A cura di Ivo Prezioso
INTRODUZIONE
Hierakonpolis (lett. Città del Falco) è il nome greco dell’antico centro di Nekhen. Il sito archeologico è posto ai margini del deserto sulla sponda occidentale del Nilo a circa 17 chilometri a nord-ovest di Edfu, nell’Alto Egitto. Era anche il nome del III nomo dell’Alto Egitto anche se durante il regno di Sesostri I, la capitale della regione era Nekheb, città posta di fronte a Nekhen sulla sponda orientale del fiume.
Ieracompoli fu capitale dell’Alto Egitto nel predinastico e, molto probabilmente, nella tarda era predinastica e nel protodinastico il confine meridionale dell’ Egitto doveva trovarsi nelle sue vicinanze. Divinità tutelare era il falco Horus, la cui iconografia lo vedeva rappresentato con la corona bianca dell’Alto Egitto. Alla leggendaria conquista del Basso Egitto da parte dei “Seguaci di Horus”, artefici dell’unificazione del paese il sito deve la sua fama straordinaria. Gli appellativi “anime di Nekhen” e “ anime di Pe” (Buto, nel Delta), tanto ricorrenti nei testi egizi, si riferivano ai mitici sovrani predinastici.
La zona di Ieracompoli copre una superficie di circa 144 chilometri quadrati e comprende due aree archeologiche. La prima è situata in una zona che un tempo era raggiunta dall’inondazione e comprende la cinta muraria della città di Nekhen ed un paio di piccole estensioni a nord e ad est; l’altra è nel deserto e presenta i resti di edifici, forni, cimiteri e iscrizioni rupestri. I carotaggi effettuati al di sotto del livello stratigrafico riferibile alla I Dinastia, hanno palesato la presenza di un sito predinastico occupato continuativamente sin dal Badariano, (4.500 a.C. circa). La massima espansione si è avuta a partire dagli inizi del periodo dinastico ed è proseguita durante l’Antico Regno, allorquando fu edificata la cinta muraria. Alla foce dello Uadi Ab el-Suffian si erge una enorme struttura fortificata in mattoni crudi. Le mura sono decorate ad aggetti e rientranze e il ritrovamento di uno stipite di porta in granito ha permesso di datarlo al regno di Khasekhemuy della II Dinastia (Lansing, 1935). L’area dell’antico centro abitato e la zona della necropoli, situate nell’area desertica risalgono al periodo compreso tra predinastico e protodinastico, mentre sulle basse colline di arenaria circostanti sono presenti tombe che coprono tutto il periodo storico dell’Egitto, dall’Antico Regno sino all’epoca romana.
Le ricerche archeologiche nell’area di Hierakonpolis, che durano da oltre un secolo, confermano il ruolo centrale di questo vasto sito nel passaggio dalla preistoria alla storia e l’ascesa della prima civiltà egizia. Inoltre ha fornito affascinanti reperti riferibili a tutti i periodi della lunghissima storia della terra dei faraoni.
Nell’immagine in alto: cartina con la localizzazione dell’area di Hierakonpolis, a sud dell’odierna Luxor
Nell’immagine in basso, un’ipotetica (e suggestiva) ricostruzione dell’area cerimoniale di Hierakonpolis prodotta da Faber-Courtial uno dei più noti studi tedeschi per l’elaborazione di modelli 3D e realtà virtuali.
LE PRIME ESPLORAZIONI
Gli scavi nell’area di Ieracompoli ebbero inizio sul finire del XIX secolo. James E. Quibell e Frederick W. Green, intrapresero una campagna per conto del British Egyptian Reserch Account tra il 1898 e il 1900. La prima sessione si concentrò sul tempio di Tuthmosis III, edificato nel Nuovo Regno, ubicato nella parte meridionale dell’area cittadina. Apparve subito chiaro che si trattava di un’area sacra molto antica: fu individuata una struttura fortificata in blocchi di arenaria, di forma circolare, databile al protodinastico o all’inizio dell’epoca dinastica, al cui interno furono rinvenuti un tumulo artificiale, alcune colonne in calcare, resti di pavimento in arenaria ed alcune statue di grandi proporzioni raffiguranti uomini inginocchiati. Nella parte nord-occidentale del tempio fu individuato un edificio in mattoni crudi largo 30 metri e contenente cinque camere.
La struttura è riferibile all’Antico Regno o, al più, agli inizi del Medio. In uno degli ambienti furono rinvenute le statue in rame a grandezza naturale del re Pepi I e di suo figlio Merenra (oggi conservate al Museo Egizio del Cairo), un leone in terracotta con ingabbiatura rossa (Ashmolean Museum di Oxford) ed una statuetta in ardesia del re Khasehemuy (Museo Egizio del Cairo). Da un’altra camera proviene, invece, la straordinaria testa di falco in oro con doppio piumaggio e occhi di ossidiana incastonati (Museo Egizio del Cairo). Nello stesso ambiente furono rinvenuti alcuni vasi in pietra, teste di mazza e uno scettro “was” in faïence. E’ verosimile che questi oggetti furono occultati durante il periodo di crisi del potere centrale verificatosi alla fine dell’Antico Regno o durante i lavori di ricostruzione effettuati nel Medio Regno, anche se le testimonianze riferibili a quell’epoca sono piuttosto scarse, fatta eccezione per alcune iscrizioni. Il ritrovamento di ulteriori nascondigli nell’area del tempio hanno confermato il ruolo primario della città durante il corso dell’unificazione dell’Egitto. In particolare, il cosiddetto “Nascondiglio principale” ha restituito oggetti cerimoniali risalenti al protodinastico e all’inizio del dinastico: alcune teste di mazza dei re Scorpione (Ashmolean Museum di Oxford), la celeberrima “Tavolozza di Narmer” (Museo Egizio del Cairo), una statuetta in calcare (Ashmolean Museum di Oxford), vasi in pietra del re Khasekhemuy (Ashmolean Museum di Oxford e University Museum di Filadelfia), la “Tavolozza dei due cani” (Ashmolean Museum di Oxford. Alla lunga lista bisogna aggiungere alcune statuette votive in faïence e manufatti litici raffiguranti esseri umani, babbuini, scorpioni, uccelli, anfibi, e una serie di avori decorati con iscrizioni di Narmer del re Den. Ma per comprendere la reale portata del sito dovettero passare ancora molti decenni, fino a quando la spedizione diretta da Walter Fairservis e Michael Hoffman, iniziò ad indagare non nel tumulo del tempio, ma nel deserto retrostante. Qui, su un’area di oltre quattro chilometri di superficie, gli archeologi si imbatterono nel maggiore insediamento predinastico conservatosi lungo il corso del Nilo. Si comprese che doveva trattarsi del centro di potere di un regno arcaico che raggiunse apici di sviluppo circa 500 anni prima di Narmer. Già nel 3600 a.C. questa città era una vivace e raffinata capitale in cui erano ben visibili le origini di molti degli aspetti fondamentale che avrebbero caratterizzato la civiltà egizia. Conservatasi in blocco con tutti gli elementi fondamentali di una grande città (case, cimiteri, templi, zone industriali, edifici amministrativi, discariche), Ieracompoli può fornire più dati sugli sviluppi del periodo arcaico rispetto a qualunque altro luogo.
Le immagini che seguono non si riferiscono a reperti riferibili al predinastico, ma vogliono essere una piccola illustrazione di alcune delle più spettacolari scoperte occorse durante la prima fase degli scavi, come descritto in questa prima parte del nostro percorso alla scoperta di Hierakonpolis. Ho tralasciato la celeberrima Tavolozza di Narmer, in quanto potete trovarne un’ampia descrizione al seguente link: https://laciviltaegizia.org/…/23/la-tavolozza-di-narmer/

Leone in terracotta
Un tempo datata al predinastico, oggi questo splendido reperto viene considerato come opera ascrivibile all’Antico Regno, probabilmente della III Dinastia. Proveniente da Hierakonpolis, è un eccellente esempio di passaggio tra le opere arcaiche e la raffinata cura della modellazione delle epoche successive. Ceramica rossa polita, altezza 41,5 cm. Oxford, Ashmolean Museum.
Fonte: Maurizio Damiano, Antico Egitto
Statua del re Khasekhemuy
Da Hierakonpolis, II Dinastia. Il sovrano sembra abbigliato con un manto, probabilmente quello del giubileo. Indossa la corona bianca dell’Alto Egitto ed e assiso su un semplice trono che reca incisa la figura di un uomo legato, simbolo del Basso Egitto conquistato e figure di uomini che si contorcono negli ultimi aneliti di vita. Le iscrizioni ci informano che furono uccisi 47.209 nemici. Calcare, altezza cm. 62. Oxford, Ashmolean Museum.
Fonte: Maurizio Damiano, Antico Egitto


