E' un male contro cui lotterò

IL LIBRO DELLA TERRA

Di Andrea Petta

Parte del Libro della terra rappresentato nella camera sepolcrale nella tomba di Ramses VI. Foto kairinfo4u

INTRODUZIONE

Sappiamo che nella mitologia egizia il mondo ultraterreno è visto come un perpetuo viaggio che ricalca quello di Ra, il sole, che ogni sera viene inghiottito da Nut, il cielo, ed al mattino torna a nuova vita all’alba dopo un pericoloso viaggio popolato da mostri e demoni. Allo stesso modo il defunto assurge alla rinascita in una vita che sconfigga la morte dopo avere superato i pericoli che mettono a repentaglio la sua anima.

In questa ottica, secondo gli studiosi, Ra rappresenterebbe l’evoluzione dell’uomo, dalla nascita dell’alba al massimo vigore a mezzogiorno, fino alla senescenza ed alla morte al tramonto, in attesa della perpetua rinascita. Il microcosmo della singola esistenza si sovrappone al macrocosmo del genere umano nella visione egizia della Vita.

A partire dal Primo Periodo Intermedio troviamo raffigurate delle “mappe” di questo mondo ultraterreno – inizialmente sui sarcofagi delle mummie non appartenenti alla famiglia del Faraone – divise dagli studiosi in cinque composizioni fondamentali: l’Amduat, il Libro delle Porte, il Libro dell’Unità Solare-Osiriaca, il Libro delle Caverne ed il Libro della Terra (o di Aker). Ognuno di questi libri illustra una parte di questo viaggio, compresa una geografia fisica dell’Aldilà.

Parti del Libro della Terra appaiono solo a partire della XIX Dinastia con il cenotafio di Sethy I ad Abydos (Osireion); il testo principale appare invece durante la XX Dinastia con Ramses VI, dipinto nella sua camera del sarcofago. È stato descritto anche come “un trattato di embriologia divina”, raffigurando la gestazione di Horus. Il nome di “Libro della Terra” è comunque arbitrario, non avendo un suo “titolo” esplicito.

Il cenotafio di Sethy I ad Abydos o Osireion (vedi anche https://laciviltaegizia.org/2023/05/12/losireion/)

Il Libro è sommariamente diviso in 80 “scene”, di cui andremo ad esplorare quelle legate più direttamente alla nascita di Horus.

Come per molti altri testi legati all’Oltretomba, il Libro della Terra è estremamente criptico. Molti simboli hanno una grafia diversa dal solito, con molti glifi “enigmatici”; la parte ortografica e fonetica presenta dei cambiamenti ed anche alcune forme grammaticali sono peculiari. Tutto ciò rende l’interpretazione delle varie “scene” molto complessa per gli studiosi moderni.

LA VISIONE EGIZIA DELLA VITA

Nota: l’interpretazione del Libro della Terra qui presentata è stata elaborata da Bruno Hugo Stricker, storico olandese delle religioni, e Franz Renggli, psicoanalista e ricercatore sui miti della nascita. Come sottinteso dal termine, è una “interpretazione” non condivisa da tutti gli studiosi, ma è l’analisi più completa ad oggi del significato del Libro stesso.  

Per gli antichi egizi il mondo era un disco piatto, circondato dal mare (visto come un enorme fiume intorno), a sua volta circondato da montagne. Visto “in sezione”, con il sole che sorge al centro, viene raffigurato con il simbolo geroglifico N27, quello dell’akhet, l’orizzonte. Se a questo sovrapponiamo il cielo, visto come un “coperchio” (Gardiner N1) il mondo diventa chiuso come una sorta di grotta. Secondo Renggli, che riprende le teorie di Stricker, questa “grotta” è un grembo materno, un utero che genera l’intera umanità e più in generale tutto ciò che la Terra produce: uomini, animali, vegetazione.

Il mondo come “grotta” o grembo materno

In quest’ottica ci si è spinti fino a vedere il simbolo N27 non come il sole che sorge ma come Horus nel grembo divino di Iside (“il sole sorge tra le montagne come un uccello, Horus emerge dall’utero materno come un falcone”, Striker). In alcune raffigurazioni il simbolo N27 “porta” una croce ansata (ankh), simbolo della Vita.

Una raffigurazione di Aker, la divinità rappresentata come un orizzonte tra i leoni “Sef” (Ieri) e “Duau” (Domani). All’orizzonte è agganciato un simbolo ankh (vita). Il Libro della Terra è anche chiamato “Libro di Aker” per questa ragione. Tomba di Inerkha, XX Dinastia, foto Rodolfo Valverde

La simbologia della nascita si ripete nelle acque primordiali, viste come il liquido amniotico di questo macrocosmo, e nella ninfea, che emerge dalle acque primordiali con uno stelo che rappresenterebbe il cordone ombelicale di Horus.

Secondo Stricker, che coniò la definizione di “Trattato di embriologia divina” per il Libro della Terra, quest’ultimo rappresenterebbe la storia di Horus dal suo concepimento fino alla nascita, raffigurandone tutti i passaggi.

I GENITALI MASCHILI

Tomba di Ramses VI, camera del sarcofago, parete sud. Foto: kairoinfo4u

Al centro di questa figura, detta anche “Il Sacrario di Osiride”, il dio si trova in un sacrario le cui pareti sono formate da tre serpenti. Osiride (denominato “colui che è nella stanza nascosta”) è posizionato tra due colline; sopra una di queste si vede un uccello con la testa di un uomo, rappresentazione del suo ba (indicato nel testo come “Il ba di Osiride nell’Occidente”), mentre l’altra figura che emerge da un tumulo è indicata come “il corpo di Geb”.

Nel registro inferiore, sotto Osiride, Anubi ed una figura umana denominata “Colui che nasconde” proteggono un piccolo sacrario (“il sacrario misterioso di Osiride”), simile al secondo e terzo sacrario di Tutankhamon, identificato come il sacrario canopico di Osiride. Nell’interpretazione di Stricker, i quattro figli di Horus che proteggono i quattro vasi canopi rappresentano i quattro elementi fondamentali della creazione – acqua, aria, terra e fuoco.

Sul bordo superiore dell’immagine è raffigurato Ra, che sembra spuntare a testa in giù dal tetto della caverna, e che tiene in ciascuna mano un uomo decapitato. Al posto delle teste, due raggi di sole cadono in due ciotole a sinistra e a destra. Ogni ciotola è tenuta in alto da una dea.

Lo schema del “Sacrario di Osiride”, da Roberson JA – The Ancient Egyptian Books of the Earth. 2014.

Secondo Stricker, nella mitologia egizia dopo la morte l’anima del re vola in cielo. Al momento della procreazione avviene l’opposto: l’anima (o parte di essa) discende sulla terra sotto forma di raggi solari inviati da Ra e diretti verso i testicoli.

Le due ciotole nell’immagine rappresenterebbero i testicoli: il destro, che contiene tre simboli simili a parasole invertiti e tre simboli Gardiner Aa2 = secrezione, crea un bambino maschio; il sinistro, che contiene solo i tre simboli Aa2, una bambina femmina. Sarà compito umano ricongiungere questa essenza divina con il grembo materno.

Da notare che l’anima lascia Ra circondata dal dolore, creando un desiderio di ritorno al dio che durerà tutta la vita e sarà reso possibile solo con la morte. Nella visione egizia della vita, l’anima viene donata al nascituro solo attraverso il padre.

I GENITALI FEMMINILI

Tomba di Ramses VI, camera del sarcofago, parete sud. Foto: kairoinfo4u

La figura centrale, descritta come “la signora misteriosa” (una variante della figura di Nut nel Libro delle Caverne) è circondata da due serpenti grandi, a testa umana, che rappresenterebbero l’utero materno. Il serpente di sinistra nell’illustrazione è Tepy o “colui con la testa umana”, mentre quello di destra è Nehaher o “Terribile in viso”.

Nella mano sinistra regge un uccello-ba a testa di ariete e nella mano destra un disco solare, identificati come “i due ba” o l’unione tra Ra e Osiride.

Il serpente più piccolo all’interno simboleggia secondo Stricker il cordone ombelicale, mentre il coccodrillo a destra il liquido amniotico.

Lo schema del “Sacrario di Osiride”, da Roberson JA – The Ancient Egyptian Books of the Earth. 2014.

Come nel Libro delle Caverne la figura gigante di Nut è contrapposta a quella, gigante ed itifallica, di Osiride, così nel Libro della Terra le due figure sono nuovamente contrapposte ad indicare il genere maschile e quello femminile ed il loro contributo indipendente alla creazione di una nuova vita.

Le metafore dei genitali maschili e femminili contrapposte nella camera sepolcrale di Ramses VI. Foto: kairoinfo4u.

IL GREMBO MATERNO

Posta al centro della parete sud della camera sepolcrale di Ramses VI, esattamente a metà tra le figure di Osiride (= genitali maschili) e di Nut (= genitali femminili) che abbiamo visto nelle puntate precedenti, si trova la rappresentazione del grembo materno ed il suo ruolo nella fecondazione.

Tomba di Ramses VI, camera del sarcofago, parete sud. Foto: kairoinfo4u

Una figura divina è posta tra un disco più piccolo, sulla sua testa, ed uno più grande, sotto i suoi piedi. Ai suoi lati, due urei emettono due raggi di fuoco che vengono raccolti da due paia di braccia.

All’esterno delle braccia Amaunet e Atenet, le dee dell’occidente e dell’oriente (ancora un riferimento all’orizzonte akhet, sostengono una costellazione di 12 stelle e 12 piccoli dischi solari, rappresentazione delle ore della notte e del giorno.

Il complesso di tutte le figure viene indicato come “coloro che vivono in Nun”, il dio creatore padre di Ra, legando la scena alla creazione primordiale.

Nell’interpretazione di Stricker, la figura divina al centro rappresenta il macrocosmo (Stricker lo chiama “uomo macrocosmico”) che collega la Terra (sotto di lui) ed il mondo ultraterreno (sopra di lui), mentre i raggi di fuoco emessi dai due urei (i suoi testicoli) rappresentano lo sperma divino, la forza generante, raccolto dalle braccia che, abbracciando il disco più grande, rappresenterebbero l’utero. Ci sarebbe quindi un parallelismo tra i raggi di fuoco o del sole (macrocosmo) ed il seme maschile (microcosmo), destinati entrambi a generare la vita.

