C'era una volta l'Egitto, Nuovo Regno, XVIII Dinastia

L’ESODO

Di Piero Cargnino

Ignoriamo tutto, non esistono prove storiche o archeologiche che possano supportare le notizie che ci troviamo a leggere solo sulla Bibbia. Ignoriamo il secolo in cui si sarebbero svolti i fatti, ignoriamo perfino se davvero il popolo ebreo sia mai stato in Egitto. Più approfondisco le mie ricerche e più mi rendo conto che, praticamente privi di prove archeologiche o storiche, ciascuno scrive un po’ quello che immagina a seconda della propria interpretazione, alcuni arrampicandosi sui vetri per scovare un indizio che, magari un po’ forzato se non addirittura manipolato, possa confermare la sua tesi.

La realtà è che a tutt’oggi, al di fuori della fede religiosa, non esiste l’ombra di una prova, e ripeto, storica o archeologica, che ci permetta di confermare con assoluta certezza che sia mai avvenuta la discesa in Egitto del popolo ebraico ed il conseguente Esodo, almeno come viene raccontato nella Bibbia.

Prima di arrivare al nocciolo della questione, ovvero: “Gli ebrei sono stati realmente schiavi in Egitto? e “L’Esodo è avvenuto davvero come ce lo racconta la Bibbia?”, vorrei iniziare prendendo l’argomento un po’ alla larga. Non vorrei immergermi in una diatriba religiosa dalla quale non se ne esce più, ma per rispetto alla storia dell’antico Egitto, almeno come la conosciamo noi, vedrò di seguire le diverse ipotesi che fior di studiosi hanno formulato. Ci terrei però ad esprimere anche le mie opinioni in proposito (da profano) ma non privo della capacità di ragionare.

Quello che per me è un punto fondamentale è quello di stabilire innanzitutto “Chi erano gli Ebrei?”. Si può parlare di ebrei come popolo prima che Giosuè fondasse Gerusalemme? Se riusciamo a risolvere questo enigma dopo, forse, sarà tutto più facile.

L’Enciclopedia Treccani alla voce Ebrei specifica:

E’ qui sorge un’altra domanda: “Che cosa s’intende per popolo?”. Faccio ancora ricorso all’Enciclopedia Treccani che definisce Popolo:

Bene a quanto risulta dalle testimonianze riportate nella Bibbia stessa, all’epoca della presunta discesa in Egitto e fino al successivo Esodo, non esisteva alcun complesso di individui accomunati dalla stessa fede religiosa o politica da potersi considerare “popolo ebraico”. Si può iniziare a parlare di un “popolo ebraico”, unito, però solo da un rapporto religioso anche se non ancora un’entità sovrana, solo al termine del presunto peregrinare attraverso il Sinai, quando Mosè riuscì finalmente ad affermare il Dio unico a coloro che lo seguivano (anche se in effetti coloro che lo seguivano erano ancora credenti in molti dei).

Molti studiosi sostengono che il termine “ebrei” lo si trova citato per la prima volta in un papiro risalente alla XIII dinastia e rinvenuto a Tebe, il cosiddetto “Papiro di Brooklin” n. 35.1446 nel quale viene riportato un lungo elenco di nomi di servitori della corte di Khutawy.

In esso si racconta che il visir Ankhu riceve in dono, per ordine del sovrano, del cibo da ripartire fra tutti i suoi collaboratori di molti dei quali vengono citati i nomi. L’interesse storico del papiro sta nel fatto che 45 nomi su 79, sono palesemente asiatici, cosa questa che confermerebbe la notevole presenza in Egitto di gente proveniente dalla Palestina prima ancora dell’invasione degli Hyksos. Privi di connotazioni etniche comuni e senza linguaggio comune; i loro nomi personali denunciavano una provenienza semitica, ma anche hurrita o indo-europea. Mi pare ovvio supporre che in Egitto dimorassero popolazioni di origine palestinese, siriana o cananea.

Nel papiro si parla inoltre della presenza di Hapiru (o Habiru o Apiru), nome principalmente usato nel II millennio a.C. per identificare gruppi di persone appartenenti ad una classe sociale inferiore, che vivevano ai margini della società. Un’altra citazione degli “Apiru” la troviamo su di una scena parietale, rinvenuta durante gli scavi di un monumento egizio risalente all’epoca della regina Hatshepsut e Tutmosi III (1470 a.C. circa). In essa sono rappresentati uomini che lavorano ad un pigiatoio per il vino. La didascalia sotto l’immagine porta scritto: “Estrazione del vino degli Apiru”.

Gli Apiru sono inoltre citati in una lettera presente sul Papiro di Leiden, risalente all’epoca di Ramesse II (1250 a.C. circa), dove vengono impartite le seguenti disposizioni:

Come specificato in precedenza, molti studiosi hanno ritenuto di associare il termine Apiru o Habiru o Hapiru con Ebrei; questo in virtù di una presunta assonanza che passa attraverso il termine “Ivri” (o evriu) da cui Ebrei. Io penso che già non sappiamo di preciso come, a quei tempi, venisse pronunciata oralmente la parola Apiru, e forse neppure la parola Ebrei, che caso mai l’assonanza la intuiamo solo oggi.

L’argomento che stiamo affrontando è estremamente delicato per l’importanza che riveste nei confronti delle tre religioni monoteiste, Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Lungi da me l’idea di scoprire se la Bibbia, o meglio, l’Antico Testamento (Pentateuco), rappresenta un testo sacro storico-religioso o se in esso siano contenuti miti e leggende provenienti da un lontano passato e comuni a diverse antiche culture mediorientali. In linea di massima la maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che i testi biblici furono scritti a partire dal VII secolo a.C. anche se le date esatte della compilazione di queste scritture restano a tutt’oggi fonte di interrogativi.

Secondo alcuni studiosi la Bibbia, o almeno gran parte di essa, sarebbe stata composta durante il periodo successivo all’esilio babilonese (587 – 539 a.C.) e potrebbe rappresentare la base su cui un popolo oppresso intendeva affermare una propria identità storica e religiosa dopo oltre mezzo secolo di esilio.

Secondo il professor Eliezer Piasetzky, l’alfabetizzazione presente nelle fasi terminali del Regno di Giuda (600 a.C.), sarebbe stata tale da costituire il primo passo verso la redazione di molti scritti veterotestamentari. Sicuramente ci troviamo di fronte a successive riscritture di testi molto più antichi dai quali gli autori (quaranta secondo alcuni), hanno attinto, ma soprattutto a racconti e tradizioni tramandate più che altro oralmente dal popolo e solo più tardi, quando, in seguito all’“Editto di Ciro” (Esdra: 6:3-5), gli ebrei poterono tornare a Gerusalemme, i vari testi furono riuniti in libri ai quali fu dato un titolo ed in seguito integrati in quella che sarà la Bibbia.

Possiamo anche pensare che durante la cacciata degli Hyksos un gruppo, secondo alcuni sarebbero i famosi Hapiru (o Habiru), abbia scelto di andarsene per proprio conto senza seguire gli altri asiatici seguendo un personaggio di spicco tra di loro (Mosè?), il quale si era creato un unico Dio (chissà perche?) ed in suo nome abbia promesso ai suoi seguaci di portarli in una fantomatica “Terra Promessa”. La Bibbia stessa ci dice che i seguaci di Mosè non erano fedeli a quel Dio che veniva imposto loro e che loro manco ne avevano mai sentito parlare. Ma allora perché girovagare per 40 anni nel deserto del Sinai? Sempre la Bibbia ci dice che gli “Israeliti” non obbedirono al Dio di Mosè e infransero spesso i suoi comandamenti, furono perciò puniti con 40 anni di peregrinazione prima di giungere nella Terra Promessa.

La vicenda del Patriarca legislatore che attraversa il Mar Rosso, si dirige a sud nel Sinai dove vaga per 40 anni e riceve le tavole della Legge dal suo Dio, si può includere nel mito, sacro e nobile, della narrazione biblica. La quale narrazione biblica ci presenta una delle tante  contraddizioni, ci descrive il Monte Sinai non in Sinai ma in Arabia.

Questa è la teoria che colloca l’Esodo in concomitanza con la cacciata degli Hyksos, condivisibile? Personalmente la ritengo poco probabile.

Proviamo ora a guardare la vicenda da un altro punto di vista. Con Amenhotep III avviene il primo distacco vero e proprio della casa regnante dal centro cultuale per eccellenza del dio Amon a Karnak, il sovrano infatti fece costruire una nuova reggia oltre il Nilo, a Malqata, dove fece costruire anche il suo complesso funerario del quale oggi rimangono solo più gli enormi Colossi di Memmone.

Questo allontanò ulteriormente la casa reale dalle interferenze dei sacerdoti del dio Amon i quali erano sempre più invadenti verso il potere politico del sovrano. Come abbiamo accennato in precedenza, già con Thutmosi IV iniziarono ad affermarsi nuove idee e proposte religiose dal contenuto spirituale e sociale profondamente innovativo, si nota un certo distacco dal culto di Amon in favore di quello che con Akhenaton troverà una piena affermazione, Aton, ovvero il “disco solare”.

Il padre della psicanalisi, Sigmund Freud scrive in proposito:

Particolarmente evidente è  la forte influenza della cultura e della religione enoteistica del dio Aton (Adonai per gli “ebrei”) sulla cultura ebraica ed il suo monoteismo (notare però che Adonai è plurale e significa “Miei Signori”).

Importante notare che non esiste alcuna rappresentazione antropomorfa di Aton. Il pensiero vola alla Bibbia:

Cogliendo le somiglianze tra la visione religiosa del faraone eretico e gli insegnamenti di Mosè, Sigmund Freud è stato il primo a sostenere che Mosè era in realtà un egiziano. Ora Ahmed Osman, con recenti scoperte archeologiche e documenti storici, sostiene che Akhenaton e Mosè fossero la stessa persona. In una splendida rivisitazione della storia dell’Esodo, Osman dettaglia gli eventi della vita di Mosè/Akhenaton:

Un po di fantasia non guasta mai. Oltre Freud, anche gli egittologi Arthur Weigall e Jan Assmann, dell’Università di Costanza, e molti altri hanno posto in evidenza le numerose analogie tra Mosè, adoratore di Adonai e Akhenaton adoratore di Aton.

Un’ulteriore analogia la troviamo nelle moltissime similitudini tra “L’Inno ad Aton”, scritto sulle pareti della tomba inutilizzata del visir Ay, con quelle contenute nel Salmo biblico n. 104. La tesi secondo cui Mosè sarebbe lo stesso Akhenaton è però contestata da molti i quali affermano che il faraone sarebbe morto in Egitto prima dell’eventuale Esodo. A questo punto si potrebbe ipotizzare che Mosè sia stato un seguace di Akhenaton, fedele all’Aton, e che, con il fallimento della rivoluzione religiosa e la probabile persecuzione contro i fedeli atoniani da parte del clero di Amon abbia deciso di scappare dall’Egitto con i suoi adepti.

Mosé, secondo gli antichi egizi significava “figlio di” poi la tradizione ebraica lo ha fatto derivare dal termine “Masciah” che significa “salvato dalle acque”; secondo i più si tratta di un nome decisamente egiziano che diversi faraoni portarono. Mosè quindi deve aver vissuto fin dall’inizio la deriva in favore del culto atoniano e l’educazione che ricevette nella corte del faraone fu tale per cui venne iniziato al culto di Aton. Nato probabilmente sotto Amenhotep III divenne poi un cortigiano di Akhenaton e come lui seguace del culto di Aton. D’altronde la Bibbia, nella Genesi, parla sempre di un dio che non è conosciuto da tutti, egli è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e, anche di Giuseppe, sono loro che parlano con il dio, il popolo non viene mai coinvolto se non per interposta persona.

Con la morte di Giuseppe cala il silenzio, un silenzio che dura fino all’avvento della schiavitù ad opera del faraone:

Da quel momento gli ebrei sarebbero diventati schiavi in Egitto. In Genesi 15:13, Dio dice ad Abramo:

cosa che viene confermata dallo stesso Mosè in Esodo 12:40-41 quando afferma:

A questo punto possiamo immaginare che dopo quattro secoli qualcuno ancora si ricorda del dio di Abramo? Tanto meno Mosè che, indipendentemente da come si vuol considerare la sua nascita, è a tutti gli effetti un egiziano e come tale la sua vita si svolge alla corte del faraone.

Manetone scrive che Mosè divenne sacerdote del Sole in Egitto per un periodo di tredici anni. In realtà egli parla di una figura semi leggendaria che chiama Osarseph (altro nome di Mosè secondo Manetone, il quale specifica che tale nome deriva da Osiride e che la parte finale seph è una variante di Seth). Anche Giuseppe Flavio, nel suo “Contra Apione” associa Osarseph al profeta ebraico affermando che fu un alto sacerdote del clero di Osiride della città di Eliopoli durante il regno del faraone Amenhotep senza precisare quale.

Forse non è errato pensare che la figura di Mosè, magari non proprio come lo descrive la Bibbia, sia realmente esistita. Indipendentemente dalla sua nascita ed infanzia quale gli viene attribuita nella Bibbia, Mosè visse presso la corte del faraone e:

Manetone parla di lui citandolo come Osarseph che Giuseppe Flavio, nel suo “Contra Apione”, in seguito associa ad un alto sacerdote del clero di Osiride. Sempre Giuseppe Flavio, nelle “Antiquitates Iudaicae”, aggiunge che Mosè fu mandato dallo stesso faraone a guidare l’esercito egiziano contro gli etiopi, che erano avanzati da sud impossessandosi di molte città, per cui divenne un potente generale dell’esercito egiziano.

Di lui la Bibbia dice che, seppur formatosi presso la famiglia reale, ad un certo punto non condivise più i metodi disumani coi quali venivano trattati gli ebrei “schiavi” e decise di aiutarli ad uscire da quella situazione. Fin qui il racconto della Bibbia e di alcuni storici antichi dei quali non si nutre piena fiducia.

Ma vediamo prima quando Giuseppe e con lui Giacobbe (Israele) sarebbero scesi in Egitto. Come ho detto in precedenza Dio dice ad Abramo che i suoi discendenti:

CHI ERA MOSE’?

Penso che, nonostante le molte contraddizioni ed inesattezze storiche e bibliche, un personaggio quale Mosè deve essere sicuramente esistito. Secondo alcuni Mosè altri non era se non lo stesso Akhenaton. L’identificazione del faraone ribelle Akhenaton col Mosè biblico dell’esodo ebraico, appare estremamente logica. Sono infatti facilmente rintracciabili le numerose analogie storiche, circostanziali e cronologiche tra i due personaggi. Particolarmente evidente è  la forte influenza della cultura e della religione enoteistica del dio Aton (Adonai per gli “ebrei”) sulla cultura ebraica ed il suo monoteismo. La cosa potrebbe essere verosimile poiché non si sa più nulla di lui da un certo periodo in poi, la damnatio memoriae cui fu soggetto, principalmente durante il regno del faraone Horemheb fu talmente meticolosa da cancellare quasi completamente il suo ricordo.

Arriviamo dunque al momento in cui Akhenaton prende coscienza che l’opposizione nel paese, sobillata soprattutto dal clero di Amon, si fa sempre più forte assumendo anche caratteri di rivolta. Come abbiamo già detto in Egitto e parte del Medio Oriente, pare si sia verificata un’epidemia molto grave la cui natura resta in gran parte sconosciuta. Forse proprio a causa di questa epidemia nella famiglia reale avvennero molte morti, dapprima la regina madre Tiy (intorno al 13º anno di regno) seguita dopo poco dalle giovanissime principesse Setepenra e Neferneferura. Queste morti furono precedute, intorno al 12º anno di regno, dalla morte della secondogenita, Maketaton (morta forse di parto). Tutti questi lutti dovettero colpire duramente il sovrano già provato dalla delusione dovuta alla consapevolezza  dell’ormai imminente fallimento del suo culto atoniano. A complicare ulteriormente le cose pare che intorno al dodicesimo anno di regno, la sposa reale Nefertiti esca di scena, di lei non si sa più nulla, secondo alcuni cadde in disgrazia, ma potrebbe anche essere morta. In un edificio situato a sud della città di Akhetaton, detto Maruaten, il nome di Nefertiti è stato cancellato ed al suo posto compare quello della figlia maggiore Merytamun che pare sia poi andata sposa a Smenkhara, successore di Akhenaton.

In una tomba di Amarna Akhenaton e Nefertiti sono rappresentati insieme mentre offrono dell’oro al defunto ma inspiegabilmente al posto dei loro cartigli compaiono quelli di Smenkhara e Merytamun, questo porterebbe a pensare che Akhenaton non era più presente ad Akhetaton prima che il nuovo faraone lasciasse Amarna per Tebe. A questo punto non ci sono che due spiegazioni, o Akhenaton era morto oppure aveva già lasciato Amarna con i suoi seguaci per dirigersi in Palestina sotto le spoglie di Mosè.

Secondo altri studiosi Akhenaton morì intorno al suo diciassettesimo allo di regno ma Akhetaton non fu abbandonata subito, a succedere al trono salì dunque Smenkhara, sarà lui a lasciare Amarna abbandonando l’eresia dell’Aton. Una testimonianza ci arriva da un graffito in ieratico trovato a Qurna e risalente al terzo anno di regno di Smenkhara dove un certo Pwah innalza un inno al dio ancestrale:

E’ evidente che l’eresia era già stata abbandonata. Certo Akhenaton potrebbe essere morto ma non dimentichiamo il generale Thutmose che Manetone cita come Osarseph ripreso anche da Giuseppe Flavio nel suo “Contra Apione”. Nato forse durante il regno di Amenhotep III o addirittura di Thutmosi IV, con molta probabilità da genitori egiziani facenti parte della corte se non addirittura da una sposa secondaria di uno dei due faraoni citati sopra, [Thut] Mose fu partecipe a pieno titolo della vita di corte e con questa condivise le nuove tendenze religiose ormai orientate verso l’Aton. Quasi certamente affiancò Amenhotep IV nella sua rivoluzione religiosa, che porterà il faraone a mutare il suo nome in Akhenaton, e con lui partecipò alle sorti dell’Egitto incluso il trasferimento della capitale ad Akhetaton.

Come abbiamo già accennato in precedenza Flavio Giuseppe, nelle “Antiquitates Iudaicae”, identifica Mosè con il generale Thutmose, a parziale conferma di ciò, su vari testi egiziani è attestato che il faraone Akhenaton fece sedare un’insurrezione nubiana, nell’odierno Sudan e questo avvenne nel suo dodicesimo anno di regno, a guidarla fu il generale Thutmose. Possiamo quindi immaginare una collaborazione molto stretta fra il faraone e Mosè entrambi adoratori dell’Aton.

Alla morte di Akhenaton sale al trono Smenkhara che cede al clero di Amon e cancella l’eresia atoniana. Mosè raccoglie i seguaci di Aton e con essi parte per cercare una nuova terra dove professare il suo credo. Certo non erano molti come ci racconta la Bibbia:

Coloro che seguirono Mosè non erano quindi gli schiavi biblici bensì normali cittadini di Amarna, magari pure benestanti, che se ne andavano portandosi dietro tutti i loro averi, oro, argento, gioielli e vestiti oltre a rifornimenti per il viaggio. Non credo che se si fosse trattato di schiavi, liberati dal faraone dopo le dieci piaghe, questi gli avrebbe pure dato:

Certamente Mosè si vide costretto a cambiare qualcosa del credo atoniano, in quanto enoteista il credo ammetteva la presenza, seppur marginale di altri dei, prima fra tutti la Maat. Mosè fonda perciò un nuovo credo, monoteista, che vede un unico dio che non ha nome:

Riguardo a quest’ultima parte viene solo ribadito quello che già esisteva nel credo dell’Aton infatti non esiste alcuna rappresentazione antropomorfa del dio atoniano, Aton rappresenta solo il disco solare.

Un’ultima considerazione che mi pare doveroso fare perché ci troveremo tra poco a dover affrontare è che, mentre tutto ciò che riguardava Amarna per quanto possibile fu cancellato dalla damnatio memoriae, così come i personaggi che non seguirono Mosè ma che erano coinvolti nell’amministrazione, un personaggio molto influente alla corte di Akhenaton non solo mantenne la sua posizione ma la migliorò diventando in seguito faraone, fu il maestro dei cavalli Ay, forse per il fatto di essere imparentato con la regina e, come tale, avere una grande influenza negli affari di stato in quanto il faraone che seguirà Smenkhara, ovvero Tutankhamon, era ancora un fanciullo.

Fonti e bibliografia:

  • Sigmund Freud, “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
  • Johannes Lehmann, “Mosè l’egiziano” Garzanti, Milano 1987
  • Flavio Barbero, “La Bibbia senza segreti”, Grosseto : Magazzinidelcaos, 2008
  • Giovanni Garbini, “Storia e ideologia nell’Israele antico”, Brescia, 1986
  • Edda Bresciani, “Letteratura e poesia dell’Antico Egitto”, Torino, Einaudi, 1969
  • Pietro Rossano ed altri, “Nuovo Dizionario di Teologia Biblica”, Milano, edizioni Paoline, 1996
  • Martin McNamara, “I Targum e il Nuovo Testamento”, Bologna, 1978
  • Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, 2003
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Einaudi, 1961
  • Mario Liverani, “Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele”, Roma-Bari, Laterza, 2003
  • Werner Keller, “La Bibbia aveva ragione”, Garzanti, 1956
  • Carlos Alberto Bisceglia, “Alla ricerca del libro di Yahweh”, Cassandra 2, 2019
  • Salima Ikram, “Antico Egitto”, Ananke, 2013
  • Charles Conroy, “The “Israel Stela” of Merenptah”
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AKHENATON  –  IL FIGLIO DEL SOLE

Di Piero Cargnino

Nel rispetto della correttezza storica dobbiamo dire che il vero erede al trono, alla morte di Amenhotep III, era il figlio primogenito del sovrano e della Grande Sposa Reale Tiye, Thutmosi, successore designato dallo stesso faraone. quel poco che si sa di lui è che morì giovane in circostanze piuttosto oscure intorno al trentesimo anno di regno del padre.