Testa aurea di falco
Quest’opera è uno dei capolavori dell’oreficeria egizia. Spettacolare la realistica rappresentazione del rapace e della divinità con la vivida luce nera emessa dagli occhi realizzati in ossidiana. La testa era montata su un’anima di legno raffigurante il corpo disteso e stilizzato del dio falco ed era posto a protezione una statuetta regale in bronzo. Hierakonpolis, tempio di Horus di Nekhen; 6.a Dinastia. Oro e ossidiana. Altezza cm. 37,5 cm. Il Cairo Museo Egizio.
Fonte: Maurizio Damiano, Antico Egitto.
LE ESPLORAZIONI DELLA SECONDA METÀ DEL NOVECENTO
A partire dal 1967 cominciò una serie di ricerche interdisciplinari ad opera di uno studioso americano, Walter Ashlin Fairservis, (Brooklyn, NewYork, USA 1921 – Sharon, Connecticut, USA 1994), che puntò l’attenzione sull’area dell’antico centro abitato. Le esplorazioni, avvenute a più riprese tra il 1967 e il 1987, hanno permesso di ricostruire una pianta delle strutture protodinastiche seguendo lo sviluppo di una serie di edifici che si diparte da un ampio ingresso in mattoni crudi, decorato con aggetti e rientranze, identificato dall’archeologo nel 1969. Nel 1978 le indagini sono proseguite con un’equipe specializzata negli studi sul predinastico, diretta da Michael Allen Hoffman (Washington, USA 1944-1990). Lavorando al grande insediamento ai margini del deserto (denominato Hk29), nel 1978 Hoffman si imbatté nei resti carbonizzati di una dimora sotterranea di forma rettangolare (4 x 3,5 metri) che era palesemente parte di un complesso di strutture di epoche diverse. Le basse pareti in mattoni crudi, che probabilmente dovevano essere ricoperte da una cannicciata dipinta, affondano in trincee che hanno restituito tracce di un focolare e buchi per pali che dovevano sostenere, evidentemente, un portico. Nelle vicinanze è presente un forno costituito da otto cavità dotate di alari in ceramica che fungono da base di appoggio per grossi vasi. E’ del tutto plausibile che da lì si siano alimentate le fiamme che distrussero l’edificio. L’analisi al C14, ha rivelato che la struttura risale 3435± 121 a.C. vale a dire al periodo di transizione dall’amratiano al gerzeano (Naqada I-II) durante il quale l’espansione demografica portò ad un notevole incremento delle attività umane (Hoffman, 1980). Queste scoperte sono state poi ulteriormente incrementate durante l’esplorazione avvenuta nel 1988 ad opera di Jeremy Geller, che mise in luce un ampio sito destinato alla produzione di birra (Hk24A), localizzato a nord-est del complesso fortificato e destinato all’approvvigionamento sia dei vivi che dei defunti. (Geller 1989,1992). I residui nei contenitori hanno permesso di ricostruire la ricetta di questa bevanda nutriente e poco alcolica: una base di frumento alla quale venivano aggiunti datteri e uva per apportare gli zuccheri necessari alla fermentazione. Nei pressi di questo impianto, in un altro forno per la ceramica, si producevano vasi standardizzati per lo stoccaggio del prodotto. Si è stimato che gli otto tini scoperti avrebbero potuto produrre circa 1200 litri di bevanda al giorno; una quantità decisamente sovrabbondante per le necessità di una famiglia. Di fatti un quantitativo del genere poteva agevolmente costituire la razione giornaliera per oltre 200 persone.


Foto tratta da: I Tesori delle Piramidi a cura di Zahi Hawass, Cap. 6, Il Periodo Predinastico, Renée Friedman.



Il birrificio HK 24A, mappa magnetometrica della zona industriale e ricostruzione di Jeremy Geller. L’esplorazione dell’area circostante il Kom el Ahmar e lo scavo di un’installazione di grandi tini (HK24A) da parte di Jeremy Geller nel 1989, hanno fornito le prime indicazioni che si trattasse di un’istallazione al centro del quartiere industriale di Hierakonpolis, un’area coinvolta nella produzione di birra e probabilmente di altri alimenti a base di cereali in epoca predinastica. Il birrificio di HK24A indagato da Jeremy Geller, incorporava almeno sei tini (indagini successive hanno elevato il numero ad otto) di ceramica grossolana in due file parallele collocate all’interno di una piattaforma di fango. Probabilmente, in origine, era ricoperta da una sovrastruttura ad hoc per contenere il calore. A seguito dell’analisi preliminare del residuo nero lucido rinvenuto sul fondo dei tini, Geller suggerì che il processo di produzione della birra durasse un paio di giorni: un giorno per portare il mosto a temperatura e raffreddarlo e un altro giorno per la fermentazione. Considerato il costo per il combustibile occorrente per sostenere il calore necessario, è possibile che l’infuso venisse trasferito dai tini a fermentare altrove, liberandoli così per un altro ciclo di lavorazione prima del completo raffreddamento dell’impianto. Se così fosse, è facile immaginare che venisse prodotta una grande quantità di birra ogni giorno. Si stima che i tini, con un’altezza di almeno 65 cm e un diametro massimo di 85 cm, contenessero circa 65 litri ciascuno. I sei tini insieme potevano quindi contenere circa 390 litri. Se utilizzato a tempo pieno, questo birrificio avrebbe potuto produrre circa 1200 litri a settimana calcolando 2 giorni per la fermentazione in vasca e addirittura la stessa quantità, ma giornaliera se il liquido da fermentare veniva trasferito in altri recipienti una volta riscaldato. Si tratta di una produzione nettamente superiore al fabbisogno interno. Avendo come riferimento la capacità del contenitore di birra standard dei tempi dinastici, una produzione giornaliera di circa 1100 litri al giorno poteva fornire una razione giornaliera per oltre 450 persone o per la metà se le razioni pro-capite distribuite fossero state due. Foto tratta da Hierakonpolis, la città del Falco, sito internet “hierakonpolis-online.org”
IL COMPLESSO CERIMONIALE
Nel 1985 è stato scoperto da Michael Hoffman un vasto complesso templare situato in un settore della città predinastica, ai margini delle terre coltivate (località Hk29A), utilizzato prevalentemente nel periodo Naqada IIb-IId (Friedman 1996), a quanto risulta dalle analisi delle ceramiche rinvenute in situ. Ne rimangono ben poche tracce, ma sufficienti, per vastità e natura a far ritenere che doveva trattarsi di un centro cerimoniale. Gli scavi hanno rivelato un grande cortile di forma ovale (40×14 metri) circondato da muri di legno e mattoni. Le quattro enorme fosse per pali (profonde 1,7 metri), rinvenute sul lato occidentale del cortile, dovevano alloggiare alte colonne di legno atte a contenere la facciata di un edificio monumentale di 13 metri di larghezza: probabilmente un importante sacrario edificato con stuoie e pali. Solchi poco profondi nel suolo, indicano che la parte retrostante dell’edificio era composta da tre camere, come nei templi di età posteriore. Ciò che ne resta, infatti, si accorda bene con la configurazione protodinastica del modello di sacrario (forse il “Per-Ur”) dell’Alto Egitto, che presenta una struttura a volta composta di pilastri e graticci, che imita la forma di un animale accovacciato completo di coda e corna. Per tradizione si riteneva che l’archetipo del grande sacrario dell’Alto Egitto fosse ubicato a Ieracompoli, per cui è del tutto plausibile che il complesso di cui parliamo fosse davvero quel santuario, che sarà poi riprodotto, molto più tardi in pietra nel complesso della Piramide a Gradoni di Saqqara e che rimase un prototipo templare nei millenni a venire. A indicare che si trattasse di un centro di culto non sono solo i resti architettonici: anche i reperti rinvenuti nel cortile ci informano che lì venivano celebrate imponenti cerimonie durante le quali si sacrificavano ovini e gazzelle, ma anche grandi animali selvatici e pericolosi come coccodrilli e ippopotami che, più tardi, sarebbero stati identificati con gli elementi caotici dell’universo, per controllare i quali venivano eretti templi. Tra i manufatti rinvenuti , una notevole quantità di cocci (molti dei quali riconducibili a vasi di produzione palestinese), grani di collane, vasi in pietra e utensili bifacciali in selce (Holmes 1992). Appena oltre le mura, è stata identificata una serie di laboratori in cui si producevano i magnifici vasi in pietra assieme agli altri manufatti da offerta. Questo dimostrerebbe che l’associazione tra tempio e artigiani fosse già una realtà ben prima dell’età dinastica.

