’ostruzione dello stomaco, allora dirai: <è una malattia del fegato>”), ma, come sempre, con le limitazioni di una mancata conoscenze della fisiologia e dell’eziologia delle malattie.
Una “ostruzione” era anche l’ingestione di cibi avariati: “Il suo stomaco emette dei rumori; l’addome è prominente e le feci pallide; il cuore batte forte ed è caldo: il paziente soffre di un gonfiore profondo dovuto alla carne mangiata”. I rimedi erano per via orale, in questo caso birra dolce in cui venivano macerati frutti di sicomoro e bevuta per i soliti quattro giorni.
Rarissimi apparentemente i calcoli biliari, ritrovati da Elliot Smith e Dawson in un solo caso su più di 30,000 mummie analizzate
A livello intestinale, oltre ai parassiti già visti, la costipazione era quindi la patologia più trattata; il rimedio più utilizzato comprendeva latte, miele e frutto del sicomoro, bolliti, filtrati e somministrati sempre per quattro giorni. Viene descritto anche l’uso dell’olio di ricino. È invece difficile da credere che i medici egizi non affrontassero problemi di diarrea, ma non ci sono indicazioni particolari né c’è accordo tra gli studiosi per i termini utilizzati. Curiosamente, i papiri medici non menzionano mai l’uso di clisteri, ma solo rimedi per via orale.
Si pensa infine che i metu specifici dell’ano siano un riferimento alle emorroidi, su cui venivano applicati impacchi di grasso bovino e foglie di acacia, sfruttando le proprietà lenitive dell’acacia. Da notare che l’acacia è utilizzata tuttora dalla medicina tradizionale anche nel trattamento del prolasso uterino e di quello rettale.
