Ma anche Ramses II aveva una mamma, la Regina Madre Tuia fu per oltre vent’anni, con la Grande Sposa Reale Nefertari, la donna più onorata da Ramses.
Tuia non si mise molto in evidenza nella vita pubblica e politica durante il regno del marito Seti I e compare di rado sui suoi monumenti. Ma Ramses II era devoto a sua madre e con la sua ascesa al trono le attribuì considerevoli onori. Fece rappresentare la sua mamma sulla facciata del tempio maggiore di Abu Simbel con le stesse dimensioni di altre donne della famiglia reale e dei suoi figli. Ramses fece anche raffigurare la madre su di una sua statua colossale all’interno del Ramesseum, sulle pareti del tempio e fece costruire una cappella a lei dedicata assimilata alla dea Hathor.
Ramses II fece inoltre erigere una grande statua per sua madre, e, come era abituato a fare, riutilizzò una statua fatta fare da Amenhotep III per la propria Grande Sposa Reale Tyi. (L’usurpazione di opere del passato era la normalità durante il lungo regno di Ramses II, e non solo). La statua venne posta nel Ramesseum, il “Tempio di Milioni di anni” di Ramses. Fu l’imperatore romano Caligola, nel 40 d.C. circa a farla traslare a Roma con altre statue che fece posizionare negli “Horti Sallustiani” per decorare il proprio “Padiglione di famiglia”. Riscoperta nel 1714 negli Horti venne trasferita nei Musei Vaticani dove si trova tutt’ora.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato che una tale devozione per la propria madre fosse una cosa fuori dal normale per un faraone e sostengono che il sovrano lo fece a scopi politici. Siccome Tuia non era di stirpe regale ma figlia di Raia, luogotenente della guardia reale, molti sostengono che finché fu in vita Seti I lei non fu mai la Grande Sposa Reale, titolo che gli venne attribuito in seguito dallo stesso Ramses II. Questo sarebbe il meno, anche altri faraoni non ebbero madri di sangue reale, Thutmosi II e Thutmosi III erano figli di concubine o spose secondarie i cui natali sono sconosciuti. Pertanto Ramses II non aveva nulla di cui temere, ma come vi ho già detto Ramses era Ramses, il Grande, poteva lasciare che si insinuassero dubbi sulle sue origini? No di certo. Da persona istruita qual era conosceva bene i precedenti miti propagandistici di Hatshepsut nonché di Amenhotep III per cui si curò di crearsi il mito di una propria nascita divina, egli era Ramses figlio di Amon stesso.
Il mito è fissato sulle pareti di una cappella, dedicata alla regina madre Tuia, all’interno del Ramesseum, la “Storia della nascita miracolosa di Ramses II” è rappresentata in un ciclo iconografico (che ricalca i precedenti della XVIII dinastia), Tuia compare seduta sul suo letto di fronte al dio Amon, dal testo, alquanto danneggiato, si apprende che Tuia viene definita come:
<<…….La Madre del Dio, Mut…….La Madre del Re, Tuia……>>. Il Dio Amon regge con una mano il simbolo della vita, l’ankh, e con l’altra mano tocca la donna, <<……..Il suo aroma era quello della terra degli dei e il suo profumo quello di Punt…….>>.
Lascio a voi intendere cosa poi successe…..da qui nacque Ramses. A questo punto Ramses II aveva pieno diritto di affermare la legalità della sua successione al trono, non solo ma pure di essere lui stesso un semidio. Per non lasciare nulla al caso Ramses fece rappresentare la divinità dei suoi natali anche in un rilievo a Karnak dove è raffigurato lui, fanciullo, che viene allattato da una dea. Credete che basti? No, sia a Karnak ancora, che nel tempio funerario del padre Seti I ad Abydos si vede il dio Khnum, il vasaio degli dei, intento a formare sul suo tornio il corpo dello stesso Ramses.
Ad Abu Simbel ed a Karnak è stato rinvenuto un lungo testo, risalente al trentacinquesimo anno di regno di Ramses II, intitolato “La benedizione di Ptah a Ramses II” dove il dio Ptah viene indicato come padre celeste del sovrano:
<<……. Parole pronunciate da Ptah-Tatenen, quello dalle lunghe piume e dalle corna aguzze, che generò gli dei: “Io sono tuo padre, che ti generai come un dio per agire come Re dell’Alto e Basso Egitto sul mio seggio. Io decreto per te le terre che ho creato, i loro signori ti tributeranno le loro entrate. Essi vengono per recarti il loro tributo, in virtù della grandezza della tua fama”…….>>.
All’epoca della firma del trattato egizio-ittita, dopo la battaglia di Qadesh, Tuia, sessantenne, era ancora in vita, morì l’anno successivo, il ventiduesimo anno di regno di Ramses II. Questo è quanto si deduce da un’iscrizione che compare su di un’anfora trovata nella tomba della Regina Madre dove compare:
<<…….Anno 22. vino……del Grande Vigneto di A……Re dell’Alto e Basso Egitto, Usermaatre Setepenre, L.P.H., nel Recinto di Amon……>>.
Figuriamoci se Ramses non aveva già provveduto da tempo a preparare la tomba per la madre nella Valle della Regine, identificata come QV80. La tomba della regina Tuia si compone di tre sale ipogee che terminano in un ambiente ipostilo, finemente decorate, intagliate nella roccia. I suoi sarcofagi lignei furono riposti in un prezioso sarcofago in granito rosa. Le pareti erano finemente dipinte con scene che celebravano la gloria del regno della Regina Madre, oggi si trovano in cattivo stato non solo per gli anni passati ma perché la tomba venne più volte riutilizzata per ospitare sepolture durante il Terzo Periodo Intermedio e, con tutta probabilità, anche nel periodo tolemaico e Copto. All’interno della tomba sono stati rinvenuti alcuni oggetti di pregevole fattura, oltre al coperchio di un vaso canopo e frammenti di sarcofago e di ushabti.
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Fonti e bibliografia:
Franco Cimmino, “Ramesse II il Grande”, Milano, Tascabili Bompiani, 2000,
Kenneth Kitchen, “Il Faraone trionfante. Ramses II e il suo tempo”, Bari, Laterza, 1994,
Poteva astenersi il Grande Ramses II dal fabbricare un tempio a Luxor? Magari costruirlo da zero no, gli bastava ampliare quello esistente, ampliarlo si, ma che mettesse in luce la sua grandezza.
Il Tempio di Luxor, in egiziano “Ipet-Resut” (Harem meridionale), dedicato ad Amon nella forma del dio itifallico Min, per tutto il Nuovo Regno fu il centro della “Grande Festa di Opet”, rito della fertilità durante il quale si trasferiva in processione la statua di Amon lungo il Nilo dal vicino Grande Tempio di Amon “Ipet-Sut”.
Il tempio di Luxor, subì un massiccio rifacimento durante il regno di Amenhotep III “il Magnifico”, che fece erigere due piloni, gran parte del colonnato che si trova dietro alla nuova entrata, dopo aver fatto smantellare il quarto pilone del Tempio di Amon a Karnak fece costruire un nuovo pilone, il terzo. Al centro del nuovo cortile, anche detto “Cortile dell’obelisco” o “Cortile di Amanhotep III”, che si venne a creare fece erigere due file di colonne con i capitelli a forma di papiro. Le decorazioni che spiccavano all’interno del cortile rappresentavano le barche sacre degli dei Amon, Mut e Khonsu.
Al Tempio di Luxor sia Horemhab, che nel Tempio volle essere incoronato, che Tutankhamon che Ay fecero erigere statue e colonne ma fu con Ramses II che si verificò l’espansione maggiore. Con il carattere che si ritrovava questo faraone non si accontentò di ordinare la costruzione ma supervisionò a tutte le fasi dei lavori coi quali costruì a nuovo un grande pilone, peraltro già previsto da suo padre Seti I, preceduto da un cortile nel quale fece collocare alcuni obelischi e sei enormi statue alte sei metri e mezzo, quattro delle quali (oggi ne sono rimaste solo due), erano in granito nero dove compare assiso con sul capo la doppia corona dell’Alto e del Basso Egitto, le altre due sono in granito rosso e lo rappresentano stante.
Il cortile interno comprende 74 colonne papiriformi alle quali si inframmezzano alcune statue di Ramses II (ed anche qui prendiamo atto del suo vizio, anche se non solo suo), alcune di queste statue sono state usurpate ad Amenhotep III (bastò cambiargli il nome), inoltre due enormi statue del sovrano fanno bella mostra di se all’inizio del colonnato di Amenhotep III. Ed anche qui non possiamo fare a meno di apprezzare quanto Ramses amasse le sue “Grandi Spose Reali”, ne compaiono in effige alcune di esse, la bella Nefertari per prima, ma anche Bintanath e Meritamon mentre la sfuggente Isinofret non compare.
Ricordiamo per chi non lo sapesse che uno degli obelischi di Ramses II oggi si staglia in Place de la Concorde nel centro di Parigi donato alla Francia da Mehmet Ali Pasha, Wali e Chedivè dell’Egitto nel 1829; in realtà il Chedivè li donò tutti e due ma l’altro non fu mai rimosso e si trova tuttora nella sua posizione originaria a Luxor.
Le pareti del Tempio sono interamente ricoperte dalla rappresentazione, ripetuta per ben tre volte, della guerra contro gli ittiti esaltando come una sua vittoria la battaglia di Qadesh. Ma, devoto ad Amon-Ra, il sovrano non dimentica di farsi raffigurare nell’atto di adorare il dio in compagnia della sua sposa Nefertari. La Regina è intenta a suonare il sistro mentre pronuncia queste parole:
<< Suonando i sistri davanti al tuo bel viso, io canto d’amore (…….) Suono i sistri davanti al tuo bel viso; vengo al tuo cospetto per la tua bontà; possa tu proteggere il figlio tuo che ami e del quale sei soddisfatto, il Signore delle Due Terre, Usermaatra-Setepenra (Ramses II), che viva eternamente come Ra >>.
Che Ramses II possedesse una personale cognizione teologica appresa consultando gli archivi del Tempio e basando su di essa i propri interventi architettonici ce lo conferma un’iscrizione che ci è pervenuta in modo frammentario:
<<………questo buon dio (Ramses II) egli è scriba, esperto nel sapere e nella conoscenza come Thot……..ha fatto ricerche nella biblioteca e aperto e letto gli scritti della Casa della Vita. Così ha imparato i segreti celesti e i misteri terrestri……..ha scoperto che Tebe, l’Occhio di Ra, è la Collina Primigenia che sorse in principio……. Il re ha parlato, fornendo istruzioni per procedere con i lavori………>>.
Sappiamo che vennero fatti eseguire lavori di restauro da Alessandro Magno e dall’imperatore romano Tiberio. Durante l’occupazione romana parte dell’antico Tempio di Luxor divenne un luogo religioso; nel 395 d.C. i cristiani lo convertirono in chiesa, tale rimase fino al 640 d.C. quando il tempio venne poi abbandonato finché, nel 1286 d.C. gli arabi, che allora occupavano l’Egitto, decisero la costruzione dell’attuale Moschea di Abu el-Hajjaj all’interno del Grande Cortile di Ramses II. Si tratta di una costruzione in stile ayyubide che fungeva da mausoleo di Abu al-Hajjaj Yusuf, uno Shaykh Sufi nato a Bagdad ma vissuto per la maggior parte della sua vita a Luxor in Egitto.
Questa sorse sicuramente sulle rovine di una precedente costruzione sempre di carattere religioso in quanto sembra che il minareto della moschea sia precedente, forse risalente all’XI secolo. La moschea fu ricostruita diverse volte, l’ultima nel XIX secolo. Oggi, nei pressi della moschea si aggiunge un villaggio arabo.
Non vorrei tediarvi ma di Ramses II c’è da dire molto ed anche di più. Mi piace descrivere il suo regno perché per me rappresenta, anche se in parte piuttosto simbolicamente, più d’ogni altro, quello che era il Nuovo Regno del grande Egitto. Lui ha fatto di tutto per farsi ricordare, e chi siamo noi per tradire questa sua aspettativa? Era bello, forte ma presuntuoso, prepotente ma non cattivo, esibizionista, ma sono certo che in parte lo faceva anche per la gloria delle Due Terre. Il sentimento che ha saputo trasmetterci per la sua Grande Sposa Reale è sincero, amava la sua sposa e ce lo ha trasmesso nel modo migliore per quei tempi.
Ora basta con le lodi e torniamo alle sue attività di costruttore nelle quali eccelleva. Restiamo ancora nell’immenso complesso templare di Karnak. Di Ramses II dobbiamo dire che non trascurò i suoi antenati, fece ultimare la grande sala ipostila, iniziata da Amenhotep II ed alla quale ci lavorarono pure Horemheb e suo padre Seti I.
Fece eseguire grandi decorazioni con rilievi celebrativi ed ordinò la creazione di un lago sacro che resiste ancora ai giorni nostri. Scopo del lago era quello di rappresentare simbolicamente l’origine di tutte le forme di vita. Nel lago si purificavano i sacerdoti che celebravano i culti del Sole e di Osiride.
Certo, tale ostentazione di grandezza indusse i posteri ad interpretazioni arbitrarie e spesso non coerenti con la realtà. Nel I secolo d.C. Publio Cornelio Tacito, storico oratore e senatore romano raccontando nei suoi “Annali” (II, 60), la visita che fece a Tebe Germanico Giulio Cesare, più noto semplicemente come Germanico, politico e militare della famiglia Giulio-Claudia, parlando del tempio di Karnak, descrisse con particolare precisione le varie imprese militari che avrebbe compiuto Ramses II. Imprese del tutto leggendarie ed inverosimili perché al faraone venivano attribuite la conquista della Persia, della Scizia oltre a varie altre terre asiatiche. Scrisse Cornelio Tacito:
<< Germanico……..visitò in seguito le imponenti rovine dell’antica Tebe. Su quei monumenti colossali si conservavano ancora iscrizioni in caratteri egizi…….. uno dei più anziani sacerdoti, invitato a tradurre la lingua dei suoi padri, riferiva……….>>.