Lo schema delle principali figure coinvolte, da Roberson JA – The Ancient Egyptian Books of the Earth. 2014.

Il concetto che ne deriverebbe secondo Stricker è che il mondo terreno sia divino in ogni sua manifestazione (uomini, animali, piante ed oggetti), avendo tutto una sua “anima” derivante da questa divinità creatrice. Il concetto di mondo derivato dal corpo di un dio si ritrova peraltro anche nella mitologia indiana (il gigante Parusa) ed in quella babilonese (la dea Tiāmat).

L’intera figura inferiore, chiusa dal cielo raffigurato con le stelle ed i piccoli soli, richiama il simbolo dell’akhet, l’orizzonte cosmico simbolo del mondo come grembo materno, con al centro ciò che diventerà il piccolo Horus. Viene d’altra parte descritto anche dal testo sovrastante come “il grande orizzonte”.

Nella filosofia egizia, l’uomo sarebbe quindi permeato da un’essenza divina (il raggio di sole) che entra nel cuore dell’uomo e di lì viene diretta ai suoi testicoli. Il seme maschile rappresenta quindi una sorta di emanazione del divino, che al divino si unisce per generare. Questa parte “eterea” si combinerà con la “materia” della donna, rappresentata dal suo sangue mestruale, a creare la nuova Vita.

Per quanto riguarda la simbologia delle fiamme per rappresentare lo sperma, in un’altra scena del Libro della Terra una divinità itifallica (al centro) denominata “Colui che nasconde le ore” eiacula fuoco che prende la forma di un bambino, denominato “Fiamma”. Tomba di Ramses VI, camera del sarcofago, parete nord. Foto: kairoinfo4u

Dopo la fecondazione, l’utero si “chiuderà”: i due urei avvolgeranno l’embrione e con la loro essenza fiammeggiante lo proteggeranno dai pericoli. Ma prima il grembo materno, ora pronto a generare nuova vita grazie al seme divino, deve accogliere il seme umano.

IL SEME MASCHILE

Tomba di Ramses VI, camera del sarcofago, parete sud. Foto kairoinfo4u

Il corpo ricurvo di Osiride, inteso come padre, essenza maschile, giace in una goccia di sperma. Dal suo corpo emerge il figlio Horus a testa di falco.

Il padre risorge come feto nel grembo della donna: una sorta di unità tra padre e figlio che ritroveremo anche in altre religioni.

Il dio Ra, onnipresente, è rappresentato come un piccolo disco dietro Horus, e completa una trinità che si rinnova nella procreazione.

Il corpo di Osiride, con il torso e le gambe sollevate, ricorda nuovamente le montagne gemelle dell’orizzonte Akhet, da cui sorge il sole.

Lo schema del “Sorgere di Horus”, da Roberson JA – The Ancient Egyptian Books of the Earth. 2014.

La goccia di sperma è sorretta nuovamente da Iside e Nephtys, diventando ancora una rappresentazione dell’orizzonte cosmico Akhet, questa volta come una sorta di “grembo cosmico” gravido.

Horus ha quindi apparentemente due madri, forse a ricordare ancora il concetto della doppia “essenza” (quella divina e quella paterna) che confluiscono nel figlio generato

LA FECONDAZIONE

Tomba di Ramses VI, camera del sarcofago, parete sud. Foto kairoinfo4u

Probabilmente è sbagliato parlare di “fecondazione”, in quanto sappiamo che nella visione egizia il figlio veniva generato dal solo seme paterno, ma piuttosto di “unione” del seme maschile con il sangue mestruale femminile.

Da qui inizia anche la “divergenza” tra le scritte che accompagnano le rappresentazioni raffigurate e le interpretazioni teologiche/filosofiche, a sottolineare ancora una volta come l’approccio a questi argomenti debba essere multidisciplinare onde evitare clamorosi svarioni.

Questo è infatti uno dei passi più controversi dell’interpretazione di Stricker, che confonde la figura centrale (che secondo lui sarebbe maschile, mentre è chiaramente Hathor) e fa riferimento alla mitologia indiana, in un forzato parallelismo che qui c’entra veramente poco o nulla.

Nella scena vediamo comunque, a destra, le braccia di Nun, il dio creatore, che sostengono un disco solare, il grembo materno che riceve il seme.

Ra (a destra) e una divinità chiamata “Il Capo” (a sinistra) osservano altre due divinità, Atum (a destra) e “Colui che possiede” (a sinistra) che manovrano un doppio bastone, a testa di serpente, che sembra passare alla base della testa di Hathor che emerge da un disco solare.

Hathor, raffigurata di fronte e non di profilo come di consueto, rappresenta probabilmente l’occhio di Ra, mentre i due urei alla base, “Fiamma” e “Divoratore”, le sue emanazioni.

Lo schema del “Sorgere di Hathor”, da Roberson JA – The Ancient Egyptian Books of the Earth. 2014.

Nell’interpretazione di Stricker, le due divinità ai lati del disco solare starebbero usando i due bastoni a forma di corpo di serpente per “mescolare” il seme maschile ed il sangue mestruale femminile a mo’ di zangola per generare la nuova vita che inizia a formarsi. Come il latte in questo modo si trasforma e si separa in burro e siero, così il sangue mestruale, unito allo sperma, si “trasforma” in un feto e nel liquido amniotico.

LO SVILUPPO DEL FETO

Gli antichi egizi conoscevano molto bene lo sviluppo del feto e consideravano che passasse da una “natura” vegetale a quella animale ed infine umana.

Nel primo trimestre predominava la “natura” vegetale ed il feto rimane immobile. Il cordone ombelicale è visto come una “radice” da cui trae alimento.

“La nascita di Khepri” parte 1. Tomba di Ramses VI, camera del sarcofago, parete sud. Foto: kairoinfo4u

Nella prima rappresentazione secondo Stricker il feto è raffigurato come Khepri, lo scarabeo sacro, con le ali spiegate, orizzontali, in posizione di riposo. I due urei sono al fianco con la funzione di protezione della nuova vita. Il disco solare fra le zampe dello scarabeo è molto piccolo, l’embrione ha appena cominciato il suo sviluppo.

A destra, Ra (raffigurato con la testa di ariete del sole calante) assiste allo sviluppo di Khepri inteso come sole nascente. Le braccia in atteggiamento di adorazione sono di “Colui che è della Terra”. Le quattro figure mummiformi sono (dall’alto e in senso antiorario): “Il toro dell’Occidente”, “Il Feroce”, “Quello del Serpente” e “Quello del Ba”

“La nascita di Khepri” parte 2. Tomba di Ramses VI, camera del sarcofago, parete sud. Foto: kairoinfo4u

Nella seconda figura, invece, lo scarabeo ha le ali sollevate, rappresentando il movimento e quindi il “passaggio” alla fase animale con i primi movimenti del feto nel grembo materno. Il disco solare è già più grande, a rappresentare la crescita. Insieme a Ra, a destra, ben 11 figure mummiformi circondano Khepri, indicate come le salme di Iside, Nut, Tefnut e Khepri (in alto a sinistra), Anubis, Horus il Primo (a testa di ibis) e Horus del Duat (a testa di falco) (in basso a sinistra), Geb e Osiride (in alto a destra) e “Colui del Sarcofago” e Shu (in basso a destra.

Stranamente, la figura indicata come “Salma di Iside” è una figura maschile

Curiosamente, anche nella tradizione ebraica ogni feto ha una luce sopra la sua testa, attraverso cui Jahvè infonde la conoscenza al nascituro per fargli conoscere cosa succede al di fuori del grembo materno. Al momento della nascita perderà però questo “dono” e dovrà imparare di nuovo tutto.

LA PREPARAZIONE AL PARTO?

Scena 30 o Prima scena della dannazione. Tomba di Ramses VI, camera del sarcofago, parete sud. Foto: kairoinfo4u

Secondo Stricker, questa rappresentazione sulla parete sud della tomba di Ramses VI (classificata come “Scena 30 o prima scena della dannazione“) dovrebbe simboleggiare il feto che si capovolge nel grembo materno preparandosi per la nascita. Il fatto che sia quadruplicato e senza testa viene interpretato come una vittoria su quattro nemici di Ra nel percorso verso la rinascita. Secondo Renggli, il pavimento sarebbe inoltre il sacco amniotico pronto a rompersi per permettere la nascita.

In realtà l’interpretazione è quantomeno dubbia. Renggli si rifà soprattutto alla mitologia babilonese, in cui la nascita è un evento cruento, accompagnato da fiamme ed inondazioni (interpretate come il dolore e la rottura del sacco amniotico), mentre in questo caso l’interpretazione dei testi si limita a sottolineare la dannazione dei quattro cadaveri.

Le quattro divinità che sorreggono i cadaveri sono infatti (da sinistra): Colui che appartiene alla Decapitazione, Il Grande Decapitatore, Colui che è con i Decapitati e Il Massacratore. Se non fosse abbastanza chiaro, sotto ogni figura appare la didascalia “Decapitato”.

Il testo di accompagnamento indica che le quattro divinità custodiscono i cadaveri che decapitano, anche mentre “invertono i loro corpi”. L’inversione, insieme all’atto della decapitazione, rappresenta la peggiore forma di dannazione inflitta ai nemici degli dèi.

Capovolti, i dannati subirebbero l’umiliazione di nutrirsi di escrementi (come ricordato nei Testi dei Sarcofagi), ma la decapitazione porta addirittura all’oblio totale cancellando completamente l’identità dell’individuo, consegnandolo per sempre a una sofferenza anonima, senza memoria e senza offerte mortuarie.

L’interpretazione data da Stricker a questa scena è perciò molto dubbia, come vedremo ancora meglio nel suo “seguito”.