La ricostruzione di questo complesso cerimoniale ricorda fortemente la scena raffigurata sulla testa di mazza di “Narmer”, che mostra anche l’insolita rappresentazione di un muro in mattoni crudi di forma sinusoidale.
Aggiornamenti: è importante sottolineare che, con gli scavi del 2009, le precedenti ricostruzioni di quest’area sono state riviste. I quattro enormi pali e gli otto più piccoli (disposti su 2 file) che insistevano in quest’area non vengono più attribuiti ad un santuario come si era supposto, ma sono ora ritenuti piuttosto parte di un imponente ingresso sulla corte. Per di più, in uso da oltre 500 anni (da Naqada IIa alla Prima Dinastia), il centro HK29A ha subito diversi lavori di ristrutturazione e quale fosse il suo aspetto in ciascuna di queste fasi non è ancora del tutto chiaro. Non ci sono dubbi, invece su ciò che avveniva in questo luogo. Le fosse per i rifiuti scavate all’esterno ci hanno fornito scorci unici delle pratiche cultuali reali nell’era predinastica.
Veduta generale della grande area cerimoniale Hk29A. Foto dal sito internet “hierakonpolis-on line.org Un coccio inciso trovato tra i detriti del tempio. Da un lato c’è l’emblema distintivo della dea vacca la cui immagine apparirà anche sulla tavolozza di Narmer, mentre il rovescio mostra una figura femminile stilizzata tenuta prigioniera da un antico simbolo dell’autorità reale, il toro. Foto dal sito internet “hierakonpolis-on line.org Disegno delle scene rappresentate sulla testa di mazza di Narmer. La disponibilità stagionale di fauna acquatica e desertica suggerisce che i rituali fossero associati all’arrivo dell’inondazione del Nilo; un momento particolarmente caotico nel ciclo cosmico di rinnovamento che richiedeva poteri straordinari per regolarlo. Questa capacità era un aspetto fondamentale dell’ideologia reale. La testa di mazza di Narmer potrebbe illustrare tale momento specifico (e la concomitanza del giubileo del re) e forse è proprio Hk29a il luogo che vi è raffigurato. Mentre il sovrano presiede, animali selvatici racchiusi in un cortile ovale ed un gran numero di animali e prigionieri umani viene radunato per l’ispezione. Dal sito internet “hierakonpolis-on line.org
LE NECROPOLI, UNO SGUARDO GENERALE
La necropoli che si estende sia intorno alla fortificazione, sia al di sotto di essa, è stata esplorata a più riprese. Un primo parziale scavo fu intrapreso tra il 1905 e il 1906 da John Garstang e Harold Jones. Henri De Morgan proseguì, per il British Museum, nel 1907-1908 e Ambrose Lansing se ne occupò nel 1934 per conto del Metropolitan Museum. Quest’area fu utilizzata dalla popolazione di Nekhen tra il predinastico e l’inizio del Dinastico e apparentemente non ospita un settore destinato alle élites locali anche se nel 1980 Hoffman vi rinvenne un grosso sarcofago in terracotta il cui coperchio era finemente decorato. Le altre necropoli predinastiche sono state sistematicamente saccheggiate. Nella località denominata Hk43, situata al confine meridionale della concessione, sono stati effettuati scavi conservativi in una necropoli alquanto povera, ma fortunatamente sfuggita alle razzie. Nel 1899 Green intraprese scavi sia all’interno del centro abitato di Nekhen, sia in una necropoli del gerzeano sita ai margini del deserto, lungo lo uadi che attraversa la zona posta al confine meridionale del sito. Qui scoprì cinque grandi tombe rettangolari simili a quelle della necropoli “T” di Naqada: si trattava di una necropoli gerzeana riservata alle élites. Una di queste sepolture, la Tomba 100, conservava ancora una straordinaria decorazione parietale.
Grazie ad alcune conchiglie rinvenute al suo interno, un’analisi al carbonio C14 ha permesso di datare la tomba al 3685 a.C. circa. Il motivo decorativo è costituito da cinque barche a forma di crescente lunare e da una di colore nero, dall’alta prua, raffigurate in un paesaggio desertico. Uno dei personaggi che costituiscono la rappresentazione è con tutta probabilità un re che colpisce un nemico: è un’iconografia che diventerà un tipico motivo egizio e tutta la scena può essere considerata come il modello ispiratore delle raffigurazioni processionali del tardo predinastico.

Fonte: Francesco Raffaele, Late Predynastic an Early Dinastic Egypt, sito internet
Gli scavi di Hoffman, iniziati nel 1986 nella grande necropoli ubicata nello Uadi el-Suffian, denominata Hk6, hanno restituito un’ampia sepoltura rettangolare, la Tomba 3 (metri 2,50×1,80x 1,80 di profondità), completamente depredata e due grandi fosse ovali (Tombe 6 e 9), contenenti vasi risalenti al periodo di transizione dall’amratiano al gerzeano (Naqada IIc-d; Adams 1996).

Nel 1982 e nel 1985 erano state esplorate tre importanti tombe protodinastiche, tutte già saccheggiante in passato, ubicate nella stessa necropoli (Adams 1992,1996; Adams e Friedman 1992). All’estremità est si trova la Tomba 1, la cui datazione al C14 ha fornito la datazione 2980+/- 141 a.C., un’ampia struttura di forma rettangolare (metri 6,5×3,5 e profonda metri 2,5), che un tempo doveva essere sovrastata da una copertura in legno e canne e circondata da una recinzione di paletti a cui si accedeva da nord-est, in maniera del tutto analoga a quanto avverrà con i recinti della I Dinastia della necropoli reali di Abydos.

Accanto ad essa, la Tomba 10 (metri 4,7×2,4 e una profondità di metri 1,75), leggermente più antica delle altre, in cui è stato rinvenuto parte del corredo funebre: un letto in legno i cui piedi, a forma di zampa di toro, furono sottratti dai saccheggiatori, grani di collana e amuleti in oro, argento, corniola, granato, rame, turchese e lapislazzuli, avori intagliati, modelli di animali e di figure umane in pietra e ceramica, nonché del vasellame perfettamente ricostruibile, parte del quale realizzato ispirandosi a modelli di chiara importazione palestinese, e altri oggetti simili a quelli ritrovati nel Deposito Principale e nella Località Hk29A (Adams e Friedman, 1992). Nella zona ovest della necropoli, adiacente alla alle tombe predinastiche, nel 1934 era stata scoperta da Lansing, una grande sepoltura rettangolare, la Tomba 2, scavata nell’arenaria (metri 6,25×2,1 e profonda metri 3,5. Alla base di questa Tomba, si è ritrovata una piccola camera laterale, in origine chiusa da due pietre e, a ovest di questa, una fossa, denominata Tomba 7, che conteneva i resti di tre animali: un toro, una mucca ed un vitello, recanti ancora tracce di materiale organico depositati sulle ossa. In superficie, altri frammenti ossei indicano la presenza di ulteriori sepolture di animali nelle immediate vicinanze. Lo stile della Tomba 2 e le inumazione di bovini, ricollegano queste sepolture alle ricche tombe del periodo Naqada III nella Bassa Nubia. A est, la Tomba 12 conteneva 6 babbuini; la Tomba 5 (vicina alla 3) si è rivelata essere una sepoltura multipla riservata ai cani. Infine verso il limite della necropoli, si sono rinvenute ossa di elefanti, ippopotami e coccodrilli.

LOCALITÀ HK6, LA NECROPOLI D’ÉLITE PREDINASTICA E PROTODINASTICA
Gli scavi in località Hk6 sono iniziati nel 1979 e sono tuttora in corso. Ciò che è stato riportato alla luce in quest’area, una delle più emozionanti del sito di Ieracompoli, obbliga a riscrivere continuamente i libri di storia. Le scoperte includono grandi tombe del periodo Naqada II, la prima architettura fuori terra, i primi templi funerari, le sepolture di animali più ampie ad oggi conosciute, nonché notevoli figurine in selce, maschere in ceramica, statue in pietra calcarea, ecc. Gli scavi sono in continua evoluzione e di anno in anno vanno riviste ipotesi precedenti e si presentano nuove domande su cui indagare.

I primi scavi (di natura scientifica) sono avvenuti tra il 1979 e il 1985 ad opera di Michael Hoffman che dimostrò l’alto livello del cimitero, con la scoperta di grandi sepolture rivestite in mattoni risalenti al Naqada III (Tombe 1 ,10,11), e finanche una scavata nella roccia (Tomba 2), che sono le maggiori dell’Alto Egitto, ove si escludano quelle portate alla luce ad Abydos. Tutte le tombe erano state sottoposte a numerosi saccheggi, ma contenevano ancora resti di materiali pregiati ed esotici a conferma che, anche dopo lo spostamento del potere verso nord (prima ad Abydos e poi a Menfi), Ieracompoli continuava ad essere un centro opulento e di grande importanza. Hoffmann ha, inoltre, scoperto i resti dell’architettura in legno che un tempo circondava queste tombe e fu il primo a rilevare sepolture di animali che, all’epoca, non fu in grado di datare (Tombe 7 e 12). Altre, relative al periodo Naqada II (Tombe 3,5,6,9), contenevano animali accanto a esseri umani.
Tomba 23. Ricostruzione del complesso funerario intorno alla sepoltura, la più grande finora conosciuta riconducibile al periodo Naqada IIb (3700 a.C. circa) e la prima, ad oggi nota, a possedere una importante sovrastruttura Tomba 23. Oggetti rinvenuti nella cosiddetta Cappella delle Offerte
Dal 1997 al 2000, gli scavi furono ripresi da Barbara Adams che scoprì molte altre inumazioni riferibili a Naqada II e Naqada III, ma soprattutto la Tomba 23 che si rivelò essere la più grande finora conosciuta riconducibile al periodo Naqada IIB. Misura 5,5 m di lunghezza e 3 di larghezza e, al momento della scoperta, risultava essere la prima in Egitto ad esibire una struttura esterna: un muro di cinta costituito da pali di legno che circonda una sovrastruttura a pilastri. Sul lato orientale insisteva un’area con colonne, presumibilmente una cappella delle offerte, a giudicare dagli oggetti preziosi che ha restituito. Si tratta di figure animali di selce (uno stambecco e la testa di una pecora), un cilindro di avorio, probabilmente un manico di mazza, e un’inquietante vertebra umana con segni di taglio che farebbero pensare ad una decapitazione. Dalla cappella provengono anche frammenti di quella che, al momento, può essere considerata la prima statua umana in pietra (calcare duro) a grandezza naturale dell’ Egitto. La forma e le dimensioni di questa statua sono state presunte dal naso e dalle due orecchie, scolpiti in maniera raffinata, in quanto i restanti frammenti, oltre 500, si sono rivelati estremamente difficili da ricostruire. Purtroppo, Barbara Adams, non ha potuto completare il lavoro di ricerca a causa della sua prematura scomparsa avvenuta il 26 giugno 2002.