Il sacerdote raccontò che a Karnak alloggiavano “settecentomila uomini atti alle armi” coi quali Ramses II avrebbe conquistato la Libia, l’Etiopia, la Media, la Persia, la Battriana, la Scizia, avrebbe pure conquistato la Siria, l’Armenia e la Cappadocia arrivando, da un lato fino al mare di Bitinia e dall’altro fino al mare di Licia. Il racconto continua affermando:
<<………..Vi si leggevano anche i tributi imposti ai vari popoli, la misura, in peso, d’oro e d’argento, il numero di armi e cavalli, le offerte votive ai templi, l’avorio e i profumi e le quantità di frumento e di ogni altro bene necessario alla vita che ogni popolo doveva pagare: tributi non meno grandiosi di quanto oggi impongono la forza dei Parti o la potenza di Roma……….>>.
Attribuzioni del tutto arbitrarie ed inverosimili, ma si sa che il culto di un grande porta ad ingigantirne le gesta.
Anche ad Abydos Ramses il Grande volle comparire pur se si accontentò di farlo in forma minore di suo padre, Seti I che costruì un nuovo tempio a sud della città di Abydos per onorare i sovrani delle precedenti dinastie, ancora oggi leggiamo i nesut byti (prenomen) di 76 sovrani dell’Egitto nella famosa Lista di Abydos.
Il tempio che si fece costruire Ramses II, dedicato a se stesso e ad Osiride, è più piccolo di quello del padre e si trova ad alcune centinaia di metri, le sue mura in pietra sono alte all’incirca due metri, ma nonostante il suo stato di conservazione oggi non sia dei migliori, in origine dovette rappresentare una delle architetture più raffinate e preziose dell’epoca ramesside.
I rilievi, probabilmente opera degli stessi artisti che lavoravano per Seti I, dimostrano tutta la qualità straordinaria dell’opera, era impreziosito da decorazioni, di cui rimangono soltanto più le parti inferiori, che riportano fatti storici ed il Poema di Pentaur di cui abbiamo già parlato. Anch’egli fece compilare una lista di sovrani simile a quella di Seti I, i pochi frammenti rimasti furono asportati e venduti al British Museum. Si riscontrano inoltre tracce di portali in granito rosa e nero, pilastri di arenaria oltre ad una piccola, ma ricca, cappella in alabastro.
Il Tempio era accessibile attraverso due piloni che davano su altrettanti cortili dotati di peristili. Un portale in granito rosa, attraverso il primo pilone ed al relativo cortile, conduceva ad un secondo cortile le cui decorazioni rappresentavano scene di nemici vinti ed i tributi versati, questo era contornato da una serie di pilastri dove il sovrano compariva in forma osiriaca, tutti mancano della parte superiore.
Sul lato verso meridione a sinistra si trovavano due cappelle, una dedicata a Seti I l’altra agli antenati divinizzati; anche a destra due cappelle erano dedicate una alle divinità dell’Enneade, l’altra a Ramses-Osiride. La prima sala ipostila, la “Sala delle Apparizioni”, denota chiaramente che ad erigerla fu Seti I quando Ramses era ancora reggente, è decorata con rappresentazioni di divinità nilotiche fra le quali compare Ramses che adora Osiride e poi mentre viene incoronato.
Nella seconda sala ipostila si trovano due cappelle dedicate una alle divinità di Tebe e l’altra a quelle di Abydos, sono visibili due rare immagini; quella della dea Heket, “Signora di Abydos” e la sola immagine conosciuta di Anubi, “Signore della Sacra Terra” in forma completamente umana. Al centro, una cappella in alabastro, dedicata ad Osiride, conteneva un gruppo statuario in granito grigio dove erano rappresentati Osiride, Iside, Horus, Seti I e Ramses. Forse pensavate che almeno qui non comparissero rilievi che celebravano la “vittoria” di Ramses II a Qadesh? Sbagliavate, Ci sono!
Fonti e bibliografia:
Silvio Curto, “L’arte militare presso gli antichi egizi”, Torino, Pozzo Gros Monti S.p.A, 1973
Franco Cimmino, “Ramesse II il Grande”, Milano, Tascabili Bompiani, 2000,
Sergio Pernigotti, “L’Egitto di Ramesse II tra guerra e pace”, Brescia, Paideia Editrice, 2010
Kenneth Kitchen, “Il Faraone trionfante. Ramses II e il suo tempo”, Bari, Laterza, 1994,
Ad un certo punto, nel quinto anno di regno, Ramses II decise la costruzione di una nuova capitale. Le ragioni per cui lo fece non sono del tutto chiare, alcuni ritengono che lo fece per portare la sua residenza più vicino possibile al confine con la terra di Canaan per essere pronto in caso di pericolo di invasioni da parte delle popolazioni asiatiche.
Scelse il sito di Avaris, ex capitale degli Hyksos, e chiamò la nuova città Pi-Ramses Aa-Nakhtu “Dimora di Ramses, Grande di Vittorie”. Forse, in parte, la ragione fu anche un’altra, in questo modo si allontanava dalle ingerenze e dal potere del clero di Amon di Tebe.
A Pi-Ramses il sovrano fissò la residenza reale anche se si può dire che fu un sovrano “itinerante”, nel senso che si spostò spesso attraverso l’Egitto di palazzo in palazzo particolarmente nei primi anni di regno durante i quali attraversò tutto l’Egitto per far visita a tutte le regioni delle Due Terre. Un papiro dell’epoca cita per l’appunto:
<<…….Sua Maestà in persona ha costruito una nuova residenza ufficiale, il cui nome è “Grande di Vittorie” (Aa-Nakhtu) che giace tra Siria ed Egitto, ed è ricolma di cibo e provviste. Segue il modello di Tebe dell’Alto Egitto e la sua durata è come quella di Menfi. Il Sole sorge nel suo orizzonte e vi si installa. Tutti hanno lasciato la propria città per andare ad abitare nei suoi dintorni………>>.
A questo punto fermiamoci un attimo proprio per parlare della nuova capitale di Ramses II. In Esodo (1:8-10) la Bibbia racconta che:
<<…….A suo tempo sorse sull’Egitto un nuovo re che non aveva conosciuto Giuseppe……..>>
Secondo alcuni questo re sarebbe proprio Ramses anche se la Bibbia non fornisce il nome di alcun re, né alcuna altra informazione che possa permetterci di collocare la vicenda in un qualsiasi periodo della storia egizia. Ramses II sarebbe dunque il “Faraone dell’oppressione” che avrebbe ridotto gli ebrei in schiavitù per costruire la sua capitale:
<<……..posero dunque su di loro capi di lavori forzati allo scopo di opprimerli con i loro pesi; ed edificarono città come luoghi da magazzini per Faraone, cioè Pitom e Raamses…….>> (Es. 1:11).
Se quindi Ramses II fu il “Faraone dell’oppressione” il “Faraone dell’Esodo” non può essere altri che suo figlio, Merenptah che regnò dopo di lui. Quando parleremo del figlio di Ramses avremo modo di scoprire che, proprio dalla “Stele di Merenptah” o “Stele d’Israele”, la cosa non sia affatto possibile. Non intendo quì riproporre la questione se gli ebrei abbiano mai vissuto nell’antico Egitto come schiavi nè se si è mai verificato un Esodo, ne abbiamo trattato a sufficienza. In quanto a considerare gli ebrei come schiavi andrei cauto, è possibile che alcuni ebrei abbiano lavorato alla costruzione di Pi-Ramses, ma non certo come schiavi, tutti coloro che lavorarono per il faraone erano trattati bene e remunerati. Lo testimonia un proclama giunto fino a noi, riportato nel suo libro dall’egittologo britannico Kenneth A. Kitchen, nel quale Ramses II incoraggia gli operai e i capisquadra (non schiavi) dell’immenso cantiere della città:
<<……..O voi operai scelti, uomini valenti di provata abilità…….buoni compagni, instancabili e vigili sul lavoro……..Provviste abbondanti sono davanti e voi……le razioni per voi sono più pesanti del lavoro, nel mio desiderio di nutrirvi e di sostentarvi!……..Ho riempito per voi i magazzini con ogni cosa, pane, carne, dolci per sostentarvi; sandali, abiti, unguento sufficiente per ungere le vostre teste……..Nessuno di voi deve passare la notte gemendo per la povertà……..Ho destinato molta gente a rifornirvi…….un vasaio per fabbricare vasi ove raffreddare l’acqua per voi nel calore estivo………>>.
Non credo che questa sia la schiavitù di cui parla la Bibbia.
Pi-Ramses si trovava in una zona prospera presso uno dei numerosi rami del grande Delta, qui sorgevano campi rigogliosi e produttivi e i pesci abbondavano nelle acque del Nilo. Subito la città venne popolata, giunsero anche genti esterne alla valle del Nilo, da Canaan, dalla Libia e da Amurru.
Oggi Pi-Ramses non esiste più, ma gli studiosi ritengono che si trovasse presso l’odierno villaggio di Qantir dove vennero scoperti resti di manufatti che riportano i nomi di Seti e Ramses.
Dagli anni settanta del novecento una equipe di archeologi austriaci sta lavorando per cercare l’immenso perimetro della capitale di Ramses II. Sono venute alla luce le fondamenta di un tempio enorme oltre ad una necropoli ed i resti di diverse abitazioni. Gli scavi hanno portato alla luce i resti di un enorme edificio di circa 17.000 metri quadrati, che si pensa fosse servito come stallaggio e dove probabilmente veniva conservato il carro del sovrano e le armi dei suoi soldati.
La città di Pi-Ramses dovette avere una storia breve, l’ubicazione molto decentrata tornava utile per sorvegliare i confini ma per le questioni amministrative e la gestione del territorio non era certamente indicata. La città durante la XX dinastia iniziò a perdere la sua importanza e poco più di un secolo dalla morte di Ramses II si era quasi completamente spogliata, i faraoni della XXI dinastia avevano spostarono la capitale a Djanet (Tanis) riutilizzando il materiale preso da Pi-Ramses, spogliando e demolendo gli edifici per decorare ed arricchire la nuova capitale.
Ma la caduta di Pi-Ramses non fu dovuta solo alla volontà degli uomini, intorno al 1060 il ramo pelusiaco del Nilo iniziò a disseccarsi in favore di un nuovo ramo situato più a occidente privando così la città della principale fonte di acqua. Tutto venne trasferito a Tanis, templi, obelischi, stele, statue e sfingi, obelischi e sculture superiori alle 200 tonnellate furono tagliati e riassemblati nella nuova capitale.
Ramses II, che aveva nominato un’epoca, non ebbe modo di vedere questo “scempio”, lui non c’era più ma era finita anche la sua “epoca ramesside”.
Fonti e bibliografia:
Silvio Curto, “L’arte militare presso gli antichi egizi”, Torino, Pozzo Gros Monti S.p.A, 1973
Franco Cimmino, “Ramesse II il Grande”, Milano, Tascabili Bompiani, 2000,
Sergio Pernigotti, “L’Egitto di Ramesse II tra guerra e pace”, Brescia, Paideia Editrice, 2010
Kenneth Kitchen, “Il Faraone trionfante. Ramses II e il suo tempo”, Bari, Laterza, 1994,
Secondo quanto ci è dato a sapere Ramses II non era solo un guerriero ma anche un uomo che amava tanto la sua Grande Sposa Reale Nefertari. La regina sfoggiava una bellezza imperdibile tanto da essere considerata la Mona Lisa dell’antico Egitto grazie al suo viso che esprime serenità.
Ramses ne era talmente innamorato che glielo dimostrò facendogli costruire un tempio per lei poco lontano dal suo e nella raffinatezza della tomba a lei dedicata nella Queen Valley, la QV66.
Parliamo di lei, Nefertari Meritmut, la Grande Sposa Reale di Ramses II “il Grande”. Grande lo fu pure lei, come già scritto in precedenza, Nefertari è una delle regine meglio conosciute dell’antico Egitto, sicuramente una delle più potenti, la sua influenza è comparabile a quella di Ahmose Nefertari, Hatshepsut, Tiy, Nefertiti e Cleopatra VII anche se non ha mai governato in modo autonomo.
Ciò che la distingueva in modo particolare era l’importanza e l’autorità che sapeva dimostrare non sentendosi mai nell’ombra del marito del quale godeva della più ampia fiducia. Doveva la sua autorevolezza all’educazione ricevuta fin da bambina, frequentò gli scribi e da essi ricevette un’istruzione eccezionale: sapeva leggere e scrivere, cosa rara per l’epoca.
Nefertari non fu mai la “grande donna” che sta dietro un “grande uomo”, lei fu una “Grande Donna” che stava al fianco del suo “Grande Uomo”. Seppe stare sempre con onore e competenza al fianco del faraone grazie anche alla sua abilità diplomatica che gli permetteva di mantenere una corrispondenza con gli altri sovrani del suo tempo.
I suoi titoli non si contano, era: “Grande di lodi”, “Signora di grazia”, “Grande Sposa del re, sua amata”, “Signora delle due Terre”, “Signora di tutte le terre”, “Sposa del Forte Toro”, “Sposa del Dio”, “Padrona dell’Alto e Basso Egitto”, ed altri ancora, ma direi che ce ne sono già a sufficienza per qualificare una Grande Donna anche se per Ramses lei era “Colei per cui il Sole risplende” ed “il Sole sorgeva per lei”. E tale era l’amore che Ramses provava per lei (nonostante le centinaia di concubine, ma così si usava) che per lei scelse un sito a un centinaio di metri di distanza dal suo Grande Tempio per far erigere in suo onore un Tempio che, seppur minore, è pur sempre una delle più alte espressioni di considerazione nei confronti della sua amata.
Il tempio è dedicato a Nefertari associata alla dea Hathor. La facciata del tempio di Nefertari è larga 28 metri e alta 12 metri, in essa sono state ricavate sei nicchie che contengono quattro statue di Ramses e due della regina ciascuna alta 10 metri. L’entrata conduce ad una sala ipostila con colonne i cui capitelli sono formati da teste raffiguranti la dea Hathor, il tempio si estende per 25 metri all’interno della montagna. Sulle colonne sono riportate iscrizioni che raccontano episodi di vita quotidiana della coppia reale. Sulle pareti si può ammirare un meraviglioso spettacolo con scene di sacrifici alle divinità.