Stricker viene tratto in inganno da questa altra rappresentazione, la scena 35, dove le quattro figure a testa di fiamma non sono dannati ma divinità (“Coloro che bruciano”), accompagnate da altre quattro divinità-guida a testa di ariete. “Coloro che bruciano” sono infatti prive della testa e cieche, pur fornendo la luce del percorso ultraterreno, e sono completamente slegate (se non nel numero) dai quattro dannati della scena 30.

LA NASCITA COME SACRIFICIO?

In una ideale continuazione della scena precedente (le due scene sono affiancate sulla parete sud della camera del sarcofago di Ramses VI) abbiamo nuovamente quattro personaggi raffigurati, questa volta in ginocchio e le cui mani vengono legate da quattro dee. Dalle loro teste si innalza una lingua di fiamma che si piega poi verso il registro inferiore.

Le due dee che stanno conducendo via il nemico in piedi sono “Colei che Sottomette” e “Colei che assapora (il sangue dei nemici)”, mentre le quattro dee che legano le mani delle figure inginocchiate sono, da sinistra:, “Colei che Brucia”, “Fiamma”; “Colei che arrostisce” e “Colei del fuoco”. I quattro prigionieri inginocchiati sono identificati genericamente come “Nemici” e “Cadaveri di Igeret”, la terra del silenzio.

Nell’interpretazione di Stricker sarebbero quattro feti, visti nuovamente come nemici di Ra, mentre un quinto feto (a sinistra) è già stato fatto rialzare e viene condotto da due dee verso l’altare della nascita. Le dee rappresenterebbero la madre, che lega l’anima del feto alla materia.

Il testo che accompagna la scena recita però:

Secondo Stricker, la voce sarebbe quella del feto in prossimità del parto, e il riferimento al “luogo misterioso” sarebbe nuovamente una metafora per il grembo materno.

L’analisi del testo suggerisce invece che i personaggi raffigurati non rappresentino il feto stesso, ma i nemici sovrannaturali che impersonano i pericoli della gravidanza e del parto.

IL PARTO?

Scena 32 o Terza scena della dannazione. Tomba di Ramses VI, camera del sarcofago, parete sud.
Foto: Rodolfo Valverde

Due paia di braccia (le “braccia del fuoco” a sinistra e le “braccia del calderone” a destra) sostengono ai lati della scena due coppe/ciotole, in ciascuna delle quali possiamo vedere due teste e due parti del corpo non identificabili, forse due cuori a sinistra oppure una forma elaborata del simbolo geroglifico F51 che indica genericamente una parte del corpo.

Tra le braccia vediamo due teste, collegate alle ciotole da una specie di corda o di fiamma. Due divinità maschili (“Coloro con il coltello”) sorvegliano con un coltello in mano.

Al centro, due divinità femminili (“Colei del cuore” e “Colei del cuore spezzato”) proteggono un simbolo “ib” del cuore spirituale. La composizione, nel suo insieme, richiamerebbe nuovamente la forma dell’akhet, l’orizzonte cosmico, ma il fatto che il cuore protetto dalle due dee sia indicato nel testo di accompagnamento come un “cuore spezzato” è in contrato con questa ipotesi.

Nell’interpretazione di Stricker, le due paia di breccia rappresentano l’utero; la testa tra le braccia rappresenterebbe la madre che, attraverso la placenta, nutre il feto (le teste nelle ciotole). Le braccia spingonole ciotole, suggerendo l’espulsione del feto nel momento del parto. Non è chiaro perché le figure a destra non siano definite; forse momenti diversi dello sviluppo o due “destini” diversi del nascituro? Non può essere assolutamente un caso che le figure a destra siano solo colorate mentre quelle a sinistra abbiano i tratti ben definiti.

Rilievo della Scena 32, da Roberson JA – The Ancient Egyptian Books of the Earth. 2014.

L’ipotesi avanzata che le quattro braccia rappresentino gli elementi fondamentali (aria, acqua, terra e fuoco) è stata respinta in quanto non coerente con la filosofia egizia. Anche l’ipotesi che le braccia ricordino il simbolo geroglifico per “granaio” (Gardiner O51 𓊚) sembra abbastanza campata in aria.

Il testo è nuovamente in disaccordo con le ipotesi di Stricker; recita infatti:

La scena sembrerebbe quindi nuovamente una minaccia di dannazione eterna per i nemici di Ra (i “ribelli”). Ma nuovi misteri ci aspettano, legati al ruolo della madre.

IL CORPO DELLA DISTRUZIONE

Scena 72 o Colei che Annichilisce. Tomba di Ramses VI, camera del sarcofago, parete sud. Foto: kairoinfo4u

Una figura mummiforme, chiaramente femminile per il seno messo in evidenza, giace nel suo sarcofago sormontato da sei figure, tre maschili e tre femminili, che sembrano emergere dal sarcofago stesso. È da notare il fatto che non siano rappresentati i piedi; anche se potrebbe sembrare che il sarcofago li copra, è più probabile che ciò indichi che le figure stiano “germogliando” o che comunque ricevano ancora nutrimento dal corpo nel sarcofago.

Nello studio di Roberson la figura femminile viene identificata sulla base del testo che la accompagna, come “la salma di Colei che Annichilisce”. Le figure femminili sono chiamate “Distruttrice dei volti”, Colei della cabina(?)” e “Colei del Mistero”, mentre quelle maschili a destra hanno gli stessi nomi declinati al maschile.

Che la figura femminile abbia una particolare importanza è evidenziato dal fatto che sia la figura umana più grande di tutta la rappresentazione del Libro della Terra nella tomba di Ramses VI e che sia posizionata esattamente sotto il grande disco solare che abbiamo visto su questa pagina (vedi: “IL GREMBO MATERNO“):

La posizione del “Corpo della Distruzione” direttamente sotto il grande disco solare nel “Grembo Materno”

È anche l’unica “struttura” inequivocabilmente identificabile con un sarcofago (le altre sono ovali completi o tronchi). Stricker la chiama “Il Corpo della Distruzione”, correlando nascita e distruzione, e la identifica come la Madre Terra da cui viene generata l’umanità nella forma delle figure che da essa riemergono in una sorta di ciclo della Vita. Lo studioso olandese correla inoltre le sei figure che emergono dal sarcofago alle sei figure mostrate decapitate e con le mani legate dietro la schiena, probabilmente una forzatura derivante solo dal numero dei personaggi ritratti.

Il “Sacrario di Osiride”, ritenuto metafora dei genitali maschili, con in basso le sei figure decapitate e con le mani legate dietro la schiena (tre colorate e tre no, un’altra contrapposizione chiaramente intenzionale).

OSIRIDE REINCARNATO

Scena 76 o La Sconfitta di Apophis. Tomba di Ramses VI, camera del sarcofago, parete sud. Foto: kairoinfo4u

Nella scena principale conclusiva, un serpente viene bloccato da tre divinità a testa di ariete (“Colui che stringe Apophis“, e “Coloro che annichiliscono il suo ba“) mentre la sua testa sta per essere tagliata. Il corpo del serpente forma una sorta di tetto, sotto al quale una figura mummiforme, ancora all’interno di un ovale e identificata come “Osiride, il Capo dell’Occidente”, è protetto da altre due divinità (“la Salma di Tatenen” e “la Salma di Geb“, entrambe divinità della Terra). Le tre divinità centrali sembrano emergere dal pavimento, a sottolineare il loro legame con il mondo sotterraneo, ultraterreno.

Rilievo della Scena 76, da Roberson JA – The Ancient Egyptian Books of the Earth. 2014
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Nell’interpretazione di Stricker, la figura centrale rappresenta Horus come reincarnazione di Osiride, mentre il serpente sarebbe la metafora del cordone ombelicale, che ha nutrito il feto nel grembo materno ma che al momento della nascita (o ri-nascita) deve essere tagliato o potrebbe ucciderlo. Allo stesso modo l’acqua, che componeva il liquido amniotico ed era Vita, dopo la nascita diventa il pericolo dell’annegamento e la Morte.

Nel microcosmo, il bambino deve “uccidere” il cordone quando si rompe il sacco amniotico, mentre nel macrocosmo diventa la lotta eterna di Ra contro Apophis – la cui vittoria è rappresentata dalla nascita di Horus.

CONCLUSIONI

Il Libro della Terra, di cui abbiamo visto le “scene” principali (ma, come si evince dalla numerazione, quelle totali sono molte di più) è sicuramente una metafora del percorso di rinascita dopo la morte. Che possa essere anche un “trattato di embriologia divina”, come è stato definito, a mio personalissimo parere è onestamente molto dubbio.

Come tutti i Libri egizi legati al mondo ultraterreno è oscuro, criptico sia nelle forme (ha segni e costruzioni delle frasi uniche) che nei contenuti.

Le interpretazioni filosofiche o teologiche, come quelle di Stricker, non possono e non devono fare a meno della corretta lettura filologica dei testi, nonché del confronto con gli studiosi di altri campi legati alla civiltà egizia perché è troppo facile cadere nell’errore di modernizzare i concetti o riferirli ad altre culture che con quella egizia non hanno mai avuto contatti. Stricker, scomparso nel 2005, parlava (e scriveva i suoi testi) solo in olandese, il che non ha facilitato l’interscambio ed il confronto.

Il Libro della Terra rimane comunque un testo estremante affascinante, la cui corretta e completa interpretazione rimarrà probabilmente impossibile a meno di ulteriori scoperte.

Fonti:

  • Roberson, Joshua Aaron. The Ancient Egyptian Books of the Earth. Vol. 1. ISD LLC, 2012.
  • Renggli, Franz. “The sunrise as the birth of a baby: The Prenatal Key to Egyptian Mythology.” Journal of Prenatal and Perinatal Psychology and Health 16 (2002): 215-236.
E' un male contro cui lotterò

EPILOGO: CIÒ CHE RESTA DI LORO

Di Andrea Petta e Franca Napoli

La medicina egizia, come molti altri aspetti della civiltà faraonica, rimase pressoché immutata fino all’invasione persiana del 525 BCE, che pose fine alla XXVI Dinastia, ed a quella macedone del 332 BCE. Già alla fine della XXVI Dinastia, i greci stabilirono però una loro città nel Delta, Naukratis, iniziando una fitta rete di interscambi commerciali e culturali che coinvolse ovviamente la medicina. Non per niente in questo periodo nasce la medicina greca.