Barbara Adams (Hammersmith, Londra, 19 febbraio 1945, Enfield, Londra, 26 giugno 2002) con una delle straordinarie maschere funerarie in ceramica rinvenute nella località Hk6. Si tratta delle prime maschere funerarie note dell’Antico Egitto. Dal 1997 al 2000 Barbara Adams ha ripreso gli scavi nella necropoli e sorprendentemente ha riportato alla luce ricche sepolture risalenti anche al periodo Naqada IIab, 3700 a.C. circa. Il suo lavoro ha riportato alla luce diverse tombe d’élite, tra cui una di un giovane elefante ed un’altra contenente un grande bovide selvatico (uro), sepolto alla maniera umana con stuoie a ricoprire il corpo, ceramiche e finanche una figurina antropomorfa.
Un’ulteriore esplorazione delle aree adiacenti nel 2006-2007, ha restituito un’altra grande tomba (Tomba 26) con chiara evidenza di sovrastrutture lignee (oltre a una statuetta di scorpione e un vaso per vino importato). Ancor più notevoli erano le strutture adiacenti, prive di sepolture sottostanti, che lasciavano intuire la presenza di ambienti con colonne o pilastri. Queste sale costituiscono non solo uno dei primi esempi di uno stile architettonico (la sala ipostila), la cui presenza in epoca predinastica era solo stata ipotizzata, ma forniscono anche ampie prove dell’esistenza di templi e rituali mortuari sviluppati fin da epoche molto antiche. Questi edifici in legno, apparentemente, ricoprono un arco di diverse generazioni in quanto si evidenziano almeno tre fasi della costruzione durante le quali le strutture originarie furono sostituite nel tempo da elementi ancora più imponenti. Una datazione al radiocarbonio sulla corteccia di uno dei pilastri di legno di una sala (struttura E8), riferibile ad uno di questi rimaneggiamenti, la colloca tra il 3790 e 3640 a.C. L’aspetto originale è più difficile da determinare, ma frammenti di intonaco con pigmenti rossi e verdi, alcuni dei quali con disegni figurativi, indicano che queste strutture fossero colorate e di grande impatto.



A destra: la Tomba 26, solo leggermente più tarda della Tomba 23, aveva anche una sovrastruttura e un muro di cinta. Al suo interno molti oggetti esotici che attestano una vasta gamma di commerci con l’estero.
Delle otto strutture conosciute, la meglio conservata è la Struttura 07; larga 10,5 metri e lunga 15, al suo interno erano disposte 24 colonne di legno. Sebbene molto spogliata, è stata trovata, all’interno dei fori dei pali, una varietà di oggetti. Tra questi, conchiglie del Mar Rosso, oggetti in avorio, un corno di mucca e un fagotto di stoffa contenente malachite. Ulteriori oggetti sono stati trovati negli angoli. A nord-est, sono venuti alla luce agglomerati di gusci d’uovo di struzzo (in origine dovevano essere almeno sei uova complete) e, su alcuni di questi frammenti era incisa una scena di caccia. Nell’angolo sud-est c’erano oggetti di diversi tipi, tra cui una bacchetta d’avorio scolpita con una processione di ippopotami lungo la parte superiore, una minuscola statuetta di ippopotamo in steatite e una statuina di falco magistralmente intagliata nella fragile malachite. Si tratta della più antica immagine di un falco egiziano, ad oggi conosciuta; le rappresentazioni di questo rapace sono diventate comuni solo in un periodo di poco antecedente alla prima dinastia, soprattutto come indicatori di nomi reali. Non è dato sapere se questo falco avesse già connotazioni reali, ma considerato il contesto d’élite e la forte associazione del dio locale Horus con l’antica regalità, l’ipotesi sembra altamente probabile.


Dagli angoli è stato raccolto anche un gran numero di eleganti punte di freccia a base cava, alcune delle quali, di grandi dimensioni, anticipavano il gigantismo delle teste di mazza votiva e delle tavolozze rinvenute nel Deposito Principale. L’abilità esecutiva lascia pochi dubbi sul fatto che gli stessi artigiani abbiano anche realizzato uno stambecco di selce scoperto nella Struttura. Altri animali di selce sono stati trovati negli angoli di altre strutture, sempre in associazione con punte di freccia o altri attrezzi da caccia, e suggeriscono attività rituali simboliche di controllo. Elementi di una classe relativamente rara di artefatti, queste figurine in pietra provenienti dalla necropoli HK6, rappresentano, al momento, la più grande collezione di animali in selce di provenienza nota.

Il recinto con la sala a pilastri, situato al centro del cimitero, era senza dubbio utilizzato per i culti mortuari di coloro che qui venivano sepolti e ci fornisce la visione di un elaborato scenario funerario che non ci si sarebbe aspettati per un’epoca così remota. Ma la loro scoperta ha posto un problema in quanto la configurazione dei pilastri attorno alla tomba 23 lasciava presupporre che si trattasse di elementi riutilizzati. Inoltre, appariva evidente che diversi pali della sala con pilastri (E8) erano stati rimossi per seppellire l’elefante africano trovato nella Tomba 24 (presumibilmente appartenente allo stesso entourage della Tomba 23): l’ipotesi di “riciclo”, a questo punto, è diventato ancora più plausibile.
Per determinare se altre tombe d’élite del periodo fossero dotate di caratteristiche architettoniche, l’equipe di scavo è ritornata nell’area indagata per la prima volta da Barbara Adams nel 1999, per un’ulteriore ispezione alla Tomba 16, un’altra grande sepoltura d’élite del primo periodo predinastico, Naqada IC-IIA, intorno al quale erano stati osservati resti di pali di legno.
Sebbene una sepoltura rivestita di mattoni del periodo Naqada IIIa2 fosse stata successivamente inserita nella Tomba 16, in quello che sembra essere stato un atto di rispettoso rinnovamento piuttosto che un’usurpazione, era ancora possibile risalire alla misure della tomba originale. Con circa 4,3 x 2,6 metri, ed una profondità di quasi 1,45 m, è tra le più ampie conosciute relativamente al periodo Naqada IC-IIA. Nonostante il saccheggio e il riutilizzo, era ancora molto ricca e conteneva un’enorme quantità di ceramica. Vi si sono rinvenuti oltre 115 vasi tra cui uno inciso con il primo emblema conosciuto di Bat, la divinità bovina.


Probabilmente da questa tomba provengono anche due delle maschere ceramiche meglio conservate restituite, almeno fino ad oggi, esclusivamente da questo cimitero. Curvate per adattarsi alla testa umana e attaccate per mezzo di una corda fatta passare attraverso i fori dietro le orecchie, sono le prime maschere funerarie egiziane. Segnano l’inizio di una tradizione la cui origine è stata a lungo oggetto di congetture. Date le premesse, se una tomba poteva fornire indizi di possedere una sovrastruttura, questa era, appunto la 16 e, come vedremo, le attese non sono andate deluse.
Le indagini del 2009-2011 hanno rivelato una serie di pali di legno che suggerivano la presenza di una considerevole sovrastruttura, mentre sei buche per pali lungo il lato nord sembravano indicare l’esistenza di una piccola cappella delle offerte. Come per la tomba 23, il tutto era circondato da un recinto di pali di legno, ma nel caso della tomba 16 questo era interconnesso con un complesso più ampio di recinti contenenti una serie di tombe più piccole. Insieme, questi elementi formano un complesso che si sta cercando di ricostruire. Sebbene tutte le tombe satellite siano state pesantemente saccheggiate, rimane abbastanza del loro contenuto da suggerire che non c’era nulla di arbitrario nella loro disposizione o nei loro occupanti. I raffinati manufatti, presenti in tutte le sepolture umane, indicano proprietari di alto rango, presumibilmente famiglia e cortigiano, tra i quali sembra aver ricoperto una posizione di alto favore un nano acondroplastico* sepolto nella tomba sussidiaria 47, alto circa 120 cm.

E’ noto che i nani erano molto apprezzati come assistenti personali alla corte dei re a partire dalla prima dinastia, durante la quale venivano onorati con la inumazione tra gli altri servitori intorno alle tombe reali e commemorati con stele di alta qualità. Gli indizi, però, inducono a ritenere molto probabile che il nano della Tomba 47 fosse un compagno molto stimato già nel periodo predinastico. Il primo tra questi è la posizione della sua tomba, che si trova sotto il pavimento della cappella con pilastri. La sepoltura in quel punto è da ritenersi un privilegio altissimo, in quanto lo associa intimamente al proprietario della Tomba 16 nella morte, così come lo fu senza dubbio in vita. Ma forse la migliore indicazione dello status speciale del nano è la sua età. A circa 40 anni, è la persona più anziana del complesso funerario. Dei 39 individui trovati all’interno delle 14 tombe che fiancheggiano la Tomba 16, nessuno ha meno di 8 anni e nessuno ha più di 35 anni; più di due terzi di loro erano giovani (maschi e femmine) al di sotto dei 15 anni. Il campione è ancora limitato, ma comunque sufficiente a stabilire che non è compatibile con la normale mortalità e suggerisce fortemente che pochi (se non nessuno), siano deceduti per cause naturali. Molto probabilmente furono scelti appositamente per l’onore di accompagnare il loro signore.
Probabile ritratto in selce del nano sepolto nella Tomba 47. Sebbene sia stato ritrovato nei livelli superficiali a nord-ovest, questo pezzo straordinario potrebbe rappresentare proprio quel nano con le gambe arcuate e le braccia poco sviluppate. Sia nello scheletro dell’immagine precedente, che nella statuina è ben evidente l’acondroplasia da cui era afflitto. Testa e tronco di proporzioni normali, braccia e gambe molto corti.

* l’acondroplasia, è una forma di nanismo conseguenza di un difetto di crescita delle cartilagini e di sviluppo e di sviluppo delle ossa lunghe. Per cui, braccia e gambe sono corte mentre testa e tronco hanno dimensioni normali
Se accompagnare il sovrano nell’aldilà era ritenuto un privilegio per l’uomo, lo era certamente anche per la maggior parte degli animali nei confronti dei quali sono evidenti diversi livelli di cura e di apprezzamento. Datazioni al radiocarbonio eseguite su due esemplari indicano che entrambi hanno incontrato la loro fine nello stesso momento in una data compresa all’incirca tra 3660 e il 3640 a.C. Sepolti interi, il campionario include un elefante africano, un uro (bovino selvatico), un alcelafo (una varietà di antilope) gravido, un giovane ippopotamo, un coccodrillo, due babbuini, 15 bovini domestici, due grandi capre e 28 cani.