Nella seconda sala è rappresentata la dea Hathor nelle sembianze di vacca. Come il tempio di Ramses II, anche quello di Nefertari, come la maggior parte dei templi nubiani, è stato spostato dalla sede originaria per essere preservato dalle acque del Lago Nasser.
Dopo vittorie in battaglia, mega progetti costruttivi messi in pratica e ritrovarsi con un regno in pace e prosperità, anche per i grandi arrivano i momenti bui. Colei con la quale divise oltre vent’anni di intensa attività pubblica e privata, la sua “Signora di Grazia”, “Colei per cui splende il sole”, si è spenta, di lei non rimane che una stella nel cielo notturno, più brillante delle altre, ma troppo lontana. Come da usanza in Egitto, il re aveva già pensato alla sua sposa, la tomba che fece costruire per lei si trova nella Valle delle Regine ed è identificata come QV66.
Fu l’egittologo italiano Ernesto Schiaparelli a scoprirla nel 1904, sul versante settentrionale della Valle delle Regine, la tomba era stata chiaramente violata fin dall’antichità, come quasi tutte le altre, priva quasi del tutto degli arredi funebri e parecchio danneggiata dall’umidità.
All’interno Schiapparelli trovò alcuni resti del sarcofago in granito rosa, 34 ushabti, un frammento di bracciale d’oro, amuleti, cofanetti di legno dipinti e un paio di semplici sandali in fibra intrecciata. Ma il rinvenimento più importante sono due frammenti di gambe (ginocchia) di una mummia femminile che subito vennero attribuiti alla stessa Nefertari. I reperti oggi sono custoditi al Museo Egizio di Torino e di essi parleremo più avanti.
L’ingresso della tomba avviene da su una breve scalinata scavata nella roccia, da qui si accede ad un’anticamera interamente decorata con scene tratte dal capitolo 17 del “Libro dei Morti”, il soffitto si presenta di un blu intenso e riporta motivi astronomici, simboleggia il cielo notturno con migliaia di stelle d’oro a cinque punte.
Dalla parete orientale, attraverso una grande apertura dove compaiono parecchie divinità tra cui, in evidenza, Osiride e Anubi, Serket e Hator, si accede ad un vestibolo, dove è ritratta la regina al cospetto delle divinità a lei benigne, e da qui si passa ad una camera laterale dove sono riprodotte scene di offerte agli dei.
Per nostra fortuna si sono conservate abbastanza bene le decorazioni che rivelano uno dei massimi esempi pittorici raggiunti durante il regno di Ramses II e dell’intera arte egizia, qui troviamo l’intero programma iconografico che tratta il viaggio della regina nell’aldilà, il ciclo si estende su ben 520 mq., nel quale Nefertari viene rappresentata al cospetto di molte divinità che la conducono per mano fino al termine del ciclo pittorico dove la regina viene trasformata nella forma osiriaca di mummia aiutata dalle dee Iside e Neith.
Sulla parete nord dell’anticamera si apre una scala che termina nella camera funeraria, questa è molto ampia, circa 90 metri quadri, il soffitto riprende lo stesso motivo di quello dell’anticamera ed è sorretto da quattro possenti pilastri quadrangolari, interamente decorati.
Il sarcofago in granito rosa stava al centro della camera che gli Egizi chiamavano “Sala d’oro” nella quale avveniva la rigenerazione del defunto (frammenti del coperchio del sarcofago sono oggi al Museo Egizio di Torino).
Ai due lati, all’inizio della camera funeraria, si trovano due annessi. Il ciclo pittorico rappresentato sulle pareti della camera comprende parte dei capitoli 144 e 146 del “Libro dei Morti”, sulla sinistra sono rappresentati i passi del capitolo 144 che riguardano i cancelli e le porte del regno di Osiride, sono indicate le formule magiche che il defunto doveva ricordare per convincere i Guardiani a farlo passare.
Per quanto riguarda le ginocchia di mummia rinvenute nella tomba di Nefertari ed a lei attribuite, in seguito passarono in secondo piano fino al 2016 quando alcuni archeologi internazionali annunciarono che esisteva un alto grado di probabilità che le ginocchia fossero realmente appartenute alla regina Nefertari.
Nonostante tutto esistevano ancora molti dubbi sull’appartenenza alla regina per cui altri ricercatori avanzarono nuove ipotesi, la prima è che le ginocchia siano appartenute ad una delle figlie di Nefertari, la seconda che le ginocchia siano appartenute ad una mummia precedente finita nella tomba in seguito ad una frana. Entrambe le ipotesi sono state scartate perché ritenute poco credibili ed infine superate dalla datazione al carbonio 14 dalla quale è emerso che i resti sarebbero più antichi di 200 anni rispetto al periodo in cui visse la regina. La notizia va comunque presa con le molle perché sappiamo bene che nella datazione col carbonio 14 occorre tenere delle molte contaminazioni alle quali potrebbero essere stati sottoposti i resti in seguito ai saccheggi ed alle successive manipolazioni.
Per chiudere con la tomba di Nefertari voglio raccontarvi una curiosità che penso molti di coloro che mi leggono non ne sono al corrente. Fino ad alcuni anni fa (prima della prima ristrutturazione) era presente nel corridoio del I piano del Museo Egizio di Torino un bellissimo modello della tomba di Nefertari, accuratamente dipinto. Il modello venne costruito da un artigiano negli anni 30 del novecento, tale Edoardo Baglione, che lavorava per il Museo Egizio dì Torino. Il modello costituiva di per se un’opera iconografica stupenda ed era molto ammirato dai visitatori al punto che, l’allora Direttore del Museo Egizio Giulio Farina, subentrato ad Ernesto Schiaparelli, ne fu entusiasta, pertanto concesse la sua approvazione affinché il modello di Baglione venisse esposto nelle sale del Museo dove venne inaugurato nel 1937. A tutt’oggi pare che il modello si trovi in una mostra temporanea in Nord America (!).
Fonti e bibliografia:
Silvio Curto, “L’arte militare presso gli antichi egizi”, Torino, Pozzo Gros Monti S.p.A, 1973
Franco Cimmino, “Ramesse II il Grande”, Milano, Tascabili Bompiani, 2000,
Sergio Pernigotti, “L’Egitto di Ramesse II tra guerra e pace”, Brescia, Paideia Editrice, 2010
Kenneth Kitchen, “Il Faraone trionfante. Ramses II e il suo tempo”, Bari, Laterza, 1994,
Dove trovasse il tempo per sovrintendere a tutto è un mistero ma Ramses II non fu solo un grande guerriero, fu anche un abile ed instancabile costruttore. Costruì di tutto, da città a palazzi, templi e statue, quello che non costruì lui lo usurpò ai suoi predecessori, una statua di Amenhotep III con il dio Sobek, una statua colossale della regina Tiy che dedicò alla propria madre Tuia, ecc. Fece inoltre completare i monumenti fatti iniziare dal padre Seti I.
Il suo cartiglio fa bella mostra in tutto l’Egitto, dal Delta fino in Nubia su blocchi di pietra, sui templi, tra cui gli enormi templi di Abu Simbel per se e per la sua Grande Sposa Reale Nafertari, il Ramesseum nella necropoli di Tebe, ovunque iscrizioni ed immagini raccontano la sua grandezza ed esaltano le sue imprese formando un vastissimo repertorio, sia letterario che iconografico, in grado di fornirci molte informazioni sul suo regno. Per le sue costruzioni disseminate nell’intero paese non si fece scrupoli di demolire edifici più antichi e gran parte del materiale usato per le sue costruzioni proveniva dagli edifici costruiti nella città di Akhetaton.
Fece costruire la sua nuova capitale Pi-Ramses “Dimora di Ramses”, nella parte est del Delta nei pressi dell’antica capitale degli Hyksos, Avaris. La grande egittologa francese Christiane Desroches Noblecourt scrisse che con Ramses II “l’Egitto era stato trasformato in un grande cantiere”.
Parliamo ora di uno dei suoi più importanti monumenti, “il Ramesseum”. Le rovine che coprono un vasto territorio a Tebe, sulla riva sinistra del Nilo poco lontano da Gurna, non rendono merito a quello che fu il grande tempio funerario di Ramses II, “il Ramesseum”, così lo chiamò Champollion nel 1829 quando scoprì sulle mura del tempio i geroglifici che riportavano il nome ed i titoli del faraone, in origine il tempio si chiamava “Casa di milioni di anni di Usermaatra Setepenra che unisce la città di Tebe coi domini di Amon”. Il tempio fu il primo dei grandi cantieri inaugurati da Ramses II, Nel I secolo a.C. Diodoro Siculo, nella sua “Bibliotheca historica”, descrive con grande ammirazione questo tempio gigantesco che, secondo lui era la “Tomba di Ozymandias” (corruzione greca del praenomen di Ramses II “Usermaatra”).
Il Ramesseum copre una lunghezza totale di circa un chilometro per giungere al culmine del “Tempio di milioni di anni”, che non era destinato alla sepoltura del sovrano ma solo per formare il luogo ove si dovevano celebrare le cerimonie legate al suo culto dopo la sua morte.
Il Tempio vero e proprio, inserito nel Ramesseum, fu progettato ed edificato dall’architetto di fiducia di Ramses II, Penra che era anche l’architetto reale; copriva una lunghezza di 300 metri per 195 di larghezza ed era orientato lungo l’asse nord-est sud-ovest, come se non bastasse comprendeva una baia che serviva per l’attracco delle barche cerimoniali.
Due cortili precedevano il tempio principale, il primo di questi era delimitato da un enorme pilone con una sala ipostila per le celebrazioni, tre vestiboli, un santuario ed il palazzo reale situato a sinistra; una colossale statua del faraone assiso trovava posto nella parte posteriore, la statua era costruita in sienite, alta 17 metri e pesante più di 1000 tonnellate, oggi esistono solo più alcuni frammenti della base e del torso, di un’altra statua possediamo solo più la testa.
Sul pilone d’ingresso sono rappresentate scene di battaglia dove Ramses II appare trionfante, a capo del suo esercito, sugli Ittiti a Qadesh, nella sala ipostila è rappresentata la presa della fortezza di Dapur.
Nel secondo cortile, in quel che resta del pilone e del “Portico di Osiride”, compaiono ancora scene della battaglia con gli ittiti e, nella parte superiore, sono raffigurate scene che rappresentano una celebrazione in onore del dio Min, dio itifallico della fertilità e della virilità. Sul lato opposto enormi colonne e pilastri osiriaci stanno ancora a dimostrare la maestosità e grandiosità del monumento.
A nord del grande complesso Ramses II fece costruire due tempietti, uno per onorare la sua Grande Sposa Reale Nefertari, l’altro per sua madre Tuia e, tanto per non farsi mancare nulla, qui fece rappresentare il mito della sua nascita divina secondo cui sarebbe stato concepito in seguito ad una unione divina di Tuia con il dio Amon.
Oltre all’aspetto religioso, il Ramesseum rappresentava anche un centro di vita quotidiana, trovavano posto residenze, botteghe e magazzini, in più, per volontà del sovrano era stata istituita la cosiddetta “Casa della Vita”, una scuola per apprendisti scribi dove gli alunni avevano il compito di commemorare le imprese del sovrano a scopo di propaganda. Gran parte del Ramesseum fu costruito riutilizzando parti di monumenti più antichi ma, ironia della sorte, la casa di milioni di anni di Ramses II non durò così a lungo, col passare dei secoli venne anch’essa smantellata e le pietre riutilizzate per le costruzioni dei suoi successori.
Il Tempio nel quale Ramses II volle ostentare tutta la sua grandezza e potenza, facendosi rappresentare non in una ma in ben quattro colossali statue, è senza dubbio il tempio di Abu Simbel, a sud di Assuan, il “Tempio di Ramses amato da Amon”, il più grande dei sei templi scolpiti nella roccia, esso si può considerare il più imponente e il più bello di quelli costruiti in Nubia durante il suo regno.
Il tempio fu costruito sulle vestigia di un precedente tempio dedicato a Horus che venne completamente demolito. Quella doveva essere la rappresentazione della sua grandeur e mettere in soggezione i nubiani e gli altri popoli del sud dell’Egitto rimarcando ancor più la supremazia della religione egizia. Ramses II lo dedicò agli dei Ra-Harakhti, Amon e Ptah oltre (ovviamente) che a se stesso. L’egittologo italiano Sergio Donadoni lo definì:
<<……un barocco senso di scenografia raggiunge il suo apice in questo tempio fiabesco……>>.
Ad Abu Simbel Ramses non dimenticò di certo la sua amata Sposa Reale, fece scavare nella roccia della montagna due templi, uno “ovviamente maggiore” che dedicò a se stesso ed uno minore per Nefertari.
Il tempio grande, che si trovava quasi completamente sepolto dalla sabbia depositatasi nel corso dei secoli, come quello più piccolo della regina, furono scoperti nel 1813 dall’archeologo svizzero Johann Ludwig Burckhardt il quale si limitò a visitare la parte emergente. Fu solo nel 1817 che Giovanni Battista Belzoni, già famoso per altre imprese memorabili, come il trasporto dell’obelisco di File e di un busto colossale di Ramses II, che anni prima i componenti della spedizione napoleonica avevano tentato invano di rimuovere senza riuscirci, decise di disseppellire il tempio grande.
Si trattava di un’impresa titanica, riuscire a rimuovere tonnellate di sabbia, mobile e sfuggente, in grado di franare ogni momento, per di più il lavoro doveva svolgersi sotto un sole cocente a temperature che a volte superavano i cinquanta gradi. Belzoni ci volle comunque provare, e non fu cosa da poco, anche solo il gestire una manodopera riluttante e non troppo convinta, ma alla fine, con la sua tenacia, ci riuscì e fu il primo ad entrarvi dopo millenni.
La facciata si presenta con un’altezza di 33 metri ed una larghezza di 38 metri sulla quale sono state scolpite nella roccia quattro colossali statue del faraone alte 20 metri, Ramses II compare assiso con indosso il pschent, ossia la Doppia Corona dell’Alto e Basso Egitto, con il copricapo nemes, il cobra sulla fronte e l’immancabile barba posticcia.