Una ricostruzione di Naukratis durante il suo periodo di massimo splendore: allungata lungo l’ampio ramo occidentale del Nilo, densamente popolata di case in stile egiziano e santuari greci ed egiziani. Immagine di Grant Cox

L’immutabilità della cultura egizia, precursore in qualche modo del “mos maiorum” dei Romani, bloccò anche lo sviluppo della medicina, che rimase sempre legata alla diagnosi nosografica (vedi: https://laciviltaegizia.org/…/20/la-professione-medica-2/). Ma lo sviluppo di Alessandria, con il suo museion e la sua biblioteca, fornì l’occasione per travasare il sapere medico egizio e permettere un nuovo “balzo” con la medicina greca.

Ippocrate viaggiò molto in Egitto da giovane; i suoi allievi si formarono a cavallo tra Cos ed Alessandria, interagendo con l’Egitto fino ad assorbirne molte conoscenze ed usanze.

Ippocrate di Cos. Viaggiò molto in gioventù, imparando in Egitto gli elementi della medicina dei Faraoni e rielaborandola utilizzando le nuove conoscenze, fino ad essere considerato (tralasciando i suoi svarioni) il “padre” della medicina moderna.

Studiò ad Alessandria Erofilo di Calcedonia – che si suppone abbia praticato la dissezione dei cadaveri per meglio comprendere la fisiologia umana. Grazie ad Erofilo si iniziò a comprendere le funzioni cerebrali, iniziando a correggere la clamorosa svista dei medici egizi che attribuivano le funzioni cognitive al cuore (anche se il concetto di “metu” portò per molto tempo a fare confusione tra vasi, nervi e tendini). Il suo nome viene tuttora perpetuato nella torcula herophili, la confluenza posteriore dei seni venosi cerebrali che drenano il sangue dal cervello.

Erofilo di Calcedonia. Visse tra il 335 ed il 280 BCE circa, e fu il primo, vero anatomista della storia.
La Facoltà di Medicina di Parigi (Paris Cité) celebra così Erofilo di Calcedonia, come l’autore della prima dissezione

Galeno, anche lui studente ad Alessandria nel II secolo CE, dal canto suo spazzò via il concetto egizio che le arterie fossero piene solo d’aria, ed insieme ad Erasistrato – che per primo descrisse le valvole mitrale e tricuspide del cuore, fece fare un balzo alle conoscenze vascolari superate solo nel XVI secolo da Harvey.

Di Erasistrato non ci sono pervenute statue. Questo dipinto, “Erasistrato alla scoperta della causa della malattia di Antioco” fu dipinto da Jacques-Louis David nel 1774 e valse al giovane pittore francese il Prix de Rome per la pittura, portandolo a vivere per cinque anni a Roma.

La medicina egizia e quella greca per un po’ marciarono separate, poi si fusero sempre di più e si travasarono in quella romana. L’avvento però della cristianità ebbe due serie conseguenze.

La chiusura dei templi – e delle scuole degli scribi – portò alla perdita della possibilità di leggere i geroglifici ed il demotico. I papiri medici divennero illeggibili; per motivi ignoti non furono tradotti in altre lingue, se non parzialmente, e quelli tradotti erano per lo più nelle biblioteche dei Nestoriani, che vennero allontanati dopo il Concilio di Efeso del 431 CE e portarono la loro sapienza più a oriente. Nacque così la medicina araba, che “tornò” in Europa solo con il Rinascimento.

Galeno di Pergamo in una delle tante ricostruzioni postume. Secondo molti studiosi proprio Galeno (e non Ippocrate) dovrebbe essere considerato il padre della medicina moderna in quanto studioso della fisiologia. Purtroppo nelle sue opere si tramandarono anche gli errori (in primis l’uso scellerato del salasso in moltissime patologie), che di fatto bloccarono lo sviluppo della medicina nel mondo cristiano fino al XVI secolo.

Della medicina egizia ci rimangono le conoscenze erboristiche; il concetto di “trasmissione” tra le varie parti del corpo attraverso i vasi (i “metu”); rimase per molto tempo l’idea di poter conoscere il sesso del nascituro vedendo germogliare questo o quel cereale, piccole cose qua e là che abbiamo visto in questi mesi.

Ma soprattutto ci rimane il concetto stesso di “medico”, il “sinu”, che vide la luce per la prima volta sulle rive del Nilo, dove iniziò a dire: “è un male contro cui lotterò” e che continua a lottare anche oggi.

E' un male contro cui lotterò

LE PRESCRIZIONI DEI MEDICI

Di Andrea Petta e Franca Napoli

Sicuramente quella dei medici egizi è stata la prima farmacopea tramandataci; non solo: la stessa parola “farmacia” potrebbe, secondo alcuni studiosi, provenire dal termine egizio “ph-ar-maki”, ossia “Colui che induce sicurezza” – uno degli attributi del dio della conoscenza Thot.

Il dio Toth, che ci ha accompagnato per tutta questa rubrica. Potrebbe dipendere da uno dei suoi epiteti il termine “farmacia”?

Resta comunque il fatto che il solo Papiro Ebers contenga ben 400 ingredienti diversi; numero che sale a oltre 500 considerando anche gli altri papiri medici. Come abbiamo visto in alcuni dei rimedi proposti, i componenti delle prescrizioni potevano essere di origine minerale (il natron, il sale, la malachite, i lapislazzuli ad esempio), animale (miele, latte, carne, fegato sangue, placenta, grasso, ma anche feci ed urine) ed in larga parte vegetale

Una delle cose che colpisce delle prescrizioni egizie è il fatto che gli ingredienti fossero misurati, non pesati. Spesso sono indicati come proporzione del totale (“un terzo di…un sesto di…”) Questo è uno dei motivi per cui la famosa iscrizione sul tempio di Kom Ombo, che mostra quelli che sarebbero strumenti chirurgici ma anche una bilancia, potrebbe riferirsi a tutt’altra pratica rispetto a quella medica.

La bilancia di Kom Ombo, che ha instillato parecchi dubbi sul fatto che gli attrezzi raffigurati siano strumenti medici.

L’unità di misura egizia per quanto riguarda i volumi era l’heqat, un “barilotto”, corrispondente più o meno a 4.8 litri. Per gli usi medici era però poco pratica, per cui si utilizzava normalmente l’henu o hin, ovvero un decimo di heqat (una “giara” = 480 ml) oppure il ro (1/320 di hegat = 15 ml) corrispondente tradizionalmente ad una “sorsata” di un liquido – tanto che il suo simbolo in geroglifici è quello della bocca (Gardiner D21).

Gli Egizi avevano misure standard di riferimento a cui ci si doveva attenere anche per motivi legali – in modo molto simile all’odierno Sistema Internazionale di Misura. Qui alcuni standard per i volumi piccoli conservati al Petrie Museum

Quando il simbolo della bocca è scritto SOPRA un numero, il numero indica il denominatore di una frazione (ad esempio: se trovate un simbolo D21 sopra al numero 8, vuol dire un ottavo).

Quando il simbolo della bocca è scritto SOTTO un numero, quel numero indica un multiplo, nel caso delle prescrizioni mediche i multipli di ro (ad esempio: se trovate un simbolo D21 sotto al numero 8, vuol dire 8 ro = 120 ml)

La differenza tra una frazione ed un multiplo dipende dalla posizione del simbolo D21

Curiosamente, nelle prescrizioni egizie non si fa mai riferimento ad altre unità di misura come il dja, corrispondente a 20 ro (=300 ml circa).

Una scoperta recente ha correlato le misure delle giare comuni in Egitto e Medio Oriente ai volumi standard usati. Qui una giara da mezzo heqat (= 2.4 litri). Da: Zapassky E, Gadot Y, Finkelstein I, Benenson I (2012) An Ancient Relation between Units of Length and Volume Based on a Sphere. PLoS ONE 7(3): e33895 

Gli ingredienti potevano essere cotti, triturati, miscelati o lasciati in infusione, fino a preparare il “prodotto finale” che poteva essere somministrato come pozione, gargarismo o risciacquo, infusione, decotto, pillola, pastiglia, cataplasma, unguento, pomata, collirio, inalazione, fumigazione, supposta, clistere, tampone o irrigazione vaginale.

Spesso la ricetta indica anche la durata del trattamento, e a volte la temperatura a cui andava somministrato (“bevuto alla temperatura del dito”, Ebers 799) esattamente come in una prescrizione moderna.

Un’ultima nota riguarda il fatto che i medici egizi potrebbero aver usato inavvertitamente principi attivi anche di una certa entità a causa della (ovvia) mancanza sia di competenze sia di “controlli di qualità”. Il caso più eclatante riguarda il ritrovamento di tetraciclin (una famiglia di antibiotici utilizzati tuttora) in mummie del periodo tolemaico/romano. È stato ipotizzato in questo caso una contaminazione da streptomiceti (che producono naturalmente le tetracicline) nella produzione della birra. Mai come in questo caso chi beveva birra…campava cent’anni, come in un famoso spot di qualche decennio fa.

NOTA 1: gli Egizi conoscevano, come sappiamo, le frazioni – molti di voi ricorderanno che l’wedjat o occhio di Horus fu il primo modo di scrivere le frazioni, indicando la parte interna dell’occhio ½, la pupilla ¼, il sopracciglio 1/8, la parte esterna 1/16, il ricciolo curvo 1/32 ed il “piede” 1/64. Va però notato che gli egizi non concepirono mai una frazione il cui numeratore non fosse 1, ed il denominatore molto raramente diverso da una potenza di due (le uniche eccezioni furono 1/3, 2/3 e ¾).

NOTA 2: secondo alcuni studiosi di paleomedicina, il simbolo tuttora usato per indicare una prescrizione medica (la “R” maiuscola – dal latino “recipe” = ricetta – la cui gamba diagonale si prolunga e forma una “x”, ꝶ) deriverebbe dall’Occhio di Horus

La possibile evoluzione del simbolo per indicare una prescrizione
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UNA TERAPIA STRAORDINARIAMENTE MODERNA

Di Andrea Petta e Franca Napoli

Tra le patologie trattate nel Papiro Ebers si trovano le cosiddette “inm”, apparentemente malattie che affliggevano la colorazione della pelle e catalogate nella sezione delle ustioni.