Non sorprende che i più riveriti siano stati l’elefante africano, un maschio di dieci anni (Tomba 33) e l’uro (Tomba 19): entrambi richiedevano un impegno straordinario per venirne in possesso dal momento che, probabilmente, nessuno dei due era disponibile localmente all’epoca. Sono stati trovati da soli in grandi tombe recintate, avvolti in grandi quantità di biancheria e stuoie. Non è chiaro se siano stati dotati di ulteriori corredi funerari, ma ad ambedue è stato offerto un sostanzioso pasto finale, che in gran parte era ancora presente nel loro stomaco. Un’analisi dettagliata del contenuto botanico dell’ultimo cibo consumato dall’elefante indica che era stato nutrito con piante di fiume, ramoscelli di acacia, paglia, farro e altri cereali. Sebbene né l’elefante, né l’uro mostrino prove esplicite di cattività a lungo termine, il fatto che gli animali siano stati mantenuti in vita per qualche tempo è indicato dalla femmina di alcelafo che ha mostrato una deformazione della sua dentatura simile a quella osservata negli animali selvatici tenuti in cattività prolungata negli zoo odierni. Inoltre, era anche incinta di 3 mesi e le ossa delle gambe del feto sono state trovate in posizione all’interno del tessuto dell’utero. E’ verosimile che si mantenessero mandrie riproduttive di quella che stava diventando una razza sempre più rara e che, oggi, è di fatto estinta.

Anche i babbuini, che non sono originari della valle del Nilo, erano tenuti in gruppi di allevamento. Le fratture saldate sugli avambracci sono comuni a quasi tutti, il che suggerisce che siano stati sottoposti a violenze disciplinari, ma poi curati e guariti nel corso di un minimo di 4-6 settimane, che è il tempo necessario all’osso per saldarsi. Non è possibile stabilire, però, per quanto tempo siano sopravvissuti.
Proveniente dalle vicinanze era, invece, un ippopotamo di circa quattro mesi. Sebbene la sua tomba sia stata gravemente manomessa, è stato recuperato quasi l’intero scheletro. Una frattura guarita nella parte inferiore della schiena indica che questo giovane ippopotamo fu probabilmente legato ad un albero e tenuto in cattività per diverse settimane prima di morire, rompendosi una gamba mentre si sforzava di liberarsi. Sempre dal fiume, è venuto un coccodrillo (Tomba 45), le dimensioni della sua testa indicano che era originariamente lungo circa 2 m.

I cani sono di gran lunga la specie meglio rappresentata e sono stati trovati interrati in sette diverse tombe. Per la maggior parte si trattava di animali abbastanza grandi e, diremmo oggi, di razza, ma erano presenti anche soggetti meticci. Sparpagliati per il complesso, servivano probabilmente come cacciatori, pastori o controllori di altri animali che, nel caso di specie selvatiche, costituiva un’ulteriore attestazione del rango del loro proprietario. Ma probabilmente, i cani, già all’epoca, erano impiegati anche per la guardia degli animali domestici.
Il sacrificio di beni preziosi è attestato, inoltre, dalla sepoltura di un vecchio toro nella sua grande tomba (Tomba 43), così come nella vicina Tomba 36 contenente una mucca e un vitello (Tomba 36), ma ancor di più è evidente nella Tomba 49, una grande fossa simile a una trincea lunga 13,5 metri, che conteneva 12 bovini, sepolti interi e non macellati, tutti sotto i 3 anni di età: l’offerta dunque di un cibo di prima qualità. Non è del tutto chiaro a chi appartenessero questi 12 bovini. Dalla posizione della Tomba 49, potrebbero sia far parte del complesso della Tomba 16, sia appartenere ad un altro complesso a sud.


Durante la stagione 2012 è stato indagato un insieme di tombe (Tomba 50-60) a est della Tomba 16 e queste sembrano appartenere a un complesso diverso, probabilmente di datazione leggermente posteriore, forse solo di una generazione
.L’esame di 10 tombe di questo nuovo complesso ha rivelato una gamma rassicurante di somiglianze ma anche una serie intrigante di differenze, mostrando che le regole erano tutt’altro che fisse. Gli occupanti includevano un leopardo, un altro uro, un altro coccodrillo, uno struzzo, altri sei babbuini, otto grandi pecore e 14 esseri umani, uno dei quali era ancora un nano!

Ma perché seppellire tutti questi animali? Non è una domanda a cui è facile rispondere. All’interno dei vari complessi, i diversi livelli di impegno profusi nell’inumazione degli animali suggeriscono che il loro significato non doveva essere lo stesso. In generale, sembra che l’ampia varietà di specie interrate attorno al perimetro del complesso della Tomba 16 fornisse simbolicamente protezione contro il caos naturale che rappresentavano. La sepoltura degli animali domestici può forse aver assicurato un’eterna scorta di cibo e compagnia, oltre a sottolineare la ricchezza del proprietario. Ma, probabilmente, la sepoltura dei grandi animali selvatici è da ritenersi soprattutto come una dimostrazione di potere. La proprietà di questi animali esotici costituiva, evidentemente, una forte affermazione visiva di potere e prosperità. La creazione e il mantenimento dei serragli reali è noto per essere stato un mezzo per legittimare i faraoni del Nuovo Regno e potrebbe essere servito a questo scopo anche in questo lontano periodo. Oppure lo scopo non era solo una dimostrazione di autorità nel controllare o uccidere queste creature, ma anche quello di assumerne le caratteristiche, incamerandone i loro formidabili attributi naturali. In tal caso, queste tombe riflettono la realtà fisica illustrata nelle iconografie associate al dominio che così di frequente ritroviamo nei primi periodi della storia egiziana come, ad esempio, sulla tavolozza di Narmer e in altri documenti, dove il potere reale si manifesta in diverse forme animali. Le evidenze fornite dagli scavi di Ieracompoli, ora suggeriscono che questo simbolismo associato alla sovranità non era meramente, metaforico, ma può essere fatto risalire all’effettiva padronanza fisica esercitata su alcune delle creature più possenti del loro mondo.
LE SCOPERTE AVVENUTE DURANTE LA STAGIONE DI SCAVO 2014
Nel 2013 furono scoperti i resti di un muro lungo 9 metri realizzato con pali di legno (denominato muro F). Nel 2014 il muro fu ulteriormente indagato per determinare le dimensioni della struttura a cui apparteneva. Proseguendo lo scavo verso occidente è stata evidenziata una struttura lunga circa 13 metri da est a ovest e larga 9 metri da nord a sud. Le pareti sono costituite da una doppia fila di pali di legno del diametro di circa 5 cm, inseriti all’interno di due diversi fossati. Dall’ 8 febbraio al 2 marzo 2014 il team della spedizione di Hieraconpolis, sotto la direzione della d.ssa Renée Friedman del British Museum, ha riportato alla luce una tomba quasi intatta (denominata tomba 72) all’interno di questa struttura.


Intorno a questa tomba c’erano diverse colonne di legno di circa 20 cm. di diametro, infisse in profonde buche, che dovevano, evidentemente, sostenere il peso di una sovrastruttura. Erano state bruciate dal fuoco, come confermava la presenza di sabbia arrossata, cenere e carbone. La tomba misura 3,2 x 2,0 metri ed è apparso subito chiaro che era stata pesantemente danneggiata. Anche il corpo del proprietario aveva subito devastanti profanazioni. Ossa di un giovane tra i 17 e i 20 anni di età, sono state rinvenute sparse nel riempimento superiore e nelle aree circostanti, mentre sul fondo della sepoltura erano presenti alcune dita e parte del bacino. Nonostante i gravi danni arrecati, il corredo, rinvenuto, per lo più nel luogo originario, costituisce un campionario di materiali unico per il periodo predinastico.
L’oggetto più importante era una statuetta alta 32 cm. di un uomo barbuto e in posizione eretta, scolpita in avorio ricavato da zanne di ippopotamo. Mancano le braccia che, in origine, dovevano essere ai lati del busto e con le mani poggiate sulla parte superiore delle gambe. Le termiti hanno distrutto la superficie lucida originaria dell’avorio, ma sono ancora riconoscibili i tratti del volto caratterizzato da naso aquilino, orecchie piuttosto grandi, sopracciglia arcuate, labbra sporgenti e una barba corta e appuntita.


Queste caratteristiche ricordano molto le maschere funerarie in ceramica rinvenute esclusivamente nella necropoli Hk6. Una tale somiglianza suggerisce che sia la statua, sia le maschere rappresentino la stessa entità, ma è difficile determinare se si tratti di un sovrano, di una divinità o di uno spirito. In ogni caso la scultura è un reperto pressoché unico per dimensioni e qualità, tra i reperti di scavo databili al periodo predinastico, dal momento che solo le statuette in avorio provenienti dal deposito principale di Ieracompoli presentano caratteristiche simili. Il ritrovamento dimostra che la tradizione della raffinata scultura in avorio nel sito è databile almeno al primo periodo Naqada II.
Questa statua è stata trovata sul lato ovest della tomba, vicino all’angolo nord, insieme a un vaso di ceramica intatto di limo bruno del Nilo lucidato. Il vaso è decorato con la sagoma di un grande leone, inciso prima che la pentola fosse cotta. La materia organica degradata, presente nell’area suggerisce che la statuina in avorio e il vaso fossero stati collocati all’interno di una scatola di legno o di un cesto. Questo materiale è stato successivamente mangiato dalle termiti. Sul lato orientale della tomba, quasi allo stesso livello della statua in avorio, è stata rinvenuta una serie di lamelle di selce e 3 contenitori per ocra gialla ricavati dalle punte delle zanne di ippopotamo. Al di sotto di questi oggetti erano presenti due tavolozze di diorite, una grande e di forma romboidale, l’altra rettangolare, corredate da cinque ciottoli da sfregamento: si trattava di sassi smussati naturalmente dall’azione erosiva del fiume e scelti appositamente per la loro forma e levigatura. Erano presenti anche piccoli frammenti di malachite. Altre tracce di malachite sono state individuate sul piatto della tavolozza più grande e su tre dei sassolini da sfregamento. Da ciò se ne deduce che sono stati utilizzati sulla tavolozza per polverizzare la malachite verde per il trucco degli occhi e/o per ornare altre parti del corpo. Sulla tavolozza più piccola erano, invece, presenti tracce di ocra rossa.
Sempre dalla stessa zona provengono sei pettini d’avorio. Uno di questi presentava la sommità scolpita con la figura di un animale dalle lunghe gambe e il naso prominente, ma con le orecchie spezzate. Probabilmente si tratta di un asino. Gli altri cinque pettini hanno la parte superiore piatta ed hanno forma quadrata o rettangolare. Sono tutti realizzati con avorio ricavato da zanne di ippopotamo. Altri tre pettini sono stati ritrovati presso il lato nord della sepoltura. Al centro ce n’era uno con la figurina di un ippopotamo scolpita superiormente. La schiena dell’animale sembra essere stata bruciata intenzionalmente come per procurarsi una magica protezione dal pericolo che la bestia selvatica poteva costituire.