Amenhotep IV sale dunque al trono nei primi giorni di “tybi”, primo mese della stagione di “peret”. Nonostante sia stato oggetto di una “damnatio memoriae” che non ha eguali a causa della sua rivoluzione che toccò non solo la religione ma ogni espressione artistica e culturale che si protraeva da oltre un millennio e mezzo, rompendo con l’ormai tradizionale stile di vita del popolo egizio, di lui conosciamo parecchio. La sua figura così originale e rivoluzionaria ha suscitato grande interesse negli studiosi e non solo perché fu faraone d’Egitto ma per il ruolo che ha avuto sia nella società del suo tempo che nella religione, e non parlo solo della religione dell’antico Egitto, le implicazioni del suo pseudo monoteismo precorrono i tempi delle attuali religioni monoteistiche. Freud vide in lui il mentore di Mosè e l’ispiratore del monoteismo ebraico. Secondo alcuni, che non condivido, è visto come la vittima dell’Esodo, per altri come un oppressore o un fanatico. Non condivido alcuna di queste opinioni, solo un soggetto eccezionale poteva dare origine ad una visione così diversa ed in un certo senso persino moderna del mondo che ci circonda.

In lui non c’è più nulla del sovrano guerriero, conquistatore e massacratore dei suoi nemici, dell’essere superiore e divino che si rivolge alle divinità come ai propri simili. Ora il sovrano è innanzitutto un uomo, un poeta che scrive inni che anticipano i salmi di Davide, un uomo che si fa rappresentare come un comune mortale, seppur grottesco, come un marito e padre affettuoso che sorregge tra le braccia i propri figli. Certo che un personaggio simile, oggetto della peggiore damnatio memoriae, ignorato da tutte liste reali, sparì completamente dalla storia egizia finché non fu scoperto, nel XIX secolo il sito archeologico di Amarna dove Amenhotep IV, che cambiò il suo nome in quello di Akhenaton (colui che compie il volere di Aton) , aveva fondato la sua nuova capitale Akhetaton (Orizzonte di Aton).

La sua stessa moglie, Nefertiti è famosa al pari di lui, noi la conosciamo per la bellezza che traspare dal suo busto, oggi conservato al Neues Museum di Berlino, che si pensa la rappresenti. La regina appare sempre con la sua elegante figura al fianco del marito in scene domestiche mentre gioca con le figliolette o mentre, col marito sfila con grande eleganza sul cocchio reale. Molte sono le scene che raffigurano la famiglia reale nell’intimità quotidiana con la fedele moglie che riempie di vino il boccale del sovrano.

Le scene che rappresentano Akhenaton e Nefertiti ci sorprendono per il loro realismo come una fedele rappresentazione di felicità coniugale. Certo che i faraoni ebbero più mogli ma quello che distingue la Grande Sposa Reale di Akhenaton è l’amore che il sovrano prova per lei.

Su di una grande stele confinaria della nuova città di Akhetaton così il re  descrive sua moglie:

Innegabile l’amore per le figlie, che nell’Egitto faraonico non si riscontrano eguali, sempre in compagnia dei genitori. Le scene che si presentano ai nostri occhi e che ci parlano della vita di questo faraone compaiono su vari monumenti al punto che parecchi scrittori e studiosi contemporanei lo considerano il più moderno ed il più comprensibile di tutti quegli antichi faraoni-dei che lo hanno preceduto.

Una simile figura non può non piacere, nonostante l’abisso di tempo che ci separa,  Akhenaton ha entusiasmato generazioni di egittologi, James Henry Breasted ebbe a scrivere:

Un tale entusiasmo espresso da un’autorità così eminente non può che coinvolgere altri nel giudizio. Arthur Weigall, egittologo inglese ne condivise le opinioni:

In tempi più moderni si è affermata la tendenza a ridimensionare la figura di Akhenaton riducendone la fisionomia in modo meno attraente conformandola al solo aspetto religioso. Senz’altro è questo l’aspetto che più ispira la sua figura ma non sempre, e non da tutti, considerata nel modo corretto.

Si parla di  Akhenaton come di colui che ha ispirato il monoteismo, niente di più errato. Per monoteismo, dal greco “monos” unico, solo e “theos” dio, si intende che esista un solo dio universale, che sta al di sopra di tutto, lui solo è da adorare. Quello di Akhenaton è invece una forma ibrida che lo storico delle religioni Friedrich Maximilian Müller ha coniato per definire coloro che adorano una divinità, invocandola e celebrandola come unica senza per questo avere una vera e propria concezione monoteistica. Si tratta di una finezza concettuale che parrebbe non trovare conferma nella rivoluzione religiosa intrappresa dal “faraone eretico” che sradicò il culto degli altri dei imponendo il culto di Aton, ma vedremo che non è così.

Aton non è il dio stesso ma l’iconografia del disco solare, la rappresentazione del dio sole Ra e veniva adorato come creatore di tutte le cose, come colui che provvedeva ai bisogni di tutte le creature con i suoi raggi benefici che davano vita alla sola famiglia reale, era poi compito del suo intermediario in terra, il faraone, trasmettere i benefici a tutto il popolo che si sottometteva al dio Aton. Le manifestazioni dell’Aton avvenivano di giorno quando esso splendeva in cielo, allora gli umani potevano aspirare al successo o alla perfezione, la notte, priva dello splendore dell’Aton era da temere.

Amenhotep IV sale al trono che fu del padre, le notizie più autorevoli che possediamo al riguardo ci provengono dalla corrispondenza minutamente documentata nell’archivio di Amarna dove si custodivano le famose tavolette, ovvero la corrispondenza tenuta dai sovrani egizi a partire da Amenhotep III fino al primo anno di regno di Tutankhamon.

In un primo tempo Amenhotep IV adorava ancora Amon-Ra, sappiamo che fino al suo quarto anno di regno il primo profeta di Amon era ancora nel pieno delle sue funzioni. Nelle cave di arenaria di Gebel Silsila, su di una stele il faraone compare in atto di adorare Amon-Ra e l’iscrizione che accompagna la sua figura ci rivela che il re, appare ancora sotto la tutela di Amon, nel testo il re si definisce come “il primo Hem-netjer” della divinità, ossia come il:

Dall’iscrizione si può dedurre che in questo periodo non vi fosse ancora una completa rigidità nell’utilizzo del nome Aton. L’immagine del sovrano è rivolta ad Amon e su di essa compare la scritta:

Da notare che nella stele di Gebel Silsila non è rappresentato  Ra-Horakhty bensì lo stesso Amon e che Amenhotep IV si definisca come suo “amato”, questo ci porta a concludere che, almeno all’inizio del suo regno, il faraone ammettesse la coesistenza pacifica del nuovo culto con quello del dio di Tebe.

Non ci è dato a sapere come il clero di Amon accettasse l’insolita assunzione da parte del re del titolo di sommo sacerdote ma sicuramente non bene. Quando Amenhotep IV salì al trono l’impero egizio, costruito dai grandi faraoni guerrieri precedenti, si trovava in una difficile situazione. I fedeli alleati Mitanni erano continuamente sottoposti alle scorribande dei loro vicini di Hatti che fomentavano rivolte anche presso gli stati vassalli della Siria. Tanto per completare il quadro i predoni Hapiru scorrazzavano per la Siria creando disordini ovunque.

Quindi era il caso che in Egitto tornasse un faraone forte come i precedenti, che marciasse con il suo esercito, spingendosi fin dentro l’Asia, per domare le insurrezioni e riportare l’ordine precedente. Purtroppo quel faraone non era Amenhotep IV, i suoi consiglieri erano sua madre Tiye e sua moglie Nefertiti che non condividevano idee di guerra. Il sovrano, incurante delle questioni belliche, si immergeva sempre più nella sua teologia filosofeggiante.

La sua visione era quella di un regno permeato dalla fede in un dio universale che doveva troneggiare su tutta la terra e non solo sull’Egitto, il Sole, l’Aton. Amenhotep IV si dedicò ad elaborare una serie di progetti architettonici, fece decorare l’ingresso meridionale del recinto del tempio di Amon-Ra dove vennero rappresentate scene di adorazione del dio solare Ra-Horakhty.

Ordinò la costruzione di un grande complesso nella zona orientale di Karnak dedicato all’Aton che chiamò “Gempaaton” (Aton è stato trovato). Il complesso sii componeva di una serie di costruzioni tra cui un palazzo ed un edificio chiamato “Hwt Benben” (Palazzo della Pietra Benben) che dedico alla moglie Nefertiti. La sua smania architettonica si affermò anche nella costruzione di altri due edifici presso il Nono pilone del tempio di Karnak, edifici che vennero chiamati “Rud-menu” e “Teni-menu”.

Con il nome di Amenhotep IV il sovrano compare ancora in alcune tombe di nobili a Tebe, la TT192 di Kheruef, la TT188 di Parennefer dove Amenhotep IV e Nefertiti compaiono assisi in trono con il disco dell’Aton sulle loro teste, nella TT55 di Ramose lo troviamo sulla parete occidentale rappresentato secondo lo stile tradizionale, assiso in trono mentre al suo cospetto compare Ramose. Sulla parete di fronte è rappresentata la coppia reale, Amenhotep IV e Nefertiti, affacciati alla finestra delle apparizioni, sulle loro figure spicca l’Aton nella sua forma di disco solare.

Le ultime volte che troviamo il faraone con il nome di  Amenhotep IV è su due lettere, scoperte a Gurob, che il funzionario Apy (o Ipy) scrive al sovrano nel quinto anno del suo regno. Terzo mese di peret, diciannovesimo giorno. Dalle lettere di Amarna si evince che quel periodo fu denso di acute tensioni sociali ed economiche, la causa principale è da attribuire ad un decadimento nell’economia dei contadini che progressivamente si indebitavano. Come abbiamo già descritto in precedenza, questa situazione causava la fuga dei debitori verso altri stati, questi però avevano raggiunto una specie di estradizione per cui ai fuggiaschi non rimaneva che darsi alla macchia verso zone inospitali dove si mescolavano ai predoni Hapiru.

Incurante degli avvenimenti che lo circondavano il giovane faraone era intriso dal suo culto che andava elaborando e, non pago di aver innalzato a Karnak il tempio all’Aton, mutò anche il nome della capitale Tebe (la città di Amon) che da allora fece chiamare “la città dello splendore di Aton”.

Ovviamente questo inasprì le tensioni con il clero di Amon che durante la XVIII dinastia si era arricchito a dismisura acquisendo un notevole potere. Certo che il clero avrebbe potuto urlare al sacrilegio ed in qualche modo sostituire il faraone, ma Amenhotep IV era dotato di una grande forza di carettere e per di più proveniva da una progenie di sovrani troppo illustre per poter essere messo da parte dalla casta sacerdotale seppur così potente. Il conflitto che ne nacque diventò così aspro per il sovrano che la sua permanenza a Tebe non era più tollerabile. Amenhotep IV decise dunque di allontanarsi, anche fisicamente, da Tebe e dall’invadenza dei sacerdoti di Amon,  nell’anno V del suo regno decise di costruire una nuova capitale dopo aver scelto personalmente il sito. Questo si trovava nel XV nomo dell’Alto Egitto a circa  400 chilometri a nord di Tebe e circa 320 a sud di Menfi.

La nuova capitale venne chiamata Akhetaton, “L’orizzonte di Aton”. La scelta del territorio era condizionata dalle sue convinzioni, il luogo doveva essere vergine sia sotto il profilo politico che, e specialmente, religioso, nel contempo si trovava in una posizione all’incirca equidistante dalle due capitali precedenti permettendo il normale svolgimento dei due ruoli, amministrativo e religioso. Si trattava di una città fondata a nuovo nel senso che tutto era nuovo, i suoi abitanti, che dovevano professare la fede ad Aton, i suoi palazzi come le abitazioni civili ed i templi, tutti dedicati all’Aton. I confini della città vennero delimitati da 15 “Stele di confine” sulle quali era dichiarata l’appartenenza del territorio ad Aton. I sacerdoti erano pochi in quanto il compito di presentare le offerte all’Aton era riservato al faraone ed alla sua famiglia, queste consistevano nel bruciare incenso e cantare gli inni al dio accompagnati da nenie apposite.

Dopo 5 anni, 8 mesi e 13 giorni di regno, il faraone con la sua famiglia si insediò nella nuova città di Akhetaton, un mese prima aveva cambiato il proprio nome con quello di Akhenaton “Aton è soddisfatto” mantenendo però il suo praenomen, o nome del trono, Neferkheperura.

Si è dibattuto a lungo, e si dibatte tutt’ora su quali siano state le azioni intraprese da Akhenaton per trascinare il popolo verso le sue idee religiose. Indubbiamente iniziò col limitare i riferimenti agli altri dei adottando, ed imponendo, un linguaggio religioso sempre più consono all’Aton, sicuramente però dovette prendere atto che la cosa non era sufficiente pertanto adottò una soluzione più drastica, ordinò che venissero cancellati tutti i riferimenti alle divinità tradizionali, in modo particolare quello di Amon anche quando questo era parte di nomi propri, Akhenaton fece persino scalpellare il nome del proprio padre Amenhotep III perché conteneva il nome di Amon. Stessa cosa fece per il nome “madre” il cui suono era simile a quello della dea Mut, sposa di Amon, fece cancellare il geroglifico rappresentante un avvoltoio, simbolo della dea Mut e della dea Nekhbet.

Al nome del dio Ra-Horakhti venne eliminato il geroglifico del falco rendendo praticamente illeggibile il nome. Solo il nome di Ra rimase invariato perché rappresentava il Sole. Stessa cosa dovette fare il resto del popolo quando il loro nome conteneva un riferimento ad una divinità.

Pare però che per i nomi propri non ci fosse l’obbligo di modificarli,  ad Amarna sono stati rinvenuti personaggi come Ahmose, (tomba TA3), e Thutmosi,  capo-scultore al quale viene attribuito il famoso busto di Nefertiti. Nelle tombe dei nobili ad Amarna sono stati inoltre trovati numerosi amuleti in faience che gli abitanti indossavano liberamente sui quali erano rappresentati gli dei Bes, Tueret o l’occhio di Horus. Questo dimostra che, nonostante la sua infatuazione per l’Aton, in fondo la sua politica fu relativamente tollerante.

Nel suo “enoteismo” rivoluzionario, il sovrano non è più la rappresentazione del dio, egli è “utile a Dio, che è utile a lui”, su di una stele a Karnak, nel tempio di Ptah si legge:

Con queste premesse il faraone del Sole si installò ad Akhetaton che subito abbellì di palazzi e templi per se e per la regina Nefertiti così come per tutta la famiglia reale, un grande tempio venne eretto per il “Disco solare”, centro della nuova religione.

Ugualmente consone alla grandezza della nuova città furono le dimore dei cortigiani che non avevano eguali nel resto del regno, così come le loro tombe per le quali venne predisposta una necropoli ai piedi delle colline a sud, cappelle decorate con simboli e rilievi in lode all’Aton.

Oggi possiamo ancora ammirare in una di queste tombe, quella del sacerdote Ay, dove si trova un inno, considerato opera dello stesso Akhenaton, nell’inno egli vagheggia nella sua religione universale, esalta l’universalismo dell’impero egizio in sostituzione del nazionalismo che per venti secoli aveva imperato nelle Due Terre. Il suo dio non fa differenza tra gli uomini, non importa la razza o la nazionalità, è il signore universale, Creatore di tutta la natura. Chiama Aton:

<<……padre e madre di tutti coloro che egli ha creato…….>>.

Nella sua filosofia religiosa spicca su tutto la Maat (la verità), mai prima d’ora così insistentemente citata, il suo nome appare sempre accostato ad essa “vivente nella verità”.  Akhenaton appare ovunque con la sua famiglia, gode dei rapporti famigliari e loro con lui mentre partecipano ai riti religiosi. Lui “E'”, tutto ciò che avviene intorno avviene per mezzo di lui, è ciò che lui vuole, Il suo scultore Bek afferma che quello che lui fa gli è giunto dagli insegnamenti del sovrano il quale istruì gli artisti della sua corte ad esprimere ciò che realmente vedevano dimenticando i vecchi canoni che erano usati in passato.

Così ammiriamo gli atteggiamenti istantanei e reali della vita animale, il cane in corsa, la preda che fugge, il toro che salta tra i papiri, questo perché è la verità, quella in cui viveva Akhenaton, il suo nuovo mondo. Nulla di più appariscente di questa verità troviamo anche nelle rappresentazioni del sovrano stesso, espressione di quella nuova arte che si doveva rappresentare.

Gli artisti lo rappresentavano non come in passato erano rappresentati idealisticamente i faraoni, belli, sempre giovani, ma come essi stessi lo vedevano, con tutte le sue deformità corporee.

Immerso nei suoi sogni religiosi e occupato ad abbellire la città dell’Aton, ovviamente trascurò gli affari di stato e le condizioni dell’impero, nonostante le sollecitazioni dei suoi stessi generali e dei sovrani dei paesi alleati. Quando, ad un certo punto, messo di fronte alla tragica realtà in cui si trovava l’impero capì, ma ormai era tardi. A nord gli Ittiti avevano minato l’influenza egizia in Siria mentre in Palestina la situazione era se non peggiore almeno simile, in Asia l’impero egizio praticamente non esisteva più. In una scena riferita all’anno dodicesimo di regno assistiamo ancora all’arrivo di tributi dall’Asia e da Kush ricevuti dal sovrano e dalla regina Nefertiti ma oltre non sono documentati altri arrivi.

Pare che fu proprio in quegli anni che la regina madre Tiye abbia fatto visita ad Akhenaton per metterlo al corrente delle disastrose condizioni in cui versava l’Egitto fuori dal suo piccolo mondo di Akhetaton, dove gli affari interni ed esterni risentivano della mancanza di una politica attiva, non bastava sognare, ora si doveva anche agire ed in fretta. Il popolo era fortemente risentito per la soppressione delle antiche divinità ed i sacerdoti avevano costituito un potente partito di opposizione, più o meno segreto tramando per riportare il paese agli antichi culti religiosi.

Le conseguenze della politica di Akhenaton non tardarono a farsi sentire. Il faraone cominciò a rendersi conto di non essere più in grado di gestire la situazione che si era venuta a creare, sia all’interno che all’esterno dell’Egitto. Istigato dai sacerdoti di Amon il popolo non era più disposto a rinnegare i suoi dei, secoli di storia stavano alle loro spalle e non era sufficiente un colpo di spugna dato da un tiranno per cancellarli. Dal canto loro i generali dell’esercito, abituati ad una condotta ferrea nella gestione dei rapporti con gli alleati ed ancor di più verso le quotidiane rivolte che avvenivano qual e la in Asia come al sud, entro quelli che erano i confini  tracciati dai precedenti re guerrieri, mal sopportavano la condotta pacifista del sovrano.

L’ascesa dell’impero ittita si faceva sentire pesantemente, l’Egitto aveva ormai perso il controllo su gran parte degli stati assoggettati col risultato che erano sempre meno i tributi che arrivavano minando la ricchezza del paese. Dalle notizie che apprendiamo dalle “Lettere di Amarna” si legge che gli stati vassalli ancora fecdeli reclamavano un consistente aiuto da parte dell’esercito egizio per far fronte alle razzie ed ai disordini creati dalle bande di Hapiru. Pressanti erano le richieste di aiuti da parte di Tushratta, re di Mitanni, sono molte le lettere inviate dal sovrano per ottenere appoggio dal faraone, ma a fronte di queste richieste nessuna notizia ci è giunta di campagne militari in quell’area. Unica azione militare di cui ci è giunta notizia è una breve campagna in Nubia contro una piccola tribù, gli Akayta. Solo quando la crisi si fece più profonda, minacciando di sprofondare in una tragedia, allora Akhenaton iniziò ad agire.

Venne combinato il matrimonio tra la figlia maggiore del sovrano Meryt-Aton, che era stata associata al trono dal padre, ed il principe Smenkhara, forse fratello dello stesso Akhenaton. Non risulta però che dopo il matrimonio Smenkhara sia stato nominato coreggente. Smenkhara venne subito inviato a Tebe con il compito di sedare i tafferugli generati dai sacerdoti di Amon.

Oltre ai vari problemi generatisi con la rivoluzione di Akhenaton, durante la seconda metà del suo regno scoppiò una grave epidemia di peste bubbonica o di qualche tipo di influenza che coinvolse l’intero Medio Oriente mietendo numerose vittime, pare che anche il re Ittita Suppiluliuma ne sia rimasto vittima. Secondo Zahi Hawass, in base a ritrovamenti scoperti nel sito di Amarna, si sarebbe trattato di peste nera. La stessa famiglia reale venne colpita, tra il dodicesimo ed il diciassettesimo anno di regno vennero a mancare  la regina madre Tiye oltre alle principesse Maketaton, Setepenra e Neferneferura, alcuni sostengono che anche la regina Nefertiti sarebbe morta per la stessa ragione, nulla però lo conferma.

Le ultime notizie della famiglia reale le troviamo sulle pareti della tomba di un cortigiano, Merira, nel secondo mese del dodicesimo anno di regno di Akhenaton, dopodiché non si trovano più fonti dalle quali sia possibile trarre informazioni certe. Pare che la “damnatio memoriae” alla quale fu sottoposto Akhenaton sia stata assai meticolosa da far sparire tutto quello che lo identificava. Nel dicembre 2012, in una cava di calcare a Deir el-Bersha, venne rinvenuta un’iscrizione che si riferiva esplicitamente al sovrano ed alla moglie Nefertiti risalente al sedicesimo anno, terzo mese di akhet, quindicesimo giorno. Alla luce di questo ritrovamento si può pensare che  Akhenaton abbia regnato per circa diciassette anni e con lui Nefertiti.

