C'era una volta l'Egitto, Nubia, Nuovo Regno, XVIII Dinastia

BERENICE PANCRISIA

LA CITTA’ FANTASMA DEL DESERTO NUBIANO

Di Piero Cargnino

Ora l’Egitto era in pratica un impero, i suoi confini a sud comprendevano l’intera Nubia. L’Egitto imponeva ai suoi sudditi pesanti tributi che spesso erano rappresentati da pietre e metalli preziosi. Basti pensare che durante le fasi centrali del Nuovo Regno la Nubia consegnava 250 chilogrammi di oro all’anno al solo tempio di Karnak. L’economia egiziana era del tipo prevalentemente  agricolo quindi gli scambi con altri paesi avvenivano in natura, mezzo di scambio erano i prodotti della terra coi quali si acquistavano gli altri beni di cui l’Egitto necessitava, anche i tributi si pagavano in natura.

Ma con la XVIII dinastia si iniziò ad introdurre uno strumento che avrebbe agevolato gli scambi, lo strumento era il metallo, oro, argento o rame, il “deben”, che equivaleva a 91 grammi, ulteriormente suddiviso in 10 “kite”, ne sono stati rinvenuti molti il cui aspetto teriomorfo o con testa di bovino confermano che il sistema economico si basava sull’agricoltura. Ovvio che a parità di peso il valore mutava a seconda del metallo con cui era fabbricato il deben, come si sa il metallo più prezioso in Egitto era l’argento, di cui l’Egitto scarseggia, poi veniva l’oro e quindi il rame.

In egiziano antico l’oro in generale si chiamava “nub” (da cui il nome della Nubia) e gli egizi lo distinguevano secondo la provenienza, c’era “oro di Coptos”, “oro del paese di Ouaouat” e “oro del paese di Kush”. Pur non avendo lo stesso significato valutario di oggi, l’oro era molto apprezzato in Egitto in particolare per la sua lucentezza che veniva paragonata a quella del sole e quindi di Ra (dio del Sole) e si credeva che avesse poteri divini. Veniva associato alla vita eterna per la sua apparente indistruttibilità e si credeva che la pelle degli dei fosse d’oro.

L’oro in Egitto abbondava, in un messaggio a un faraone, un re orientale nel 1350 a.C. scriveva che: <<…….. in Egitto l’oro è come la polvere delle strade…….>>. In effetti, oltre a quello che arrivava dai tributi dei paesi sottomessi, in Egitto erano numerose le miniere d’oro, nel deserto, sud-orientale nello Wadi Hammamat e nello Wadi Abad, si trovavano ricche miniere.

Nel Museo Egizio di Torino è conservato il cosiddetto “Papiro delle miniere d’oro” consistente in una vera e propria mappa del Nuovo Regno delle miniere di Berenice Pancrisia in Nubia. Presumibilmente la mappa venne realizzata da una spedizione egizia e su di essa viene rappresenta una pista che attraversa molte miniere d’oro, tra queste quelle dello Wadi Hammamat; a questo proposito va però detto che nel Wadi Hammamat non sono state rinvenute le gallerie per l’estrazione dell’oro, come indicato nel papiro, ma solo cave di pietra e qualche miniera di pietre preziose.

Ma parliamo ora dell’antica città riscoperta dai fratelli Castiglioni, Berenice Pancrisia, un antico insediamento nel deserto nord-orientale del Sudan situato presso le miniere d’oro del Uadi Allaki nella Nubia dei Faraoni.

Il nome deriva dal greco panchrysos e significa “tutta d’oro”. Pare che il nome gli fu dato da Tolomeo II Filadelfo nel 271 a.C., in onore della madre Berenice I moglie di Tolomeo I Sotere, dopo averla ristrutturata ed ampliata dotandola anche di un porto. Una seconda ipotesi farebbe derivare il nome dal dio Pan, nome greco di Min,  divinità egizia del deserto. Pertanto il significato di Berenice Pancrisia sarebbe “Berenice città d’oro” o “del dio Pan”.

In realtà, il sito nubiano risale a moltissimo tempo prima della dinastia tolemaica ed era conosciuto come la città dei Beja. Durante il Medio Regno quasi sicuramente si chiamò Tjeb e, durante il Nuovo Regno, ebbe inizio l’attività di estrazione dell’oro che prima veniva raccolto nei ruscelli montani in superficie come oro alluvionale.

Conosciuta anche dagli arabi che agli inizi del IX secolo le cambiarono il nome in Allaki e in Ma’din ad-dahab, ossia miniera d’oro. Citazioni di Berenice Pancrisia ci provengono da Thutmosi III che fece incidere sul VI pilone del Tempio di Karnak i conteggi dei tributi in oro provenienti dalla regione di Wawat; Seti I che la cita su una mappa nel deserto di Wawat dove fece scavare pozzi d’acqua; Ramses II che fece incidere la via delle miniere su di una stele a Quban; oltre a ripristinare i pozzi scavati in precedenza da Seti I.