Subito al di sotto del pettine giacevano i resti del bacino del proprietario della tomba. Sul lato ovest della tomba, a un livello più basso delle figurine umane e del vaso, sono state trovate due lame triangolari di coltello di selce finemente seghettate e, nei pressi, due mole di quarzite, un ciottolo da sfregamento e una scaglia di selce lavorata. Le mole erano state usate in vita e rappresentano un “unicum” all’interno di una tomba predinastica. Sono forse collegate alla preparazione del cibo nell’aldilà. Nella parte centro meridionale della sepoltura era presente una scapola di mucca e, subito sotto di essa, una punta di lancia, ricavata da selce gialla, lavorata a forma di diamante. Da diversi altri punti della tomba sono state recuperate sei punte di freccia ed alcune lamelle aggiuntive sempre di selce. Sono stati identificati anche resti di offerte di cibo: sul pavimento erano sparse ossa di giovani ovini oltre a tracce di stuoie, mentre ad un livello più alto sono state trovate ossa di cosce di bovini.

Gli oggetti rinvenuti permettono di datare la tomba al periodo Naqada IIa-b (circa 3700-3600 a.C.).
La quasi totale rimozione delle ossa umane dal fondo della tomba, a differenza di molti altri oggetti lasciati in situ, suggerisce che la violazione sia avvenuta in tempi molto antichi, forse già in epoca predinastica: tutto lascerebbe pensare che si sia trattato di un atto di profanazione nei confronti del proprietario, piuttosto che un semplice atto di saccheggio. La sovrastruttura fu poi data alle fiamme, coinvolgendo nell’incendio anche altre zone del sito. Sembrerebbe che quando la struttura F fu ricostruita, probabilmente all’inizio della I Dinastia, la tomba fosse ricoperta di sabbia e ghiaia. Pertanto, si rese necessaria la costruzione di un nuovo muro esterno, che, ovviamente, fu eretto a partire da un livello superiore. Sono state sostituiti anche molti pali, ma non quelli che erano nelle immediate vicinanze della Tomba 72. Altra ipotesi, potrebbe essere quella di un totale restauro del complesso, ma occorreranno ulteriori indagini per accertarlo.


L’orientamento sia della Struttura F, sia della fossa, suggeriscono che fosse la tomba più importante del complesso orientale della necropoli che comprendeva le inumazioni di giovani esseri umani, un leopardo, bovini selvatici, babbuini, pecore, capre, cani e forse finanche uno struzzo. Se ne deduce che il proprietario della tomba 72 potrebbe essere stato uno dei re predinastici dell’antica Nekhen. Questa recente scoperta fornisce nuove informazioni sui rituali e le pratiche funerarie e sul successivo rispetto tributato al culto degli antenati defunti
Fonti:
- Barbara Adams, Hierakonpolis, dal volume “Kemet, alle
sorgenti del tempo”. - Renée Friedman, Excavating Hierakonpolis, The Elite Cemetery, in Interactive Dig HierakonpolisImmagini, prelevate dal sito, fornite per gentile concessione della spedizione di scavo di Hierakonpolis
- Renée Friedman, Il periodo Predinastico, dal volume I Tesori
delle Piramidi, a cura di Zahi Awass - Hierakonpolis, la città del Falco, sito internet “hierakonpolis-online.org”
HK43 – LA NECROPOLI DEI LAVORATORI

Il cimitero, denominato Hk 43, ospita le sepolture dei lavoratori della popolazione predinastica ed è ubicato sul lato meridionale del sito nei pressi del Wadi Khasmini. Gli scavi condotti tra il 1996 e il 2004 hanno portato alla scoperta di almeno 450 tombe contenenti oltre 500 individui vissuti nel periodo Naqada IIb-IIc (circa 3650-3500 a.C.). Le tombe, piuttosto piccole, raramente avevano dimensioni superiori a quelle necessarie per ospitare un corpo rannicchiato deposto su una stuoia e di solito la loro profondità non superava il metro. A causa delle manomissioni intervenute non è semplice stabilire con precisione l’estensione della necropoli, ma le indagini archeologiche fanno presupporre che nella fase Naqada IIb occupasse un’area di almeno 80 metri (da nord a sud) per 100 (da est a ovest). E’ anche probabile che avesse incorporato la località denominata Hk44 che si estende verso ovest fino al limitare di HK 45.

Durante il periodo Naqada IIc, le sepolture si sono estese ulteriormente a nord e a sud, come già evidenziato dagli scavi intrapresi da F.W. Green nel 1899 e confermato dalle indagini eseguite sotto la direzione di Barbara Adams nel 1974.
Gli scavi, effettuati in un’area di circa 1860 mq, hanno portato alla luce tombe disposte circolarmente intorno a spazi vuoti centrali dai quali sono stati recuperati frammenti di grandi vasi domestici di una tipologia non riscontrata nelle sepolture. Ciò fa ritenere che queste aree centrali fossero riservate a feste o rituali funerari. E’ presumibile, data la distanza ravvicinata, che i sepolcri fossero contrassegnati da un cumulo di sabba o pietre, sebbene non ne resti alcuna traccia. La sabbia calda e asciutta ha permesso un’eccezionale conservazione organica di stuoie e cesti, nonché di capelli, ossa tessuti corporei, alimenti e contenuto intestinale; tutto ciò ha fornito una serie di informazioni senza precedenti su dieta, livelli nutrizionali, salute e stile di vita dell’epoca. Nel periodo di massimo sviluppo della ricerca sul predinastico iniziata agli inizi XX secolo, si stima che siano stati esplorati più di 65 cimiteri e scavate oltre 20.000 tombe, ma a causa dello scarso interesse e delle limitate capacità di indagine del tempo, i materiali organici furono sistematicamente ignorati e i reperti ossei non adeguatamente analizzati. Lo studio dei reperti recuperati da questa necropoli, permette di gettare nuova luce sull’argomento.


Come di consueto per il periodo predinastico, i corpi venivano adagiati su una stuoia in posizione rannicchiata sul fianco sinistro e rivolti verso occidente. Venivano poi ricoperti da un sudario di lino e spesso protetti da ulteriori stuoie, che in alcuni casi potevano raggiungere il numero di dieci. Soltanto il 9% delle sepolture di Hk 43 è stato ritrovato intatto e, sulla base dei frammenti di ceramica rinvenuti in alcune tombe, si suppone che il saccheggio abbia avuto luogo a partire dall’epoca greco-romana, sino a quella medievale (XI secolo d.C.), per cui non è facile valutare l’entità del corredo di chi vi fu sepolto. Si sa, inoltre, da documentazione d’archivio, che anche Green condusse scavi sul posto e sono state recuperate ossa da lui contrassegnate.

Di 452 sepolture solo per meno della metà (210 circa) è possibile attribuire con certezza il corredo funerario, composto essenzialmente da ceramiche (per lo più da uno a tre vasi) in una gamma di forme piuttosto limitata: piccole giare nere, ciotole lucidate di rosso, bottiglie, pentole da cucina. In cinque tombe sono state recuperate tavolozze cosmetiche di grovacca, in quattro tracce di oggetti in rame (conservati in sacchetti indossati sul fianco principalmente da soggetti maschili) e in due (di bambini) delle perline. Il cibo era, invece, molto presente, trattandosi di un’offerta molto comune. Comprendeva pagnotte tondeggianti, frutti come meloni, “nebk” (simili a mele granchio prodotte dalla Ziziphus spina-christi) e il dattero del deserto che erano usuali omaggi d’addio. Nella tomba di una donna più anziana è stato rinvenuto un bulbo d’aglio completo, avvolto in un sacchetto, che conservava ancora il suo caratteristico odore dopo 5500 anni! Ad ogni modo, nonostante le condizioni alterate delle tombe sono state diverse fatte scoperte molto interessanti.


A sinistra: alimenti rinvenuti nella necropoli Hk43. In alto due forme di pane, al centro, al centro resti di melone. In basso a destra, frutti, commestibili, “nebk”, prodotti dalla Ziziphus spina-christi. In basso a sinistra, rinvenuto nella tomba di una donna anziana, un sacchetto contenente un bulbo d’aglio che conservava ancora il suo odore dopo circa 5500 anni! A destra: i frutti della Ziziphus spina-christi. Si tratta di un albero originario dell’Africa Settentrionale e tropicale. Sia i frutti che le foglie venivano utilizzati nell’Antico Egitto per la preparazione di cibi e nelle pratiche cultuali.
All’interno di una sepoltura (Tomba 333), appartenuta ad una donna di età compresa tra 40 e 50 anni, deposti vicino alla testa facevano bella mostra di sé quattro vasi completi che lasciavano presagire altri ritrovamenti interessanti.