Sono state formulate numerose ipotesi, più o meno valide ma nessuna certa, secondo alcuni Nefertiti sarebbe sopravvissuta al marito ed avrebbe continuato a regnare travestita da uomo con il nome di “Neferneferuaton Ankheperura” o addirittura che abbia regnato lei con il nome di “Smenkhara”. In assenza di evidenze si può dire tutto ed il contrario di tutto, la fantasia non ha limiti. Per quanto riguarda Akhenaton non esiste nulla che parli della sua morte, possiamo affermare che dalla metà del suo regno fino a Tutankhamon ci troviamo nel più oscuro periodo della storia egizia.

Alcuni studiosi che hanno esaminato reperti funerari consistenti in un sarcofago di granito, un cofano per i vasi canopi, e varie statuette funerarie (ushabti)  riguardanti il faraone Akhenaton, ritengono che, almeno in un primo momento il faraone sia stato sepolto nella necropoli reale di Amarna. Il sarcofago, profanato e sfregiato, è stato restaurato e si trova in esposto al Museo Egizio del Cairo.

L’egittologo Zahi Hawass afferma che la mummia di Akhenaton venne traslata a Tebe quando, Tutankhaton (che aveva cambiato il suo nome in Tutankhamon), rinnegando la rivoluzione del padre, ripotò definitivamente la corte. Con la morte di Akhenaton ha termine la parentesi “eretica” del faraone del Sole, Di lui si parlerà solo in modo dispregiativo, nella “Iscrizione di Mes”, documento di epoca ramesside Akhenaton è citato come:

Non penserete mica che con la morte di Akhenaton la sua “rivoluzione religiosa” finisca così. Forse la “sua” rivoluzione è finita, ma potrebbe averne generata una successiva molto più grande e duratura, chissà……..!

Pare che sul finire del suo regno l’enfasi religiosa di Akhenaton di affermare ad ogni costo il culto dell’Aton iniziasse a vacillare, non nella fede ma nella possibilità di rendere il suo dio universale. La regina Nefertiti, per qualche ragione sconosciuta, forse cominciò a dissentire dai ripensamenti del marito e sembra che abbia deciso di ritirarsi in un palazzo nella zona settentrionale di Akhetaton portando con se il figlio Tutankhaton.

Secondo alcuni studiosi, Akhenaton morì l’anno successivo, il diciassettesimo di regno. Come abbiamo detto in precedenza nulla ci è dato a sapere da questo momento in poi. Si pensa che Tutankhaton avesse 8 o 9 anni quando sposò la sorella Ankhesepaaton, figlia maggiore di Akhenaton (forse fu anche sua sposa) che doveva avere circa 13 anni, fu più o meno in quel periodo che, salito al trono dopo la breve parentesi di Smenkhara (meno di un anno), la capitale venne trasferita a Tebe, sicuramente su consiglio del sacerdote Ay e della stessa Nefertiti ed il nuovo sovrano e sua moglie furono costretti a sostituire la parte teofora dei nomi che divennero Tutankhamon (Immagine vivente di Amon) e Ankhesenamon.

Fu così che la “Capitale del Sole” Akhetaton venne abbandonata ed in breve cadde in rovina. Si pensa che quando il giovane faraone fece riportare la capitale a Tebe, la mummia di  Akhenaton sia stata traslata nella tomba KV55 nella necropoli tebana. Esplorando la tomba nel 1907, Edward Ayrton rinvenne uno scheletro malridotto che recenti test genetici assegnerebbero al faraone eretico.

Il ritrovamento di quattro mattoni magici, recanti il cartiglio di Akhenaton, confermerebbero che quella è veramente la sua sepoltura, secondo Alan Gardiner, coloro che pietosamente provvidero alla sistemazione della tomba erano certamente suoi seguaci ed erano certi di seppellire proprio il loro signore.

Quello che resta della mummia trovata nella tomba KV55 venne sottoposta nel 2010 ad ulteriori accertamenti dai quali pare sia emerso che la mummia sarebbe appartenuta al padre genetico di Tutankhamon ed in quanto tale venne assegnata ad Akhenaton. Successive analisi effettuate sul DNA dei due feti rinvenuti nella tomba di Tutankhamon avrebbero rivelato che la mummia della KV55 non poteva appartenere al nonno delle bimbe come invece ci si aspettava essendo Akhenaton (forse) il padre di Tutankhamon e dell’unica sua moglie, Ankhesenamon. Si pensò dunque che la mummia fosse quella di Smenkhara e che fosse lui il padre di Tutankhamon, la cosa però sarebbe smentita dall’esame ortopedico eseguito sulla colonna vertebrale che assegnerebbe alla mummia un’età di non oltre 30 anni, incompatibile con quella probabile di Smenkhara.

Nel 2011 l’Università del Cairo conferma che il corpo di KV55 sia effettivamente quello di Akhenaton, a tutt’oggi però non esistono ancora pubblicazioni al riguardo.

Perché ho detto questo? Perché in ogni caso esiste sempre una, seppur piccola, possibilità che l’esame del DNA non sia in grado di stabilire esattamente il grado di parentela. Questo a titolo di cronaca, cosa che ci permette di sollevare un minimo dubbio sul fatto che la mummia trovata nella KV55 non sia appartenuta al faraone Akhenaton.

Esaminiamo ora alcune ipotesi, e sottolineo Ipotesi che non trovano alcun riscontro nella storia ne nell’archeologia ma che a mio parere non è opportuno trascurare.

Poniamo che Akhenaton in realtà non sia morto come si crede, o forse sì, ma la sua eresia enoteista morì con lui? Non aveva convertito l’intero Egitto ma di seguaci che credevano in lui ce ne saranno stati, e parecchi se avevano popolato un’intera città come Akhetaton. Dove finirono coloro che abitavano la città e seguivano il faraone nella sua eresia, partecipando attivamente con lui ed officiando riti all’Aton? Abbandonati dalla regina Nefertiti e dal nuovo faraone Tutankhamon, si trovarono a dover affrontare la rivolta del popolo istigato dai sacerdoti di Amon. Cosa gli rimaneva da fare? Raccogliere tutti i seguaci, che non erano pochi, e fuggire cercando un altro luogo dove poter continuare a professare la loro religione. E quì mi torna in mente l’Esodo, ne abbiamo parlato a proposito della cacciata degli Hyksos all’epoca di Ahmose analizzando tutte le variabili possibili che ci hanno portato ad ipotizzare che l’Esodo si fosse verificato proprio in quell’occasione.

Privi però di ogni riscontro storico o archeologico, proviamo a pensare che le cose non siano andate così. Dunque non ci rimane che verificare un’altra possibilità, sempre ammesso che ci sia stato effettivamente un episodio che si possa configurare come “Esodo”. Cito le parole del Prof. Francesco Lamendola, filosofo e storico, di cui ho già parlato in altra occasione, il quale circa i fatti relativi all’Esodo scrive:

Fonti e bibliografia:

  • Enrichetta Leospo e Mario Tosi “l potere del re il predominio del dio”, Ananke, 2005
  • Cimmino, Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano 2003
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Einaudi, Torino 1997
  • Sergio Donadoni, “Tebe”, Milano, Electa, 1999
  • Nicolas Reeves, “Akhenaten: Egypt’s False Prophet”, Londra, Thames & Hudson, 2000
  • Mario Tosi,  “Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto”, Torino, Ananke, 2005
  • Cyril Aldred, “Akhenaton il faraone del sole”, Grandi tascabili economici Newton, 1996
  • John Wilson, “Egitto, I Propilei” volume I, Arnoldo Mondadori, Milano, 1967
  • Agnès Cabrol, “Amenhotep III le magnifique”, ed. Le Rocher, 2000
  • A. Piankoff e E. Hornung, “Das Grab Amenophis’ III im Westtal der Könige”, 1961
  • William L. Moran, “Le lettere di Amarna”, Johns Hopkins University Press, 1992
C'era una volta l'Egitto, Nuovo Regno, XVIII Dinastia

PRELUDIO ALLA RIVOLUZIONE RELIGIOSA

Di Piero Cargnino

Come abbiamo detto in precedenza il regno di Amenhotep III fu un periodo di prosperità e di pace quale il popolo egizio non aveva mai conosciuto prima. Dalla Nubia e dall’Asia affluivano i migliori prodotti e beni preziosi. I rapporti tenuti con la Grecia e Micene erano ottimi ed anche con essi venivano importati ed esportati vari prodotti di artigianato e generi alimentari.

Numerosi dignitari contribuivano ad inviare al palazzo reale i loro prodotti, di molti di questi dignitari se ne conosce il nome che compare sulle loro statue e nelle tombe, in modo particolare quelli che sono stati impressi sui sigilli delle anfore contenenti cibarie, vino, birra da essi prodotta.

Grande interesse veniva dimostrato dal sovrano verso il proprio tempio funerario ma anche verso gli altri templi della capitale come di Karnak e Luxor; in un testo a lui dedicato compaiono lunghe epigrafi che elencano le sue elargizioni in oro e pietre dure da lui offerte per adornare i templi, si tratta di cifre veramente incredibili.

Particolarmente ingenti erano i doni che Amenhotep III elargiva al tempio di Amon-Ra il cui clero diventava sempre più ricco, e non solo doni ma anche titoli, il sacerdote di Amon, Ptahmose, fu il primo a riunire alla sua autorità sacerdotale anche quella di visir.

La ricchezza del clero era tale da creare potere e quel potere i sacerdoti lo usavano per interferire anche negli affari di stato cosa che era mal sopportata dalla corte. Certo non immaginavano la tempesta che si sarebbe abbattuta di li a poco sulle loro certezze sconvolgendo le antiche credenze ed i loro più cari ideali. La religione egizia, quale si tramandava da quasi duemila anni, scaturiva dall’insieme di numerosi culti tribali in origine indipendenti.

Ciascuna città, se non addirittura villaggio, aveva il suo dio protettore, spesso erano feticci il più delle volte in forma di animale, alcuni di questi acquisirono maggior prestigio di altri, vedi Bastet di Bubasti, la dea cobra Edjo di Buto, Thoth come ibis di Ermopoli e molti altri. Con l’unificazione l’Egitto si trovò a dover far fronte a questo problema che risolse elevando alcune divinità ad un rango superiore senza però abolire quelle di rango inferiore. Non solo ma, rappresentando gli stessi dei ora sotto una forma ora con un altro aspetto, riuscì a fondere le varie credenze senza abolirne alcuna.

Gli stessi dei sono rappresentati con aspetti che variano in funzione di un luogo o di un rituale, Thoth è di regola un uomo con la testa da ibis, ma viene anche rappresentato come cinocefalo o come la Luna; Khepri compare come uno scarafaggio con il corpo umano ma viene anche rappresentato come semplice scarafaggio, Hathor, la dea vacca di Dendera, era la stessa Hathor adorata a Menfi in forma di sicomoro, gli esempi potrebbero continuare a lungo.

Se poi pensiamo al dio sole Ra lo vediamo rappresentato come un uomo con la testa di falco ed il disco solare sul capo. Ra è forse la principale divinità dell’antico  Egitto identificato con il sole di mezzogiorno egli governava il mondo intero, la terra, il cielo e l’oltretomba, abitualmente era accostato ad Horus, da cui ebbe origine il dio Ra-Horakhti che vuol dire “Ra (che è) Horus dei due orizzonti”. Lo troviamo più tardi associato anche al dio Amon a formare il dio Amon-Ra. Un altro aspetto fondamentale del dio Ra è quello di Aton che in precedenza era solo un’altra forma di Ra.

Ancorché quando parliamo del dio Aton subito lo leghiamo indissolubilmente alla figura del faraone Amenhotep IV (Akhenaton) non dobbiamo trascurare il fatto che il culto di Aton era già assurto a maggior livello ben prima. Il termine “Aton” lo troviamo già in uso almeno dal Primo Periodo Intermedio e seguirà nel Medio Regno dove una delle prime volte che viene citato è nei Testi dei sarcofagi.

Un riferimento ancora più esplicito è contenuto nella Storia di Sinuhe dove si racconta che alla sua morte il re Ammenemes I si unisce al sole:

In questo caso il termine itn non si riferisce al sole come Ra bensì proprio con la parola “Aton”. Il disco solare che lo rappresenta. Più esplicita e comprensibile è invece la frase che contiene l’epiteto spesso usato per indicare “l’Aton vivente”:

in questo caso itn, tradotto con “disco” è chiaramente riferito al corpo celeste.

Quella che chiamiamo “rivoluzione religiosa”, attribuendola esclusivamente ad  Akhenaton col quale vedrà la reale introduzione, iniziò con Thutmose IV il quale forse rimase talmente colpito dal suo sogno, fatto mentre riposava sotto la testa della Sfinge, nel quale gli comparve Ra-Horemakhet (Harmakis). In seguito si diffuse ancor più con Amenhotep III, probabilmente condizionato dall’influenza asiatica che si era fatta maggiormente sentire in Egitto durante il suo regno.

Ed è proprio Amenhotep III che, inizia un percorso di lento ma inesorabile allontanamento della casa reale e di tutta la corte dall’enorme potere acquisito nel tempo dal clero di Amon di Karnak pur continuando con le sue elargizioni. Col tempo Amenhotep III iniziava a soffrire il prepotente affermarsi dei sacerdoti del dio Amon insofferenti al loro ruolo strettamente religioso.

Un primo segnale lo da trasferendo la residenza reale nella nuova reggia costruita a Malqata, località nei pressi di Tebe il cui antico nome era “Per-Hay” (Casa della Gioia), il palazzo era chiamato “palazzo dell’Aton abbagliante”.

Esaminando attentamente le iscrizioni coeve di Amenhotep III notiamo che l’uso del termine è assai più frequente del solito, cosa che ci porta a vedere in ciò un’anticipazione di quello che succederà di li a poco. Un curioso particolare che si allaccia a quanto sopra è il fatto che la barca usata dalla regina Tiye sul lago che il sovrano fece costruire per lei (di cui abbiamo parlato in precedenza), era chiamata “l’Aton risplende”. In una tomba della necropoli di Tebe, risalente al regno di  Amenhotep III, troviamo che l’occupante vantava il titolo di “Maggiordomo della Dimora dell’Aton”; con questo pare più che giustificato pensare che l’Aton fosse già adorato a Tebe prima di Akhenaton.

Un’altra testimonianza la troviamo nella stele di Suti e Hor dove è inciso un inno solare che esprime un pluralismo di credenze, di cui alcune del tutto innovative, che precorrono gli inni all’Aton di epoca successiva. Poi arriverà  Amenhotep IV (Akhenaton).

Fonti e bibliografia:

  • Enrichetta Leospo e Mario Tosi “l potere del re il predominio del dio”, Ananke, 2005
  • Cimmino, Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano 2003
  • Ala Gardiner, “La civiltà egizia”, Einaudi, Torino 1997
  • Sergio Donadoni, “Tebe”, Milano, Electa, 1999
  • Mario Tosi,  “Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto”, Torino, Ananke, 2005
  • Cyril Aldred, “Akhenaton il faraone del sole”, Grandi tascabili economici Newton, 1996
  • John Wilson, “Egitto, I Propilei” volume I, Arnoldo Mondadori, Milano, 1967
  • Agnès Cabrol, “Amenhotep III le magnifique”, ed. Le Rocher, 2000
  • A. Piankoff e E. Hornung, “Das Grab Amenophis’ III im Westtal der Könige”, 1961 William L. Moran, “Le lettere di Amarna”, Johns Hopkins University Press, 1992
Nuovo Regno, XVIII Dinastia

MAYA, TESORIERE DI TUTANKHAMON

Maya raffigurato davanti ad un tavolo d’offerte in un pannello dell’ingresso

Prendo spunto dal post recentemente pubblicato da Grazia Musso per approfondire la figura di Maya, uno dei personaggi più potenti alla corte di Tutankhamon e dei suoi successori e per mostrarvi le immagini della sua tomba, alcune delle quali da me scattate in occasione de mio viaggio in Egitto nello scorso mese di giugno.

Figlio di Weret, cantante di Amon e del dignitario Iuy, probabilmente crebbe alla corte di Amenhotep III ed iniziò la sua carriera con Akhenaton: egli era, forse, quel funzionario amarniano chiamato May che divenne così importante da ottenere il privilegio di costruirsi una tomba nella necropoli della nuova città voluta dal suo re, la TA 14.

Maya ritratto nelle camere ipogee della tomba mentre rende omaggio agli dei

Fu tuttavia durante il regno di Tutankhamon che raggiunse i vertici del potere, in quanto insieme ad Horemheb e ad Ay governò di fatto l’Egitto come componente di un Consiglio di reggenza reso necessario dalla giovanissima età del sovrano; risale a questo periodo la costruzione a Sakkara della sua tomba definitiva, che sorge accanto a quella di Horemheb.

Egli contribuì a rinsaldare il potere centrale e l’ordine interno messi in pericolo dall’incapacità e dal disinteresse di Akhenaton per i suoi doveri di sovrano e ripristinò il culto dei vecchi dei restaurandone i templi a spese dello Stato, mentre Horemheb rinforzava il prestigio internazionale dell’Egitto ed il dominio nel Vicino Oriente conducendo diverse campagne militari nei confronti dei vassalli asiatici in rivolta.

Maya raffigurato con dimensioni doppie del normale sullo stipite del portone d’ingresso del complesso funerario mentre rende omaggio ai quattro figli di Horus e ad Osiride (non visibile)

Alla morte di Tutankhamon, Maya ne organizzò il funerale, ed ebbe l’onore di depositare nella sua tomba due ushabti ed un modellino rappresentante un catafalco sul quale giace il sovrano mummificato, protetto dalla dea Iside che lo copre con le sue ali.

Probabilmente continuò a ricoprire la sua carica anche sotto Ay ed Horemheb.

Sono documentati in suo favore trentanove titoli di corte (alcuni dei quali onorari), diciotto amministrativi, tre varianti del titolo di scriba, sei relativi alla costruzione di opere ed otto religiosi.

Frammento di una scena che raffigurava Maya, la cui importanza è testimoniata dal grande numero di “oro del valore” che portava al collo e che il sovrano conferiva ai dignitari meritevoli.

I più importanti erano quelli di Sorvegliante del Tesoro, Scriba Reale, Portatore di ventaglio alla destra del re, Sorvegliante dei lavori nel Luogo dell’Eternità (Valle dei Re), Guardiano dei Segreti del Palazzo, Preferito del Re, Preferito di Horus (il Re) nel suo palazzo, Chi fa ciò che piace a sua maestà, Capo della festa di Amon a Karnak.

La moglie Meryt raffigurata con dimensioni doppie del normale sullo stipite del portone d’ingresso della tomba

Egli morì attorno al 1310 a. C., nel corso dell’anno 9 del regno di Horemheb, a circa cinquant’anni di età, almeno da quanto si desume dai suoi resti ossei trovati nella tomba.

Non avendo avuto eredi maschi (nella tomba risultano raffigurate solo due figlie, una chiamata Mayamen – menzionata nella scena – l’altra di nome Tjaou-en-maya, nominata in una stele ora al Rijksmuseum di Leiden), le sue esequie furono officiate dal fratellastro Nahuher, primo figlio di Henuntiunu, seconda moglie di suo padre.

La tomba di Maya, già in parte riportata alla luce da Lepsius e poi abbandonata e scomparsa sotto la sabbia, è stata nuovamente rintracciata nel 1986 a Sakkara, e poi scavata e restaurata tra il 1987 ed il 1999 da una spedizione congiunta della Egypt Exploration Society (EES) e del National Museum of Antiquities di Leiden, che già era entrato in possesso delle tre bellissime statue del tesoriere e di sua moglie Meryt (una di Maya, una di Meryt ed una della coppia), i cui piedistalli sono ancora visibili nella cosiddetta “camera delle statue” e nel cortile esterno.

Il complesso funerario sorge a sud della strada processionale di Unas, in uno dei quattro settori principali della necropoli utilizzata dai funzionari del Nuovo Regno che prestavano servizio a Menfi, città che con la restaurazione post amarniana era tornata ad essere la capitale dell’Egitto.

Pianta dell’area della necropoli del Nuovo Regno a Sakkara ove sorge la tomba di Maya e Meryt (in alto, in colore blu).

Esso è lungo quasi 44 metri e largo 16,5 metri ed è costruito secondo i canoni tipici dell’architettura funeraria menfita sviluppatasi con Thutmosis IV e Amenhotep III e rimasti in auge fino alla XX dinastia: la struttura della tomba doveva consentire al defunto di unirsi alla divinità solare e di partecipare ai suoi eterni cicli di vita e di rinascita, ma anche di tornare sulla terra per rendere omaggio agli dei.

Veduta prospettica delle tombe di Maya e di Horemheb, tra le quali è stata successivamente inserita quella di Tia, sorella di Ramses II

Per questo a Sakkara le tombe del Nuovo Regno hanno un orientamento est – ovest, recano iscrizioni di inni solari sulle pareti o su stele e prevedono sia camere sepolcrali ipogee che una sovrastruttura del tutto simile ad un piccolo tempio “a cannocchiale”, le cui pareti vanno gradatamente restringendosi fino alle cappelle destinate al culto del defunto, corrispondenti al sancta sanctorum; come i templi solari dell’Antico regno, inoltre, avevano una piramide in miniatura posta sul tetto o dietro la cappella centrale.

Talvolta esse avevano anche una cappella per il culto di una divinità, di solito Osiride, Hathor, o il toro Apis.