Tra le sue gambe, di dimensioni molto minori, vi sono le statue della madre Tuia, della Grande Sposa Reale Nefertari oltre a quelle di alcuni figli, le principesse Nebettaui, Isinofret II, Bintanath, Baketmut, Meritamon e Nefertari II e dei principi Amonherkhepshef e Ramses.
Sul frontone sopra le statue del faraone troneggiano 14 statue di babbuini che guardano ad est dove sorge il sole per adorarlo; si pensa che in origine i babbuini fossero 22 quante sono le province dell’Alto Egitto, secondo altri erano 24 come le ore del giorno.
Al centro sopra l’ingresso in una nicchia c’è la statua del dio Ra-Harakhti, il dio poggia una mano sullo scettro “user” (forza) e l’altra sulla dea Maat, il tutto per evidenziare il nome di incoronazione di Ramses II “User-Maat-Ra”, il tempio è dedicato a Ra (….. ma anche a me).
Sui lati dell’ingresso è raffigurato il dio Nilo Hapy mentre lega insieme fiori di papiro e di loto per dimostrare l’unione del paese; sotto al dio da un lato ci sono prigionieri legati con corde terminanti con il fiore di papiro, dall’altro lato prigionieri africani legati con corde terminanti con il fiore di loto.
Delle quattro statue colossali che ornano la facciata una di queste è spezzata e crollata all’altezza del torso a causa di un terremoto, avvenuto già in tempi antichi, ora la testa e il torso giacciono ai piedi del colosso.
Il tempio si sviluppa in profondità nella roccia per circa 55 metri; dall’ingresso si accede ad un breve corridoio superato il quale si presenta una grande sala il cui soffitto è sorretto da otto pilastri ai quali è addossata una statua di Ramses II con le sembianze di Osiride. Sono statue alte 11 metri, il soffitto è decorato con disegni incompiuti che rappresentano la dea Mut che, con le sue ali spiegate, protegge il tempio. La parete di destra è interamente ricoperta con scene che rappresentano la vittoriosa campagna di Ramses II nella battaglia di Qadesh contro l’esercito ittita, l’insieme delle raffigurazioni formano il famoso poema di Pentaur.
Sulla parete di sinistra sono rappresentate le scene delle altre varie battaglie condotte dal sovrano in Siria, Libia e Nubia. Dalla sala delle colonne si accede ad una più piccola, detta la “Sala dei Nobili” con quattro pilastri quadrati coperti di rilievi di divinità, sulle pareti sono rappresentati Ramses II e Nefertari mentre offrono incenso e profumi alla barca di Amon.
La parete di fondo si apre sul Santuario. Il punto più interessante del tempio è il santuario stesso dove, sul fondo, si trovano quattro statue, tre sono gli dei che all’epoca costituivano le divinità più importanti: Ptah, Amon-Ra, Ra-Harakhti l’altra è lo stesso Ramses II.
Nel santuario avviene qualcosa di straordinario, calcolato e voluto dagli architetti di Ramses, due volte l’anno, il 20 febbraio ed il 20 ottobre il sole entra nel santuario e si fissa sulla statua del faraone e, parzialmente anche su Amon-Ra e Ra-Harakhti, in questo modo i raggi del sole avrebbero ravvivato l’energia del sovrano, Ptah, dio delle tenebre, non viene mai illuminato. Oggi, dopo lo spostamento del tempio avvenuto negli anni 60, il fenomeno si verifica il 22 febbraio e il 22 ottobre.
Come noto, negli anni 60, a causa della costruzione della grande Diga di Assuan, si è formato un immenso lago che ha preso il nome del presidente egiziano Nasser, questo avrebbe sommerso numerosi monumenti egizi tra cui quelli di Abu Simbel. Grazie all’intervento dell’UNESCO, 113 paesi, tra cui l’Italia, si attivarono per salvare almeno i monumenti più importanti. L’impresa italiana Impregilo, con l’ausilio di oltre duemila uomini ed un gruppo di esperti cavatori di marmo di Carrara, Mazzano e Chiampo, provvide a smontare il tempio di Ramses II tagliando la roccia che costituiva il tempio ed a rimontarlo 65 metri più in alto e 300 metri più indietro evitando così che venisse sommerso; il tutto rispettando l’originale orientamento rispetto agli astri e al sole, in modo da consentire (seppur con lo sfalsamento di un giorno) il fenomeno del sole che illumina il faraone. Lo sforzo tecnologico senza precedenti costò in totale circa 40 milioni di dollari.
Fonti e bibliografia:
Silvio Curto, “L’arte militare presso gli antichi egizi”, Torino, Pozzo Gros Monti S.p.A, 1973
Franco Cimmino, “Ramesse II il Grande”, Milano, Tascabili Bompiani, 2000,
Sergio Pernigotti, “L’Egitto di Ramesse II tra guerra e pace”, Brescia, Paideia Editrice, 2010
Kenneth Kitchen, “Il Faraone trionfante. Ramses II e il suo tempo”, Bari, Laterza, 1994,
Abbiamo parlato degli Shardana, popolo misterioso che saccheggiava le sponde egizie del Mediterraneo presso la foce del Nilo in tutto il Delta. Con un’abile mossa, da quel grande condottiero che era, Ramses li attirò in una trappola e riuscì a cattutarli praticamente tutti.
Su una stele rinvenuta a Tanis viene commemorata in modo molto enfatizzante (come sempre con Ramses) la vittoria del faraone sugli Shardana, si legge:
<<…….Il vincitore dei guerrieri del mare, che lascia il Delta (sicuro) e tranquillo […] colui la cui fama attraversò il mare […] i ribelli Shardana che nessuno ha mai saputo come combattere, arrivarono dal centro del mare navigando arditamente con le loro navi da guerra, nessuno è mai riuscito a resistergli. Ma egli li piegò con la forza del suo valido braccio e li portò in Egitto…….>>.
L’episodio ebbe notevole risonanza e venne scolpito in molti templi dell’epoca. In effetti poi Ramses II non schiavizzò ne uccise gli Shardana ma li arruolò nel suo esercito, dove li troveremo nella battaglia di Qades. Certo che dovette fidarsi molto della loro fedeltà poiché 520 di essi li costituì come propria guardia personale.
Nelle rappresentazioni egizie sono facilmente riconoscibili per il loro abbigliamento e le loro armi, vestivano una gonna lunga sul dietro che si chiudeva sulla cintola davanti, portavano elmetti cornuti sui quali spiccava una palla più alta in centro, i loro scudi erano rotondi e le spade erano “a lingua da presa” dette Naue.
Parlando di guardie del corpo va detto che Ramses II non si faceva mancare nulla, si racconta che portasse sempre con se un leone addomesticato tanto che lo fece raffigurare accanto al suo carro nella rappresentazione della battaglia di Qades ad Abu Simbel.
Le sue prime campagne militari di un certo rilievo furono rivolte alla terra di Canaan, Già nel quarto anno di regno condusse il suo esercito fino in Libano, nei pressi dell’odierna Beirut, all’estuario del Nahr al-Kalb (fiume del cane) dove fece erigere tre stele commemorative le cui iscrizioni sono oggi illeggibili ad eccezione del cartiglio di Ramses II e la data “anno 4” identificati per la prima volta dall’egittologo tedesco Karl Richard Lepsius.
Durante la sua permanenza nella terra di Canaan Ramses II si scontrò con un principe locale, il principe venne ucciso da un arciere egizio ed il suo esercito si sbandò. Forte della sua posizione Ramses II saccheggiò le terre dei capi asiatici e, come conseguenza diversi principi cananei furono portati in Egitto come ostaggi. A coronamento della sua campagna in Canaan Ramses II invase e conquistò il regno di Amurru, vassallo dell’impero ittita.
Fu forse questo uno dei primi segnali che misero in allarme gli ittiti che mal tolleravano la politica espansionistica del Faraone. Infatti Ramses II non si fermò li, obiettivo principale di queste campagne in oriente era quello di ripristinare l’influenza egizia nell’area palestinese per riportarla all’epoca delle grandi conquiste di Thutmosi III. Questo dovette capirlo anche Muwatalli II, sovrano ittita, la cui influenza si estendeva ormai alla Siria settentrionale ed all’intera regione di Mitanni.
A questo punto è necessario tracciare un quadro completo della situazione dell’Asia Minore che all’epoca di Ramses II vede contrapposte le due “superpotenze” mediorientali, l’impero egiziano e quello ittita.
Al confine dei due imperi si trovava la città di Qades, nei pressi del fiume Oronte, questa era la porta della Siria, crocevia mercantile, culturale e militare del mondo antico. Qui si trovavano ricchezze ambite da entrambe i contendenti. Oltre alle ingenti quantità di grano, la Siria costituiva un punto obbligato per il passaggio delle merci provenienti dal mar Egeo e da paesi più lontani che commerciavano con l’Asia Minore approdando al porto di Ugarit. Insomma la Siria costituiva la zona di maggiore importanza strategica del mondo antico. Attraverso la Siria passava ogni sorta di beni commerciali che arrivavano da ogni parte, anche da paesi come l’Iran e l’Afghanistan: vetro, rame, stagno, legni preziosi, gioielli, tessili, alimenti, articoli di lusso, prodotti chimici, maiolica e porcellana, attrezzi e metalli preziosi. Il guaio della Siria però era quello di trovarsi soffocata tra due grandi imperi, l’Egitto e Hatti. Come è ovvio, entrambi ambivano al dominio di tale regione se si considera che possederla voleva dire diventare una potenza mondiale sotto tutti gli aspetti.
Ramses II da quel sovrano esperto qual era conosceva molto bene l’importanza della Siria, e soprattutto quella di Qades, quale punto strategico. Dall’inizio del suo regno, ma forse fin da prima, Qades divenne il suo chiodo fisso al punto da non fare nulla per nascondere la sua intenzione di infrangere i termini del trattato di pace che suo padre aveva firmato con gli ittiti. Iniziò presto a portare grandi cambiamenti nell’organizzazione dell’esercito e fece di Pi-Ramses una grande base militare in vista della futura campagna asiatica.
Ramses II organizzò il suo esercito in quattro grandi corpi militari che contavano ciascuna 5.000 soldati divisi tra 4.000 fanti e 1.000 aurighi che guidavano i 500 carri da guerra aggregati alle varie divisioni. Ciascuna divisione portava sul suo stendardo l’effigie del dio tutelare della città dalla quale proveniva.
A supporto del suo esercito Ramses II poteva contare su una forza nota come NRM citata in alcune iscrizioni (probabilmente da leggersi come Nearin). Con molta probabilità si trattava di mercenari, principi alleati dell’Egitto in Palestina, Libano e nelle zone limitrofe, non si conosce la loro incidenza riguardo all’esercito regolare anche in virtù del fatto che questa viene sottovalutata dagli egizi per porre in maggior evidenza il loro esercito regolare.
Sicuramente nei loro racconti gli egizi tendono ad evidenziare il loro esercito come inferiore numericamente rispetto a quello dei nemici ittiti per ingigantire la loro eventuale vittoria. Nel campo avverso è da considerare il grande sforzo militare e diplomatico compiuto dal governo ittita. A questo proposito gli egizi raccontano che:
<<……..nessuna terra mancò di inviare i suoi uomini……., moltitudine grandissima e senza uguali, che copriva le montagne e le vallate come locuste. Il re degli Ittiti non aveva lasciato oro o argento nel suo regno, lo aveva radunato e donato a ogni paese con lo scopo di trascinarlo con sé nella battaglia……..>>.
Stando sempre alle fonti egizie, Muwatalli era riuscito a formare una grande coalizione, si racconta che fosse composta da 40.000 uomini armati e da 3.700 carri da guerra. Sicuramente anche gli Ittiti fecero ricorso a mercenari internazionali, anatolici ed egei, sia direttamente sia nelle truppe reclutate dai loro alleati, infatti si sa che nelle fila ittite militavano gli Arawana (di origine incerta) e Wilusa (Troiani).
Quando ritenne di possedere un forte esercito in grado di rivaleggiare e vincere contro quello Ittita di Muwatalli, Ramses II partì da Pi-Ramses, attraversò la terra di Canaan e si preparò a fronteggiare il nemico.
<<……..Quando Sua Maestà ebbe approntato le truppe, i carri e gli Shardana che aveva vittoriosamente catturato, (tutti) equipaggiati con le loro armi, e comunicato loro i suoi piani di battaglia, allora Sua Maestà partì verso nord con le sue forze…….>> (Poema di Pentaur).
Le fasi della battaglia di Qadesh contro gli ittiti sul fiume Oronte, ci sono state riportate con iscrizioni e scene in bassorilievo sulle pareti di diversi templi. In forma epica e del tutto enfatizzante, troviamo il racconto della battaglia, come decorazione in geroglifico, sulle pareti dei templi di Luxor, di Karnak e di Abido; esistono anche parecchie redazioni su papiro, la più famosa è quella del papiro Sallier III, copia di un racconto dello scriba Pentaur (da cui il nome Poema di Pentaur), oggi custodita al British Museum, un altro papiro importante è quello di Rifeh.
Leggendo il Poema di Pentaur emerge subito lo stile della «novella regale», la narrazione dei fatti e delle imprese del sovrano denota un chiaro carattere letterario. La forma epica emana dall’intero testo alla quale però si alternano brani di vibrante ispirazione lirica. Ritroveremo quest’opera molto più tardi nella Stele di Piankhi e nei racconti storici dell’età demotica. Si tratta di una delle più mature espressioni che possiamo riscontrare tra i testi di propaganda delle azioni del sovrano.
Ma torniamo alla guerra tra Ramses II e il regno degli ittiti, la battaglia cruciale di questo conflitto che si svolse intorno al quinto anno di regno di Ramses II, fu la battaglia di Qadesh della quale entrambe i contendenti, alla fine, si dichiararono vincitori, il poema di Pentaur esalta le doti guerresche di Ramses II e la sua invincibilità e, subito all’inizio, parla di una grande vittoria. Non andò esattamente così, se fossimo in campo calcistico potremmo definire il risultato della battaglia con uno zero a zero.
Della battaglia di Qadesh disponiamo di notizie da entrambe i campi, Ittiti ed egizi si attribuirono la vittoria, oggi diremmo “vittoria di Pirro, in quanto non vinse nessuno dei due e la prova è il trattato che seguirà.