Una delle prescrizioni per queste “ustioni” prevede l’uso dell’estratto di una pianta, identificata come l’Ammi maius (visnaga maggiore o “pianta del vescovo”) e l’esposizione al sole del malato. L’opinione corrente è che la malattia possa essere identificata come la vitiligine e che l’effetto descritto sia la depigmentazione della pelle dovuto alla distruzione autoimmune dei melanociti.

L’Ammi maius o “pianta del vescovo”
 
Gli effetti della vitiligine, accomunati dai medici egizi a quelli delle ustioni

Ma cosa c’è di tanto moderno in questa terapia?

Innanzitutto è stata “dimenticata” per millenni. Solo nel 1948 è stato scoperto il principio attivo contenuto nell’Ammi maius, curiosamente da un chimico egiziano. Si tratta di una sostanza nota come 8-metossipsoralene (abbreviato 8-MOP), che ha una caratteristica molto particolare. L’8-MOP si “infila” tra le due eliche del DNA, ma rimane del tutto inerte fino a quando non viene esposto ai raggi UV (come quelli del sole…); a quel punto si lega ad entrambe le eliche e le “incatena”, non permettendo la replicazione del DNA e quindi la proliferazione cellulare. Nelle malattie autoimmuni (ma anche in altre importanti patologie, come il rigetto d’organo) questo impedisce che le cellule che stanno aggredendo il nostro stesso organismo si moltiplichino e, anzi, vengano riconosciute dal nostro sistema immunitario come nocive.

L’8-MOP (in blu) ed il suo legame “incatenante” con il DNA

AI giorni nostri, siamo riusciti a “raffinare” enormemente questa tecnica. Oggi vengono raccolte le cellule responsabili di questa “aggressione” (i linfociti) con un separatore cellulare (simile a quelli usati per la donazione di plasma o piastrine) in modo da esporre all’8-MOP e irradiare solo queste cellule, che vengono poi reinfuse al paziente cercando di bloccare la reazione auto-distruttiva od il rigetto del trapianto. Il campo d’azione è stato allargato anche al trapianto di cellule staminali da donatore (trapianto allogenico) quando le cellule trapiantate “aggrediscono” il paziente, oltre al tumore (la cosiddetta “Graft versus Host Disease” o malattia del trapianto contro l’ospite).

Moderni separatori cellulari ed una raccolta di linfociti da esporre all’8-MOP e irradiare

C’è ancora moltissimo da studiare e scoprire in questo campo, ma è assolutamente incredibile che i medici egizi, senza le conoscenze scientifiche necessarie ma solo con l’osservazione empirica, avessero mosso i primi passi in questa direzione ed avessero “inventato” la fototerapia.

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LA CURA DEL CORPO – LA CUTE

Di Andrea Petta e Franca Napoli

Come già per i capelli, anche in questo caso la medicina si mescola con l’estetica, con importanti eccezioni.

Da un lato abbiamo infatti le prescrizioni per “evitare gli odori in estate”, veri e propri deodoranti a base di franchincenso, bacche di ginepro e mirra, oppure frutti di carruba – l’ennesima dimostrazione dell’importanza dell’igiene nell’Antico Egitto.

Non mancano poi le prescrizioni per ottenere una pelle morbida a base soprattutto di miele, natron, sale e polvere di alabastro. Livio Secco ci ha illustrato alcune delle pratiche cosmetiche (su cui ha anche pubblicato un volume) QUI.

Il contenitore dei cosmetici, inclusi quelli per la pelle, di Merit al Museo Egizio di Torino.

D’altra parte, invece, appaiono le prime terapie dermatologiche vere e proprie. Le evidenze paleopatologiche ci mostrano solo sospetti: la cute delle mummie è disidrata e molto scura, difficilmente si può distinguere una patologia con certezza. Si sospettano su alcune mummie casi di tumori cutanei, in particolare dovuti alla sindrome di Gorlin-Goltz (carcinomi delle cellule basali e cheratocisti che causano malformazioni del derma e scheletriche, tra cui un tipico accorciamento dell’osso metacarpale dell’anulare) e si stanno cercando i marcatori genetici di questa patologia, finora senza successo.

Carcinomi cutanei dovuti alla sindrome di Gorlin-Goltz
L’accorciamento del quarto metacarpo, corrispondente all’anulare, della mano destra di una mummia morta all’età di 20-25 anni e scoperta ad Assyut, sintomo probabile della sindrome di Gorlin-Goltz (da: Satinoff, Merton I., and Calvin Wells. “Multiple basal cell naevus syndrome in ancient Egypt.” Medical History 13.3 (1969): 294-297.)

Abbiamo visto i casi di vaiolo (Ramses V) e le cisti cutanee, trattate chirurgicamente; sui papiri medici troviamo invece le indicazioni volte ad alleviare i sintomi di rossori cutanei (rash), eczemi, ulcere ed in generale “irregolarità della cute”. Dal momento che la medicina egizia faceva riferimento sempre ai metu, ai vasi interni del corpo, anche nel caso delle patologie della pelle bisognava liberare i metu, soprattutto dell’addome, facendo ricorso sovente a lassativi.

Ramses V con i chiari segni del vaiolo sul volto

Di particolare importanza erano le ustioni, che evidentemente accadevano di frequente se vengono riportati ben 27 rimedi per curarle.

Da quanto leggiamo nel Papiro Ebers, la terapia più gettonata vedeva un cambio di terapia ogni giorno, per cinque giorni; rispettivamente:

  • Il primo giorno: fango nero
  • Il secondo giorno: escrementi di bestiame di piccola taglia (vitello, pecora, capra)
  • Il terzo giorno: resina di acacia, impasto d’orzo, carrube e olio
  • Il quarto giorno: cera, olio, papiro macerato nell’acqua (specificato: “non scritto”!) e un legume wah, non identificato
  • Il quinto giorno: ocra rossa, foglie di un albero non identificato, scaglie di rame

Agli occhi della medicina moderna non c’è nessuna logica in questa sequenza, anzi: gli escrementi del secondo giorno comportano un grosso rischio di infezione e gli olii, noti lenitivi, non compaiono prima del terzo giorno. Un grande mistero, legato probabilmente alla necessità di scacciare i “demoni” collegati all’ustione.

Gli altri rimedi per le ustioni comprendono spesso dell’olio, il miele (battericida), le scaglie di rame o di malachite (battericidi). Evidentemente anche i medici egizi non avevano soverchia fiducia in questi rimedi, perché, stranamente, questa parte del Papiro Ebers contiene ben due incantesimi da affiancare ai rimedi proposti, un fatto inusuale nei papiri medici.

Come in altri casi, anche qui purtroppo ci colpisce di più quello che manca, rispetto a quello che troviamo nei papiri medici. In un Paese in larga parte desertico, le malattie della pelle avrebbero dovuto essere estremamente diffuse, mentre non sono assolutamente trattate.

Con una singola, straordinaria eccezione che vedremo nella prossima puntata

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LA CURA DEL CORPO – I CAPELLI

Di Andrea Petta e Franca Napoli

L’aspetto fisico, soprattutto nelle classi più abbienti, era di particolare importanza e doveva essere sempre curato. L’ossessione principale era il tempo che passa e la vecchiaia che avanza – una cosa che rende gli antichi egizi molto vicini anche a noi.

Lo stesso Sinuhe racconta preoccupato: “…la vecchiaia è calata su di me, la debolezza mi opprime, i miei occhi sono pesanti e le mie braccia sono deboli; le mie gambe incespicano e il mio cuore è affannato. Sono vicino alla morte…”

Il Papiro Berlino P3022 con la storia di Sinuhe (vedi anche: https://laciviltaegizia.org/…/sinuhe-il-figlio-del…/)

Ovviamente, anche in queste “lamentazioni” si ritrovano alcuni svarioni della cultura egizia che abbiamo già visto: nelle “Massime di Ptahotep” leggiamo infatti che “il mio cuore non ricorda più ieri” attribuendo al cuore le funzioni cerebrali.

Il Papiro Prisse, che contiene le Massime di Ptahhotep (Bibliothèque nationale de France)

Non ci può stupire quindi che molte prescrizioni dei papiri medici siano volte a contrastare questo avanzare del tempo – o meglio, gli effetti visibili: primi fra tutti, quelli sui capelli.

Nonostante quello che immaginiamo tutti, antichi egizi sempre rasati a zero e con eleganti parrucche, la realtà era diversa. Il Papiro Ebers contiene infatti ben tredici rimedi per evitare che i capelli ingrigiscano – nessuno di questi in realtà molto affidabile e nella maggior parte legati ad animali dal pelo nero, ma testimoni dell’importanza data alla capigliatura. La medicina si mescola quindi all’estetica, ritenendo la lotta all’ingrigimento dei capelli una lotta contro la vecchiaia che avanza.

Si va quindi dalla lozione preparata con il sangue di un bovino dal mantello nero bollito con olio o grasso, a quella ottenuta mettendo in infusione il guscio di una tartaruga con lo scheletro di un corvo. Anche il corno di un toro nero, di una gazzella o lo zoccolo di un asino, bolliti per preparare una mistura con del grasso, erano suggeriti al/alla paziente. In questo caso, infatti la preoccupazione per i capelli grigi o bianchi era per entrambi i sessi.

Non mancano le prescrizioni “bizzarre”, come “un topo cotto nell’olio” (Hearst 149).

Il sangue e le corna di un toro nero erano tra i principali ingredienti delle lozioni contro i capelli grigi

Curioso l’utilizzo della placenta (di gatto, in questo caso), un ingrediente ancora oggi usato dalle industrie cosmetiche per rinforzare i capelli.

Sempre per prevenire l’aspetto “anziano” dei capelli grigi, la colorazione dei capelli con l’hennè è stata ampiamente documentata su alcune mummie pervenuteci – la più famosa, senza dubbio, quella di Ramses II, probabilmente per ricreare il colore rosso naturale dei suoi capelli in vista dell’aldilà, ma non è presente o menzionata sui testi medici egizi.