Per meglio comprendere la struttura del complesso, guardate le fotografie delle piantine che ho allegato, con l’indicazione dei vari ambienti.

Pianta della tomba di Maya: a destra, sul lato est, si nota il pilone, in mattoni crudi nel quale si apre un portale rivestito di lastre di calcare finemente decorate che immette nel primo cortile pavimentato con mattoni, il quale conserva sul lato occidentale una fila di colonne papiriformi.
Segue la grande sala delle statue (l’ambiente al centro), fiancheggiata da due magazzini, attraverso la quale si entra nel cortile interno lastricato e circondato da un colonnato sul quale ad ovest si affacciano tre cappelle per le offerte costruite con mattoni crudi e con il pavimento in terra battuta.
Dal cortile interno si accede alla parte sotterranea originale, che si estende all’esterno del perimetro della costruzione superiore, mentre nel cortile esterno si apre la scaletta individuata in pianta da un rettangolino, che permette di raggiungere gli ambienti decorati, ricostruiti nel corso del restauro.

Gli stipiti delle porte, gli architravi e le pareti del cortile interno erano ricoperte di lastre in calcare scolpite con scene a carattere religioso e con le immagini di Maya che attende ai suoi compiti istituzionali.

Molti rilievi furono asportati dai monaci copti del monastero di Apa Jeremias e si trovano ora al Museo del Cairo; altri furono rimossi da Lepsius che, come si è visto, li portò a Berlino dove finirono distrutti nel corso della seconda guerra mondiale; altri visitatori del XIX secolo completarono la spoliazione.

Un pozzo verticale scavato nella roccia dava l’accesso ai due piani ove avevano sede le camere sepolcrali; per facilitare il restauro e la visita degli unici tre ambienti sotterranei decorati, che si trovavano ben 22 metri sotto il livello del suolo, gli archeologi rimossero i rilievi intatti e le centinaia di frammenti rimasti e li ricomposero in un ambiente costituito da tre stanze unite da corti corridoi appositamente scavato sotto la superficie del cortile esterno della tomba ed accessibile grazie ad una piccola scala.

Al link seguente un bellissimo tour virtuale della tomba creato da Salma El Dardiry e Karim Mansour, che gestiscono il sito Describing Egypt: https://www.saqqara.nl/tombs/virtual-tour-maya/ 

Sul lato est del complesso funerario di Maya si trova la facciata, che ha l’aspetto di uno spesso ed alto pilone templare costituito di mattoni crudi legati da malta, nel quale si apre il portale che conduce al cortile esterno, e che è costituito da un ampio ed alto passaggio rivestito di lastre di calcare finemente decorate.

Il pilone d’ingresso come appare oggi; i due stipiti recano rilievi di Maya davanti alle offerte, e sono stati protetti con un’intelaiatura in legno dotata di una porta chiusa con un lucchetto, che il custode apre per gli occasionali visitatori (la tomba è piuttosto fuori mano e non è compresa nei giri turistici ordinari). Sopra questi rilievi ci sono pannelli esplicativi del complesso funerario

Gli stipiti del portale d’ingresso, oggi protetti da un’anta in legno chiusa con un lucchetto che viene aperta dal custode ai rari visitatori, rappresentano Maya assiso ai cui piedi sono state poste innumerevoli offerte.

Il passaggio presenta due registri: su quello superiore (di grandezza doppia del reale) è raffigurato da un lato Maya giustificato che si riunisce alla moglie ed alla matrigna defunte prima di lui e dall’altro che rende omaggio ad Osiride ed ai quattro Figli di Horus insieme a Merit.

Particolare della scena della parete interna sinistra del portale che raffigura Maya che rende omaggio ad Osiride ed ai quattro figli di Horus (qui non visibili). Dietro di lui era rappresentata anche sua moglie, ma del rilievo sopravvive ora solo una mano in posizione di preghiera.
Immagine di Osiride sulla parete sinistra dell’ingresso al complesso tombale.

Nei registri inferiori di destra e di sinistra, di dimensioni ridotte ma di fattura delicatissima, sono raffigurati due cortei di portatori di offerte, alcuni indicati per nome, forse in virtù del ruolo prestigioso rivestito nell’amministrazione statale: uno di loro è un fratello di Maya, un altro è lo scriba del tesoro Sennefer, un terzo è il segretario del defunto Ptahmose.

Il primo dei pannelli che raffigurano il corteo dei portatori di offerte. Qui si nota il cumulo di offerte per Maya.
Portatori di offerte (guanti e collari d’oro) sul registro inferiore posto sulla parete destra dell’ingresso
Il secondo e parte del terzo pannello raffiguranti i portatori di offerte nel secondo registro della parete interna sinistra dell’ingresso
Parte del terzo ed il quarto pannello raffigurante i portatori di offerte sul registro inferiore della parete interna sinistra dell’ingresso.

La porta di uscita del passaggio presenta l’architrave sovrastata da una modanatura a gola egizia ricollocata nella sua posizione originaria dopo che un terremoto aveva fatto crollare tutta la struttura, decorata con due scene speculari: Maya e Merit inginocchiati in adorazione davanti ad Anubi in forma di sciacallo disteso su un santuario, sopra il quale appare un occhio Udjat.

L’architrave del portale d’ingresso che si affaccia sul cortile esterno.
Le scene speculari dell’architrave interna che raffigurano Maya e Merit che rendono omaggio ad Anubi.

Attraverso il passaggio nel pilone si entra nel cosiddetto “cortile esterno” pavimentato con mattoni, dove è stato scavato l’ambiente nel quale sono state spostate le pareti decorate delle stanze sotterranee.

Superato il pilone d’ingresso, ci si trova qui, nel cortile esterno, e si ha la vista dei successivi ambienti della sovrastruttura della tomba.

Sul lato occidentale rimane traccia di una fila di colonne che in passato creavano un portico sotto il quale si trovava, probabilmente, la statua di Maya e Merit oggi custodita a Leida.

Da qui un breve corridoio dà ingresso alla “sala delle statue” in mattoni crudi, in origine intonacata e dipinta e fiancheggiata da due magazzini caratterizzati da una volta a botte; essa ospitava le statue singole dei due coniugi anch’esse in mostra a Leida ed introduceva al “cortile interno” lastricato, un tempo circondato da dodici colonne delle quali restano solo le basi, al centro del quale è situata l’apertura (ora risigillata) che conduce alla parte ipogea della tomba.

Superata la spoglia sala delle statue, si accede al cortile interno; la foto è stata scattata proprio uscendo dalla sala delle statue per dirigersi verso il fondo della struttura e le tre cappelle.
Uno dei frammenti rimasti in loco raffigura una scimmietta domestica, che sta sotto la sedia di Merit.

Sul lato ovest del cortile, in linea con l’ingresso, si affacciano tre cappelle di culto costruite in mattoni e con il pavimento in terra battuta, oggi non accessibili al pubblico e completamente spoglie.

Prefiche nel corteo funebre di Maya. Questo rilievo è custodito al Royal Ontario Museum di Toronto.
Maya. Non so dove sia attualmente custodito questo frammento

Della ricca decorazione di quest’area sopravvive oggi solo la fascia più vicina al terreno che reca ancora dei testi e la parte inferiore delle scene, che raffiguravano il corteo funebre di Maya, il dignitario al lavoro e una celebrazione in onore di Hathor.

Lo scriba di Maya, chiamato Ranefer, porta offerte al suo superiore defunto insieme alla sua famiglia.

Come si è detto i preziosi blocchi vennero in parte staccati da Lepsius e portata a Berlino dove andarono quasi tutti distrutti nei bombardamenti della seconda guerra mondiale; altri si trovano dispersi in svariati musei del mondo: al Cairo, a Leida, ad Amburgo, a Rochester (NY), a Francoforte, a Toronto ed a Baltimora.

Altri offerenti nel corteo portano un toro, mentre altri ne stanno macellando due.

Come si è già affermato, la tomba ha ben due piani di stanze sotterranee, solo tre delle quali, le uniche dipinte ed indicate nella piantina già pubblicata con le lettere H, K ed O, sono oggi visitabili perchè trasferite in un ambiente appositamente scavato per garantire la piena sicurezza dei turisti ed accessibile tramite una botola a livello del terreno ed una ripida scaletta.

L’ingresso alla parte sotterranea della tomba, nel cortile esterno: qui inizia la scaletta
La lastra di calcare che chiudeva l’ingresso alla parte sotterranea della tomba, spessa ben sette centimetri, è stata restaurata e poi collocata nel piccolo passaggio (altezza 1.59 m; larghezza 1m) tra gli ambienti K e O. Foto di Silvia Vitrò

La decorazione, parte incompleta, parte deteriorata, rappresenta i defunti Maya e Merit che rendono omaggio agli dei: questa iconografia era entrata in uso con Amenhotep III ed aveva sostituito la raffigurazione delle scene di vita quotidiana di moda nella prima metà della XVIII dinastia.

Secondo uno stile affermatosi nelle tombe di Deir el Medinah, le immagini ed i testi sono dipinti su di uno sfondo bianco in giallo dorato, che garantisce ai defunti la vita nell’Aldilà in quanto rappresenta l’oro, materiale incorruttibile dal quale gli Egizi ritenevano fossero costituiti il sole e la carne degli dei; i particolari ed i contorni delle immagini erano rifiniti in nero e rosso ed i gioielli e le parrucche in blu, ma questi colori ora sono quasi del tutto scomparsi.

Per non appesantire troppo il post illustrerò qui la sola sala H: per praticità di lettura, ho inserito la spiegazione delle singole pareti nella didascalia delle immagini.

Le panoramiche sono tratte mediante screenshot dal file relativo alla visita virtuale della tomba inserito nella parte seconda dei post su Maya; le fotografie sono tratte in parte da internet (indicherò l’autore nella didascalia, qualora sia noto), in parte sono state scattate da mia figlia Silvia Vitrò.

La parete nord della cosiddetta “anticamera” o “sala H”, la prima stanza che si incontra scendendo dalla scaletta: raffigura i coniugi che rendono omaggio ad Osiride ed a Nephtis, davanti ai quali vi è un tavolo di offerte. Foto di Silvia Vitrò
Parete sud della sala H: qui si trovava l’ingresso decorato che conduceva ad un annesso non iscritto, oggi chiuso ed intonacato di bianco. Sopravvivono sui lati lunghi dell’apertura due colonne di geroglifici con lodi ad Osiride ed a Sokar. Nell’immagine l’architrave, che presenta due immagini del dio sciacallo sopra un’edicola, due occhi udjat, un anello shen. Foto di Silvia Vitrò
A destra dell’apertura intonacata posta sulla parete sud della sala H si trovano le immagini di Nut e di Osiride, ai quali Maya e Merit, disegnati sull’adiacente parete ovest, rendono omaggio.
Parete ovest con le figure di Maya e Merit in atteggiamento di omaggio nei confronti di Osiride e Nut posti sulla parete sud.

Questa è la stanza con i rilievi più curati.

La PARETE SUD in particolare è la più bella dell’intera tomba.

Guardando da sinistra si notano Maya e Merit con le braccia alzate in adorazione davanti ad Osiride assiso sull’antico sedile cubico; dietro di lui Nut che tiene in mano un ankh ed Iside e Nephtys che reggono uno scettro; davanti ad Osiride è posto un tavolo ricco di offerte.

PARETE SUD: Guardando da sinistra a destra si notano Maya e Merit con le braccia alzate in adorazione davanti ad Osiride assiso sull’antico sedile cubico; dietro di lui Nut che tiene in mano un ankh ed Iside e Nephthys che reggono uno scettro; davanti ad Osiride è posto un tavolo ricco di offerte.
PARTICOLARE DELLA PARETE SUD: i due coniugi

La PARETE OVEST reca a destra un inno a Osiride in tredici colonne; al centro l’architrave dell’originario passaggio alla camera O, decorata con due rappresentazioni di Anubi, sormontate da due occhi wadjet e divise da un segno shen.

La PARETE OVEST reca a destra un inno a Osiride in tredici colonne; al centro l’architrave dell’originario passaggio alla camera O, ora chiuso, decorata con due rappresentazioni di Anubi, sormontate da due occhi wadjet e divise da un segno shen. La parte sinistra della parete mostra una rappresentazione di Merit che deve essere tuttavia riferita alla scena ritratta sulla parete nord.

La parte sinistra della parete mostra una rappresentazione di Merit che completa la scena ritratta sulla parete nord.

L’apertura che conduce alla stanza O in origine era stata sigillata con un blocco di calcare, costituito da tre lastre sovrapposte spesse 7 cm, che fu distrutto dai saccheggiatori per penetrare nella tomba; attualmente è stato restaurato e collocato nel piccolo passaggio tra gli ambienti H e K.

IL BLOCCO DI CALCARE che in origine sigillava l’apertura della stanza O restaurato e posto nel piccolo corridoio tra gli ambienti K e O. Esso raffigura in alto a sinistra il falco Sokar sulla sommità di una cappella, sovrastato da due occhi Wadjet. Sotto di lui Osiride assiso sul suo trono, con i quattro figli di Horus (piccolissimi) in piedi su di un loto posto di fronte a lui. Maya e Merit li fronteggiano in atteggiamento di adorazione.

Esso raffigura in alto a sinistra il falco Sokar sulla sommità di una cappella, sovrastato da due occhi Wadjet; sotto di lui Osiride assiso sul suo trono, con i quattro figli di Horus (piccolissimi) in piedi su di un loto posto di fronte a lui. Maya e Merit li fronteggiano in atteggiamento di adorazione.

La PARETE NORD si suddivide in tre parti:

  1. Maya in adorazione davanti a Geb.
  2. la coppia in adorazione di Sokar ieracocefalo con la corona Atef ed Anubi dalla testa canina (che si trova sulla parete adiacente).
  3. tra le due scene il muro di chiusura dell’annesso M, sul quale sono rappresentate Iside e Nephtys; l’architrave è decorato ancora una volta con due immagini di Anubi.
PARETE NORD: a destra Maya in adorazione davanti a Osiride; a sinistra Merit in adorazione di Upuaut, che insieme a Maya si trova sulla parete adiacente; al centro il muro che chiude l’annesso M, sul quale sono rappresentate Iside e Nephthys; l’architrave è decorata con due immagini di Anubi.
PARTICOLARE DELLA PARETE NORD: Maya in adorazione di Osiride
PARETE NORD: La coppia in adorazione di Sokar e di Upuaut (quest’ultimo sulla parete adiacente, a sinistra), Iside e Nephtys, e la coppia in adorazione di Geb (Merit si trova sulla destra, sulla parete adiacente)

LA PARETE EST presenta sulla destra l’immagine di Anubi, che, come già detto, completa la scena della parete nord; al centro si trova l’apertura che mette in comunicazione con la stanza successiva, a sinistra è stata raffigurata la solita scena di Anubi che prega sulla mummia del defunto, assistito da Iside e Nephtys.

Il registro centrale del pannello di sinistra della PARETE EST; Anubi pronuncia formule magiche sulla mummia di Maya: Testo, da Osirisnet: “Parole pronunciate da Anubi, che è bendato, quando pone le mani sulla mummia il cui volto è grazioso come quello di un Dio (?): I tuoi occhi ti appartengono. Il tuo occhio destro è la barca diurna, il tuo occhio sinistro è la barca notturna, Oh Osiride, vero scriba reale, che ama, Supervisore del Tesoro del Signore delle Due Terre, Maya, giustificato con il Grande Dio che è negli Inferi. “L’Osiride, scriba reale, il Supervisore di il Tesoro, Maya, giustificato” 

La decorazione di questo ambiente non è particolarmente curata e riproduce le scene già proposte nella sala K.

La PARETE SUD infatti è quasi identica a quella della Sala precedente, cos’ come la PARETE OVEST, decorata con d alcuni testi abbreviati ed un’immagine tratti dal capitolo 151A del Libro dei Morti; la PARETE NORD si divide in tre parti: a destra Maya in adorazione davanti a Osiride; a sinistra Merit in adorazione davanti ad Anubi cinocefalo (che accanto a Maya si trova sulla parete adiacente); al centro il blocco di calcare che chiude l’ingresso all’Annesso P con la raffigurazione di Iside e Nephtys ed un’architrave appena schizzata con l’immagine speculare di due Anubi, adagiati su due tombe o due edicole e con i consueti epiteti.

La PARETE SUD con Maya e Merit in adorazione davanti ad Osiride ed alle tre dee
Maya e Merit adorano Osiride e le tre dee.

La PARETE EST reca come si è detto la continuazione della scena che si estende sulla parete nord. Maya si trova di fronte ad Anubi cinocefalo, in piedi: accanto a lui è incisa la sua preghiera al dio: “…Possa tu concedere (la capacità) di entrare e lasciare la necropoli, giustificato da Osiride, lo scriba reale, il sorvegliante del tesoro, Maya”.

PARETE EST: Maya in adorazione di Anubi cinocefalo. Foto di Silvia Vitrò.


Merit è sulla parete adiacente e implora: …Sono venuta a te, Anubi, che esisterai per sempre, affinché tu mi conceda di essere tra i tuoi lodati che sono al tuo seguito. Possa io essere convocata per nome, possa io essere ritrovata nel giorno di Ro-setau. Che le offerte (cioè la formula dell’offerta) siano recitate per me davanti a te come per tutti i tuoi lodati. Per il Ka (della) cantante di Amon, la Signora della casa, Merit, giustificata nella necropoli, venerata in pace” (Testi da Osirisnet).

Particolare dei due coniugi che rendono omaggio alle divinità.

Sulla parete nella quale si trova l’apertura che mette in comunicazione la sala K e la sala O, si trovano due pannelli: su quello di destra vi è una rappresentazione di Upuaut che completa la scena adiacente sulla parete nord, su quello opposto i consueti tre registri con la rappresentazione di Anubi che recita formule magiche sulla mummia di Maya e che in forma di sciacallo veglia davanti ad una tomba.

Particolare delle tre dee.

FONTI DEL TESTO E DELLE IMMAGINI

C'era una volta l'Egitto, Nuovo Regno, XVIII Dinastia

IL FARAONE AMENHOTEP III  “IL MAGNIFICO”

Di Piero Cargnino

Alla morte di Thutmosi IV sale al trono delle Due Terre suo figlio, Amenhotep III, figlio di  Mutemuia, concubina o sposa secondaria di Thutmosi IV. In una iscrizione conservata al British Museum, Mutemuia viene citata come:

ossia come colei che ha dato alla luce il principe già incoronato faraone.

Secondo l’egittologa inglese Christine el-Mahdy, poiché in iscrizioni precedenti non viene citata come “Madre del Dio”, in quanto concubina non poteva neppure essere la “Grande sposa Reale” di Thutmosi IV per cui pare legittimo pensare che i suoi titoli di prestigio “Grande sposa reale“, “Madre del re” e “Sposa del re” gli furono assegnati solo quando il figlio salì al potere, come infatti compare su di un’altra iscrizione successiva:

Per quanto riguarda Amenhotep III non aspettiamoci di vedere un nuovo faraone guerriero, non si hanno notizie di azioni militari di rilievo durante tutto il suo regno, regno che fu un periodo di prosperità e splendore artistico senza precedenti.

Con Amenhotep III finalmente l’Egitto raggiunse l’apogeo del potere, il prestigio internazionale è riconosciuto da tutti i paesi confinanti, il popolo gode di una relativa ricchezza e l’arte esprime tutta la sua raffinatezza; si può tranquillamente dire che questo fu uno dei periodi più sereni e fecondi dell’intera storia egizia.

Come già fece la regina Hatshepsut, anche Amenhotep III volle sfoggiare una sua origine divina, nella stanza detta “Camera della nascita” del tempio di Luxor fece rappresentare il mito della sua nascita divina, la “ierogamia”, il rapporto sessuale tra una divinità, Amon, e una mortale, la propria madre, Mutemuia, rapporto dal quale (ovviamente) nasce lui.

Con la Grande sposa Reale, Tiye, ebbe sei figli, quattro femmine e due maschi: Thutmosi, principe ereditario ma premorto, Amenhotep IV (Akhenaton), e le principesse Baketaton, Sitamon, Henuttaneb, Iside e Nebetah.

La regina Tiye rivestì una notevole influenza a corte e partecipò alla gestione del potere sia come sposa di Amenhotep III, del quale fu importante consigliera e confidente, che durante il regno del figlio Akhenaton cosa che la fece ricordare come una regina saggia, intelligente e forte. La sua importanza nella gestione del potere era riconosciuta da tutti i dignitari, anche quelli stranieri, al punto che persino i re di altri paesi erano disposti a trattare con lei o tramite lei.

È la prima Grande Sposa Reale il cui nome compare su atti ufficiali, l’egittologo australiano David O’Connor scrive in merito: “……nessuna regina precedente apparve mai in posizione tanto prominente nella vita del marito…..”.

Nella statuaria compare sempre accanto al marito, sia nelle tombe che nei rilievi che sulle stele. Come abbiamo detto alla morte di Amenhotep III continuò a svolgere lo stesso ruolo con il figlio Akhenaton, lo evidenziano alcune Lettere di Amarna, in modo particolare nella lettera EA26, dove il re Mitanni rimembra direttamente con lei le buone relazioni che lo legavano al defunto Amenhotep III ed esprime il desiderio che la cosa continui con il nuovo faraone Akhenaton.

Oltre alla Grande sposa Reale, Tiye, Amenhotep III ebbe numerose mogli straniere, fra queste: Gilukhipa, figlia del re Mitanni Shuttarna, Tadukhipa, figlia del re Tushratta anch’egli Mitanni, oltre alle figlie di due re di Babilonia, una figlia del re di Arzawa ed una del governante di Ammia (Siria).