La prima sorpresa fu una tavolozza di grovacca lavorata a forma di uccello deposta tra i gomiti e le ginocchia della salma, ma ancor più sorprendente fu il contenuto di un cesto di vimini. Questo cesto era pieno di oggetti straordinari: sollevato il coperchio apparve una serie di ciondoli in pietra, tra cui uno scolpito con le sembianze di un uomo barbuto, con la corda che li teneva insieme ancora conservata. Al di sotto questi reperti c’era una serie di strumenti ricavati da ossa di animali: un pettine per capelli in avorio, pezzi di galena (o kohl, minerale di piombo adoperato per il trucco degli occhi) e ocra da triturare come cosmetico sulla tavolozza con due pietre levigate, lamelle di selce, un arnese a forma di uncino ricavato da una conchiglia e pietre arrotondate il cui utilizzo rimane ancora ignoto. Inoltre, il cesto conteneva anche una borsa di pelle che conservava pezzi di resina e piccoli coni di fango assieme ad una sorprendente varietà di resti di piante, tra cui semi e tuberi, ma anche scaglie di cedro e ginepro importati che formavano uno straordinario miscuglio odoroso. Lo sforzo e la cura profusi in questa sepoltura indicano che la defunta era una donna molto importante, ipotesi avvalorata ancor di più dalla particolarissima acconciatura che ricorda in qualche molto quella dei Mohicani.



La maggior parte degli oggetti rinvenuti nel cesto è già nota da altri siti (un insieme di reperti simili fu rinvenuto nella tomba E381 ad Abydos, cfr. Naville, Cimiteri di Abydos I, pag.17, 1914), ma lo scopo e la funzione è ancora oggetto di discussione. Se esiste un filo conduttore che lega tra loro coerentemente questi oggetti un’ipotesi molto plausibile è che si tratti di una sorta di kit magico o medico e la donna potrebbe essere stata considerata una persona particolarmente saggia. Inoltre, l’esistenza di sepolture di bambini intorno alla sua tomba suggerisce che fosse considerata una forte presenza protettiva anche per un certo tempo dopo la sua morte.
Per lo più gli oggetti offerti nelle sepolture erano stati ampiamente usati in vita. Nella Tomba 209, occupata da una donna dell’età di circa 45 anni, il corredo era rappresentato da tre ciotole di ceramica rossa, una, molto profonda, di materiale marnoso e due recipienti di ceramica grezza il cui collo doveva essersi rotto durante l’utilizzo dal momento che i bordi furono molati prima di essere deposti. Erano presenti, inoltre, due vasi di pietra (uno di basalto e un altro di calcite gravemente scheggiato) ed un pettine di avorio che mancava già di un dente.


Tomba 209. Appartenuta ad una donna di circa 45 anni, presentava come corredo questi oggetti di uso comune (a sinistra). A destra: particolare del pettine in avorio, in cui è visibile la mancanza di uno dei denti, perduto, evidentemente, durante l’uso quotidiano.

Un’altra sepoltura degna di nota è la Tomba 412, appartenente ad un maschio di mezza età. Nonostante sia stata saccheggiata, i ladri hanno lasciato qualcosa. Avvolto in una pelle di animale e nascosto sotto i capelli ancora presenti sulla testa del defunto, è stato ritrovato un coltello di selce a coda di pesce ancora infisso nel suo manico di canna. Aveva ancora il suo fodero di cuoio sopra la lama a dimostrazione che questi oggetti non solo erano considerate armi pregiate, ma ritenute molto pericolose anche dopo la morte.
In altre tombe, il rispetto e la cura per i defunti si manifesta attraverso lo speciale trattamento del corpo. La scoperta in tre sepolture di spessi cuscinetti di lino, imbevuti di resina e sistemati con cura intorno alla mascella e alle mani, indicano una crescente preoccupazione per la salvaguardia del corpo e soprattutto della conservazione della sua capacità di nutrirsi nell’aldilà. I tre esempi ben conservati provengono da sepolture femminili, ma frammenti di queste protezioni sono stati ritrovati in numerose altre tombe pesantemente saccheggiate.

Questa sorta di tamponi è stata recuperata anche dalle tombe del cimitero di élite Hk6 suggerendo che un simile trattamento non era appannaggio esclusivo ed era riservato indifferentemente a soggetti di sesso e ceto diversi . Le evidenze indicano che avessero più lo scopo di salvaguardare l’articolazione che non l’aspetto fisico del defunto. Ciò non significa affatto che non fossero interessati ad apparire nel miglior modo possibile nell’altro mondo.


A sinistra: dalla sepoltura 16 proviene questa elaborata extension applicata ai capelli ingrigiti di un anziana donna e tinti con l’henné. A destra: la barba posticcia rinvenuta nella Tomba 54
Lo conferma il corpo di una donna piuttosto anziana (Tomba 16), i cui capelli brizzolati erano stati tinti con l’henné e laddove le ciocche si presentavano diradate erano state integrate con “extension” annodate alla capigliatura naturale fino a creare un’acconciatura elaborata. Tra l’altro, la vanità non era solo limitata alle donne: è stato ritrovato persino una specie di parrucchino, realizzato con pelle di animale, che è stato integrato ai pochi capelli naturali di un uomo con evidenti problemi di calvizie, ed anche una barba posticcia molto ben curata. Più difficili da spiegare sono i segni da taglio trovati sulle vertebre del collo di 21 individui che in alcuni casi evidenziano una completa decapitazione. Le persone coinvolte sono sia uomini che donne ed hanno un’età compresa tra i 16 e i 65 anni. A cinque di questi soggetti, tutti giovani, fu anche praticato lo scalpo.

E i loro crani presentano fino a 197 segni da taglio superficiale. L’azione è limitata esclusivamente alla calotta mentre i resti facciali e post-cranici sono perfettamente integri. Appare chiaro che lo scopo fosse unicamente quello di rimuovere il cuoio capelluto, ma per motivi sconosciuti. Lo stesso si può affermare per il taglio della gola. La posizione standard delle lacerazioni, sempre dalla parte anteriore del collo, solitamente tra la seconda e terza vertebra cervicale, unitamente alla mancanza di lesioni difensive, indica che questi segni non sono il risultato di crimini, guerre o atti violenti. Nelle poche sepolture intatte o quasi che presentavano individui sottoposti a tale trattamento, i crani sono stati trovati sul posto (Tombe 85 e 23) o risistemati in posizione corretta (Tombe 271 e 438). I segni dei tagli lasciano presupporre una completa decapitazione prima della ricollocazione al giusto posto. Le sepolture di questo tipo sono sparse lungo tutta la necropoli e appaiono del tutto identiche alle altre: né più ricche , né più povere. Si sono formulate alcune ipotesi per spiegare i motivi di questa procedura. Potrebbe trattarsi di una pratica rituale di smembramento, forse un precursore del mito di Osiride che fu dilaniato dal fratello Seth, ricomposto dalla moglie Iside e poi avvolto in bende da Anubi prima di raggiungere l’aldilà come sovrano del regno dei morti. Sappiamo, infatti, dai testi che più tardi sarebbero stati scritti, che la mummificazione era vista come una rievocazione degli eventi relativi alla morte di Osiride. D’altra, parte, siccome meno del 5% degli individui mostra prove di un simile trattamento, un’altra interpretazione porterebbe ad un’esecuzione capitale per crimini ritenuti particolarmente gravi e il corpo restituito alla famiglia per l’inumazione. Sembra da escludere, almeno in questa necropoli, l’ipotesi del sacrificio umano per scopi rituali, non mostrando le sepolture alcunché di particolare sia nella collocazione, sia nel contenuto.

Gli esami in corso sul materiale scheletrico rinvenuto in questo cimitero sono diventati oggetto di numerose tesi di dottorato e stanno fornendo moltissime informazioni sulla vita quotidiana di questi antichissimi abitanti di Ieracompoli. Quasi tutte le persone sepolte qui erano robuste, ben nutrite, muscolose e presentavano una buona dentatura. Le patologie sono rare e, per lo più, riferibili a fratture che, in alcuni individui, interessano il cranio, evidente risultato di gravi colpi inferti alla testa. Da queste lesioni qualcuno e guarito, per altri sono risultate fatali. Si può ragionevolmente concludere che la vita nell’antica Nekhen non sempre fosse pacifica, ma la qualità generale è da ritenersi decisamente e sorprendentemente buona per l’epoca.
Fonti:
- Friedman, RF, 1999. Il cimitero predinastico a HK43 in: Friedman, RF; Maish, A.; Fahmy, AG; Darnell, JC & Johnson, ED, Rapporto preliminare sul lavoro sul campo a Hierakonpolis: 1996-1998. Journal of the American Research Center in Egypt 36 (1999): 3-11.
- Friedman, RF; Watral, E.; Jones, J.; Fahmy, AG; Van Neer, W. & Linseele, V., 2002. Scavi a Hierakonpolis. Archeo-Nil 12: 55-68.
- Immagini tratte da Hierakonpolis, la città del Falco, sito internet “hierakonpolis-online.org”
L’INSEDIAMENTO HK11
La località denominata HK 11 presenta una delle maggiori concentrazioni di insediamenti predinastici dell’area di Ieracompoli e si trova ad una distanza di circa 1,5 Km dal limite delle coltivazioni moderne sulla sponda meridionale del Grande Wadi (Wadi Abu Suffian). Si estende per oltre 68.000 mq. e presenta diverse zone di attività. I resti di abitazioni e attività domestiche sono concentrati ad est, mentre ad ovest si trovano stabilimenti per la produzione della birra e della ceramica. A sud sono presenti una necropoli ampiamente depredata (HK 11E) e la serie di petroglifi (arte rupestre) denominata HK 61. Il perché di in insediamento in posizione così elevata è ancora oggetto di studio, ma è particolarmente interessante la condizione del sito che si presenta relativamente poco alterato. Infatti, le aree più prossime alle coltivazioni sono state profondamente snaturate dall’operato degli agricoltori che hanno scavato gli antichi materiali organici (sebakh) da utilizzare come fertilizzante per i campi, lasciando sul posto, la parte più bassa del deserto, solo una serie di cumuli e pozzi pieni di sabbia. La superficie di HK11 si presenta invece liscia con la sola evidenza di una lieve dispersione di frammenti ceramici. Al di sotto giacciono depositi ben conservati e per lo più stratificati. (Fig.1).