Le mummie di Ramses II e Sitra, entrambe con i capelli trattati con l’hennè

La Lawsonia inermis o henna o hennè era coltivata in Egitto fin dal periodo predinastico, e tracce del suo colorante (idrossinaftochinone) sono state rilevate anche su mummie antichissime. Alcuni studiosi hanno cercato di identificare l’hennè con la pianta “ankh-imi”, “colei che contiene la vita” proprio per la capacità di coprire i segni dell’età sui capelli, ma l’attribuzione è molto dubbia.

L’arbusto della Lawsonia inermis da cui si ricava l’henne
La polvere colorante che si ottiene dalla Lawsonia

La perdita dei capelli invece era una preoccupazione (quasi) tutta maschile, perché perdere i capelli voleva dire perdere anche la virilità. Possiamo immaginare allora gli sforzi degli antichi egizi per evitare cotanta sciagura. Ben diverso era il valore del cranio rasato di un sacerdote da quello calvo di un uomo che aveva perso i capelli.

I trattamenti indicati in questo caso vanno dagli aculei di un istrice (!), sempre ridotti in polvere e mescolati con grasso animale, ad un impasto composto da grasso di leone, ippopotamo, coccodrillo, gatto, serpente ed antilope da applicare sulla testa dello sventurato. Attenzione però: il Papiro Ebers specifica che il leone deve “avere un aspetto feroce”, altrimenti il rimedio non funziona…

Sarà abbastanza feroce l’aspetto di questo leone per il Papiro Ebers? (Foto Daniel Rosengren Photography)

Come importante eccezione alla preoccupazione solo maschile, il papiro Ebers ci propone però anche un rimedio utilizzato nientemeno che da “Shesh  Sesheset), la madre di sua maestà, re dell’Alto e Basso Egitto, Teti, giusto di voce”. Parliamo quindi dell’inizio della VI Dinastia, al tramonto dell’Antico Regno, intorno al 2340 BCE. Il rimedio utilizza l’osso di un cane, dei datteri tritati ed uno zoccolo d’asino, bolliti con olio o grasso come al solito fino ad ottenere un impasto da stendere sullo scalpo.

Statua del re Teti (VI Dinastia). La madre soffriva evidentemente di alopecia, tanto da figurare su uno dei papiri medici; la sua citazione ha fatto ipotizzare che la prima stesura del Papiro Ebers possa essere stata fatta durante il suo regno o poco dopo.
La base della piramide di Sesheset, scoperta solo nel 2008 a Saqqara (foto Smithsonian Magazine). Nella piramide fu trovato un sarcofago violato con ancora una mummia al suo interno, considerata la mummia di Sesheset ma non ancora esaminata in dettaglio. Sicuramente non sarebbe stata felice di essere ricordata per la sua calvizie incipiente.

Tre “rimedi”, infine, sono descritti come metodi per far diventare calva una persona: viene specificato infatti “da applicare sulla testa di chi è odiato”. Questi “veleni per i capelli” includono le foglie di ninfea, i carapaci di tartaruga tritati, un verme non ancora identificato e la parte inferiore della zampa di un ippopotamo. Il Papiro Ebers però non ci spiega come si faccia ad applicarlo “molto, molto spesso” sulla testa della persona odiata.

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LA PRIMA PROTESI

Di Andrea Petta e Franca Napoli

La protesi dell’alluce di Tabaketenmut, foto Univ. di Manchester

Verso la fine del secolo scorso, gli scavi dell’Istituto Tedesco di Archeologia del Cairo nella necropoli di Tebe Ovest (le cosiddette “tombe dei nobili) hanno portato alla luce un reperto straordinario. In una camera laterale aggiunta al termine di un pozzo della tomba TT95, originariamente scavata per Mery (Primo Profeta di Amon sotto Amenhotep II) sono stati ritrovati i resti di diversi corpi. Dal materiale funerario sopravvissuto ai predoni, è stato possibile datare la camera al III Periodo Intermedio, probabilmente durante la XXI Dinastia (per intenderci, quella di Psusennes I e della sua splendida maschera d’oro).

L’interno della tomba dove è stato ritrovata la mummia di Tabaketenmut. Foto Univ. di Basilea

Tra i corpi ritrovati, il più importante per la nostra rubrica apparteneva a Tabaketenmut, forse la figlia di un sacerdote; una donna morta all’età di circa 55 anni, alta 1,69 m e purtroppo devastata dai tombaroli. Il corpo era infatti spezzato in più parti, il cranio diviso dal torso e gli arti staccati. Entrambe le mani e la coscia sinistra sono andate perse per sempre.

Quel che rimane di Tabaketenmut, la “mummia con la protesi”, dopo la ricostruzione. Non sono state ritrovate le mani (probabilmente asportate per gli anelli) e la coscia sinistra. 

All’esame paleopatologico, una grande sorpresa: l’alluce del piede destro era stato amputato in vita: il moncherino presentava infatti uno strato di tessuto molle, compresa la pelle. Non solo: sul piede è stato anche ritrovata anche la protesi che aveva sostituito l’alluce durante la vita di questa ignota signora. È la protesi ortopedica più vecchia di cui si abbia conoscenza, datata intorno al X secolo BCE.

La protesi come è stata ritrovata sul piede della mummia
Il moncherino è netto, con evidenza di perfetta guarigione

La protesi è formata dal “dito” vero e proprio, in legno colorato e lungo 12 cm, e due piastre in legno di 4 cm ciascuna, collegate al dito da sette lacci in cuoio per permetterne una sorta di articolazione. Il dito è perfettamente modellato, compresa una riproduzione dell’unghia sulla parte superiore. Il gruppo protesi/piastre era poi legato con del tessuto di lino al resto del piede per fissarlo strettamente in posizione. Questa pratica soluzione consentiva di camminare senza eccessivi problemi. I segni di usura sotto l’alluce prostetico ci rivelano che la protesi è stata usata per molto tempo.

Il lato inferiore della protesi è chiaramente consumato dall’uso, un indizio che la protesi sia stata effettivamente utilizzata in vita e molto a lungo

Ma cosa ha causato l’amputazione dell’alluce?

Le radiografie hanno mostrato una demineralizzazione del metatarso corrispondente all’alluce amputato, non imputabile ad osteoporosi. Inoltre, una TAC effettuata alle gambe della mummia ha rivelato delle calcificazioni delle arterie, come anche su un tratto di aorta ritrovato intatto (macro- e microangiopatia). L’amputazione, inoltre, è netta, quindi la natura traumatica dell’amputazione è molto improbabile – anche se non abbiamo la certezza assoluta che sia stata un’amputazione chirurgica.

La radiografia con segni di demineralizzazione del metatarso corrispondente all’alluce amputato

Il quadro clinico che si può intuire da questi esami suggerisce quindi un’angiopatia centrale e periferica, probabilmente derivante dal diabete (“piede diabetico”), che abbia portato all’ischemia gangrenosa dell’alluce ed alla sua amputazione chirurgica.

Una soluzione molto brillante – nonché efficace – ed una esecuzione perfetta, anche nella protesi.

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ORTOPEDIA

Di Andrea Petta e Franca Napoli

FRATTURE

Abbiamo visto che la diagnostica delle fratture era già molto evoluta nell’Antico Egitto, con termini diagnostici già molto moderni. Ovviamente non potevano contare sulle attuali radiografie, ma l’uso di un termine onomatopeico per indicare la crepitazione ossea (il rumore percepibile muovendo una superficie ossea fratturata) ci suggerisce che fosse il sintomo principale – ed estremamente doloroso per il paziente! “anche se (il paziente) ne avrà grande paura” viene infatti menzionato nel Papiro Edwin Smith – utilizzato per diagnosticare una frattura.

E non era sicuramente un evento raro.

Studiando circa 6,000 corpi provenienti dalla regione di Assuan, Wood Jones trovò una percentuale molto alta di fratture – circa il 3% di tutte le mummie esaminate – soprattutto di radio ed ulna (31%), ma anche di clavicola (13%) e femore (10%). Elliot Smith, probabilmente il più grande esperto di mummie egizie del secolo scorso, attribuì questa elevatissima percentuale all’uso del bastone, sia in battaglia che nella vita quotidiana (!).

Sir Grafton Elliot Smith (1871–1937), il primo anatomista ad utilizzare tecniche radiografiche per studiare le mummie egizie. Sviluppò una sorta di venerazione per l’Antico Egitto, da cui (secondo la sua teoria dell’iperdiffusionismo) si sarebbero diffuse le principali innovazioni del mondo antico.

Straordinariamente, molte delle fratture riscontrate erano perfettamente saldate “tanto da distinguere a malapena le linee di frattura” (Nunn, 1995) grazie all’uso di tecniche di steccaggio che hanno poco da invidiare ai gessi moderni.

Fratture perfettamente ricomposte di omero, ulna, radio, femore, perone e tibia scoperte su mummie nubiane (sud della prima cataratta). Da: Jones FW. Some Lessons From Ancient Fractures. Br Med J. 1908 Aug 22;2(2486):455-8

Sempre il solito Elliot Smith ha analizzato i ritrovamenti in una tomba di Naga ed Deir, risalente alla V Dinastia, dove sono state ritrovate due mummie con fratture di radio, ulna e femore ancora steccate. Le stecche in corteccia erano sagomate e non piallate per mantenerle concave ed aderire perfettamente all’arto, legate strettamente con più strati di bende di lino (sovrapposte ed incrociate) con l’ultimo strato legato con un nodo piano, ottimo per tenere ben stretta la fasciatura e contemporaneamente facile da sciogliere.

Steccaggio di radio ed ulna, Naga ed Deir. Da notare la forma concava delle stecche per aderire meglio all’arto

Steccaggio del femore, Naga ed Deir. Da notare il bendaggio molto stretto con le bende sovrapposte perpendicolarmente ed il nodo piano di chiusura.