Alcuni studiosi sostengono che  Amenhotep III potrebbe aver avuto, tra gli altri, un terzo figlio maschio da una sposa secondaria, Smenkhara che succederà al fratello Amenhotep IV (Akhenaton), secondo altre interpretazioni Smenkhara sarebbe invece figlio dello stesso Akhenaton.

Una curiosità di questo periodo è l’affermarsi di un’usanza particolare, per celebrare gli avvenimenti degni di nota si iniziò ad inciderli in geroglifico sul retro di scarabei dove compaiono sempre i nomi del re e della regina oltre a quelli dei loro famigliari. Uno di questi parla dell’uccisione, da parte del sovrano, di 102 feroci leoni in dieci anni; su di un altro della costruzione di un lago artificiale per lo svago della regina, vengono citate la misure del lago che fanno supporre trattarsi del lago Birket Habu, a sud di Medinet Habu.

Degno di nota è uno scarabeo che ci fornisce, quasi involontariamente notizie circa i confini dell’Egitto all’epoca, si tratta dello “Scarabeo del Matrimonio” (nome forse non del tutto appropriato) nel quale è citata la regina Tiye ed i suoi genitori seguiti dalle parole:

Forse Karoy si trovava oltre Napata e quindi apparteneva alla giurisdizione del vicerè, in quanto a Nahrin, (territorio dei Mitanni) forse era più un’aspirazione del re che non la realtà. Comunque l’amicizia tra Amenhotep III ed il principe Mitanni è confermata su un altro scarabeo che riporta l’anno 10 è riportato:

Per quanto riguarda le imprese militari di Amenhotep III sappiamo che nel quinto anno di regno scoppiò una rivolta in Nubia, nel distretto di Ibhe, dove si trovava una cava di pietre utilizzate per la piramide del re Merenre della VI dinastia. La rivolta venne sedata dall’esercito egiziano al comando del vicerè Mermose e si risolse con la cattura di un migliaio di prigionieri. La campagna è descritta in tre roboanti iscrizioni rupestri sulle rocce della prima cateratta nelle quali si parla che

Si nutrono forti dubbi che il sovrano vi abbia partecipato direttamente, su di una stele conservata al British Museum l’avvenimento viene raccontato con maggiore sobrietà. Comunque nella provincia nubiana Amenhotep III dette sfoggio della sua grandezza con la costruzione di templi imponenti, a Sedeinga fece costruire un tempio in nome della moglie Tiye dove essa divenne oggetto di culto, il tempio si chiamava Hat-Tiye  (La casa di Tiye).

Un secondo tempio venne fatto costruire a Soleb, a nord della terza cateratta, è il monumento faraonico più importante dell’attuale Sudan. Era dedicato al dio Amon-Ra di Karnak e all’”immagine vivente” di Amenhotep III, Nebmaatra, signore della Nubia, identificato con il dio lunare Khonsu Neferhotep, pare che l’architetto fosse Amenhotep figlio di Hapu.

Questo tempio ha fatto impazzire numerosi studiosi in quanto, su una colonna del tempio, compare un’iscrizione molto particolare, l’iscrizione farebbe riferimento al dio degli ebrei dove il nome compare in geroglifico come

Inutile dire che su questo fatto ci sono due correnti di pensiero, secondo alcuni gli Shasu sarebbero una tribù nomade che nulla ha a che vedere con Israele, altri affermano che fossero si una tribù nomade ma che da essa ebbero origine gli ebrei, per quanto ci riguarda lasciamoli dibattere. Piuttosto va notato che la costruzione di questo tempio a Soleb mette in risalto il desidero del faraone di rendere “solare” il culto della religione corrente, identificando la sua persona con l’aspetto creatore del dio solare viene messo in risalto l’intento di favorire la fertilità e quindi l’ordine universale. Questo nuovo programma teologico sfocerà poi nella religione voluta da Akhenaton che vede il dio Ra-Harakhti nel disco solare Aton.

Abbiamo accennato ad un personaggio che merita una maggiore attenzione, si tratta di  Amenhotep figlio di Hapu, di umili origini, i genitori erano contadini nella città di Atribi, odierna Benha sul Delta del Nilo. Divenne sacerdote del culto di Thot e scriba reale per gli affari militari, forse fu anche un comandante dell’esercito, ragione che lo portò ad essere notato dallo stesso Amenhotep III che lo nominò intendente al fianco di sua figlia Satamon.

La sua fu una carriera molto brillante, oltre a rivestire il ruolo di scriba reale divenne anche capo delle reclute e in seguito “capo di tutti i lavori del Re”. Come capo architetto fu anche supervisore alla costruzione del grande “Tempio di milioni di anni” di Amenhotep III, nella necropoli di Tebe di fronte all’odierna Luxor, sulla riva occidentale del Nilo.

Qui si incontrano due enormi statue di pietra, dall’aspetto abbastanza inquietante, che si ergono isolate nella pianura circostante osservando, dall’alto dei loro 18 metri, da millenni il lento scorrere del Grande Fiume. Sono le statue gemelle di Amenhotep III che facevano parte del Complesso Funerario. Il faraone è rappresentato assiso con le mani sulle ginocchia e lo sguardo rivolto ad est, verso il sole nascente, sulla parte anteriore del trono, a fianco delle sue gambe, due statue più piccole, che rappresentano la moglie Tiye e la madre Mutemuia, sono scolpite su un lato del trono a fianco delle sue gambe. Sui pannelli laterali è rappresentato il dio Nilo Hapy.

Sono i famosi “Colossi di Memmone” il cui nome gli fu assegnato dai greci che le associarono all’eroe mitologico Memmone, un re etiope, figlio di Eos dea dell’aurora, che corse in aiuto di Troia, in guerra con gli Achei, e morì per mano di Achille. I colossi svolgevano la funzione di guardiani dell’entrata del “Tempio di milioni di anni” di Amenhotep III che al suo tempo era il più grande ed opulento nell’intero Egitto, persino il tempio di Karnak, all’epoca di Amenhotep III, era più piccolo. Della sua imponenza oggi rimane ben poco oltre ai due colossi, costruito sul bordo della pianura alluvionale, non ha resistito all’erosione che ne ha minato le fondamenta.

Ma queste statue hanno una particolarità che le rese famose fin dall’antichità. Nel 27 a.C. un terremoto causò la parziale distruzione di uno dei Colossi: la parte superiore crollò, mentre quella inferiore riportò delle crepe. Un’antica leggenda racconta che dopo la rottura, ogni mattina all’alba, dalla metà inferiore della statua spezzata, proveniva uno strano suono. Si pensa che il fenomeno fosse causato dall’aumento della temperatura che, facendo evaporare la rugiada, produceva un suono simile ad un canto o una musica.

Il primo riferimento alla statua che cantava ci giunge dallo storico e geografo greco Strabone, che affermò di avere udito la musica durante un viaggio effettuato nel 20 a.C.. Altri viaggiatori, come il greco Pausania e i romani Tacito e Giovenale, descrissero il fenomeno, tanto che alla statua furono attribuiti poteri oracolari. La fama della statua che canta si sparse rapidamente ed arrivarono migliaia di visitatori tra cui diversi imperatori romani. Sulle statue sono inoltre leggibili oltre 90 graffiti di persone che avevano sentito cantare la statua. Lucio Flavio Filostrato nella sua opera, “Vita di Apollonio di Tiana” cita il canto della statua come il saluto dell’eroe Memmone alla madre Eos, dea dell’aurora. Tra i graffiti di persone importanti ce n’è uno di Giulia Balbilla, poetessa greca antica che si era recata in Egitto con la corte dell’imperatore Adriano e di sua moglie Vibia Sabina.

Intorno al 199 d.C. l’imperatore romano Settimio Severo, per ingraziarsi l’oracolo, ordinò il restauro delle statue. Da allora le statue non emisero più alcun suono.

Tornando agli affari interni del regno non va trascurato il fatto che l’apparente periodo di pace nella regione medio orientale portò l’Egitto ad una certa rilassatezza nel controllo del territorio ed in realtà ad una progressiva riduzione dell’influenza egiziana a vantaggio degli imperi orientali in particolare di quello Ittita. Sul fronte orientale si riscontra però un’intensa attività diplomatica di Amenhotep III nei confronti dei sovrani Assiri, Mitanni, Ittiti e di Babilonia documentata nelle “Lettere di Amarna”.

In una di queste lettere si evince che, mentre in Egitto giungevano spesso figlie di re stranieri date in spose al faraone, la cosa non era ricambiata, nella Lettera di Amarna EA 4 il re di Babilonia lamenta che:

Forse la ragione stava nel fatto che, secondo la tradizione egizia, chi avesse sposato una figlia del faraone avrebbe acquisito il diritto alla successione al trono d’Egitto, o forse si trattava semplicemente di affermare la superiorità dell’Egitto sugli altri regni. Abbiamo accennato più volte alle “Lettere di Amarna” vediamo di che si tratta.

Nel 1887 una contadina egiziana mentre stava raccogliendo del sabakh, una sorta di concime, tra le rovine di el-Amarna rinvenne per caso un gran numero di tavolette di creta che recavano incisioni incomprensibili apparentemente prive di alcun valore. Queste furono vendute per un’inezia sul mercato clandestino dove vennero acquistate da istituzioni museali mondiali e mercanti d’arte, ma in seguito più nessuno ne parlò e delle tavolette e del luogo di ritrovamento se ne persero le tracce. Delle tavolette si tornò a parlare in occasione della comparsa sui mercati clandestini di analoghi reperti, esaminate meglio si scoprì dunque il loro valore, si scatenò quindi una corsa alla loro ricerca, numerose campagne di scavo vennero organizzate da varie istituzioni, tra queste la campagna più importante venne condotta, nel 1891-1892, dagli egittologi inglesi William Mattheuw Flinder Petrie e John Pendlebury.

Le Lettere di Amarna costituiscono oggi un insieme di 380 reperti (oltre alle centinaia andate perdute o distrutte) oggi purtroppo sono sparse in diversi musei nel mondo ma soprattutto al British Museum di Londra, al Museo Egizio del Cairo ed al Museo dell’Asia Anteriore di Berlino. Le Lettere sono redatte in in lingua accadica, la più antica lingua semitica mai attestata, di origine semitica orientale parlata principalmente in Mesopotamia dagli Assiri e Babilonesi, il nome deriva dalla città di Akkad, ancora oggi non rintracciata con certezza e utilizza i caratteri cuneiformi. Tutte le tavolette (lettere) facevano parte dell’archivio di stato del faraone Akhenaton quando questi spostò la capitale da Tebe ad Akhetaton (Amarna).

Tratteremo ancora l’argomento quando parleremo del faraone “eretico”. A proposito di lui, non è certo che suo padre lo abbia nominato coreggente; su una Lettera di Amarna (EA 27) il re dei Mitanni Tushratta esprime rammarico per  per il fatto che Akhenaton non gli avrebbe inviato le statue d’oro promesse dal padre in dote al momento del matrimonio di  Amenhotep  III con sua figlia Tadukhipa. Ora, poiché la lettera è datata all’anno 2 del regno di Akhenaton, si deduce che, se coreggenza c’è stata, non sarebbe durata più di un anno o due.

Sul terzo pilone del Complesso templare di Karnak, quello di Amenhotep III, in un rilievo molto danneggiato a causa della “damnatio memoriae” cui fu sottoposto Akhenaton, compaiono padre e figlio su una barca sacra, per quanto possibile si legge:

Secondo la notizia diffusa dal Ministero Egiziano delle Antichità i recenti ritrovamenti nella tomba del visir Amenhotep-Huy, dove compaiono i cartigli di  Amenhotep  III e di Akhenaton incisi uno accanto all’altro, confermerebbero che ci sia stata una coreggenza di almeno otto anni. L’egittologo Peter Dorman ha respinto ogni ipotesi di coreggenza fra i due faraoni, basandosi sui rinvenimenti della tomba di Kheruef. Altra disputa che lasciamo agli egittologi.

Come è naturale che sia anche i faraoni invecchiano e si ammalano, proprio in alcune scene dalla tomba tebana di Kheruef,  Maggiordomo della “Grande sposa reale” Tiye, il sovrano viene rappresentato “indebolito e visibilmente sofferente”, cosa analoga è riscontrabile in una statuetta in serpentite, conservata al Metropolitan Museum of Art di New York, dove Amenhotep  III è riprodotto con abiti voluminosi e un ventre prominente.

L’esame della mummia del faraone rivelerà poi che questi era obeso e soffriva di artrite senza trascurare la pessima dentatura profondamente cariata. Ma dopo 38 o 39 anni di regno giunse per lui il momento di incamminarsi verso i “Campi di Iaru” e, forse secondo l’antica credenza, unirsi agli dei diventando una stella imperitura.

Amenhotep III fu un buon sovrano, forse anche amato ma certamente stimato tanto dai sudditi quanto dai sovrani stranieri che espressero il loro rammarico per la sua morte. Il re Tushratta scrisse:

Alla sua dipartita l’Egitto era una grande potenza, la sua influenza raggiungeva quasi l’intero oriente allora conosciuto così come nella Nubia a sud, rispettato e temuto da tutte le nazioni confinanti. Il guaio allora (come oggi) non era tanto la politica ma la religione, il clero di Amon con la sua influenza e le sterminate proprietà che gli garantivano una potenza era in grado di condizionare le decisioni dei regnanti, cosa che causerà la rivoluzione di  Akhenaton.

Amenhotep III il “Magnifico”, uno dei più grandi sovrani del Nuovo Regno, venne sepolto nella tomba che si era fatto costruire in una valle attigua alla Valle dei Re, la “Valle dell’Ovest” (in arabo “Biban el-Gurud” porta delle scimmie) e denominata WV22 (West Valley22) ma viene anche chiamata KV22 (King Valley22). Nel seguito vedremo che anche la sua mummia venne pietosamente trasportata nella tomba KV35 di Amenhotep II per preservarla dai saccheggi.

La tomba, aperta ed accessibile, era già nota perché visitata dall’esploratore inglese William George Browne ma venne ufficialmente “scoperta” dagli studiosi francesi R. E. Devilliers du Terrage e J. B. Prosper Jollois, che si erano recati in Egitto al seguito di Napoleone e, nel 1799 avevano seguito il generale Dasaix fino a Tebe. Delillers e  Jollois eseguirono rilievi epigrafici e ne tracciarono la mappatura, ulteriori rilievi vennero eseguiti nel 1828 da Ippolito Rossellini e nel 1844 da Richard Lepsius, nel 1898 si interessò alla tomba anche Victor Loret e nel 1915 Haward Carter che rinvenne cinque depositi di fondazione.

Nel 1959 Hornung e Piankoff eseguirono una rilevazione fotografica, dal 1989 gli studi sulla KV22 sono stati affidati in concessione alla Waseda University giapponese. Champollion visitò la tomba nel 1829 rilevando che alcune pareti erano ricoperte da pitture di straordinaria finezza, sono pitture e geroglifici stilizzati che ricordano lo ieratico.

Vediamo ora come si presenta la tomba seguendo sulla planimetria. La grande tomba si insinua nella roccia per 86 metri  seguendo un percorso che presenta due cambiamenti di direzione ad angolo retto. L’ingresso si apre su di una scala (a) che immette in un corridoio in pendenza (b) in fondo al quale si trova un’altra scala (c) ed un altro corridoio (d) che termina in un pozzo verticale (e), profondo quasi 5 metri, sul fondo del pozzo si apre un piccolo locale (e1).

Superato il pozzo si accede ad una camera con due pilastri (f), sul lato sinistro della parete di fondo tramite una scala si accede ad un breve corridoio (g) e tramite un’altra scala (h) si accede all’anticamera (i), le cui pareti, come quelle del pozzo presentano “scene reali”, figure di divinità quali Osiride, Anubi, Hathor, Nut e Amentit insieme al sovrano ed al suo ka.

Proseguendo si apre la grande camera funeraria a sei pilastri (j) che si presenta su due livelli nella quale si trova il sarcofago di Amenhotep III.

Le pareti della camera funeraria sono interamente ricoperte dai testi del “Libro dell’Amduat”, mentre sui sei pilastri è rappresentato il re in presenza di alcune divinità. Tutte le decorazioni sono pesantemente danneggiate e difficilmente leggibili. Anche qui intorno alla camera funeraria si trovano diversi annessi di cui i due più grandi, con il soffitto sorretto da un pilastro, si suppone che avessero la funzione di ulteriori camere funerarie, forse una di esse era per la regina Sanamon e l’altra per la regina Tiye.

Purtroppo oltre ai danni arrecati dal tempo si aggiungono i danni provocati dai visitatori che agli inizi del novecento rubarono e asportarono alcune parti delle pitture parietali, la cosa è particolarmente visibile nella parete sud del pozzo dove è raffigurata la dea Nut che riceve il re seguito da un personaggio che porta sul capo il segno del ka, com’è chiaramente visibile, il capo del faraone è stato completamente asportato.

Terrage e Jollois che visitarono la tomba nel 1799 riuscirono a percorrere solo un breve tratto a causa dei detriti che ostruivano il passaggio, in seguito la tomba venne visitata da molte persone al punto che al suo interno non venne più rinvenuto nessun reperto originale salvo alcuni frammenti di scarsa importanza rinvenuti durante gli scavi di Carter.

I resti della mummia di Amenhotep III vennero rimossi in passato e, dopo un precario restauro, furono trasferiti nella tomba di Amenhotep II, la KV35; quando venne rinvenuta da Loret nel 1898 si trovava in pessime condizioni, dall’etichetta che la contraddistingueva si poté risalire all’epoca del restauro corrispondente all’anno dodicesimo del faraone Smendes della XXI dinastia

Fonti e bibliografia:

  • Enrichetta Leospo e Mario Tosi “ll potere del re il predominio del dio”, Ananke, 2005
  • Cimmino, Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano 2003
  • Ala Gardiner, “La civiltà egizia”, Einaudi, Torino 1997
  • John Wilson, “Egitto, I Propilei” volume I, Arnoldo Mondadori, Milano, 1967
  • Agnès Cabrol, “Amenhotep III le magnifique”, ed. Le Rocher, 2000
  • Cyril Aldred, “Akhenaton il faraone del sole”, Grandi tascabili economici Newton, 1996
  • A. Piankoff e E. Hornung, “Das Grab Amenophis’ III im Westtal der Könige”, 1961
  • G. W. Bowersock, “The Miracle of Memnon”, American Society of Papyrologists, 1984 André e Étienne Bernand, “Les Inscriptions grecques et latines du colosse de Memnon”, Parigi, Bibliothèque d’étude de l’Institut français d’archéologie orientale, 31, diffusion Picard, 1969
C'era una volta l'Egitto, Nuovo Regno, XVIII Dinastia

IL FARAONE THUTMOSI IV

Di Piero Cargnino

Menkheperura Thutmosi IV, era il figlio di una sposa secondaria, o concubina, di Amenhotep II, Tiaa. Alla sua ascesa al trono, forse per sottolinearne maggiormente il diritto (anche se non era il caso), onorerà la propria madre assegnandogli il titolo di “Grande Sposa Reale” e “Sposa del Dio”.

Si pensa che abbia regnato per una decina di anni, Manetone, questa volta degno di fede, gli assegna nove anni e 8 mesi di regno. Al contrario del padre Amenhotep II, le sue vicende coniugali ci sono note, ebbe due “Grandi Spose Reali”, Nefertari e la propria sorella Iaret. Sarà il destino ma anche il suo successore, Amenhotep III fu figlio di una sposa inizialmente secondaria, Mutemuia, principessa Mitanni figlia del re Artatama I, assurta poi a grandi onori quando suo figlio, Amenhotep III “Il Magnifico” divenne faraone, sarà quindi la nonna di Akhenaton e (forse) bisnonna di Tutankhamon (?). Il suo nome significa “Mut è nella barca divina”.

Per quanto riguarda le imprese militari di Thutmosi IV sappiamo solo di alcune spedizioni atte a sedare le continue insurrezioni in Siria alimentate dagli irrequieti Ittiti che premevano sempre più su quel fronte. Pare che il suo regno sia stato abbastanza tranquillo anche perché scarseggiano le notizie storiche degne di nota, sappiamo di una breve campagna di Thutmosi IV, nel suo ottavo anno di regno, per sedare una rivolta in Nubia.

Questo periodo di relativa pace favorì lo sviluppo di un’intensa attività di costruzione ed abbellimento delle tombe da parte delle figure più eminenti della corte, le cui tombe, dette “Tombe dei Nobili”, abbondano di splendide pitture. Non va dimenticato che si usa comprendere nella categoria dei “Nobili” anche le tombe delle necropoli degli operai, in particolare quella di Deir el-Medina, dove le maestranze che realizzavano le sepolture reali, non peccavano certo di modestia nel costruirsi le loro tombe.

Uno di questi era Kenamun, allattato dalla stessa balia che aveva nutrito il faraone Amenofi II, da lui nominato amministratore del cantiere navale di Peru-nufe, era un personaggio molto influente a corte, anche se poi cadde probabilmente in disgrazia, come dimostra l’avvenuta distruzione nella sua tomba, del suo nome e della sua figura. Mi scuso per la breve divagazione su questo personaggio ma penso sia interessante seguirne la storia. Nella sua tomba, ricca di decorazioni sono rappresentati i beni più belli, prodotti nel suo laboratorio,  che offriva ogni anno al faraone, statue, vasi, scudi, cocchi e mobili disegnati con grande raffinatezza.  Nelle iscrizioni si parla del “cocchio che Sua Maestà gli diede come segno del suo favore”, Kenamun lo volle portare con se nella vita eterna.