Ma penso sia interessante seguire alcune delle fasi più importanti della battaglia. Ramses II giunse col suo esercito nei pressi della città di Qadesh, qui si accamparono e “combinazione” catturarono due spie beduine, queste rivelarono al sovrano che l’esercito ittita si trovava in realtà molto lontano, all’incirca a 190 km di distanza. Tratto in inganno dalle due spie Ramses spostò quindi la divisione di Amon poco distante dalla roccaforte dove decise di montare il campo. Non passò molto tempo che gli uomini di Ramses catturarono due soldati ittiti che si erano spinti fin nei pressi del campo egizio. Interrogati e posti sotto tortura i due rivelarono che in realtà gli Ittiti si trovavano ormai nei pressi dell’accampamento egizio. Come un fulmine gli ittiti assaltarono la divisione Ra che si trovava nei pressi dell’Oronte e la distrussero completamente. A questo punto Ramses si trovò di fronte ad un ingente numero di avversari, potendo contare sulla sola divisione Amon. Fortunatamente in precedenza Ramses aveva previsto di accerchiare a tenaglia il nemico ordinando alla divisione ausiliaria di seguire una via alternativa, fortuna volle che questa divisione giungesse nel momento più opportuno unendosi al sovrano per respingere i carri nemici. Gli assalti si susseguirono finché gli ittiti vennero respinti e costretti a rifugiarsi all’interno della fortezza di Qadesh.
A questo punto possiamo solo basarci sulle fonti egizie che parlano di una lettera fatta recapitare a Ramses da parte di Muwatalli il quale chiedeva un armistizio. Non è chiara la ragione, ma l’armistizio venne accettato ed entrambi gli eserciti tornarono nei loro rispettivi confini. La cosa può apparire strana in quanto nessuno dei due contendenti aveva schierato l’intero esercito, forse fu la presa di coscienza di entrambe che continuare nella battaglia avrebbe avuto come esito la distruzione reciproca, venne quindi deciso di sospendere le ostilità.
Da quel grande esibizionista presuntuoso qual era, Ramses II considerò vinta la battaglia di Qadesh, non solo ma lo fece immortalare sulle pareti del suo tempio funerario, del Ramesseum e nei templi di Larnak, Luxor, oltre che nel suo grande tempio di Abu Simbel. Anche da parte ittita si gridò alla vittoria, ma, malgrado tutto, alla luce dei fatti che seguirono possiamo tranquillamente affermare che Ramses II vinse lo scontro presso Qadesh fermando l’avanzata degli ittiti ma non riuscì a recuperare le zone d’influenza nella Siria e Qadesh rimaste in mano ittita.
La battaglia di Qadesh, immortalata come una vittoria sui templi di tutto l’Egitto, in realtà ridusse l’influenza di Ramses a Caanan, mentre l’intera Siria finì nelle mani degli Ittiti. Alla morte di Muwatalli, poco dopo la battaglia, ci furono dei problemi nel campo ittita finchè non salì al trono Hattusili III il quale fu subito contrario a proseguire il contrasto con gli egizi anche perchè gli si presentava una nuova minaccia, l’invasione degli assiri che, profittando della guerra egizio-ittita erano già penetrati fino a Karkemish. Hattusili a questo punto riannodò i contatti con Ramses con l’intento di stipulatre un trattato di pace e reciproca assistenza.
L’accordo di pace (pervenutoci quasi interamente) con gli ittiti che prevedeva la spartizione delle colonie siro-palestinesi venne poi definitivamente stipulato nel ventunesimo anno di regno di Ramses II. In esso si diceva tra l’altro:
<<…….Questi patti sono scritti su tavolette di argento del paese ittita e del paese di Egitto. Chi dei due contraenti non li osserverà, mille dèi del paese degli Ittiti e mille dèi del paese degli egizi distruggano la casa, la terra, i sudditi. Al contrario, chi osserverà questi patti, egizio e ittita che sia, mille dèi del paese degli Ittiti e mille dèi del paese degli Egizi, facciano che egli viva in buona salute e con lui la sua casa, il suo paese i suoi sudditi…….>>.
A suggellare la validità del trattato Ramses II sposò una figlia di Hattusili III, la principessa Maathorneferura.
La pace fra le due potenze, uscite (entrambe con le ossa rotte) dalla battaglia di Qadesh e sancita dal Trattato di Pace stipulato da Ramses II e Hattusili III, ebbe come risultato la spartizione dell’intera zona siro-palestinese. Benché ad uscire con le ossa più ammaccate fu l’Egitto, che perse Qadesh e l’intera Siria, quello che seguì fu un periodo di stabilità per la regione. Ora è chiaro che l’epica battaglia di Qadesh rappresenti un fatto che colpisce l’immaginario collettivo tanto da essere inscindibile dal faraone guerriero, ma Ramses II non fece mica solo quello.
A questo punto l’influenza egizia in Medio Oriente era limitata alla sola Canaan mentre la Siria era in mano ittita. Ho scritto “periodo di stabilità” ma si sa bene come vanno le cose, la stabilità è un velo dietro al quale si possono tessere tutte le trame possibili. Dopo un breve periodo di quiescenza delle armate egizie, i vari principi cananei interpretarono questo come un evidente segno di debolezza degli egizi, e gli ittiti nell’ombra li sobillarono al punto che questi iniziarono a rifiutarsi di pagare i tributi denunciando una certa irrequietezza nei confronti degli egizi. Ma sbagliarono di grosso, non conoscevano bene Ramses II, per circa un anno il faraone non fece mosse nei loro confronti, riorganizzò l’esercito dopo l’immane sforzo di Qadesh ma poi risorse.
Nel settimo anno di regno, in piena estate, sentendosi ormai pronto, Ramses II salì nuovamente in Siria, non ci volle molto, diviso in due, l’esercito egizio marciò dapprima con una delle due armate, guidata dal principe ereditario Amonherkhepshef (primogenito di Ramses II e della regina Nefertari) la quale inseguì i guerrieri delle tribù di Shasu nel deserto del Negev fino al Mar Morto. Conquistò Edom ed il Monte Seir, ripiegò poi verso nord e, superata la profonda gola dello Zered, conquistò la terra di Moab ed occupò Butartu (Raba Batora).
Da parte sua Ramses in persona guidò il secondo schieramento attraverso il crinale collinoso che percorre la Cananea, attaccò Gerusalemme e Gerico dirigendosi poi verso Moab, superata la valle dell’Arnon, si ricongiunse con il primo schieramento di Amonherkhepshef. Come se non bastasse l’intero esercito egizio marciò su Heshbon (o Esbous) raggiungendo Damasco e Kumidi fino a conquistare la perduta provincia di Upi, ora l’antica influenza egizia sull’intero territorio era ristabilita.
Non soddisfatto degli obiettivi che aveva raggiunto, Ramses II, nel suo decimo anno di regno, risalì ad oriente, attraversò il fiume Nahr el-Kalb (“Fiume del Cane”) e giunse fino ad Amurru, ben oltre Qadesh, nei pressi di Tunip nella valle dell’Oronte, la dove era giunto Thutmosi III circa 120 anni prima. Da qui raggiunse la vicina Dapur, dove fece erigere una statua in suo onore, la presa di Dapur richiese un assedio la cui vittoria si rivelò effimera, Ramses fece anche erigere una stele a Beit She’an. Ho scritto effimera in quanto il territorio, una striscia fra Qadesh e Amurru, nel giro di un anno gli ittiti riconquistarono.
A fronte di ciò Ramses attaccò una seconda volta Dapur, questo secondo assedio è raccontato nel Tempio di Luxor e nel Ramesseum:
<<……….Quanto a questo modo di fermarsi ad attaccare questa città ittita in cui è la statua del faraone, Sua Maestà effettivamente lo fece due volte, alla presenza del suo esercito e dei suoi carri, quando li conduceva, attaccando questa città ittita nemica che è nella regione della città di Tunip nel paese di Naharina. Sua Maestà prese la sua corazza per indossarla……. (solo dopo che)……. egli aveva già passato due ore attaccando la città del nemico ittita, davanti alle truppe ed ai suoi carri, (senza) corazza. Solo allora Sua Maestà tornò a prendere la sua corazza per indossarla. Allora egli aveva già passato due ore attaccando la città ittita nemica […….] senza indossare la sua corazza………>>.
Il destino, o la sorte, volle però che neppure in questo caso Ramses II conseguì la sperata vittoria, i due eserciti si equivalevano a tal punto che nessuno dei due potè infliggere una sconfitta decisiva all’altro. Ma la carriera del guerriero Ramses II non si riscontra esclusivamente in Palestina, come abbiamo riportato in precedenza, fin da quando era ancora principe ereditario fu mandato a combattere contro i nubiani riportando importanti vittorie.
Le sue gesta sono riportate nel Tempio di Nuova Kalabsha, promontorio nei pressi di Assuan (il promontorio ospita numerosi templi provenienti dal sito di Vecchia Kalabsha spostati al tempo della costruzione della diga Nasser per evitare che fossero sommersi dalle acque del lago).
Gli stipiti del portale d’accesso al tempio sono decorati da immagini rituali di Ramses II. Il sovrano è raffigurato sul suo carro da guerra mentre guida la carica contro i Nubiani, seguito dai suoi figli Amonherkhepshef e Khaemuaset (che avevano, rispettivamente, cinque e quattro anni) sui loro carri, accompagnati dai rispettivi scudieri.
Alcuni egittologi propendono per assegnare le raffigurazioni alla spedizione dell’ottavo anno del regno di Seti I nel regno di Irem dove però non avrebbero potuto comparire i figli di Ramses II. Questo porta dunque ad ipotizzare che lo stesso Ramses abbia mescolato gli avvenimenti nubiani dell’ottavo anno con quelli del tredicesimo anno di Seti I dove partecipò anche Ramses II ed i suoi figli. (La manipolazione delle iscrizioni su templi e statue era una delle prerogative del faraone.
Fonti e bibliografia:
Silvio Curto, “L’arte militare presso gli antichi egizi”, Torino, Pozzo Gros Monti S.p.A, 1973
Franco Cimmino, “Ramesse II il Grande”, Milano, Tascabili Bompiani, 2000,
Sergio Pernigotti, “L’Egitto di Ramesse II tra guerra e pace”, Brescia, Paideia Editrice, 2010
Kenneth Kitchen, “Il Faraone trionfante. Ramses II e il suo tempo”, Bari, Laterza, 1994,
Abbiamo accennato al fatto che forse Ramses II divenne coreggente per volere del padre Seti I e la cosa durò otto anni, a supporto di questa tesi ci sarebbero numerose iscrizioni che compaiono su vari templi.
Secondo l’egittologo canadese Peter J. Brand, autore di un’importante monografia su Ramses II, i rilievi in cui Seti I compare col figlio nei templi di Karnak, Gurna e Abydos, non costituirebbero prove in grado di suffragare la coreggenza in quanto a realizzarli sarebbe stato lo stesso Ramses II dopo la morte del padre.
Le opinioni pro o contro la coreggenza si intrecciano e si contraddicono a vicenda, l’egittologo statunitense William Murnane, che in un primo momento appoggiava l’ipotesi della coreggenza, in seguitò si corresse affermando che Ramses II non contò come suoi gli anni di regno mentre Seti I era ancora in vita. Secondo Kenneth Litchen non si può parlare di coreggenza e porta a sostegno della sua tesi il fatto che la prima fase della carriera di Ramses II deve essere considerata come la reggenza di un principe dal momento che gli fu assegnata una titolatura reale e venne dotato di un harem, senza però contare come propri gli anni in cui era ancora vivo Seti I.
Come abbiamo già detto parlando di Seti I, una coreggenza tra padre e figlio appare assai improbabile, vaga e quantomeno ambigua. La maggior parte degli studiosi fa riferimento all’iscrizione dedicatoria del tempio di Abydos ed alla stele commemorativa di Kuban dove a Ramses II vengono attribuiti i titoli di “Primogenito del re” e “Principe ereditario” ed “Erede”.
Seti I doveva nutrire per suo figlio un grande amore, questo almeno secondo quanto si legge in un’iscrizione dove, una ventina di anni dopo la sua ascesa al trono, Ramses stesso in prima persona rivolge un discorso alla corte raccontando ciò che disse di lui suo padre:
<<………mettete la Grande Corona sul suo capo……..egli dirigerà questo Paese, si occuperà dei pubblici affari, comanderà al popolo……..mi assegnò un personale di casa proveniente dall’harem reale……..scelse per me delle mogli […] e delle concubine cresciute nell’harem……..>>.
Nominato “Principe ereditario”, intorno al tredicesimo anno di regno di Seti I, questi ordinò che venisse costruito un palazzo per il Principe, probabilmente nella città di Menfi. Dall’harem appena avuto dal padre, Ramses II scelse forse la più bella ed affascinante concubina e la fece sua “Grande Sposa Reale” Nefertari, colei che diventerà una delle regine meglio conosciute della storia egizia, nonché una delle più potenti, almeno pari ad Hatshepsut, Nefertiti e Cleopatra VII, pur non avendo regnato in autonomia.
Nefertari non fu solo la sposa reale di facciata, la bellezza ed il fascino che emanava non erano gli unici suoi meriti, la regina possedeva un’istruzione eccezionale: sapeva leggere e scrivere, cosa rara per l’epoca. Abile diplomatica, seppe mantenere una corrispondenza alla pari con altri sovrani del suo tempo. L’importanza della regina Nefertari è tale per cui di lei parleremo ancora ampiamente.
In quel periodo Seti I affidò al giovane principe il compito di curare i rapporti con la Nubia, più in particolare doveva riscuotere i tributi dei paesi di Wawat e Kush. Ebbe anche il compito di sedare le scorribande dei beduini Shasu nella terra di Canaan. Altro compito molto importante, che Ramses II eseguì magistralmente, anche forse con un po di eccesso, fu quello di curare personalmente il grande programma architettonico paterno lungo tutto l’Egitto.
Dopo un regno durato undici o quindici anni (durata ancora oggi oggetto di dibattito tra gli studiosi), Seti I salpò per i Campi di Iaru e sul suo trono prese posto Ramses II, all’età di circa venticinque anni, pare che corressero i primi di giugno del 1279 a.C. (“3º mese dell’estate, 27º giorno”).