Anche Plinio il Vecchio ne parla nella sua “Naturalis Historia, libro VI”:

<<……Berenicen alteram, quae Panchrysos cognominata est…….>>,

come lui anche Diodoro Siculo nel 30 a.C., nella sua “Biblioteca Storica” descrive un luogo nella Nubia  pieno di minerali e di miniere d’oro.

La fortezza principale

Restò conosciuta fino al XII secolo quando iniziò il declino, poiché estrarre oro, nel deserto, divenne eccessivamente costoso principalmente per carenza di acqua. I riferimenti alla “città d’oro” provenivano da scritti antichi quali ad esempio una citazione di Ibn Sa’id al-Andalusi che, nei primi anni del tredicesimo secolo d.C. scriveva:

<<…….la regione montuosa di Allaki è famosa per le miniere d’oro di alta qualità negli uidian (plur. di uadi)……>>.

Anche Al-Maqrizi scrisse:

<<…….Tutto il paese…….è pieno di miniere e, a misura che il terreno si eleva, l’oro è più puro e abbondante….>>.

La fortezza principale

In epoche successive si tornò a cercarla tra il Uadi Hammamat ed il Uadi el-Allaki; a Strasburgo è conservata una mappa islamica risalente a prima del’ 833 d.C. redatta dall’astronomo e geografo arabo Al-Khuwarizmi dove compare il nome di Ma’din ad-Dahab (miniera d’oro) forse proprio Berenice Pancrisia. Nel 1600 circa si perse l’ubicazione precisa e Berenice Pancrisia fu cancellata dalle carte geografiche.

Sul finire dell’Ottocento tra la gente del Cairo circolava il racconto di una città fantasma nel cuore del deserto, una strana città  dove il suo custode, un genio (il “ginn” degli arabi) non permetteva a chi la vedeva di vederla una seconda volta facendola sparire se chi l’aveva già vista si ripresentava. Una leggenda senz’altro, ma la città esisteva veramente, bastava trovarla.

Nel 1989, i fratelli Angelo e Alfredo Castiglioni, con Luigi Balbo e Giancarlo Negro, intraprendono una spedizione alla ricerca delle miniere d’oro presso l’uadi el-Allaki, il letto ormai asciutto di un antico immissario del Nilo. Improvvisamente scorgono i resti di antiche costruzioni crollate con sullo sfondo due roccaforti.

Il sito si presenta come un antico nucleo abitativo attraversato da una strada con altre strade laterali che costeggiano diversi quartieri per circa due chilometri. La prima roccaforte pare un praesidium romano con tanto di corte, stanze, camminamento di ronda e torri ormai crollate. La seconda roccaforte, articolata su tre piani, evidenzia rifacimenti d’epoca islamica.

Le pareti della fortezza a tre piani

Intorno alla città resti di edifici, imponenti tombe, vaste necropoli e soprattutto un centinaio di miniere per l’estrazione dell’oro che, con i loro pozzi di aerazione, rendono ancor più aliena la superficie di questa terra. (Per ulteriori approfondimenti visitare il sito del museo Castiglioni: www.museocastiglioni.it).

Vista aerea

La conferma che si trattava proprio di Berenice Pancrisia arrivò nel 1990 in una riunione alla quale parteciparono Jean Vercoutter, Sergio Donadoni, Annamaria Roveri Donadoni, Charles Bonnet, Isabella Caneva ed altri esperti della regione nubiana. La scoperta è stata considerata così importante da creare una nuova branca dell’archeologia: la Nubiologia.

Fonti e bibliografia:

  • Museo Castiglioni, “Berenice Panchrysos: la città fantasma del deserto Nubiano”.
  • Sito del Museo Castiglioni: www.museocastiglioni.it
  • Alfredo e Angelo Castiglioni, “Nubia, Magica terra millenaria”, Giunti editore, 2006
  • AA.VV.,  “VI Congresso Internazionale di Egittologia” – Atti – Vol. I, 1992
  • C. Ziegler, “L’Eldorado égyptien, in L’or des Pharaons”, Monaco, 2018
  • Tiziana Giuliani, “L’oro dei faraoni – 2500 anni di oreficeria nell’antico Egitto”, 2018
  • Nadia Vittori, “L’oro dei faraoni”, Mursia scuola, 1996)

Tutte le immagini fotografiche e i disegni di questo articolo sono di proprietà esclusiva dei fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni. La pubblicazione da parte mia è stata autorizzata da “Archivio Angelo e Alfredo Castiglioni – Museo Castiglioni” in data 24/2/2022

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