La spedizione di Champollion e Ippolito Rossellini, giovane professore pisano, del 1828, che oltre a riportare in patria disegni e riproduzioni di testi geroglifici, portò anche un “bottino” di settentasei casse di reperti tra i quali si trovava, smontato il cocchio di Kenamun che oggi è possibile ammirare nelle sale del Museo Egizio di Firenze. Anche la storia della mummia di Kenamun è piena di fascino e mistero, giunta in Toscana nel 1829 sparì e non venne più ritrovata finché nel 2013, inspiegabilmente ed in modo del tutto casuale venne rinvenuta nel Museo di Storia Naturale di Calci, (piccolo comune in provincia di Pisa) sotto le spoglie di uno scheletro.

In quanto anche Thutmosi IV era figlio di una sposa secondaria, come fu poi consuetudine per i faraoni del Nuovo Regno, ritenne che fosse necessario legittimare la sua successione al padre ed a tal fine fece in modo che a confermarne la successione fossero addirittura gli dei. Fece scolpire un grande stele dove è riportato un suo sogno che avrebbe fatto da ragazzo. Si tratta della famosa “Stele del Sogno” risalente al suo primo anno di regno, una stele alta 114 cm., alta 40 cm e spessa 70 cm. che ancora oggi troneggia tra le zampe della Sfinge.

Nella scena riportata nella lunetta superiore è rappresentato il faraone intento a portare offerte alla Grande Sfinge. E qui, a mio parere si trova un enigma affrontato da pochi studiosi (ho fatto fatica a trovare fonti spesso giudicate fasulle), nella scena il faraone si trova di fronte alla Sfinge che volge la schiena ad un’altra Sfinge di fronte alla quale è rappresentato un altro (o lui stesso) sempre officiante. Perché le sfingi sono due? Forse alle spalle della Grande Sfinge ce n’era una seconda oggi distrutta o ancora sepolta?

Non voglio attirarmi le ire degli egittologi quindi proseguiamo con la stele. Su di essa Thutmosi IV racconta che quando era ancora giovinetto si trovava a caccia nei pressi della Grande Sfinge, ad un certo punto, preso dal sonno si coricò sotto la testa della Sfinge per fare un sonnellino ristoratore. Va precisato che in quel periodo la Sfinge si trovava quasi interamente sommersa dalla sabbia fino al collo. In sogno gli apparve Harmachis, il dio solare impersonante la sovranità, il dio della Sfinge il quale promise a Thutmosi il trono delle Due Terre se avesse fatto liberare il corpo della statua dalle sabbie che la ricoprivano. Nel testo della stele il dio “Harmachis-Khepri-Ra- Atum” afferma:

<<…….Guardami figlio mio, Tuthmosi; sono io tuo padre Harmakis-Khepri-Ra-Atum. Io ti assegnerò la mia regalità sulla terra dei viventi: tu porterai la Corona bianca e la Corona rossa sul trono di Geb……….>>.

Sicuramente Thutmosi IV fece liberare la Sfinge dalla sabbia e, guarda caso, si ritrovò faraone.

LA TOMBA KV43

Ma Thutmosi IV non si limitò a dissotterrare la Sfinge dalla sabbia, volle dimostrare che proprio ad Harmachis (la Sfinge) doveva il suo diritto a regnare, fece inoltre costruire un muro perimetrale per difenderla dall’insabbiamento che l’aveva frequentemente colpita, così da ridurne gli effetti.

Tra le notevoli opere edilizie di questo faraone ricordiamo il grande obelisco, di Thutmosi III, che giaceva incompiuto da quarantadue anni, lo fece innalzare a Karnak, con i suoi 32,18 metri di altezza era l’obelisco monolitico più alto del mondo (anticipo subito gli oppositori, il più alto sarebbe stato quello incompiuto che si trova ancora ad Assuan fatto costruire dalla regina Hatshepsut o dallo stesso Thutmosi III). Oggi l’obelisco non è più in Egitto, i romani, come molti altri obelischi se lo portarono a Roma per volere dell’imperatore Costanzo II nel 357 d.C., dove venne eretto nell’area del Circo Massimo, oggi fa bella mostra di se in Piazza San Giovanni in Laterano dove fu fatto innalzare nel 1588 per volere del Papa Sisto V.

Dicevamo che l’attività edilizia di Thutmosi IV sia stata assai notevole, molti sono i monumenti da esso fatti costruire, tre di questi risalgono al suo primo anno di regno, uno al quarto, forse uno al quinto, uno al sesto, due al settimo e uno all’ottavo. Per altri due monumenti, da alcuni datati al diciannovesimo e ventesimo anno di regno, non è stata accettata tale datazione. La ragione è che secondo una più corretta lettura dei nomi riportati si evince che si riferiscano a Menkheperre (Thutmosi III) e non a Menkheperure (Thutmosi IV).

Sempre a Karnak Thutmosi IV fece costruire una cappella di alabastro con sala peristilio destinata alle persone “che non avevano diritto di accesso al tempio principale di Karnak”, era il “Luogo dell’orecchio” per il dio Amon, dove il dio poteva ascoltare le preghiere del popolo. La cappella, ricostruita dalla missione francese Centre Franco-Egyptien D’etude des Temple de Karnak è oggi inserita nel Museo all’aperto di Karnak.

E’ importante tenere in considerazione, per quando parleremo dei successivi faraoni Amenhotep III e. soprattutto Amenhotep IV (Akhenaton), il fatto che già con Thutmosi IV prendono corpo idee e proposte religiose dal contenuto spirituale e sociale profondamente innovativo che si ripercuotono anche sul piano estetico la cui realizzazione si  verificherà sotto il regno del faraone Akhenaton.

Aton, ovvero il “disco solare”, quasi sicuramente una speculazione teologica dei sacerdoti di Eliopoli che rivaleggiavano con quelli di Tebe, adoratori principalmente del dio Amon, era considerato come una  manifestazione visibile del dio Ra-Horakhti (Ra che è Horus dei due Orizzonti). Il suo culto entrò nell’uso comune già  durante il regno di Thutmosi IV (nonno di Akhenaton) condizionato in ciò dalla presunta visione in sogno di Ra-Horemakhet (Harmakis) che gli chiese di dissotterrare la Sfinge dalla sabbia. Forse il faraone rimase colpito dal fatto che proprio Harmakis gli si fosse presentato, o forse per contrastare il grande potere che aveva assunto il clero di Amon, nella famiglia reale si iniziò a dedicare maggiore attenzione al culto del dio Aton.

Su di uno scarabeo, risalente al regno di Thutmose IV, Aton viene rappresentato come divinità distinta mentre conduce il faraone alla vittoria in battaglia. Il culto di Aton si affermerà poi in seguito con il faraone Amenhotep IV (Akenhaton).

Thutmosi IV non visse a lungo, l’anatomista Grafton Elliot Smith, che per primo esaminò il corpo, dedusse che il sovrano morì intorno ai 25-28 anni; il corpo si presentava lungo un metro e 64 centimetri ma l’evidenza che i piedi furono rotti post mortem, fa ovviamente pensare che il sovrano fosse in realtà più alto. Le analisi effettuate hanno permesso di stabilire che il faraone non godeva di ottima salute inoltre presentava un logoramento fisico che si dovette manifestare nei mesi precedenti la sua morte.

La mummia si presentava con gli avanbracci incrociati sul petto, destro sopra sinistro, portava i capelli di colore bruno scuro lunghi circa 16 cm ed aveva i lobi delle orecchie forati. Elliot Smith rilevò un particolare curioso, la testa di Thutmosi IV si presentava con una leggera connotazione femminile ed una forte somiglianza con Amenhotep II. Recenti studi comparativi, eseguiti da un chirurgo dell’Imperial College di Londra, hanno permesso di stabilire che Thutmose IV, e come lui altri faraoni della XVIII dinastia morti prematuramente, soffrivano con molta probabilità di un tipo di epilessia  del lobo temporale in via ereditaria presente nella famiglia reale.

Alla sua morte fu sepolto nella Valle dei Re nella tomba KV43, ma come per molti altri faraoni, la sua mummia venne in seguito traslata nella tomba di Amenhotep II KV35 durante la XXI dinastia perché ritenuta più sicura dalle predazioni, qui venne rinvenuta da Victor Loret nel 1898. La tomba KV43, scoperta da Howard Carter nel 1903 presenta la struttura tipica delle tombe della XVIII dinastia. (seguire la planimetria della tomba).

L’ingresso presenta una scalinata (A) molto ripida che immette in un corridoio (B), anch’esso ripido in fondo al quale seguono una seconda scala (C) ed un secondo corridoio (D), parimenti inclinati. Il corridoio termina in un pozzo verticale (E) profondo più di 5 metri, dal fondo del pozzo si accede ad una camera (Ea) che sconfina in parte al di sotto di una camera (F) con due pilastri.

Stranamente le pareti del pozzo sono decorate con scene dove alcune divinità porgono al faraone l’ankh, il segno della vita mentre il soffitto è blu ricoperto di stelle. L’accesso alla camera successiva era murato con decorazioni. Alcuni studiosi pensano che il tutto starebbe ad indicare la volontà di ingannare i profanatori, cosa che però si rivelò priva di effetto. Dall’interno della camera con due pilastri (F) una scala conduce ad un corridoio (G) al termine del quale una seconda scala (H) conduce ad una piccola anticamera (I) e, dopo un breve corridoio, si entra nella camera funeraria (J) sostenuta da sei pilastri. Anche questa è conformata su due livelli,  dopo gli ultimi due pilastri una breve scaletta porta al livello inferiore dove si trova il magnifico sarcofago in granito rosso di Thutmose IV.

Anche qui si aprono sui due lati più lunghi quattro annessi per il corredo funerario, due erano chiusi con porte di legno che furono asportate con gran parte degli oggetti di valore. La camera non presenta alcuna decorazione salvo un fregio Khekeru, due piccole nicchie fanno supporre che avrebbero dovuto contenere i “mattoni magici” necessari alla protezione del defunto. Un testo in ieratico sulla parete dell’anticamera cita l’entità dei furti subiti e le operazioni di ripristino. La tomba fu più volte restaurata finché non si decise di traslare la mummia del sovrano.

In uno degli annessi venne rinvenuta la mummia di un bambino sconosciuto, secondo Haward Carter la tomba doveva contenere almeno tre persone, il figlio del re, Amenhemet, il cui corpo ribendato è stato rinvenuto nella cachette di Deir el-Bahari (DB320), forse la figlia, Tentamun ed il bambino citato sopra.

Fonti e bibliografia:

  • Marilina Betrò, “Kenamun, l’undicesima mummia”, Edizioni ETS, 2014
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, traduzione di Ginetta Pignolo, Milano, Einaudi, 1989
  • Wilson, John A., “Egitto, I Propilei”, volume I, Arnoldo Mondadori, Milano 1967
  • Nicolas Grimal, “A History of Ancient Egypt”, Blackwell Books, 1992
  • Mario Tosi, “Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto”, Torino, Ananke, 2005
  • Alberto Sillotti, “La Valle dei Re”, Vercelli, White Star, 2004
  • Cesare D’Onofrio, “Gli obelischi di Roma”, Bulzoni, 1967
  • Betsy Bryan, “Il regno di Thutmasi IV”, Baltimora: The Johns Hopkins University Press. 1991
  • Sergio Donadoni, “Tebe”, Milano, Electa, 1999)
  • Alessandro Roccati, “L’area tebana”, Quaderni di Egittologia, Roma, Aracne, 2005

C'era una volta l'Egitto, Nuovo Regno, XVIII Dinastia

IL FARAONE AMENHOTEP  II  

Di Piero Cargnino

In realtà Amenhotep non avrebbe dovuto succedere al padre Thutmosi III in quanto era il figlio di una sposa minore, la principessa Merira Hatshepsut (da non confondere con la grande regina), il trono spettava di diritto al figlio della Grande Sposa Reale Satiah, Amenemhat, che però premorì al padre, così come la madre.

Suo educatore ed istruttore fu l’alto dignitario di nome Min, che tra i tanti riconoscimenti vantava anche il titolo di governatore di Tjeny (Thinis) e delle Oasi.

In un primo tempo Amenhotep ricoprì l’incarico di sovraintendente all’importazione del legname per i cantieri navali di Peru-Nefer. Venne in seguito associato in coreggenza dal padre rimanendovi per due anni e quattro mesi finché, alla morte di Thutmosi III, nel 1425 a.C., salì al trono come Amenhotep II.

Regnò per circa 26 anni attorniandosi di una corte sfarzosa e segnando un’epoca storica straordinariamente ricca grazie alle sue doti di buon amministratore del regno. Secondo le testimonianze che ci sono pervenute, Amenhotep II era pure un bell’uomo, ovunque la sua figura appare con maestosa imponenza, le fonti ci parlano di un faraone atletico, esperto arciere, il tiro con l’arco era importante per un sovrano che partecipava alla guerra (su questo esistono molte leggende), si racconta che Amenhotep II abbia dato molte  dimostrazioni pubbliche della sua abilità.

In un caso rappresentato in modo spettacolare, il faraone, guidando il suo carro alla massima velocità, avrebbe scagliato numerose frecce che colpirono quattro bersagli di rame distanti circa trentacinque piedi l’uno dall’altro attraversandoli completamente. Furono molte le altre dimostrazioni della sua abilità come arciere nell’intento di dimostrare al suo esercito la differenza tra un buon arco e un cattivo arco. L’iscrizione che riporta queste sue performance specifica che nessuno, tranne lui, era abbastanza forte da tirare il suo arco.

Fu anche un abile timoniere di battelli e guidatore di carri. Forse erano solo esagerazioni ma nessuno lo avrebbe contraddetto quando queste affermazioni fossero state incise nella pietra. Le sue imprese resero comunque portentoso anche il suo fisico tanto che la sua mummia sembra gigantesca se messa a confronto con le altre mummie reali.

In politica estera accentuò la spinta imperialistica del padre e lo volle dimostrare adottando lo stesso nome Horo, Ka-nekhet user pehet (Toro possente, grande nella forza). Cenni sulle imprese di  Amenhotep II si trovano nella “Stele della Sfinge” e su altre ad Amada, Karnak e Menfi.

Anch’egli grande guerriero, nei primi anni di regno intraprese alcune campagne militari in modo particolare in Asia nelle regioni della Siria e di Canaan; sedò pericolose rivolte interne portando l’Egitto a vivere un periodo di pace e benessere dal quale ne trassero profitto anche i suoi successori. Durante il suo terzo anno di regno si trovò a dover fronteggiare un attacco da parte dei Mitanni presso l’Oronte, in Siria. Fonti coeve riportano che la sua forza era tale per cui riuscì ad abbattere contemporaneamente sette nemici che poi fece esporre come trofei appesi alla prora della sua nave.

Agli inizi del suo settimo anno di regno dovette salire nuovamente in Siria, nello stato vassallo di Naharina, per sedare un’altra rivolta dei Mitanni, su di una stele ritrovata a Menfi viene riportata la sua vittoria senza però citare battaglie importanti. La stele riporta inoltre che il dominio egizio era riconosciuto dai re locali su quasi tutta la Siria e la Palestina. Fu ancora nel suo nono anno di regno che il faraone dovette tornare in Palestina per sedare una rivolta ma a quanto ci è dato a sapere non si spinse oltre il lago di Tiberiade. Come tutti i faraoni prima e dopo di lui Amenhotep II non lesinò nell’esagerare l’impresa, sarebbe tornato vittorioso con oltre 100.000 tra schiavi e prigionieri.

Nonostante queste affermazioni un po’ propagandistiche pare che l’Egitto e i Mitanni abbiano raggiunto una pace duratura. I testi antichi citano che da allora in Egitto  giunsero emissari dei re di Mitanni, degli Ittiti e di Babilonia portando tributi per il faraone. Va detto che dopo il nono anno di regno di Amenhotep II non si trovano più cenni su queste regioni, gli studiosi sono propensi a ritenere che il trionfalismo egizio, in questo caso, sia un po’ fuori luogo e che le guarnigioni poste da Thutmosi III nella zona di Naharina siano state ritirate.

Dopo alcune puntate a sud per ripristinare l’ordine anche a Napata e in Nubia, non si hanno più notizie di guerre ed a quanto pare l’Egitto visse in pace fino al regno di Akhenaton.

In questo periodo di pace Amenhotep II si concentrò sull’attività costruttiva dedicandosi al completamento dei templi iniziati dal padre oltre che a realizzarne di nuovi; fece costruire un porto a Peru-Nefer (Avaris) dove possedeva una residenza. Con Amenhotep II l’impero egizio raggiunse il più alto grado di prosperità, l’amministrazione dello stato era in abili mani e questo favorì anche i rapporti e gli scambi commerciali con i paesi confinanti, cosa che agevolava non poco la circolazione di persone, beni ed innovazioni.

Non meno importante fu l’influenza che questo cambiamento ebbe sull’arte, particolarmente sulla statuaria che si è conservata fino ad oggi (circa un centinaio di statue) nelle quali è possibile notare delle novità stilistiche rispetto ai canoni precedenti. Le statue lo riproducono con espressioni più serene, occhi grandi ed una particolare attenzione viene posta ad evidenziare il suo fisico possente, spalle larghe e muscoli evidenziati che esaltano la sua prestanza fisica della quale ne doveva essere assai fiero.

Come abbiamo detto Amenhotep II regnò circa 26 anni e morì intorno all’età di 44 anni. Il nome della sua “Grande Sposa Reale” non ci è pervenuto come neppure di quelle minori, secondo gli studiosi Amenhotep II, memore dell’importanza assunta dalla “divina sposa di Amon”, la regina Hatshepsut, scelse di ridimensionare il ruolo delle donne nell’ambito dalla casa reale, non solo ma, se come si ritiene, fu lui a rivestire il ruolo di fautore della “damnatio memoriae” della regina, se ne capiscono le ragioni. Si conosce solo il nome di una sua sposa secondaria, Tiaa, che fu la madre del suo successore, Thutmosi IV.

Alla sua morte, Amenhotep II, venne sepolto nella tomba (KV35) che Victor Loret scoprirà nel marzo 1898  nella Valle dei Re. Come già fatto in precedenza per la tomba di Thutmosi III (KV34), correttamente Loret documentò meticolosamente ogni ritrovamento nel suo diario di scavo.

La tomba rispecchia la classica architettura delle tombe della XVIII dinastia. (Seguite la cartina nella figura sopra), l’ingresso avviene tramite una scala (a) che porta ad un corridoio in pendenza (b), segue una seconda scala (c) ed un nuovo corridoio (d) attraverso il quale si raggiunge un pozzo verticale (e), in fondo al pozzo si trova una camera (e1), al suo interno si trovava un corpo femminile forse quello della regina Meryet-Ra Hatshepsut.

Non è chiara la funzione del pozzo, che peraltro lo si trova in molte altre tombe, alcuni egittologi suggeriscono che questi pozzi svolgessero una doppia funzione, la prima, pratica, era quella di raccogliere l’acqua delle piogge evitando così che allagasse la camera del sarcofago, la seconda avrebbe avuto una funzione rituale evocando il mondo sotterraneo e la tomba di Osiride.

In un vano adiacente al pozzo Victor Loret rinvenne due crani e resti di ossa che, in relazione alla primitiva destinazione della tomba ritenne di attribuire alla madre di Amenhotep II, la regina Meryet-Ra Hatshepsut moglie di Thutmose III, e a Ubensenu, figlio dello stesso Amenhotep II. Oltre il pozzo si entra nell’anticamera, una sala con due pilastri centrali del tutto priva di decorazioni (f), sul fondo della stanza, sopra una barca poggiata contro la parete si trovava un corpo con il petto squarciato e un grande foro sul cranio. In seguito Loret appurò che il corpo apparteneva al faraone Sethnakht ed il suo sarcofago si trovava in quella che egli chiamò la n. 4.

Da qui si scende una scala e dopo un breve corridoio (g) si entra nella camera funeraria (h) rettangolare sostenuta da sei pilastri, la camera si presenta su due livelli; il soffitto della camera è colorato di blu con stelle a cinque punte di colore giallo a simboleggiare la volta celeste. Ai lati della camera si trovano quattro locali (che vedremo più sotto).

All’interno della camera sepolcrale, nel livello inferiore si trova il sarcofago di Amenhotep II in quarzite gialla dipinta di rosso che conteneva ancora la mummia del faraone intatta con attorno al collo una ghirlanda di mimosa (fu il primo re egizio scoperto all’interno della sua tomba). Si è potuto accertare con sicurezza che si trattava realmente della mummia di Amenhotep II grazie ad una semplice annotazione con il suo nome iscritta sul sarcofago in cartonnage che la conteneva.

Victor Loret decise di lasciare la mummia dove l’aveva trovata ma la sua umana pietà non fu ricompensata. Nel 1902 la tomba venne trovata dalla famiglia di Abd el-Rasoul, tombaroli di professione, che la violarono depredando tutto ciò che gli riuscì prima di essere scoperti, purtroppo con l’intento di rubare gioielli e amuleti nascosti tra le bende, causarono parecchi danni ai bendaggi della mummia, in modo particolare alle gambe dove, in seguito Gaston Maspero, Direttore del Service des Antiquites, trovò l’impronta dei gioielli e amuleti rubati sulla resina che ricopriva il corpo. Venne quindi deciso di trasferire la mummia al Museo del Cairo.

Il sarcofago si presenta come quello di Thutmosi III, alle due estremità sono raffigurate le dee Iside e Nefti mentre sui lati compaiono due occhi udjat con Anubi in forma umana e testa di sciacallo, ed i quattro figli di Horo, che garantivano la protezione del defunto, sul coperchio è rappresentata la dea del cielo Nut.

I sei pilastri della camera funeraria sono decorati con fregi kheker che incorniciano il faraone mentre compie riti davanti a vari dei tra i quali Osiride, Anubi e Horus. Le pareti della camera funeraria, che non presenta più la forma di un cartiglio, sono decorate non in rilievo ma solo dipinte con alcuni testi dell’Amduat in ieratico, le scritte sono in verticale e le illustrazioni sono in forma stilizzata.