In questo caso, purtroppo, il paziente non sopravvisse all’incidente che evidentemente aveva avuto, ma Elliot Smith notò nei suoi scritti che “…i medici egizi avevano adottato tecniche che servivano mirabilmente al loro scopo…

SLOGATURE

Il lavoro dell’ortopedico non si limitava alle sole fratture.

Nel papiro Edwin Smith viene descritta la riduzione di una dislocazione della mandibola (“…trovi la sua bocca aperta e la sua bocca non si può chiudere…”) e la manovra è descritta in maniera talmente perfetta (“…posizionerai le tue dita sui rami della mandibola dentro la bocca, con i pollici sotto il suo mento, e spingerai la parte posteriore verso il basso fino a quando non tornerà nella sua posizione corretta.”) da sembrare uscita da un libro moderno, se non fosse che oggi si usano i pollici per fare più forza internamente..

La moderna manovra di riduzione della lussazione della mandibola. Rispetto al Papiro Edwin Smith sono invertire le posizioni di pollice e delle altre dita, ma la manovra è identica.

Dalla tomba di Ipwi (che abbiamo già incontrato nelle patologie oculari) ci è invece pervenuta un’immagine di quello che sembra la prima fase della manovra di Kocher per la riduzione della dislocazione della spalla (braccio ruotato verso l’esterno per allungare i muscoli pettorali prima di portare in avanti il gomito sul petto e ruotare l’avambraccio verso la spalla opposta per completare la riduzione).

Il rilievo cosiddetto “del catafalco” dalla tomba di Ipwi ed il particolare ingrandito con quella che sembra a tutti gli effetti essere una manovra di riduzione della lussazione della spalla. Notare la somiglianza con le prime due fasi della manovra di Kocher.

Nonostante le (ovvie) discussioni sul fatto che si tratti effettivamente di una manovra ortopedica, i moderni ortopedici egizi ne sono così certi da averne fatto il logo della loro società scientifica. Un collegamento diretto tra il passato ed il presente.

Il logo della società scientifica che raduna gli ortopedici egiziani
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GLI INGREDIENTI DELLA MEDICINA EGIZIA

Di Andrea Petta

ACACIA

«šnt» («scenet») o «šnḏt» (scenedet»)

L’acacia era un prezioso aiuto per i medici egizi. Le foglie macerate in acqua o birra venivano utilizzate per combattere i vermi, come rimedio per le gambe gonfie, per la preparazione di colliri, per il trattamento della psoriasi e come antidiarroico.

Noi l’abbiamo incontrata nel nostro “viaggio” specificatamente come cura per il tracoma, come antiemorroidario (sfruttandone le proprietà lenitive) e perfino come componente di un tampone anticoncezionale, sfruttandone il pH acido.

La resina dell’acacia era invece usata come “film” protettivo in caso di ustioni.

Da notare che l’acacia è utilizzata tuttora dalla medicina tradizionale anche nel trattamento del prolasso uterino e di quello rettale.

Il suo nome lo troviamo con due ortografie diverse (probabilmente per le note ragioni di praticità e spazio sui papiri), entrambe con il simbolo Gardiner M1, simboleggiante un albero, ad indicare che si sta parlando di una pianta.

ASPIRINA (SALICE/ACIDO SALICILICO)

«trt» («tjeret»)

Gli antichi egizi conoscevano l’aspirina?

Difficile da dire con certezza. Nel Papiro Ebers si fa riferimento ad un estratto di una parte sconosciuta del salice per “dare pane  nutrimento) al cuore”.

Non sappiamo però con sicurezza se lo scopo fosse effettivamente somministrare dei salicilati estratti dalla corteccia del salice, in particolare delle specie Salix purpurea e Salix fragilis che sono ricche di salicina, un glucoside ossidato ad acido salicilico direttamente nel corpo umano.

Il fatto però che il salice, o parti di esso, fosse indicato anche per la “debolezza dei sinu (=vasi)” e per le otiti la rende un’ipotesi affascinante.

BIRRA

henket

Dal momento che la birra, così diffusa nell’Antico Egitto fin dalla preistoria, era usata come parte del salario del lavoratore, il suo determinativo è una specifica giara usata soltanto per questa bevanda (Gardiner W22). La giara per la birra doveva contenere una quantità ben precisa di liquido (la “misura”) ed era controllata dai funzionari statali per evitare frodi.

Il suo consumo è attestato fin dall’Epoca Predinastica, ed il valore ad essa dato è evidenziato dalle centinaia di giare sepolta nella tomba del Re Scorpione.

Veniva spesso utilizzato come “vettore” per molti medicamenti

CIPOLLA

«ḥḏw» («hedju»)

La cipolla (Allium cepa) è uno dei vegetali più “antichi” di cui abbiamo traccia nella storia millenaria dell’Egitto faraonico, essendo già riportata nell’Antico Regno durante la V Dinastia.

Della cipolla i medici egizi sfruttavano le proprietà antibiotiche, diuretiche ed espettoranti. Il liquido ottenuto schiacciando i bulbi veniva usato anche come antispastico e per regolarizzare il flusso mestruale, un’indicazione ripresa pari pari da Ippocrate e tramandata per secoli.

Ricordiamo anche che veniva usata come “prova” della fertilità di una donna (vedi https://laciviltaegizia.org/…/fertilita-gravidanza-e…/).

Scritto con diverse grafie (questa è la più frequente), è possibile che il termine hedju possa indicare anche l’aglio nei papiri medici, in quanto il termine normale per l’aglio (“kheten”) non vi compare mai.

DATTERI (Phoenix dactylifera)

«bnr» («bener»)

I datteri, ossia le bacche della Phoenix dactylifera, sono tra gli alimenti più antichi conosciuti. Ricchi in potassio, vitamine e sali minerali, nonché con un alto contenuto di zuccheri, il “pane del deserto” era consumato fin dall’epoca predinastica in Egitto. Si usava la bacca fresca, quella disidratata, la farina che se ne ottiene, l’infuso in acqua o vino ed era ampiamente coltivata nei giardini delle case e dei templi egizi.

Da un punto di vista medico, rientra in moltissime prescrizioni – probabilmente più per il senso di benessere indotto dagli zuccheri assunti, visto che si tratta di una vera e propria panacea usata dai medici egizi.

Lo troviamo infatti usato fresco per i problemi urinari, come farina addensante negli sciroppi contro la tosse, per evitare la caduta dei capelli, come antiparassitario, come sostegno per il cuore affaticato, contro i blocchi intestinali, per favorire le contrazioni uterine durante il parto (sfruttando una sostanza simile all’ossitocina che riduceva anche l’emorragia dopo il parto) – ma anche, come abbiamo visto, come anticoncezionale applicato come tampone vaginale.

L’importanza dei datteri era tale che, secondo alcuni studiosi, il nome stesso deriverebbe da quello del Benu, l’uccello sacro a Ra, simbolo della rinascita in quanto guida dei defunti nell’oltretomba (si veda al riguardo: https://laciviltaegizia.org/2021/02/02/il-benu/). Per le bacche il determinativo usato è il Gardiner M30, che indica la loro caratteristica principale: “dolce”.

GIUGGIOLO (Ziziphus spina-christi)

«nbs» («nebes»)

Il giuggiolo “spina di Cristo” è noto nella cultura cristiana principalmente perché, secondo la tradizione, i suoi rami spinosi sarebbero stati usati per formare la corona di spine posta sulla testa di Gesù. Addirittura la tradizione identifica in una pianta precisa, tuttora in vita nella parte meridionale di Israele, la fonte originale di tali spine.

Nella cultura beduina e nubiana, dove si chiama sidr, i suoi frutti e l’estratto delle foglie sono tuttora usati come farmaci in caso di malessere e febbre.

I rami spinosi del giuggiolo

Di sicuro il giuggiolo era noto e ampiamente coltivato nell’Egitto faraonico, tanto che il pane di nebes era tra le offerte rituali per i defunti.

Il giuggiolo viene menzionato in ben 33 prescrizioni dei papiri medici, soprattutto utilizzando le foglie ma anche la polpa dei frutti o la sua corteccia. Nel Papiro Ebers e nel Papiro Hearst diventa il farmaco che “guarisce ogni male di cui un uomo possa soffrire…in particolare ogni gonfiore” (Ebers 536, Hearst 134), mentre il pane di nebes, macerato in acqua, veniva posto sulle ferite ed i traumi in generale.

La cosa straordinaria è che studi recenti, con i moderni strumenti di analisi, hanno dimostrato la presenza (soprattutto nelle foglie di giuggiolo) di diverse sostanze anti-infiammatorie ed anti-tumorali, individuando il fattore di trascrizione (ossia la proteina che legandosi al DNA stimola la produzione di fattori infiammatori) inibito dagli estratti di questa pianta.

Una volta ancora i medici egizi avevano individuato empiricamente dei principi attivi che sono “sopravvissuti” nella medicina tradizionale fino a noi.

MIELE

“bit”

Il miele d’api è probabilmente l’ingrediente più usato nelle prescrizioni egizie, sia applicato esternamente che nei rimedi presi per bocca. Poteva essere utilizzato come “veicolo” per altri principi attivi, sfruttando la sua dolcezza, oppure come principio attivo esso stesso.

Composto principalmente da glucosio e fruttosio, era il principale dolcificante in una società che non conosceva lo zucchero di canna o quello di barbabietole. Ma gli zuccheri componenti ne innalzano soprattutto l’effetto osmotico, rendendolo un potente battericida e fungicida.

Come abbiamo visto, veniva usato anche nelle ferite aperte proprio per questo motivo, un effetto accelerante della guarigione di ferite, ustioni ed ulcere riscoperto negli ultimi decenni e dimostrato in studi scientifici moderni.

Al simbolo Gardiner L2, quello dell’ape, veniva aggiunto il simbolo W22 (solitamente usato per la birra) per indicare che si sta parlando del loro “prodotto”, conservato in questi contenitori, solitamente da 450 ml (= 1 “henu”).