Forte dell’esperienza maturata durante gli anni trascorsi in reggenza (e/o coreggenza) col padre Seti I, Ramses II si impose subito come sovrano energico e determinato. Già nel primo anno di regno organizzò un viaggio rituale per visitare i principali santuari presenti lungo il Nilo, ad Abydos vide che la costruzione del tempio di suo padre Seti I era stata abbandonata dopo la morte del sovrano, ordinò che questa fosse immediatamente ripresa e portata a termine: con orgoglio fece eseguire delle grandi iscrizioni sul portico per ricordare questo evento.
Nello stesso anno presenziò alla “Festa di Opet” (heb ipet) dedicata alla Triade tebana che si celebrava nel II mese di Akhet (Menkhet); la festa era chiamata col nome del tempio di Amon a Luxor “ipet resut” (Camera segreta del Sud) diversamente dal tempio dello stesso Amon di Karnak “hut aat” (La Grande Dimora).
La Festa di Opet aveva, tra gli altri, lo scopo di rinnovare il diritto del Faraone, in quanto figlio di Amon-Ra, a guidare il suo popolo mantenendo stabilità e benessere alle Due Terre. E qui emerge la prepotenza trionfale di Ramses II che, caso unico nella millenaria storia della monarchia egizia, officiò egli stesso come Primo Profeta di Amon, poiché il titolare era deceduto poco tempo prima.
Fece altresì valere la sua autorità nominando, in quella carica, il Primo Profeta di Hathor a Dendera, fedelissimo di Ramses II garantendosi così l’appoggio del clero tebano. Tanto per dimostrare al mondo di allora chi era il grande Ramses, Signore delle Due Terre, il faraone guerriero, partì subito alla testa del suo esercito per restaurare i possedimenti Egizi in Nubia, i cui giacimenti auriferi costituivano una imperdibile risorsa e, per rinsaldare i confini del Paese si rivolse anche contro gli ittiti. Tanto per non farsi mancare nulla si diresse anche verso la Libia per disperdere i nomadi che sconfinavano verso le sue terre. Fino ad allora era stata prestata scarsa attenzione alle zone del Mar Egeo e del Mediterraneo orientale dove spadroneggiavano i predoni del mare, i ben noti Shardana creando numerosi problemi ai popoli dell’Asia Minore.
Gli Shardana depredavano la costa dell’Egitto, le bocche del Nilo e più in generale il Delta, inoltre i loro continui attacchi ai mercantili egizi compromettevano le relazioni commerciali sia in uscita che in entrata. Non è mai stato chiarito quale fosse la regione di provenienza del popolo Shardana, forse dalla costa ionica, forse dalla zona sud-occidentale della Turchia, alcuni studiosi hanno ipotizzato che, in virtù dell’assonanza del loro nome, provenissero dalla Sardegna. Con grande abilità strategica Ramses II tese loro una trappola, con uno strattagemma riuscì ad attirare in un unico punto l’intera armata Shardana che, colta di sorpresa non ebbe scampo. Con questa mossa Ramses II riuscì a catturare un ingente numero di Shardana ai quali risparmiò la vita in cambio del loro arruolamento come mercenari nelle file dell’esercito egiziano fino a diventare in seguito le sue guardie personali.
Gli Shardana rimasero fedeli a Ramses II tanto da giocare un ruolo molto importante nella successiva battaglia di Qades.
Fonti e bibliografia:
Silvio Curto, “L’arte militare presso gli antichi egizi”, Torino, Pozzo Gros Monti S.p.A, 1973
Franco Cimmino, “Ramesse II il Grande”, Milano, Tascabili Bompiani, 2000,
Sergio Pernigotti, “L’Egitto di Ramesse II tra guerra e pace”, Brescia, Paideia Editrice, 2010
Kenneth Kitchen, “Il Faraone trionfante. Ramses II e il suo tempo”, Bari, Laterza, 1994,
Con la morte di Seti I sale al trono Ramses II, figlio della Grande Sposa Reale Tuia. Designato fin dalla nascita a succedere al padre Seti I, si racconta che il faraone si presentò in pubblico con il piccolo Ramses tra le braccia e disse:
<< Fatelo apparire come un re, affinché io possa vedere tutta la sua bellezza, mentre sono ancora in vita! >>.
Ramses Usermaatra, Setepenra, Ramess(u), Meriamon, conosciuto anche come Ramesse II, Ramsete II o più propriamente come Ramses “il Grande”. Talmente grande da permettersi di far incidere su di una sua statua:
<< Se qualcuno vuole sapere quanto grande io sia e dove giaccio, superi qualcuna delle mie imprese >>. (Frase riportata da Diodoro Siculo nella sua “Bibliotheca historica”.
Possente guerriero, alto 185 cm, Ramses II aveva un portamento regale, il naso leggermente aquilino con occhi a mandorla che risaltavano su un volto ovale con labbra carnose, zigomi alti e mascella ben definita. Bianco di pelle con i capelli di colore rosso fulvo. Il suo aspetto incuteva timore e rispetto in quanto il rosso era il colore attribuito a Seth. Si muoveva con atteggiamento ritto ed orgoglioso esprimendo un’aria di suprema maestà.
Fu un faraone molto longevo e governò per circa 67 anni, se poi a questi si aggiungono otto anni di coreggenza col padre il suo regno è di 75 anni. L’egittologo britannico Kenneth Kitchen ha paragonato la durata del suo regno a quello della regina del Regno Unito Vittoria; (la sua fama è tale per cui l’intero periodo della sua dinastia viene comunemente chiamato “Periodo Ramesside”). Scrisse Kitchen:
<<…….[Il suo regno] contrassegnò un’epoca e fu caratterizzato nel suo corso sia da eventi politici eccezionali, sia da uno stile ben definito nelle arti e nei monumenti, venuto in auge dopo un’epoca più raffinata ed elegante. Lo stile “ramesside” e quello “vittoriano” si impressero entrambi per l’eterno nella storia delle rispettive nazioni……>>.
Ramses II nacque intorno al 1300 a.C. circa, si ipotizza che la sua famiglia fosse originaria del Delta, nella città di Avaris, antica sede degli Hyksos, centro di culto del dio Seth. Pare assodato che la sua fosse una famiglia di alto lignaggio principalmente in campo militare. Secondo la tradizione di famiglia per i membri maschili, Ramses venne allevato in ambito militare dove ricevette una ferrea istruzione; a circa dieci anni era già comandante di un raggruppamento di soldati a capo dei quali forse partecipò col padre ad una campagna contro i libici.
L’epoca di Ramses II ha colpito generazioni di archeologi e scrittori affascinati dalla grandezza delle sue opere e delle sue battaglie (anche se non proprio tutte fortunate). Commentando la vita di Ramses II, l’egittologo francese Pierre Montet scrisse:
<< Ha ben meritato d’essere chiamato grande. Avendo dato prova, nella battaglia di Qades, d’un coraggio straordinario, è entrato ancora in vita nella leggenda. In tutta la sua vita ha esercitato coscienziosamente il mestiere di re. Il suo egoismo mostruoso era temperato dalla bontà di cui hanno beneficato i suoi soldati, i suoi artisti, i membri della sua famiglia e si può perfino dire l’insieme dei suoi sudditi >>.
L’intensa attività di costruttore di monumenti, templi e statue ha fatto di Ramses II il faraone più rappresentato in Egitto di qualsiasi altro, seppur grande faraone, tanto per non farsi mancare nulla, arrivò anche ad usurpare monumenti non suoi. Di lui scrive il celebre egittologo francese Nicolas Grimal:
<< Egli è certo il faraone più noto della storia egiziana, colui che è diventato un simbolo di questa civiltà, come le piramidi. Il suo regno è di gran lunga il più glorioso, ma soprattutto il più conosciuto: infatti, in sessantasette anni di esercizio del potere, Ramses coprì la valle del Nilo di monumenti e lasciò nella storia del Vicino Oriente una traccia incancellabile. La sua personalità eccezionale si impose in un’epoca che era anch’essa fuori del comune, per l’importanza dei continui confronti tra i grandi imperi orientali >>.
Ora che ne abbiamo tessuto le lodi direi che sia il caso di intrufolarci nella sua vita per vedere di persona quelli che sono stati i meriti ma anche i difetti (ne avrà ben avuti anche lui).
Secondo quanto ci è dato a sapere Ramses II celebrò il suo primo giubileo, la festa “Heb Sed” (o festa giubilare), come usanza al raggiungimento del trentesimo anno di regno. Per pignoleria “Sed” (ovvero “colui che ha la coda”) era il nome antico del dio Wepwewet (Upuaut) predecessore di Anubi. La festa Heb Sed, dopo il trentesimo anno di regno veniva celebrata con una cadenza molto variabile, molti faraoni la celebrarono assai prima del trentesimo anno e nel corso del loro regno ne celebrarono più di una; voi pensate che il Grande Ramses II potesse essere da meno? Ne celebrò ben 14, più di ogni altro re d’Egitto.
Forse la sua fama, più che al suo modo di governare o alla sua politica o alle sue battaglie, è dovuta al fatto che ha riempito l’Egitto con i suoi numerosissimi monumenti, statue, templi, oggetti d’arte oltre ad una grande quantità di iscrizioni prodotte ovunque, anche sulle opere dei suoi predecessori, facendo si che non c’è Museo o collezione di antichità egizie al mondo che non possegga qualcosa di suo; non per niente è il faraone più conosciuto al mondo, oggi come nell’antichità.
Tanta doveva essere la voglia di distinguersi dai suoi predecessori che lui, il Grande, mica poteva risiedere nelle capitali che furono un tempo, la sua doveva essere la “Dimora di Ramses”, così chiamò la capitale che si fece costruire nel Delta del Nilo Pi-Ramses.
A proposito di Pi-Ramses, alcuni ritengono si tratti della città di Pitom a cui fa riferimento la Bibbia nel Libro dell’Esodo, quando parla della schiavitù degli ebrei in Egitto e Ramses II sarebbe il “Faraone dell’oppressione”. Secondo altri invece il faraone con cui Mosè si sarebbe scontrato sarebbe il figlio e successore di Ramses II, Merenptah. In realtà il testo biblico non fornisce il nome di nessun faraone, né alcuna altra informazione utile a collocare la vicenda nella plurimillenaria storia egizia. Non esiste alcuna prova storica o archeologica che provi il coinvolgimento di Ramses II o di Merenptah nell’episodio dell’Esodo ed i loro nomi non vengono mai menzionati nella Torah.
In alcune fonti greche (Diodoro Siculo nella sua “Bibliotheca historica”) menziona un faraone di nome “Ozymandias” che potrebbe essere la corruzione del praenomen di Ramses II (Usermaatra Setepenra).
Fonti e bibliografia:
Silvio Curto, “L’arte militare presso gli antichi egizi”, Torino, Pozzo Gros Monti S.p.A, 1973
Franco Cimmino, “Ramesse II il Grande”, Milano, Tascabili Bompiani, 2000,
Sergio Pernigotti, “L’Egitto di Ramesse II tra guerra e pace”, Brescia, Paideia Editrice, 2010
Kenneth Kitchen, “Il Faraone trionfante. Ramses II e il suo tempo”, Bari, Laterza, 1994,
Nella descrizione dell’Osireion abbiamo parlato del fatto che le sue pareti sono completamente prive di incisioni e geroglifici, solo su alcuni pilastri vi sono rappresentate delle navi con le vele ammainate, poi, quasi con noncuranza, ho accennato che ci troviamo anche eccezionalmente il “Fiore della Vita”.
Ho detto quasi con noncuranza perché ho dato per scontato che tutti conoscano il “Fiore della Vita”, non ho però tenuto conto che forse in realtà non tutti ne conoscano il significato per cui vorrei parlarne un po’.
Il fiore della vita è una forma geometrica composta da più cerchi equidistanti e sovrapposti, disposti in una simmetria esagonale che vanno a formare una figura che ricorda un fiore con simmetria a sei pieghe come un esagono. Il centro di ogni cerchio è posto sulla circonferenza di sei cerchi sovrapposti dello stesso diametro.
La forma, la proporzione e l’armonia perfette del “Fiore della Vita” sono state conosciute da filosofi, architetti e artisti di tutto il mondo. I pagani lo consideravano una geometria sacra di antico valore religioso, una sorta di “Registro Akashico” che raffigura le forme fondamentali di spazio e tempo. Akasha è un termine sanscrito per indicare l’etere e conterrebbe le informazioni di base di tutti gli esseri viventi rappresentando l’espressione visiva delle connessioni della vita che attraversano tutti gli esseri senzienti.
La rappresentazione di tale simbolo ha origini antichissime che si perdono nella notte dei tempi, lo si trova più spesso nella forma esagonale dove il centro ci ciascun cerchio sta sulla circonferenza di sei cerchi circostanti dello stesso diametro. E’ formato da 19 cerchi completi e 36 archi circolari parziali, il tutto inserito in un grande cerchio.
Il “Fiore della Vita” lo troviamo citato in numerosi manoscritti risalenti alle più disparate epoche e culture di tutto il mondo. Nella sua rappresentazione può assumere diverse forme sempre riconducibili al numero “sei”, simbolo dei giorni della creazione (per questo in molti casi è chiamato anche “Sesto giorno della Creazione”).
Come simbolo lo troviamo nelle più antiche culture, in quella egizia nelle “Tavole Di Thoth” oltre ad essere rappresentato, come detto, sulle colonne dell’Osireion di Seti I, nel tempio di epoca romana dedicato a Hibis a El-Kharga, compare nella cultura assira e fenicia, viene citato nel Talmud babilonese e nella Bhagavadgītā degli Induisti oltre che nella Bibbia dove viene citato più volte.
Lo troviamo anche in un manoscritto di Leonardo da Vinci.
Secondo alcuni la più vecchia rappresentazione del “Fiore della Vita” si troverebbe su un gradino di alabastro di uno dei palazzi del re Assurbanipal e sarebbe datato al 645 a.C. Opinione che non tiene conto di quello rappresentato nell’Osireion ad Abydos, in Egitto risalente ad almeno 6000 anni fa (alcuni lo farebbero risalire a 10.500 a.C. o prima.