All’interno dell’anticamera vennero rinvenuti numerosi oggetti del corredo funerario di cui la maggior parte era rotta o spezzata a causa del vandalismo dei ladri, numerose erano le statue di legno di cui una, che raffigurava il sovrano, presentava un piccolo scomparto contenente un papiro con testi del Libro delle Caverne. Tra le varie cose vi era un contenitore di ushabty ed i resti di un letto funerario del tutto simile a quelli che verranno rinvenuti parecchi anni dopo nella tomba di Tutankhamon. Loret rinvenne anche alcuni modelli di barche di legno che avrebbero permesso al faraone il suo viaggio nell’Aldilà, trovò inoltre numerosi frammenti di mobilio funerario, modelli di barche e navi, vasi in faience e vetro, altri vasi a forma di ankh ed alcuni vasetti porta cosmetici. Ancorché ripetutamente depredata fin dall’antichità, vennero trovati, sparsi per tutta la tomba, oltre 2000 oggetti o parti di essi.

Come abbiamo detto sopra, ai lati della camera funeraria si trovavano quattro locali, due su ciascuna delle pareti più lunghe (h1, h2. h3. h4), uno di essi si presentava parzialmente murato e sul muro era stata incisa una data, “anno tredicesimo” riferito ad un probabile sovrano sepolto in seguito, secondo alcuni si tratterebbe del faraone Smendes della XXI dinastia. Furono proprio questi locali che fecero della KV35 una delle più importanti della Valle dei Re. Ciò che apparve al di la del muro che chiudeva il locale h2 lasciò esterefatti Loret ed i suoi collaboratori. Apparve subito evidente che la KV35 era stata utilizzata come deposito per le mummie reali per salvarle dai profanatori ladri di tombe, stessa cosa come per la cachette di Deir el-Bahari (DB320).

All’interno del deposito h2 erano state sistemate le mummie reali di otto faraoni e di una regina. Contenuti in sarcofagi di fortuna, molto danneggiati, si trovavano i corpi accuratamente ribendati di: Thutmosi IV, Amenhotep III, Sethy II, Merenptah, Siptah, Ramses IV, Ramses V, Ramses VI oltre ad un corpo di donna che venne identificato come appartenente alla regina Tausert.

L’identificazione delle mummie con i suddetti sovrani è un po’ arbitraria a causa della poca affidabilità delle etichette in legno appese ad alcune mummie ed al fatto che, nonostante sui sarcofagi molto malridotti comparissero dei nomi, manca la certezza che sarcofago e mummia coincidano, un esempio, quella che è stata catalogata come la mummia di Amenhotep III si trovava nel sarcofago intestato a Ramses III ma il coperchio era quello di Sethy II. Va inoltre considerato che le mummie sono state accuratamente ribendate ma utilizzando bende di recupero che recavano intestazioni di personaggi diversi.

Nel locale h1 si trovavano tre corpi sbendati, uno di un bambino di circa 9-11 anni con il capo raso e la classica treccia di capelli neri che pendeva sulla tempia destra, il secondo era un corpo femminile, parzialmente coperto da uno spesso velo e con lunghi capelli neri,  gli venne assegnato il nome di Elder Lady per distinguerla dal terzo corpo che fu chiamato Younger Lady in quanto apparteneva ad una donna più giovane il cui volto era completamente sfigurato. Tutti e tre i corpi presentavano un foro sul cranio ed il petto sfondato. Infine nel locale h3 si trovavano i resti molto malridotti di un corpo femminile ed uno maschile  completamente sbendati.

Fonti e bibliografia:

  • Mauro Reali, “Amenofi II, chi era costui? Un grande!”, La Ricerca, Loescher Editore, 2017
  • Christian Jacq, “La Valle dei Re”, trad. di Elena Dal Pra, Milano, Mondadori, 1998
  • Alberto Sillotti, “La Valle dei Re”, Vercelli, White Star, 2004
  • Erik Hornung, “La Valle dei Re”, trad. di Umberto Gandinidi, Torino, Einaudi, 2004
  • Alessandro Roccati, “L’area tebana”, Quaderni di Egittologia, n. 1, Roma, Aracne, 2005
  • Edda Bresciani, “L’Antico Egitto”, De Agostini, Novara 2000
  • Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano 2003
  • Christian Jacq, “L’Egitto dei grandi faraoni”, Arnoldo Mondadori, Milano 1999
  • Mario Tosi, “Dizionario Enciclopedico delle Divinità dell’Antico Egitto” – Vol. II, Ananke, 2005
  • Nicolas Grimal, Storia dell’Antico Egitto, Laterza, Bari 2007 Tiziana Giuliani, “Amenhotep II: una scoperta straordinaria”, Mediterraneo Antico, 2018
C'era una volta l'Egitto, Nuovo Regno, XVIII Dinastia

IL VICINO ORIENTE ANTICO

Di Piero Cargnino

Prima di proseguire con la storia dell’antico Egitto proviamo a dare un’occhiata alla situazione esistente nel vicino oriente antico dopo che le campagne del faraone guerriero Thutmosi III ne avevano sovvertito non poco la geografia politica.

Dopo la cacciata degli Hyksos con Ahmose, abbiamo assistito ad una ripresa significativa della politica egiziana da parte dei sovrani della XVIII dinastia. Forti dell’esperienza acquisita, i sovrani egizi che seguiranno cercheranno di spegnere le velleità dei popoli confinanti così da rendere più sicuri i loro confini, spinti in ciò dalla chiara intenzione di lavare l’onta subita con l’occupazione straniera.

Dapprima con Thutmosi I e Thutmosi II si afferma la vocazione imperialista dell’Egitto che caratterizzerà gran parte del Nuovo Regno. Con Thutmosi III l’Egitto si spinge molto a est, supera la Palestina e raggiunge la Siria. All’epoca delle campagne militari di Thutmosi III, il Nuovo Regno egizio, quello che possiamo a ragione chiamare l’Impero Egizio, sovrasta i popoli del vicino oriente.

A nord, nella sperduta Anatolia, sono insediati gli Ittiti un antico popolo indoeuropeo che abitava la parte centrale dell’Asia Minore con capitale Hattusa.

Nel nord della Mesopotamia si trovava il regno di Mitanni che si estendeva fino ai confini con la Siria, raggiunse il massimo splendore sul finire del Tardo Bronzo, i suoi abitanti erano gli Urriti e la capitale del regno era Wassukanni (oggi Tell Fekheriye). L’esercito hurrita possedeva armi in ferro e combatteva su carri da guerra. Dopo una guerra combattuta contro Thutmosi III il regno Mitanni cercò la pace con l’Egitto e fu stretta con esso un’alleanza.

All’apice della sua potenza agli inizi del XIV sec. a.C. le relazioni con l’Egitto erano talmente amichevoli che il re Mitanni Shuttarna II mandò suo figlia Kilu-Hepa in sposa al faraone Amenhotep III. In seguito nella capitale Wassukanni scoppiò una lotta per il potere i cui pretendenti erano appoggiati da Ittiti e Assiri. Sconfitti dall’esercito Ittita di Suppiluliuma prima, poi dal figlio Piyassili di Karkemish, il regno di Mitanni passò sotto il dominio ittita per poi essere conquistato, meno di un secolo dopo, dagli Assiri che lo incorporarono nel loro regno con il nome di Hanigalbat.

Confinante con Mitanni si estendeva la Siria, citata nelle sue Storie da Erodoto come la terra che andava dal fiume Halys fino al monte Casio. Secondo alcuni corrisponderebbe grosso modo alla località indicata nella Bibbia come Aram. A partire dall’VIII sec. a.C. cadde sotto il dominio degli assiri.

A sud-est sorgeva la Babilonia cassita e il regno di Elam, questi ultimi coprivano l’intera valle dei due fiumi, il Tigri e l’Eufrate, la Mesopotamia. In questo quadro si potrebbe inserire la vicenda biblica della costituzione dello stato di Israele, forse ad opera di Giosuè anche se non proprio come racconta la Bibbia.

Come abbiamo visto la Palestina era saldamente in mano egiziana quindi pensare che l’occupazione da parte degli israeliti, appena usciti dall’Egitto, sprovveduti militarmente e magari anche male armati, sia avvenuta tramite una conquista militare è decisamente improbabile. Secondo gli studiosi l’insediamento degli israeliti in Palestina può solo essersi verificato in modo graduale e non violento. Secondo una teoria, che personalmente mi lascia molti dubbi, gli israeliti sarebbero gli Habiru, termine accadico babilonese usato in tutto il medio Oriente per indicare gruppi nomadi descritti come ribelli, fuorilegge, razziatori, talvolta impiegati come mercenari o asserviti. Non un popolo vero e proprio ma miscellanea di individui che vivevano ai margini della società, in genere per sfuggire ai creditori o ad un destino di asservimento.

Ma chi erano gli Habiru e da dove venivano? Dalla lettura di alcune Lettere di Amarna si apprende che in epoche precedenti si erano consolidati molti correttivi per venire incontro a chi era caduto in disgrazia per svariate ragioni in gran parte provocate dal progressivo indebitamento dei contadini i quali venendosi a trovare in condizioni disperate erano costretti ad impegnare oggetti, terre e persino familiari in cambio di grano finché ad un certo punto si trovavano nell’impossibilità di sostenere il debito.

Nella media età del bronzo, in tutta l’area siro-mesopotamica, era uso, da parte dei sovrani, concedere una sorta di correttivi sociali e giuridici coi quali si proibiva la cessione della terra a elementi esterni alla famiglia. A chi si trovava comunque in condizioni disperate i sovrani erano soliti emettere editti di remissione dei debiti, o il perdono per i reati meno gravi, liberando così i contadini asserviti. Questo tutelò il popolo fino ad un certo punto quando verso la metà del secondo millennio a.C. non presero piede iniziative private per mezzo delle quali si riusciva ad ovviare alle leggi, oggi lo definiremmo con l’espressione “fatta la legge trovato l’inganno”. L’applicazione di questi correttivi venne così a cessare pertanto chi non riusciva più a far fronte ai propri debiti e, magari per tale ragione era incappato in reati minori, incorreva in severe sanzioni per cui all’individuo non restava molto da scegliere, l’asservimento o la fuga in altri paesi. Questo fece si che i vari regni siglassero accordi che prevedevano “l’estradizione”. Gli stati confinanti si impegnavano ad applicare una reciproca consegna dei latitanti per cui, ai malcapitati, non rimaneva che la fuga tra le montagne o nelle steppe desertiche. Col tempo si formarono dei clan di questi individui che praticavano il nomadismo spesso sfociando nel brigantaggio. Costoro vennero chiamati Habiru. Da questo termine, per assonanza con l’etonimo “ibri” alcuni vorrebbero intravvedere la parola “ebrei”. Ebbi già modo di dire in precedenza che fidarsi di una presunta assonanza tra nomi oggetto di traduzioni spesso azzardate, se non addirittura imprecise, sarebbe da evitare.

Nonostante tutto gli studiosi sono propensi a vedere una citazione a “Israele” nella traduzione della stele di Merenptah, tredicesimo figlio di Ramses II e della sua sposa Isinofret, dove tra le nazioni sconfitte compare il nome di “Ysir” che viene identificato con Israele. Ma di questo parleremo in seguito. 

Fonti e bibliografia:

  • Marco Liverani, “Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele”, Roma-Bari, Laterza, 2003 
  • Sabatino Moscati, “Antichi imperi d’Oriente”, Newton & Compton, Roma 1978
  • Marco Liverani, “Antico Oriente. Storia, società, economia”, 3ª ed., Roma-Bari, Laterza, 2015
  • Kurt Bittel, “Gli Ittiti”, Rizzoli, Milano, 1977
  • James G. Macqueen, “Gli Ittiti: un impero sugli altipiani”, Newton Compton, Roma, 1978
  • Giuseppe Rinaldi, “Le letterature antiche del Vicino Oriente”, Milano, Sansoni-Accademia, 1968   
  • Enrico Ascalone, “Mesopotamia: assiri, sumeri e babilonesi”, Electa Mondadori, 2005
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THUTMOSI III – IL FARAONE GUERRIERO

Di Piero Cargnino

Hatshepsut è morta. Ma in lontananza già, rimbomba l’eco delle armi. L’ora di Thutmosi III è arrivata.

Dopo 22 anni di coreggenza con la matrigna, l’indole guerriera che quel ragazzo aveva saputo frenare, accettando di ricoprire un ruolo di secondo piano per un tempo così lungo, ora può esprimersi in tutta la sua potenza. Certamente la sua tacita sottomissione ad Hatshepsut era anche la naturale conseguenza del fatto che la regina godeva di un relativo appoggio del potente clero tebano di Amon. Il suo fu un ruolo di secondo piano che però seppe gestire con grande intelligenza ed abilità.

Durante tutto il periodo di coreggenza, all’ombra del faraone donna, cresceva un uomo scaltro ed abile. Thutmosi III si dedicò principalmente alle questioni militari gettando le basi delle operazioni che avrebbe poi condotto a termine negli anni seguenti. Il sovrano guerriero fu uno dei maggiori faraoni egizi, mise in atto e realizzò le tendenze imperialistiche alle quali i suoi predecessori già avevano mirato.

Fu un grande condottiero e stratega, non si contano le sue campagne militari che spaziano dalla Siria alla Nubia alla Palestina e su fino al fiume Eufrate. Il già citato scrittore ed egittologo Christian Jacq lo definisce il “Napoleone Egiziano”.

Molto prestante fisicamente, come viene rappresentato nelle iscrizioni pervenuteci, possedeva una straordinaria forza fisica che esprimeva scagliando con il suo arco una freccia che colpiva un bersaglio di metallo spesso un palmo e lo trapassava da parte a parte (!). Come ho più volte raccomandato la storia egizia, raccontata dai contemporanei, e non solo, va presa con le molle in quanto essa viene descritta in forma molto enfatizzata, spesso adulatoria e poco veritiera, (ma noi facciamo finta di niente).

La storia delle imprese di Thutmosi III però la possiamo solo apprendere, con il dovuto discernimento, dalle iscrizioni che sono giunte fino a noi, sulle pareti del deambulatorio del santuario di Amon a Karnak dove, seppure in parte danneggiate sono descritte le sue numerose campagne militari.

Altre informazioni sono reperibili sulla stele scoperta a Gebel Barkal antica Napata, e sulla stele di Armantis, 10 km a sud di Luxor.

Le spedizioni che videro partecipe Thutmosi III, dapprima in età giovanile, sicuramente come subalterno di qualche generale esperto, poi personalmente come condottiero, nell’area medio orientale, furono 14 (ma in realtà forse 18, avvenute sotto la coreggenza di Hatshepsut).

Salito al trono, Thutmosi III rivolse subito la sua attenzione all’area siro-palestinese teso a ripristinare la sovranità egizia imposta da Thutmosi I ai popoli di quel territorio che cercavano di liberarsi dal dominio egizio. La furia del re guerriero si abbatté dapprima su Megiddo e, poi più su dove avvenne una delle varie distruzioni di Kadesh. Un’altra spedizione portò Thutmosi III ancora verso la Palestina dove espugnò la città di Gaza, che si era da poco ribellata.

Una di queste campagne, lascia adito a molti dubbi circa il suo svolgimento, questo a causa della tendenza, già menzionata, degli egizi a  magnificare e ed esaltare oltre ogni limite il sovrano in carica. Questa fu l’ottava, la meglio documentata negli “Annali” (purtroppo mancanti di una parte consistente), dove l’esercito di Thutmosi III giunse all’Eufrate, lo oltrepassò per scontrarsi con i Mitanni, nome col quale venivano chiamati gli Urriti che avevano conquistato l’Anatolia e parte del nord della Siria sconfiggendo il regno di Hammurabi.

Altre campagne furono dedicate a pacificare la regione ed a combattere i beduini della penisola del Sinai che rendevano poco sicure le piste carovaniere. Thutmosi III però non era solo guerriero ma anche astuto, i territori dell’area siro-palestinese non vennero inglobati direttamente sotto il controllo della corona egizia ma lasciati al governo di una massa di piccoli principi locali tributari dell’Egitto. Questi principi dei paesi sconfitti venivano portati in ostaggio a Tebe presso il palazzo del faraone, qui venivano istruiti ed addestrati. Solo quando dimostravano di aver appreso e fatte proprie le usanze e tradizioni egizie, e dimostrato la loro fedeltà al faraone, venivano riportati nei loro paesi di origine dove avrebbero regnato come vassalli del sovrano delle Due Terre. La stessa strategia fu adottata dai romani 1500 anni più tardi.

L’errore, forse quello che con il tempo si rivelerà il più grande, fatto da Thutmosi III con l’intento forse di ottenere un sempre maggiore appoggio, fu quello di aumentare ancora di più il potere economico del clero  tebano di Amon a Karnak, al quale fece enormi donazioni delle prede di guerra, frutto delle numerose campagne militari, assegnando agli stessi tre regioni asiatiche. Questo fu l’errore politico più grave perché, come vedremo in seguito, sarà la causa principale della fine del Nuovo Regno.

Thutmosi III intraprese anche un’intensa attività nella costruzione di edifici e monumenti (e, come usanza, ne usurpò anche alcuni dei sovrani precedenti). Nel tempio di Karnak realizzò la sua opera forse più bella, la “Sala delle Feste” nella quale si trovano la “Sala degli antenati” ed il “Giardino Botanico”.

Questo consiste in un rilievo sulle pareti di una sala del tempio giubilare del faraone, dedicata al dio Amon, nel complesso templare di Karnak e raffigura particolari della fauna e della flora presenti in quel tempo nell’impero egizio. Sono inoltre raffigurati animali e piante che Thutmosi III aveva portato della Siria.

Sua “Grande Sposa Reale” fu Sanath che però morì giovane senza donargli eredi. Il suo posto fu preso dalla seconda moglie, Merira-Hatshepsut, (da non confondere con il faraone donna),  che sarà la madre di Amenhotep II oltre che della principessa Merytamon. Ebbe numerose altre mogli tra cui diverse principesse siriane.

Il suo regno durò ben 53 anni durante i quali celebrò per tre volte la festa Sed e cambiò diverse volte il complesso dei nomi e degli attributi reali, soprattutto il nome di Horo che divenne sempre più una manifestazione della sua potenza. Molti egittologi propendono per il fatto che durante gli ultimi anni di regno Thutmosi III si associò in coreggenza il figlio Amenhotep II. La durata della coreggenza col padre si può dedurre dal fatto che, secondo alcune iscrizioni, Amenhotep II venne incoronato due anni e quattro mesi prima della morte del padre. Thutmosi III fece costruire la sua tomba nella Valle dei Re che viene identificata con la sigla KV34 (King Valley 34).

LA TOMBA

Thutmosi III fece costruire la sua tomba nella Valle dei Re, un’area situata nei pressi di Waset, (l’antica Tebe). In egiziano “Ta-sekhet-ma’at” (il Grande Campo), ormai divenuta la necropoli reale per i sovrani del Nuovo Regno a partire dalla XVIII dinastia, lo rimarrà per oltre 500 anni, dal 1552 al 1069 a.C.

Il grande egittologo Howard Carter, a proposito della Valle ebbe a dire:

<< La Valle delle tombe dei re: basta il nome a evocare uno scenario romantico, e fra tutte le meraviglie d’Egitto non una, io credo, è capace di stimolare maggiormente la fantasia >>.

In una ripida parete a 30 metri dal suolo, nell’antico letto di una cascata, Thutmosi III scelse di costruire la sua dimora eterna.  Fu scoperta nel 1898 dall’Ispettore egiziano della Valle Hosni, (anche se in seguito la scoperta venne attribuita a Victor Loret, direttore del Service des Antiquités).

La tomba presenta la classica struttura delle tombe della XVIII dinastia. L’accesso alla stessa si presentava assai arduo vista l’altezza dal suolo, pochi ardimentosi erano in grado di raggiungerla, tra questi i soliti tombaroli che la raggiunsero penetrandovi all’interno per compiere le loro ruberie, purtroppo fecero anche considerevoli danni alle suppellettili funerarie e, forse, anche alla mummia. In tempi recenti è stata costruita una ripida scala che permette ai visitatori di raggiungere l’ingresso della tomba che viene identificata con la sigla KV34 (King Valley 34).

Quello che Victor Loret rinvenne al suo interno si rivelò di scarsa importanza e molto danneggiato. Piccole statue di Thutmosi III e di divinità lignee, alcuni pezzi di modelli di barche oltre a vasellame e ossa di babbuino e di un toro. Gli annessi alla camera funeraria si presentavano completamente svuotati. Come detto, l’accesso avviene tramite una scala che immette in un corridoio in pendenza, da qui si accede ad una camera di forma irregolare, non rifinita dalla quale, attraverso un’altra scala, si entra in un corridoio sempre in pendenza in fondo al quale si trova un pozzo di 5 x 4 metri profondo 6 metri superato il quale, e superata una parete costruita successivamente alla sepoltura, si presenta l’anticamera di forma irregolare con due pilastri centrali.

In un angolo della stessa parte un’altra scala per mezzo della quale si accede alla camera funeraria vera e propria di forma rettangolare. Al centro della camera si ergono anche qui due pilastri mentre sulle pareti più lunghe sono stati ricavati quattro piccoli annessi per contenere il corredo funerario. Interessante evidenziare un particolare che la rende unica nel suo genere, la camera funeraria presenta gli spigoli arrotondati che fanno pensare vagamente ad un cartiglio dove il sarcofago con la mummia sostituisce il nome del faraone che sarebbe in esso iscritto. Secondo lo studioso John Lewis Romer al momento della sepoltura la tomba non era ancora ultimata, cosa che sarebbe avvenuta in nove diverse fasi successive. Mentre le pareti dei corridoi non sono decorate, quelle delle stanze sono state intonacate e dipinte. Il soffitto del pozzo, come le pareti, si presenta decorato con stelle gialle su sfondo blu.