NINFEA

“sšn» («seshen»)

Il termine “seshen” può indicare indifferentemente la Nymphaea caerulea (ninfea azzurra o, impropriamente, loto blu), la Nymphaea lotos (ninfea bianca o, impropriamente, loto bianco) e la Nelumbo nucifera (il loto vero e proprio), anche se gli studiosi non sono concordi. Va sottolineato per l’ennesima volta, però, che fino all’invasione persiana l’Egitto faraonico conosceva SOLO il genere Nymphaea – quindi tutti i riferimenti al “loto” antecedenti al 525 BCE ed alla XXVII Dinastia sono in realtà riferimenti alla ninfea. La svista colossale è dovuta ad una certa ignoranza botanica dei primi archeologi inglesi (“Sembra come se i botanici da un lato abbiano ignorato gli archeologi, e questi a loro volta non apprezzino le distinzioni botaniche”, Spanton 1917)

In campo medico, il Papiro Ebers comprende l’utilizzo del “khau” di ninfea in diverse preparazioni, lasciato in infusione con vino o birra; oggi sappiamo che solo il fiore ed il rizoma contengono ben quattro alcaloidi narcotici, per cui si tende ad interpretare “khau” come il fiore e a considerare il vino “aromatizzato” con i fiori di ninfea come una droga allucinogena.

L’utilizzo era prescritto per “un’ostruzione del lato destro del ventre” (Ebers 209) o per il “trattamento del fegato” in caso di ittero (Ebers 479). Il Papiro Chester Beatty VI lo prescrive anche come clistere.

Una curiosità: il termine venne mantenuto anche nella lingua copta (šōšen) ed in quella ebraica (šōšannā) arrivando fino a noi nel nome Susanna.

TOPO

«pnw» («penu»)

E cosa ci fanno i topi tra gli ingredienti delle prescrizioni egizie?

Il Papiro Hearst li cita come rimedio per prevenire l’ingrigire dei capelli (Hearst 149) – vedi https://laciviltaegizia.org/…/la-cura-del-corpo-i-capelli/ – cuocendoli nell’olio, anche se non specifica bene il modo di applicarli sullo scalpo del malcapitato.

Ma se pensate che sia una cosa raccapricciante e legata all’ignoranza dei medici egizi, sappiate che i topi ricorreranno per millenni nei “rimedi” medici almeno fino al 1747, quando John Wesley, prete anglicano fondatore del metodismo, si lanciò in un’opera temeraria intitolata “Primitive physic”, a cavallo tra scienza (poca) e teologia (tanta), in cui suggerì come rimedio per la tosse dei bambini di “Acchiappare un topo, ucciderlo, metterlo nel forno e cuocerlo finché non sia ridotto a cenere; dopodiché toglierlo dal forno e mettere la cenere in una scodella di latte da far bere al bambino”.

Il volume fu un vero bestseller del XVIII secolo in Inghilterra, tanto che lo trovate ancora su Amazon (https://www.amazon.com/Primitive-Physic…/dp/1592442587) se volete sperimentare i suoi rimedi naturali…

VINO

“irp”

Il vino è comparso dopo nelle abitudini alimentari egizie, probabilmente all’inizio del periodo dinastico con gli scambi commerciali con l’attuale Palestina. Prodotto nella zona del Delta, rimase costoso per le classi meno abbienti. L’unità di misura era lo “hin” corrispondente a circa mezzo litro. Il determinativo in questo caso è una doppia giara, Gardiner W21.

Anche il vino venne utilizzato come liquido per preparare dei medicamenti, riservati ovviamente alle persone più facoltose

IN AGGIORNAMENTO

Fonti ulteriori, oltre alla bibliografia principale:

  • Allen, James P. Middle Egyptian: An introduction to the language and culture of hieroglyphs. Cambridge University Press, 2000
  • Secco, Livio. “Dizionario egizio-italiano, italiano-egizio.” Kemet, 2016.
  • Gardiner, Alan H. “Egyptian grammar. Being an intr. to the study of hieroglyphs.” (1969).
  • Gardiner, Alan H. “The House of Life.” The Journal of Egyptian Archaeology, vol. 24, no. 2, 1938, pp. 157–79.
E' un male contro cui lotterò

QUELLO CHE NON FU

Di Andrea Petta e Franca Napoli

Abbiamo già visto come uno dei pericoli peggiori nello studiare la medicina degli Antichi Egizi sia farsi “contaminare” dalle conoscenze moderne. Ciò che diamo per scontato non lo era affatto più di 4,000 anni fa, quando vennero presumibilmente scritti i papiri medici.

Anche in ambito chirurgico ci sono stati “voli pindarici” mai supportati da prove concrete – come nel caso degli oppiacei, che giunsero sì in Egitto, ma in epoca più tarda e mai usati dai medici – come abbiamo visto. Vediamone alcuni.

CHIRURGIA PLASTICA

Per un certo periodo si pensò che i medici egizi fossero in grado di intervenire con operazioni di chirurgia plastica mediante un “trapianto di pelle”.

La mummia di un’anziana sacerdotessa di Amon vissuta durante la XXI Dinastia, indicata dal Prof. Elliott Smith come “Nesi-Tet-Kab-Taris”, presentava diverse piaghe da decubito su spalle, schiena e natiche coperte da due quadrati di pelle bovina finissima – probabilmente di gazzella – cuciti alla pelle sottostante.

La mummia di “Nesi-Tet-Kab-Taris” disegnata da Elliott Smith. Si vedono chiaramente le due applicazioni di pelle di gazzella tra le spalle e sulle natiche per coprire presumibilmente le piaghe da decubito che afflissero questa anziana signora in vita.

Elliott Smith le descrisse nel 1904 come applicazioni post-imbalsamazione per mantenere l’integrità del corpo, ma in seguito Ruffer nel 1912 ed altri studiosi ipotizzarono che fosse un intervento di chirurgia plastica per alleviare le piaghe da decubito. Purtroppo ai tempi gli studiosi erano più interessati alle lesioni osteoarticolari e la mummia è stata smembrata per studiarne tali lesioni, ma è al limite ipotizzabile che la pelle di gazzella fosse una sorta di “cuscino” in vita e sia stata cucita alla pelle sottostante solo nel processo di mummificazione.

Quel che rimane di Nesi-Tet-Kab-Taris, la donna con la pelle di gazzella a coprire le piaghe da decubito. Soffriva di un’artrosi invalidante ad entrambe le anche e deve avere sofferto moltissimo nell’ultimo periodo della sua vita – ma la sua pelle non fu ricostruita dai chirurghi egizi.

TRACHEOTOMIA

In due rilievi trovati da Flinders Petrie ad Abydos e da Saad a Saqqara, entrambi risalenti alla I Dinastia, sembra essere rappresentata – con una certa fantasia – una tracheotomia effettuata su un paziente seduto a terra con le mani dietro la schiena.

Il rilievo pubblicato da Flinders Petrie e proveniente dalla tomba di Aha (I Dinastia), interpretato erroneamente negli anni ’50 come una tracheotomia (da Petrie, William Matthew Flinders, The royal tombs of the first dynasty. Vol. 2. 1901”).
La seconda “tracheotomia” ritrovata a Saqqara (da Emery, Walter B., and Zakī Jūsuf Saʻd. The tomb of Hemaka. Government Press, Bulâq, 1938).

A prescindere dal fatto che la posizione sia estremamente inusuale per una tracheotomia e che tale procedura non sia riportata in alcun papiro medico, vista la somiglianza della posizione del “paziente” con il simbolo Gardiner A13 (“prigioniero”), è stata proposta la teoria che si tratti di un sacrificio umano (reale o simulato).

Il simbolo Gardiner A13, il prigioniero inginocchiato con le braccia legate dietro le spalle

Ricordiamo che la pratica dei sacrifici umani terminò nel periodo Protodinastico – per chi volesse approfondire può trovare un dettagliato articolo di Giuseppe Esposito QUI – ed infatti non ci sono pervenuti finora altri esempi di “tracheotomia”.

In alternativa, alcuni studiosi ritengono che si tratti invece di un rituale magico per fornire al Faraone il “respiro della vita” nella cerimonia del giubileo “heb-sed” – ipotesi che però contrasta con la posizione delle braccia della persona raffigurata.

TRUCCHI DA IMBALSAMATORE

Da menzionare infine tutti i tentativi da parte degli imbalsamatori di “ricostruire” i corpi a loro affidati per renderli simili alle persone in vita – e che a volte sono stati scambiati per interventi in vita. Oltre ad alcune protesi dentarie (ma non tutte!) già viste, sono state trovate mummie a cui erano state aggiunte ossa lunghe alle gambe (Leiden, ma non era un innesto osseo, dovevano adattare la mummia al sarcofago!).

Da molto tempo si discute invece se gli antichi egizi usassero occhi artificiali per sostituire esteticamente quelli persi in battaglia o per una malattia, senza risultati conclusivi. Se è vero che il mito di Horus – che perde l’occhio sinistro nella battaglia con Seth, occhio magicamente ripristinato da Thot – farebbe immaginare che fosse possibile, non ci sono pervenute prove tangibili che fosse effettivamente stato realizzato se non come riempimento delle cavità orbitali delle mummie.

La mummia della regina Nodjmet (XXI Dinastia) con gli occhi artificiali applicati post mortem per rendere il viso il più possibile somigliante alla regina in vita

Da notare che l’occhio artificiale usato in vita più antico finora ritrovato appartiene ad una principessa mesopotamica e datato intorno al 2,800 BCE; quindi, sarebbe stato presumibilmente fattibile anche per i medici egizi. Dal V secolo BCE furono invece introdotti “occhi” in argilla dipinta, ma da indossare solo sopra l’orbita vuota.

Il primo occhio artificiale indossato in vita, ritrovato sul corpo di una principessa mesopotamica vissuta intorno al 2,800 BCE

Alcuni occhi in quarzo applicati alle statue (come quelli dello “Scriba seduto” del Louvre) e lavorati molto finemente – quasi delle lenti multifocali – hanno fatto pensare che fosse possibile nell’Egitto faraonico produrre tali lenti come ausilio esterno alla vista, ma sempre senza reperti giunti fino a noi.

L’effetto dello “sguardo che segue l’osservatore” dello scriba seduto conservato al Louvre, uno degli esempi più famosi di lavorazione del quarzo come lente dell’Antico Egitto.