Inciso con incredibile precisione, si pensa che potesse rappresentare l’occhio di Ra, un simbolo dell’autorità del faraone. Rappresentato nella sua forma estesa, il “Fiore della Vita” assume un’importanza notevole in quanto nella sua struttura emerge una matematica perfetta, con la presenza del “numero aureo” che è esotericamente considerato sacro. Gli architetti, fin dal più lontano passato lo hanno sapientemente inserito in ogni struttura da loro costruita
Dopo meno di due anni di coreggenza col padre Ramses I, Seti-Merenptah (Uomo di Seth-amato da Ptah), figlio della Grande Sposa Reale Sitra, sale al trono, dopo essere stato Sommo Sacerdote di Seth, ed assume il nome regale Menmaatra (Stabile è la Giustizia di Ra).
Non è chiara la ragione per cui un faraone abbia assunto il nome di Seth, il nome di questa divinità non veniva più usato fin dalla II dinastia anche se il suo culto è sempre stato diffuso nel Delta. E’ un uomo nel pieno vigore fisico ed intenzionato a riportare l’Egitto ai fasti del passato superando quel che ancora restava dell’eresia amarniana. Al trono con lui sale anche la sua Grande Sposa Reale Tuya di provenienza non regale ma figlia di un generale dell’esercito.
La durata del regno di Seti I non è ben definita ed è oggetto di varie interpretazioni, Manetone, che lo considera il fondatore della XIX dinastia, gli assegna una durata improponibile di 55 anni. Come per i suoi predecessori il compito maggiore consisteva nel ripristinare la sovranità egizia in Asia, in modo particolare nella terra di Canaan ed in Siria, territori considerati appetibili dall’espansionismo ittita. E’ curioso notare quanto la volontà di tornare ai vecchi dei si riscontri nella titolatura di questo faraone che per esteso è: Menmaatra Seti-Merenptah dove vengono citati Ra, Ptah, Amon e Seth, questo anche per ridimensionare in parte l’eccessivo potere che il clero di Amon di Karnak vantava prima della rivoluzione religiosa di Akhenaton e riaffermare il primato teologico del dio Ra.
Seti I si dedicò in modo particolare all’attività edilizia, le sue opere più importanti furono, tra le altre il completamento della grande Sala Ipostila a Karnak ed il suo tempio funerario ad Abydos sulle cui pareti volle realizzare l’importante rilievo, noto col nome di “Lista Reale di Abydos” dove lui rende omaggio a 76 suoi predecessori a partire da Narmer, estremamente utile come fonte per ricostruire la cronologia dei sovrani egizi.
Fece costruire numerosi obelischi in onore di Ra nel tempio di Eliopoli, uno di questi è il famoso “obelisco flaminio”, alto 26 metri, completato poi dal figlio Ramses II, e che oggi svetta in Piazza del Popolo a Roma dove venne fatto portare dall’imperatore Augusto nel 10 a.C.. Su un lato compare un’iscrizione dove si afferma:
<<…….(Sethi …) che riempie Eliopoli di obelischi affinché i raggi possano illuminare il tempio di Ra……>>.
Certamente non trascurò la politica estera dove era necessario riportare un po’ d’ordine. Dalle scene di battaglia che ancora oggi possiamo ammirare, scolpite sulla parete esterna settentrionale della Grande Sala Ipostila a Karnak e su numerose stele, apprendiamo delle numerose campagne militari condotte in Medio Oriente, principalmente a Canaan, in Libia e in Nubia.
Fin dal primo anno di regno Seti I si dedicò a ristabilire la sovranità egizia ripristinando la “Via di Horus”, strada che, partendo dalla fortezza di Tjaru, all’estremità orientale del Delta, terminava in Palestina, nei rilievi del tempio di Karnak sono ben dettagliate le numerose fortezze e pozzi che costellavano la strada. Durante il percorso attraverso il Sinai vennero debellati i riottosi beduini detti Shasu, entrando in Canaan pretese tributi dalle varie Città-Stato presso le quali ebbe modo di soffermarsi. Non fu così per alcune altre, come Beir She’an e Yenoam contro le quali Seti I non partecipò direttamente ma inviò solo le sue truppe. La spedizione proseguì poi fino al Libano dove i sovrani locali si sottomisero cedendo come tributo una ingente quantità di legno di cedro. Tornato in patria Seti I si rivolse contro le tribù libiche dei Tehenu, dei Libu e dei Mashuash che premevano ai confini creando non pochi problemi, e li sconfisse. Durante l’ottavo anno di regno dovette inviare l’esercito per reprimere una rivolta in Nubia, non si recò egli stesso ma potrebbe averlo fatto come comandante il figlio, futuro Ramses II.
Il pericolo maggiore però arrivava dalla Siria, nonostante il trattato di pace stipulato a suo tempo dai sovrani ittiti con Amenhotep III e siglato con matrimoni reali, ultimo quello di Tadukhipa con Amenhotep III. Il trattato prevedeva il riconoscimento da parte ittita dei diritti egiziani sul regno di Amurru, sulla valle dell’Oronte e sulla città di Kadesh ottenendo in cambio la rinuncia da parte egiziana dei territori dei Mitanni conquistati da Tutmosi III.
Per fronteggiare la minaccia degli ittiti che erano avanzati in territorio egiziano, Seti I intraprese una campagna militare con la quale conseguì qualche successo arrivando a riconquistare il regno di Amurru e, anche se per poco, la città di Kadesh sulla quale ormai non aveva più alcuna influenza a causa della politica inetta di Akhenaton, impresa che non era riuscita a Tutankhamon ed a Horemheb. Per celebrare l’impresa Seti i fece erigere una stele dedicata agli dei Amon, Seth e Montu. I frutti della vittoria non durarono però a lungo, gli ittiti si ripresero presto Kadesh e Amurru a causa dell’impossibilità, o dell’incapacità da parte egizia di mantenere un congruo contingente militare in zona. A causa di ciò non è da escludere che sia stato raggiunto un accordo tra Seti I e Muwatalli II col quale vennero ridisegnati i confini. Ci proverà poi, ma senza successo, il figlio Ramses II a riconquistare Kadesh cinque anni dopo la morte di Seti I.
Per quanto riguarda le vittoriose campagne militari di Seti I ci sarebbe da avanzare qualche dubbio, come di consueto nei riguardi dei faraoni che sono molto propensi a glorificare i propri meriti magari usurpando quelli degli altri. Dagli studi effettuati sulle “lettere di Amarna” in un primo momento si pensò che con il regno di Akhenaton l’Egitto fosse sprofondato nel caos privo della fermezza di un sovrano che avesse polso. In realtà le cose non andarono proprio così, certo che per il faraone eretico esisteva quasi solo la religione dell’Aton e lui personalmente non seguiva molto i fatti dell’impero, meno che mai Tutankhamon, c’è da dire però che i suoi predecessori avevano creato una amministrazione statale molto efficiente che provvedeva alla gestione degli interessi dello stato anche senza precise direttive del sovrano.
Oggi sono stati condotti studi più approfonditi per cui gli egittologi non credono che la politica di Akhenaton abbia portato alla perdita dell’impero, se si escludono quei pochi territori poi riconquistati da Seti I. Sicuramente Seti I, come molti altri prima e dopo di lui, ha fatto costruire monumenti anche importanti (alcuni li ha usurpati), riempiendoli di rilievi ed iscrizioni nelle quali vantava anche meriti non propriamente suoi o esagerando i suoi.
Secondo alcuni Seti I nominò il figlio Ramses coreggente intorno al suo nono anno di regno ma al riguardo non esistono fonti certe. L’egittologo canadese Peter J. Brand non crede che i rilievi presenti in vari templi di Karnak, Gurna e Abydos, dove sono raffigurati insieme Seti I e il figlio Ramses II, siano significativi per suffragare la coreggenza tra i due in quanto la maggior parte di essi vennero realizzati per volere di Ramses II dopo la morte di Seti I.
Sulla coreggenza o meno si sono espressi diversi egittologi tra cui William Murnane e Kenneth Kitchen e molti altri; In conclusione una coreggenza appare assai improbabile se fanno testo due importanti descrizioni che compaiono nel tempio di Abydos e su di una stele commemorativa a Kuban nelle quali Ramses II è sempre descritto come principe e non come coreggente, nelle iscrizioni sono riportati, oltre ai vari titoli militari, il titolo di “Primogenito del re” e “Principe ereditario ed Erede”.
Alla sua morte Seti I fu sepolto nella Valle dei Re in quella che oggi è chiamata KV17, (Tomba Belzoni). Questa fu scoperta per l’appunto da Giovanni Battista Belzoni nel 1817 mentre lavorava per Henry Salt. Alessandro Ricci, che lavorava con Belzoni, fu il primo a disegnare i rilievi della tomba che venne attribuita ad un ipotetico re Psammuthis.
Con la decifrazione dei geroglifici ad opera di Champollion nel 1822 si scoprì che apparteneva a Seti I. La tomba fu sottoposta a numerosi lavori di restauro e conservazione prima da Burton, poi da Rosellini e da Carter ed infine da Barsanti. Dal 1979 fino al 2000 è stata oggetto di mappatura, rilievi epigrafici e ad ulteriori lavori di conservazione e restauro.
Lunga 136 metri è la più profonda di tutte quelle del Nuovo Regno, è la prima che presenta tutte le pareti completamente decorate con bassorilievi e pitture dai colori molto vivaci. In essa compaiono per intero i testi del libro dell'”Amduat” e le “Litanie di Ra” oltre alla rappresentazione di molti dei, tra cui Hathor, Osiride, Ptah, Nefertum e Iside.
Le successive tombe del Nuovo Regno cercarono sempre di imitarla. Il sarcofago di Seti I è ricavato da un unico imponente blocco di alabastro decorato con rilievi in ogni sua parte, all’interno si trova un’immagine della dea Nut che avvolge il corpo del faraone.
Sulla parte esterna del sarcofago è inciso parte del “Libro delle Porte” oltre ad un testo sul viaggio notturno di Ra nell’oltretomba. Nel 1825 il sarcofago venne acquistato da Sir Soane del “Jhon Soane Museum”, dove si trova tutt’ora, era completamente bianco ma col tempo, a causa del clima e dell’inquinamento di Londra, ha assunto un colore bruno più scuro perdendo anche alcune decorazioni.
La mummia di Seti I, come quelle di altri faraoni, venne trasportata nella cachette di Deir el-Bahari dove fu rinvenuta nel 1881 e riconosciuta grazie al fatto che il suo nome era inscritto sul coperchio del sarcofago; traslata al Museo Egizio del Cairo fu sbendata da Gaston Maspero nel 1886. Gli esami condotti sulla mummia, che si trova in ottime condizioni, hanno rivelato che all’atto della morte Seti I non aveva ancora cinquant’anni.
Subito apparve una stranezza, forse a causa di una disattenzione degli imbalsamatori, il cuore, che la prassi prevedeva che fosse rimosso, mummificato e poi rimesso al suo posto, si trovava nella parte destra del torace anziché in quella sinistra.
La mummia, lunga 170 cm era talmente ben conservata che sbendandola Maspero ebbe a dire:
<<……era un capolavoro dell’arte dell’imbalsamatore, e l’espressione del volto era quella di uno che appena qualche ora prima ha esalato l’ultimo respiro…….un calmo e mite sorriso aleggiava ancora sulla bocca e le palpebre semiaperte lasciavano intravedere sotto le ciglia una riga apparentemente umida e brillante, era il riflesso dei bianchi occhi di porcellana introdotti nelle orbite al momento della sepoltura …….>>.
Prima di addentrarci nel grande tempio di Seti I ad Abydos vorrei parlare di una curiosità, il tempio racchiude una delle più enigmatiche raffigurazioni che rappresenta una manna per i più accaniti fanta-egittologi pieni di fantasia aliena sulla quale sono stati spesi fiumi di libri di fantarcheologia.
La scena in questione rappresenta un insieme molto confuso di glifi e geroglifici ai quali non è stato possibile dare una spiegazione pratica anche se studiosi esperti hanno chiarito quale mistero si cela dietro questi strani geroglifici. Certamente per alcuni esistono ancora molti dubbi ma la spiegazione data appare attendibile e fondata su basi concrete. Certo che se osservate in modo del tutto spontaneo vi trovate di fronte alla rappresentazione di quali armi disponeva l’esercito di Seti I, aerei a reazione, sottomarini, e persino elicotteri e, se vogliamo pure degli UFO.
Il tempio non è stato completato durante il ciclo di vita di Seti I, ma da suo figlio, Ramesses II, all’inizio del suo regno. Il lavoro fatto eseguire da Ramesses II è di qualità nettamente inferiore a quello di suo padre, lo si capisce dal lavoro scadente effettuato nelle varie modifiche apportate al tempio. Come risultato di questo “scadente” lavoro, alcuni iscrizioni sono state cesellate e riscolpite in fretta, utilizzando il gesso in alcuni casi solo per rintonacare le iscrizioni superflue, intonacature che ovviamente nei millenni si sono sbriciolate o seccate, facendo riaffiorare dalla pietra i vecchi geroglifici che si confondono con i nuovi.
Una spiegazione dettagliata di questi strani geroglifici QUI
A questo punto va detto che nulla di simile è mai stato riscontrato in nessun altro tempio, piramide o strutture presenti in Egitto. Pensare a soluzioni aliene o a civiltà precedenti appare comunque del tutto fuori luogo in quanto se tali glifi volessero proprio rappresentare i mezzi tecnologici a cui assomigliano il contesto in cui sono inseriti non permette la ricostruzione di una frase a senso compiuto. Il mondo accademico da come spiegazione che tale rappresentazione è solo frutto della casualità. “Omnes cogitant quod volunt”.
LA TOMBA KV17
Soffermiamoci ad ammirare la stupenda tomba di Seti I, la KV17 nella Valle dei Re, ne vale la pena.