Le pareti dell’anticamera sono completamente ricoperte dai capitoli del Libro dell’Amduat con 765 figure di divinità su 741 riquadri. Anche le pareti della camera funeraria riportano i capitoli dell’Amduat a colori nero e rosso su sfondo giallino, la scrittura è lo ieratico.

I pilastri della camera funeraria sono decorati con le “Litanie di Ra”, un pilastro presenta su una faccia una scena che vede Thutmosi III che si allatta da un albero di sicomoro seguito da due mogli e dalle figlie.

Tutte le immagini sono diverse dal solito modo di rappresentare degli egiziani ma sono stilizzate. Secondo Romer si tratterebbe di bozzetti predisposti per una futura rifinitura a completamento che però non avvenne mai. I quattro piccoli annessi della camera funeraria non sono decorati. In uno di essi furono rinvenuti resti umani riferiti a sepolture abusive risalenti alla XXVI dinastia.

Il sarcofago di Thutmosi III, in quarzite rosa, si presentava danneggiato, vuoto con il coperchio spezzato, le pareti decorate in altorilievo con testi del Libro dell’Amduat.

Come già accennato in precedenza, la sua mummia, particolarmente danneggiata (la testa era staccata e le gambe spezzate), fu rinvenuta tempo prima, come molte altre, nella cachette di Deir el-Bahari (DB320) dove venne riposta per preservarla dai saccheggiatori. L’umana pietà dei sacerdoti che curarono la raccolta di oltre 50 mummie per riporle nella cachette, si rivelò ancor più umana, visto lo stato in cui trovarono la mummia di Thutmosi III, la ricomposero rifacendo le fasciature.

Così era finito il re guerriero, grande in vita ma dissacrato da morto. Io però preferisco alzare gli occhi al cielo e pensare che una di quei miliardi di stelle che brillano lassù, è quella di Thutmosi III.

KARNAK

A partire da Sesostri I della XII dinastia, che ne iniziò la costruzione, fino ad arrivare alla XXX dinastia, ogni Faraone andò a costruire nel grande complesso templare di Karnak, talvolta a nuovo altre volte usurpando le costruzioni esistenti spacciandole per sue o, peggio, abbattendo le esistenti per utilizzare il materiale per costruire la propria. Durante i 1600 anni della sua esistenza il tempio di Karnak ha subito un continuo sovrapporsi di strutture successive, ampliamenti, ristrutturazioni e rimaneggiamenti tali da presentarsi oggi come un enorme complesso templare che misura oltre 400 x 600 metri con una superficie complessiva di circa 250.000 metri quadri.

Anche Thutmosi III ha lasciato traccia del suo passaggio. Proprio di fronte al quarto pilone fece costruire un edificio sacro che era una delle sei stazioni intermedie nel quale era contenuta la “barca sacra di Amon” in occasione delle processioni che si effettuavano durante alcune feste alla presenza del sovrano.

Durante le processioni i sacerdoti prelevavano la barca sacra di Amon e la trasportavano a spalle depositando la stessa in tutte le cappelle che componevano le stazioni del tragitto. Nel tempo delle celebrazioni della “Bella Festa della Valle” la barca raggiungeva i templi della riva occidentale del Nilo. Durante la “Festa di Opet” veniva portata fino al tempio di Luxor. Le cappelle si presentavano spoglie perché troppo piccole per contenere eventuali statue o ex voto, si trovava solo un naos dove i sacerdoti portavano vasi per le purificazioni e le aspersioni di rito. Compito del faraone era quello di rompere i sigilli per l’ingresso alla cappella e, a celebrazione conclusa, sigillare nuovamente la porta.

La cappella in calcite per la Barca Sacra di Amon venne fatta costruire da Thutmosi III in occasione della sua festa giubilare. Il sacello verrà in seguito smantellato e riutilizzato come materiale di riempimento del III pilone. Grazie al ritrovamento, tra il 1914 e il 1954, dei vari resti sparsi un po’ ovunque nel complesso templare di Amon è stato possibile ricostruire la cappella. Nell’autunno 2016 grazie al lavoro del  “Centre Franco-Egyptien d’Etude des Temples de Karnak” (CFEETK) sono stati completati i lavori ed oggi la cappella ricostruita si trova presso l’Open Air Museum di Karnak, il museo all’aperto del famoso complesso templare di Luxor ed è ora aperta ai visitatori del Museo.

Altra costruzione di grande interesse di Thutmose III nel complesso templare di Karnak è il “Giardino botanico”, un grande rilievo dove è raffigurata la fauna e la flora presente all’epoca del massimo splendore dell’Egitto. Il rilievo copre la parete di una sala prossima al tempio giubilare di Thutmosi III nel recinto sacro di Amon, si tratta di un ciclo composto da scene pastorali della più raffinata arte egizia dove viene rappresentata una grande quantità animali rari e stupende specie botaniche che il faraone aveva riportato dalle sue campagne militari. Molte specie sono state ritenute talmente strane da essere oggetto di studi per appurare di cosa in effetti si tratta.

Ci si chiede quale fosse lo scopo di tali rappresentazioni, alcuni ipotizzano che si volesse indicare la potenza del dio Amon che, in quanto dio universale, il suo creato superava i confini della valle del Nilo per estendersi ovunque nel mondo.

Nel “Cortile del Medio Regno”, detto il “Tempio di Milioni di anni”, Thutmosi III si fece inoltre costruire lo “Akh-Menu” (luminoso di monumenti) altrimenti detto “Sala delle feste” che si svolgevano in occasione della ricorrenza del giubileo (Heb-Sed) del faraone, e altre feste tra cui la “Festa di Opet”.

Accanto alla Sala delle feste si trova la cosiddetta “Sala degli Antenati” dove in un grande fregio, che ornava la parete, compariva la “Lista regale di Karnak” voluta dal sovrano per legittimare, se ancora ce n’era bisogno, la sua regalità. Thutmosi III è raffigurato mentre porge offerte a 61 suoi antenati con i loro rispettivi nomi. Purtroppo la lista non è di grande aiuto agli egittologi in quanto non rispetta l’ordine cronologico. Le lastre delle pareti furono trafugate nel 1843 da Emile Prisse d’Avennes e attualmente sono conservate al Museo del Louvre.

ELLESJIA

Altra costruzione degna di nota è il Tempio rupestre di Ellesjia fatto scavare nella montagna  nubiana da Thutmosi III nell’area compresa tra la prima e la seconda cateratta del Nilo, a circa 225 chilometri a sud di Assuan presso Qasr Ibrim. Il tempio, il più antico tempio rupestre della Nubia, era dedicato a Horus di Miam, alla dea Satet ed alla stesso faraone. Non è un’impresa “faraonica” ma un semplice tempio rupestre, molto bello, anche se penso che molti non lo conoscano e soprattutto non sanno che si trova qui in Italia, ricostruito in originale al Museo Egizio di Torino.

La storia di questo sconosciuto tempio ha inizio negli anni ’60, in quel tempo il governo egiziano decise la costruzione della diga di Assuan, voluta dall’allora presidente egiziano Gamal Abdel Nasser. La diga avrebbe in seguito causato la formazione dell’attuale lago Nasser che si estende dalla parte meridionale dell’Egitto ed arriva fino al Sudan.

Il grande lago che si sarebbe formato avrebbe sommerso gran parte dei templi presenti nell’area interessata. L’Unesco organizzò un consorzio internazionale al quale parteciparono molte nazioni tra cui l’Italia che impiegò ingegneri, tecnici e operai italiani della Impregilo, vennero impiegati anche operai, cavatori di marmo, che arrivarono dalle montagne di Carrara. Grazie all’impegno di tutti si arrivò a tagliare, smontare, spostare e ricostruire più in alto i templi che ancora oggi i visitatori possono ammirare.

Nel 1965 l’allora Direttore del Museo Egizio di Torino, Silvio Curto, grazie all’ausilio di vari sostenitori e finanziatori, tra cui Gianbattista Farina (Pininfarina), l’Unione Industriale, la Cassa di Risparmio di Torino, il Collegio dei Costruttori, la ditta Martini e Rossi, la Società Reale Mutua di Assicurazioni, con la collaborazione dell’ing. Celeste Rinaldi e Vito Maragioglio, organizzò  una campagna per il salvataggio del sito di Ellesjia che sarebbe stato sommerso dalle acque del lago. Nell’anno successivo il monumento fu generosamente donato dall’Egitto all’Italia e venne assegnato al Museo Egizio di Torino. Subito si mossero, non senza incontrare varie difficoltà di carattere tecnico ma soprattutto burocratico finchè finalmente nel 1965 si giunse all’apertura del cantiere ed all’esecuzione del lavoro che venne eseguito con l’utilizzo di seghe a mano lavorando 24 ore su 24.

Gli operai tagliarono alla perfezione la roccia in 66 blocchi mediamente di un metro cubo e del peso di circa una tonnellata ciascuno  senza rovinare i rilievi. Caricati i blocchi sulle chiatte dopo soli cinque giorni il Nilo iniziò a salire e a sommergere l’intero sito. Finalmente dopo i vari trasporti via terra e via mare il carico arrivò a Torino il 24 aprile 1967. Allego alcune foto del Museo Egizio di Torino gentilmente fornitemi dall’amico Giacomo Franco Lovera per anni fotografo presso il Museo Egizio e, mi si permetta, del compianto Prof. Silvio Curto.

Per coloro che fossero interessati ad approfondire circa il tempio di Ellesjia rimando agli interessanti articoli scritti dall’amico Paolo Bondielli (Storico, studioso della Civiltà Egizia e del Vicino Oriente Antico) su “Mediterraneo Antico”, sito web  https://www.egittologia.net.  

LA PRESA DELLA CITTA’ DI JOPPA

Grazie al fatto che in età ramesside si diffuse tra gli scribi l’interesse per quello che fu la loro storia passata, molti di essi si dedicarono a ricopiare testi prodotti in epoche precedenti che poi venivano utilizzati come testi nelle scuole per scribi. << Si tratta di racconti vecchi di millenni, ma ancora piacevoli, che venivano di certo ricopiati nelle scuole, ma anche, mi piace pensarlo, raccontati dai genitori e dai nonni ai loro figli e ai loro nipoti >> (Alberto Elli.). Molti di questi papiri sono giunti fino a noi e sono conservati nei più famosi musei del mondo, spesso si tratta di vecchi papiri che venivano ricuperati nelle scuole per essere riutilizzati e si presentano scritti sulle due facciate.

Uno di questi è il famoso “Papiro Harris 500”, oggi conservato al British Museum (ct. 10060). Il papiro risale alla XIX-XX dinastia, 1292-1077 a.C. circa, ed in esso sono contenuti diversi racconti di epoche precedenti oltre a liriche d’amore e al “Canto dell’arpista dalla tomba del re Antef”; è lungo 142,5 cm. e alto 19,5 cm., una parte di esso è andata perduta. In uno di questi racconti si parla di una battaglia risalente al regno di Thutmosi III, “La presa della città di Joppa”. Forse una battaglia mai combattuta, scritta solo per esaltare la memoria del “Faraone guerriero”.

La stesura del papiro avvenne probabilmente all’epoca di Seti I o di Ramesse II e riproduce un precedente papiro risalente ad almeno 150 anni prima. L’epopea del faraone guerriero era diventata così leggendaria per i posteri dell’epoca ramesside da essere considerata materia letteraria.

All’epoca in cui venne trovato, come per molti altri papiri, venne considerato un racconto di fantasia il cui personaggio, il generale Djehuty, non trovava alcun riscontro nella realtà. Fu solo nel 1824 che Bernardino Drovetti trovò la tomba di Djehuty a Saqqara, la tomba era intatta ma poiché a quei tempi non si faceva molto caso a proteggere i ritrovamenti, dopo breve fu saccheggiata e depredata. Quando tempo dopo vennero effettuate ricerche si scoprì che il corredo era stato disperso in vari musei in tutto il mondo. Purtroppo la mancata integrità e l’assenza di parte di esso rese la sua valenza storica irrimediabilmente perduta.

Grazie al Papiro Harris, anche se in parte deteriorato, possiamo conoscere gli eventi che caratterizzarono una delle imprese militari di Thutmosi III. La storia parla di come il generale Djehuty riuscì a conquistare la città palestinese di Joppa, l’impresa, per come si svolse, pare precedere la vicenda del “cavallo di Troia” raccontata da Omero nell’Iliade.

Seguiamo ora il racconto con particolare riferimento al testo tradotto dall’originale in geroglifico dal prof. Alberto Elli sul sito di Mediterraneo Antico. La parte iniziale del racconto è purtroppo andata persa, risultano leggibili solo alcune parole.

<<…….20 mariana (dall’accadico mariannu, soldati siriani) ……come posti in cesti…….Djehuty là……le truppe del Faraone…….i loro visi……. >>.

Djehuty invita il principe di Joppa ad una festa nel suo accampamento fuori dalla città. La festa si protrae per oltre un’ora durante la quale gli invitati mangiano e bevono a sazietà,

<<……. ora, dopo un’ora essi erano ubriachi…….>>.

Astutamente il generale egiziano Djehuty propone al principe di Joppa di fargli visitare la sua città:

<<…….con mia moglie e i miei figli nella (?) tua propria città………>>, e chiede inoltre che vengano rifocillati i suoi cavalli: <<……….fa’ che i mariana facciano entrare i cavalli e che si dia loro del foraggio……..>>, il principe acconsente: <<……… si ricoverarono i cavalli e si diede loro del foraggio……..>>.

Il principe di Joppa chiede a Djehuty di mostrargli la grande mazza del re Menkheperra (Thurmosi III):

<<………come dura il Ka del re Menkheperra, essa è oggi in tuo possesso; (fa una cosa) bella (?) e portamela!……..>>. 

Djehuty fece portare la mazza e la mostrò al principe di Joppa, poi lo afferrò per la veste e stando ritto di fronte a lui disse: 

<< Ecco la mazza del re Menkheperra,  il leone selvaggio, figlio di Sekhmet, al quale Amon, suo padre, ha concesso la sua potenza……..>>,

sollevò la sua mano e colpì sulla tempia con la mazza il principe che cadde a terra. Quindi lo legò ad un piolo (“lo pose ai ceppi”), fermandogli i piedi con catene di rame. A questo punto mise in atto il suo piano che consisteva nell’introdurre di nascosto dentro le mura della città alcuni suoi soldati in modo che poi questi potessero aprire le porte al resto dell’esercito.

<<…….fece portare i duecento cesti che aveva fatto fare e vi fece entrare duecento soldati; si riempirono le loro braccia di corde e pioli e (poi) li si sigillò con un sigillo……>>.

Vennero radunati 500 (o 400), uomini  robusti per trasportare i 200 cesti e ad essi furono impartiti gli ordini su come agire:

<<……..quando entrerete nella città, aprirete ai vostri compagni, catturerete tutta la gente che è in città e la porrete immediatamente in catene!…….>>.

Venne quindi detto all’auriga del principe di Joppa di recarsi dalla moglie ad annunciare che il dio Sutekh, aveva battuto e catturato Djehuty con sua moglie e i suoi figli rendendoli schiavi. Riguardo ai 200 cesti essi rappresentavano la prima parte del tributo. Così l’auriga si recò in città dicendo: <<  Abbiamo catturato Djehuty! >>. Non appena gli uomini furono entrati in città scattò la trappola:

<< …….Vennero aperti i sigilli (delle porte) della città davanti ai soldati ed essi entrarono in città. (Poi) essi aprirono ai loro compagni e questi si impadronirono della città, dai giovani agli anziani, e li misero immediatamente in catene e ai pioli…….. >>.

Presa la città, prima di andare a dormire, Djehuty inviò un messaggero a Thutmosi III in Egitto dicendo:

<< ……..Che il tuo cuore sia felice! Amon, il tuo buon padre, ti ha consegnato il principe di Joppa, insieme con tutta la sua gente ed ugualmente la sua città. Fa’ venire degli uomini per portarli via come prigionieri, così che tu possa riempire la casa del padre tuo Amon-Ra, re degli dei, con schiavi e schiave……..>>.

Djehuty, che guidò le sue truppe nella conquista della città di Joppa ricevette numerose decorazioni da Thutmosi III tra cui un anello ed una coppa d’oro, oggi conservata al Museo del Louvre, Pertanto il racconto, anche se in tono leggendario, rivela un fondamento di realtà.

<<…….È venuto felicemente (alla fine), per ordine dello scriba dalle abili dita, lo scriba dell’esercito……..>>.

Il generale Djehuty però non è stato una figura immaginaria. Nell’inverno del 1824, Bernardino Drovetti trovò la sua tomba (TT11) completamente intatta a Saqqara. Drovetti dopo averla scoperta la lasciò senza studiarla così la maggior parte degli oggetti in essa contenuti vennero rubati e venduti a vari musei o collezioni private ed oggi sono dispersi senza più la possibilità di essere attribuiti con certezza alla tomba di Djehuty quando non portano il suo nome.

Di realmente attribuibile a Djehuty sono: un solido d’oro e una boccia d’argento custoditi al Louvre, quattro vasi canopi che si trovano a Firenze, lo scarabeo del cuore e un braccialetto d’oro che si trovano al Rijksmuseum di Amsterdam.

Nulla si sa del sarcofago e della mummia di Djehuty sebbene fossero brevemente menzionati da Drovetti.

Fonti e bibliografia:

  • Regine Schulz, Matthias Seidel, “Egitto: la terra dei faraoni”, Gribaudo/Konemann, 2004
  • Christian Jacq, “La Valle dei Re”, (traduzione di Elena Dal Pra), Mondadori, 1998
  • Alberto Siliotti, “La Valle dei Re”, White Star, 2004
  • Alessandro Roccati, “L’area tebana, Quaderni di Egittologia”, Aracne, 2005
  • Web, Storie di Storia.com, “Thutmosi III: il faraone successore di Hatshepsut”, Giampiero Lovelli, 2016
  • Tiziana Giuliani, “Completato il restauro della cappella della barca sacra di Thutmose III”, da Mediterraneo Antico, 2016
  • Paolo Bondielli, “Il Museo Egizio e il Tempio di Ellesija”, da Mediterraneo Antico, 2021
  • Gianpiero Lovelli, “Thutmose III : il faraone successore di Hatshepsut”, Storie di Storia, 2016
  • Edda Bresciani, L’Antico Egitto, De Agostini, Novara 2000
  • Franco Cimmino, Dizionario delle dinastie faraoniche, Bompiani, Milano 2003
  • Christian Jacq, L’Egitto dei grandi faraoni, Arnoldo Mondadori, Milano 1999
  • Gianpiero Lovelli, Rerum antiquarum et byzantiarum fragmenta, Libellula, Tricase 2016
  • Nicolas Grimal, Storia dell’Antico Egitto, Laterza, Bari 2007
  • Silvio Curto, “Il Tempio di Ellesjia”, Scala,
  • Mario Tosi, “Dizionario Enciclopedico delle Divinità dell’Antico Egitto” – Vol. II, Ananke
  • Alberto Elli, Testi di letteratura neo-egizia, “La presa di Joppa”, www.mediterraneoantico.it, 2017
  • Paolo Bondielli, “Il cavallo di Troia…..egizio!”, egittologia.net magazine – Bollettino n. 6, 2013
  • Nicolas Grimal, “Storia dell’antico Egitto”, Bari, Laterza, 2008
  • Silvana Bonura, “Alla scoperta dei segreti dell’antico Egitto”, Newton & Compton editori, 2018
  • N. Reeves: “L’anello di Ashburnham e la sepoltura del generale Djehuty”,  Journal of Egyptian Archaeology, 1993)
Statue, XVIII Dinastia

STATUA IN PORFIDO DI AKHENATON

Di Patrizia Burlini

Un ritratto straordinario, in porfido, di Akhenaton.

Nonostante le dimensioni ridotte , 18.2 cm, questa testa colpisce per la bellezza e maestria del modellato, tanto da essere considerata uno dei più grandi tesori della collezione egizia del museo Penn, a Philadelphia.

La piccola testa faceva parte di una statuetta e ritrae Akhenaton con la corona Kepresh in cui è presente l’ureo.

I tratti del faraone sono inconfondibili, in particolare il caratteristico mento leggermente prominente, visibile nella foto di profilo.

Scrive il museo:

“È interessante notare che, nel montare la testa per l’esposizione, l’artigiano del museo non è riuscito a praticare il più piccolo foro alla base del collo, nemmeno con un trapano d’acciaio, tanto è dura la pietra, eppure l’artigiano egiziano di tremila anni fa, lavorando solo con strumenti di pietra e di bronzo, è riuscito a modellarla con tanta delicatezza e abilità da produrre un ritratto degno di essere annoverato tra i migliori di qualsiasi nazione di allora o di oggi.”

Object Number: E14364

Current Location: Collections Storage

Provenience: Egypt

Period: Eighteenth Dynasty

New Kingdom

Date Made: 1539-1292 BCE

Early Date: -1540

Late Date: -1291

Section: Egyptian

Materials: Jasper

Iconography: Akhenaten

Length: 18.2 cm

Width: 9.5 cm

Depth: 12 cm

Credit Line: Purchased from H. Kevorkian, 192

Penn museum, Philadelphia

Museum Object Number: E14364

“A Portrait Head of Akhenaten.” Museum Bulletin I, no. 1 (January, 1930): 26-27. Accessed July 13, 2023. https://www.penn.museum/sites/bulletin/40/

https://www.penn.museum/collections/object_images.php&#8230;