Purtroppo Belzoni, per agevolare l’ingresso alla parte ipogea, fece scavare un profondo pozzo verticale quasi all’inizio dell’ingresso della tomba, questo riempiendosi d’acqua causò numerose inondazioni alle quali lo stesso Belzoni cercò di porvi rimedio innalzando un muro, la cosa però si rivelò inutile. Il tutto, con l’umidità, causò un’escursione termica che con la dilatazione delle rocce provocò parecchi crolli dell’intonaco dipinto. Come se ciò non bastasse, l’inesperienza delle tecniche di restauro in auge a quei tempi portò Belzoni e Wilkinson a cercare di ravvivare i colori parietali per mezzo di spugnature umide, cosa che fecero pure i visitatori della tomba in assenza di controlli. A questi danni se ne aggiunsero altri causati da interventi maldestri di ricercatori, spesso anche malintenzionati, che distrussero parti di intonaco affrescato nel tentativo di cercare altre camere nascoste, senza contare poi quelli che strapparono letteralmente parti di intonaco per portarseli via.
Oggi le pareti si presentano alquanto sbiadite e, per evitare di danneggiare ulteriormente i dipinti, con il vapore acqueo causato dalla respirazione dei molti visitatori la tomba è stata chiusa al pubblico per oltre dieci anni, dopo gli opportuni interventi il 1 novembre 2016 è stata riaperta contemporaneamente a quella di Nefertari.
Fortunatamente nel 1825 intervenne l’egittologo James Burton che dette inizio ad importanti lavori di protezione e consolidamento della tomba, fece erigere un nuovo muro di fronte all’ingresso riuscendo questa volta ad impedire ulteriori inondazioni, fece svuotare il pozzo verticale di Belzoni ed installò una robusta porta all’ingresso.
Gli interventi di Burton ottennero i risultati sperati e da allora la tomba KV17 non ha subito ulteriori inondazioni limitando così i danni. Sulla tomba tornò anche Carter, nella campagna del 1902-1903, durante la quale svolse numerosi lavori di restauro e consolidamento (in modo particolare nella camera funeraria) dove tentò, purtroppo senza successo, di sanare alcune crepe che si erano aperte nelle pareti.
<< Seguite sulla planimetria la descrizione della tomba >>.
Planimetria schematica della tomba KV17 della Valle dei Re – (dis. di Hotepibre)
L’ingresso avviene attraverso una breve scala (a) che sbuca in un corridoio in forte pendenza (b), questo termina in una nuova scala che da accesso ad un nuovo corridoio (c), anch’esso in pendenza che porta ad un pozzo verticale (d) profondo circa 6 metri. Superato il pozzo si accede ad una camera (e) con quattro pilastri delle dimensioni di 8 x 8 metri circa, da questa si accede ad una seconda camera (f), grande come la precedente, con due pilastri. Sulla sinistra della camera (e), tramite una scala che sbuca in un corridoio (g), dal quale si diparte un’ulteriore scala (h) si raggiunge l’anticamera (i) e da qui la camera funeraria (j) che si presenta su due livelli mentre sei pilastri sostengono l’imponente soffitto a volta.
Alla sinistra della camera funeraria si trova ancora una camera (m) con due pilastri mentre sul lato posteriore si trova una camera (n) con quattro pilastri disposta ortogonalmente rispetto all’asse principale della tomba. Quasi al centro del lato posteriore si estende uno scavo non rifinito, da qui si raggiunge una scala male intagliata nella roccia che prosegue attraverso un profondo budello (o) che prosegue nella Valle per oltre 150 metri.
Nel 2007 si è tentato di sgomberare il tunnel dalle macerie per accertarsi se si trovavano altri locali con esito negativo, dopo 150 metri il tunnel si interrompe bruscamente.
La tomba di Seti I viene altresì chiamata la “Cappella Sistina egiziana” in quanto è l’unica tomba della Valle dei Re ad avere tutte le pareti dei corridoi e delle camere interamente ricoperte di decorazioni, inoltre in essa sono contenuti tutti i testi religiosi relativi al culto del defunto.
Le decorazioni sono state eseguite con maestria inusuale, è la prima volta che le “Litanie di Ra” ed i capitoli del “Libro dell’Amduat” non vengono rappresentati nella camera funeraria ma solo sulle pareti dell’ingresso e dei primi due corridoi. Anche le pareti del pozzo sono decorate con immagini di Seti I in compagnia di divinità.
La camera (e) presenta capitoli del “Libro delle Porte” (descrizione della quinta ora) oltre ad una cappella dedicata a Osiride. Le pareti della camera (f), che Belzoni chiamò “Sala dei disegni”, sono per l’appunto ricoperte da disegni incompleti, mai terminati, che si riferiscono alle ore Nona, Decima e Undicesima dell’Amduat oltre a Seti I in compagnia di Ra-Horakhti.
Nel corridoio (g) e nel passaggio (h) è riportata la classica cerimonia dell’apertura della bocca e degli occhi mentre nell’anticamera (i) sono rappresentate molte divinità. La camera funeraria (j) presenta uno splendido soffitto a volta decorato con la volta blu intenso, gli astri e le più importanti costellazioni sono dipinte di un giallo pallido che spicca sul blu del soffitto.
Sulla pareti compaiono i testi del “Libro delle Porte” e di quello dell'”Amduat” dove è descritto il viaggio della barca solare di Ra, numerose altre divinità tra cui Anubi intento a praticare l’apertura della bocca con il dio Osiride. Interessanti anche le decorazioni dell’annesso (k) dove, nella Quarta ora del Libro delle Porte, alcuni geni minori mantengono vivo il fuoco dei “Pozzi Ardenti” dove finiscono i dannati.
Come abbiamo detto all’interno della camera funeraria si trovava il sarcofago di alabastro con una particolarità quasi unica nel suo genere, le sue pareti sono spesse solo 5 centimetri attraverso le quali filtra la luce. Al contrario il coperchio è spesso 30 centimetri e venne rinvenuto spezzato dai saccheggiatori. All’interno si trovavano parecchi oggetti, o parti di essi, tra cui degli ushabty in legno alti 1 metro, tutti i reperti si trovano oggi al Sir John Soane’s Museum di Londra.
In uno dei locali, all’interno della tomba, è stata trovata la mummia di un toro cosa che gli è valso anche il nome di “Tomba di Api”. Di Seti I è stata rinvenuta un’altra tomba ad Abydos la cui struttura ricorda quella della KV17, si tratta di un cenotafio al centro del quale si trova una vera e propria isola circondata dall’acqua, sull’isola è situato un falso sarcofago. Simbolica associazione al mito di Osiride ed alle forze primeve della creazione. Questa realizzazione ha fatto sorgere il dubbio che il profondo tunnel della KV17 sia stato realizzato allo scopo di intercettare l’acqua dal sottosuolo.
Di grande interesse il tempio funerario di Seti I, che si trova più a nord di ogni altro tempio, purtroppo è assai lontano dalle mete più frequentate dai turisti, il faraone lo dedicò, oltre che ad Amon, al proprio padre, Ramses I.
Al contrario del figlio Ramesse II o della regina Hatshepsut, col tempo la fama di Seti I svanì (e non poteva essere diversamente con un figlio come Rsmses II), ed anche il suo tempio cadde nell’oblio, un vero peccato perché il tempio si presenta di una bellezza veramente ammirevole dove il turista si trova immerso nell’epoca del faraone.
Seti non fece in tempo a vedere finito il suo tempio perché morì prima ma il figlio amorevolmente lo fece completare. La parte esterna, ormai in rovina, non rende merito alla parte interna, le sale e le anticamere del tempio principale sono ben conservate così come alcuni dei rilievi molto interessanti dove Seti I ed il figlio Ramses II sono rappresentati insieme nell’atto di porgere offerte ad Amon.
Come detto in precedenza, il tempio racchiude la famosa lista reale che Seti I volle per venerare gli antichi sovrani la cui necropoli si trovava presso le sue mura e conteneva sia le tombe che i cenotafi dei suoi predecessori.
Sette cappelle, con soffitti a volta, presentano sulle pareti dettagliati rilievi che mantengono ancora una vivace colorazione, queste fanno parte del tempio ed erano destinate al culto del re e dei principali dei tra i quali Ptah e Amon. In fondo ad ognuna di esse è presente una falsa-porta, tranne in quella di Osiride che possiede una vera porta che da accesso a una serie di santuari interni.
Nella parte posteriore si trovano grandi stanze dedicate al culto di Osiride. In origine il tempio misurava 180 metri di lunghezza, oggi purtroppo la maestosità di questo monumento è appena percettibile in confronto alla sua antica grandezza, in buono stato si trovano attualmente circa 80 metri per una larghezza di circa 120 metri.
Il pilone d’ingresso e i due cortili anteriori del tempio, da cui oggi si accede attraverso un portico che immette direttamente nelle due sale ipostile, sono quasi del tutto ridotti in rovina. La seconda sala ipostila è collegata all’ala sud del tempio tramite un lungo corridoio che riporta, su una parete un interessante rilievo finemente lavorato dove compare Sethi I che, con il figlio Ramesse II, stanno catturando un toro con una corda, la parete di fronte riporta la famosa “Lista dei Re”.
Facciamo ora un giro dietro al tempio e ci troviamo di fronte ad un’altra imponente costruzione religiosa, l’Osireion. Considerato uno dei più importanti monumenti sepolcrali, desta ancora oggi molte perplessità, non tutti concordano sul fatto che a farlo costruire sia stato proprio Seti I, la datazione è tutt’ora incerta e sono tante le ipotesi avanzate che si alimentano delle leggende legate al mito di Osiride (1).
Si ritiene che sia stato edificato nel luogo dove veniva custodita la testa di Osiride, era il centro religioso più importante dove si celebravano i cosiddetti “Misteri Osiriaci”, allo scopo venne utilizzata l’acqua perché secondo la leggenda il dio era stato sepolto su un’isola.
L’Osireion si raggiunge tramite una scala che parte dal tempio di Seti I ed è costituito da una estesa struttura in superficie, situata a circa 15 metri sotto il livello del tempio, e da un’ampia struttura sotterranea. Oggi purtroppo è per meta sepolto e in gran parte inaccessibile a causa delle infiltrazioni di acqua.
L’imponente struttura sotterranea, in parte sommersa dall’acqua, è costruita con enormi monoliti in granito rosa ed arenaria, alti da 4 a 8 metri, larghi circa 2,40 metri e con un peso medio da 100 a 200 tonnellate, lisci e perfettamente levigati incastrati e soprapposti con una precisione di altissimo livello tecnologico, non c’è traccia di malta o cemento, i blocchi sono assemblati tra loro solo con del fango; cosa che si riscontra solo in un altro posto in tutto l’Egitto, il tempio della Sfinge a Giza.
L’Osireion venne scoperto agli inizi del ‘900 dalla spedizione archeologica guidata dall’egittologo Flinders Petries, coadiuvato dalla dott.ssa Margaret Murray e per un certo periodo di tempo venne considerata da alcuni egittologi come l’ipogeo di Seti I, questo perché nel 1929 l’egittologo Henry Frankfort, docente presso l’Università di Londra, rinvenne un frammento di terracotta che riportava incisa la frase “Seti è al servizio di Osiride”.
Le pareti sono completamente prive di incisioni e geroglifici, su alcuni pilastri compaiono raffigurazioni di navi con le vele ammainate ed eccezionalmente il “Fiore della Vita”, un simbolo che troviamo in tutte le antiche culture del mondo.
A rendere ancora più affascinante il mistero che avvolge questa meravigliosa costruzione, è il riscontrare che il livello di perfezione con cui le pietre sono incastrate l’una con l’altra è inferiore al margine di errore ammesso oggi nel calcolo delle migliori autostrade moderne. Molti blocchi sono stati fissati con cambrette di metallo (bronzo?), metodo che veniva utilizzato in tutto il mondo, sono state rinvenute per la prima volta dagli archeologi dopo gli scavi condotti nella storica città greca di Delfi, sede del famoso oracolo.
(1) – Il Mito di Osiride – (per chi ancora non lo conosce)
Osiride e Seth erano figli del dio della terra Geb e della dea del cielo Nut. Osiride sposò la sorella Iside. Tra i due fratelli sorse una rivalità per cui Seth decise di uccidere suo fratello Osiride. Costruì un sarcofago e durante una festa disse che lo regalava a chi fosse riuscito ad entrarci perfettamente. Osiride cadde nell’inganno e appena entrò nel sarcofago Seth lo chiuse dentro e lo gettò nel Nilo. Il sarcofago scese lungo il fiume e raggiunse il mare dove si fermò a Biblo, qui si incastrò in una acacia e col tempo ne venne avvolto. Iside, dopo molte peripezie, venne in possesso del corpo di Osiride, cercando di rianimarlo rimase fecondata ed al momento giusto partorì Horo. Un giorno però Seth trovò il corpo di Osiride e si infuriò a tal punto che lo tagliò in vari pezzi che disperse per tutto l’Egitto. Iside ritrovò tutti i pezzi (con l’eccezione del fallo, mangiato da un pesce gatto) e lo ricompose. Con l’aiuto della sorella Nefti lo riportò in vita usando i suoi poteri magici. Osiride però non poteva più vivere sulla terra quindi diventò il re dei morti. Un’altra versione narra che Iside non trovò i pezzi in cui fu sezionato Osiride ma questi furono trovati dagli egizi che provvidero ad innalzare un tempio su ciascuno dei pezzi del dio. La storia è stata tramandata come mito per millenni tanto da essere ritenuta una realtà; è quindi giustificato pensare che per gli antichi egizi l’Osireion custodisse la reliquia più importante del dio.
Fonti e bibliografia:
Alessandro Roccati, “L’area tebana, Quaderni di Egittologia”, n. 1, Roma, Aracne, 2005
Murray Margaret, “The Osirion at Abydos”, British School of Egyptian Archeology, Londra, 1904.
Mario Tosi, “Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto”, vol. I, Torino, Ananke, 2004
Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
Edda Bresciani, “Grande enciclopedia illustrata dell’antico Egitto”, De Agostini, 2005
Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bologna, Bompiani, 2003
Christian Jacq, “La Valle dei Re”, trad. di Elena Dal Pra, Milano, Mondadori, 1998
Margaret Bunson, “Enciclopedia dell’Antico Egitto”, Melita edizioni, 1995
Alfred Heuss et al., “I Propilei“. I, Verona, Mondadori, 1980
Erik Hornung, “La Valle dei Re”, traduzione di Umberto Gandini, Torino, Einaudi, 2004)
(Le foto sono dell’amico Giuseppe Fornara che ringrazio vivamente)