Da fotografie d’archivio del Metropolitan Museum of Art di New York, siamo a conoscenza di scavi intrapresi da Ambrose Lansing nel 1934 di cui non sappiamo molto. In una grotta nelle falesie che si elevano dietro il sito rinvenne un deposito di ceramiche, ora in mostra al Metropolitan Museum, (Fig. 2 ) ed esplorò il birrificio, ma è difficile determinare esattamente cosa vi abbia trovato.

La località fu successivamente esplorata da J.F. Harlan tra il 1978 e il 1979 che operò uno scavo iniziale in un’area, oggi conosciuta come Operation A, in cui ha scoperto una vasca ben conservata circondata da barre tagliafuoco, ed in altre aree ad ovest di un complesso di produzione di birra e ceramica ora noto come Operation B. Ma di sicuro la scoperta più interessante è venuta dallo scavo di un cumulo di rifiuti situato all’estremità meridionale del sito che ci ha restituito, conservati tra i vari livelli dei detriti, evidenze dello stile di vita degli abitanti che vi stanziarono tra il 3800 e il 3600 a.C. circa. La trincea di scavo prodotta, denominata Trash Mound A (Cumulo di Rifiuti A) aveva una dimensione di m. 2×3 per una profondità di m. 2,15 fino ad incontrare, dopo aver attraversato 20 livelli di accumuli stratificati, il terreno vergine. Gli strati erano composti da strisce di terra sottili e discontinue frammiste a materiale culturale, botanico e faunistico: un mix costituitosi nel tempo attraverso lo scarico di piccole quantità di rifiuti. Il materiale ceramico, per la maggior parte dell’accumulo, indica una datazione compresa tra Naqada IC e IIA (ca. 3800-3700 a.C.) e la natura del vasellame e dei depositi in generale suggeriscono che, prevalentemente, è precedente alle intense attività industriali di produzione di birra e ceramica scoperte nel corso delle Operazioni A e B. Nel complesso il materiale rinvenuto sembra provenire da rifiuti generati dalle attività domestiche dal quale è possibile ricavare molte e interessanti informazioni (Fig. 3).

Il dott. Ahmed Fahmy (Helwan University) si è occupato delle analisi dei residui botanici che sono stati identificati come varietà di grano e pula di farro, le principali colture per l’alimentazione umana. Erano presenti anche resti di orzo, di lino, utilizzato come coltura tessile e i cui semi, probabilmente, furono anche usati come foraggio per gli animali. Non mancavano semi di meloni coltivati e frutti selvatici commestibili (Balanites aegyptiaca, Citrullus colocynthis e Ziziphus spina-christi), che arricchivano la dieta di zuccheri e carboidrati. (Fig. 4).

La presenza di semi frutti e foglioline di erbacce campestri e di piante del deserto si è rivelata utile per ricostruire quell’antichissimo ambiente e le pratiche agricole. Ad esempio, la presenza abbondante di erbe infestanti tra i rifiuti delle colture di cereali, ha permesso di capire a grandi linee come avveniva la raccolta. Sembra che gli steli venivano tagliati ad un’altezza di 40 cm dal suolo. La stoppia era lasciata nel terreno come fertilizzante. I dati rilevati ben si accordano con il metodo di mietitura che sarà in seguito così ben illustrato in molti rilievi tombali. Inoltre, è stata rilevata una notevole presenza di resti di piante del deserto nei livelli inferiori del deposito, che diventa molto più rada in quelli superiori. Tutto ciò supporta le ipotesi paleo climatologiche e archeologiche di un inaridimento avvenuto dopo il 3500 a.C. E’ del tutto probabile, inoltre, che il taglio intensivo di alberi per fornire carburante per la produzione della birra, abbia ulteriormente influito sulle alterazioni ecologiche. Nel complesso, lo studio del Dr. Fahmy dimostra che l’economia Ieracompolitana durante il periodo predinastico era prevalentemente basata sulla coltivazione di farro ed orzo. Erano entrambi coltivati in inverno e se ne ricavava un unico raccolto annuo. I campi si estendevano nella pianura alluvionale, ma è ancora argomento di discussione un’ eventuale attività agricola negli wadi prima che il clima subisse un ulteriore inaridimento. Farro ed orzo venivano consumati dall’uomo e i loro sottoprodotti (paglia e pula) venivano utilizzati come nutrimento per il bestiame. Sia gli uomini che gli animali hanno sfruttato risorse alimentari selvatiche per integrare la loro dieta. Questa ricostruzione è avvalorata dall’analisi delle offerte di cibo e del contenuto gastrico recuperato soprattutto nel cimitero HK43, la necropoli dei lavoratori illustrata precedentemente.
LA CASA DELL’OPERAZIONE G


Dopo la scoperta della casa bruciata nel settore HK29 da parte di Michael Hoffmann nel 1978 (vedi paragrafo “le esplorazioni della seconda metà del novecento” su https://laciviltaegizia.org/…/i-siti-predinastici…/), la Spedizione ha cercato di rintracciare ed esaminare altre abitazioni simili. Le ricerche in tal senso hanno comportato una serie di interessanti scoperte (ad esempio il centro cerimoniale HK29A, che è stato descritto nello stesso paragrafo), ma le tracce di un ambiente esclusivamente domestico erano rimaste piuttosto vaghe, fino a quando un’ampia indagine magnetometrica, condotta da Tomasz Herbic nel 1999 in un settore non alterato di HK11, ha rilevato una serie di anomalie che indicavano la chiara presenza di resti di insediamenti sepolti.



A sinistra: si riporta alla luce il recinto di stuoie e pali a HK11. Lo spago che ancorava la stuoia ai pali era ancora al suo posto. (Fase III)A destra: particolare della recinzione con stuoia

Per la maggior parte si sono scoperte evidenze legate all’industria della birra, ma nella parte orientale, in quella che ora viene chiamata “Operation G”, ci si è imbattuti in un insediamento domestico. Gli scavi condotti nel 2000-2001 da Ethan Watrall hanno portato alla luce parte di un’unità residenziale contenente vari pozzi di stoccaggio ed elementi distintivi di caratteristiche domestiche delimitati da una recinzione in legno straordinariamente ben conservata. Seguendo la stratificazione è stato possibile ricostruire sei episodi occupazionali che si sono succeduti con relativa continuità dal periodo Naqada IC a Naqada IIB, con posteriori episodi di smaltimento dei rifiuti durante Naqada IIC.
La Fase I caratterizza la prima occupazione domestica. Il materiale ceramico rinvenuto ha permesso di datarla al periodo Naqada IC-IIA e appartengono a questa fase evidenze costituite da un pavimento sub-rettangolare circondato da una trincea di fondazione per un muro lungo il bordo settentrionale. Sono presenti buche per pali e numerose postazioni per pentole poco profonde. Una serie di piccoli elementi circolari, è da associare, con tutta probabilità, a buche in cui erano infissi piccoli pali non portanti. E’ presente, inoltre, un grande focolare rivestito in pietra e accanto ad esso, sul pavimento, era stata posata una stuoia di canne. Nelle immediate vicinanze è stata identificata un’area per la preparazione dei cibi: conservava una grande macina ovoidale in quarzite ed una piccola fossa di stoccaggio rivestita di fango grigio. La Fase II è caratterizzata soprattutto da pozzi per la raccolta di rifiuti che attraversano la base dell’abitazione della Fase I. Contenevano essenzialmente sedimenti di colore grigio e marrone scuro frammisti ai quali era riconoscibile una grande quantità di materiale faunistico, ceramico, litico ed elevate quantità di carbone e resti botanici. E’ ragionevole supporre che la struttura della Fase I sia stata brevemente abbandonata e l’area utilizzata per lo smaltimento dei rifiuti.

Alcuni esempi di ceramica della linea C di Petrie: insieme ad elementi in rosso e nero lucido, permettono di datare la prima fase di occupazione a Naqada IC. In questa fase il vasellame temperato con paglia era limitato ed appare essenzialmente sotto forma di grandi vasi per la conservazione e ciotole che sarebbe stato difficile produrre con agglomerati più densi o ruvidi. Le pentole erano per lo più costituite da ceramiche temperate a scisto. Questi vasi realizzati in casa, dall’esterno duro e levigato ad umido, erano senza dubbio più difficili da realizzare rispetto ai vasi temperati con paglia, ma erano chiaramente più adatti all’uso. Le superfici esterne erano meno porose e la tempra dello scisto favoriva la stabilità termica consentendo al vaso di resistere agli sbalzi termici senza rompersi, per un tempo molto più lungo. Dai numerosi esempi rinvenuti con fori di rammendo, si intuisce che il valore di questo vasellame di produzione domestica era altamente riconosciuto. Tuttavia, alla fine prevalsero le pentole da cucina prodotte in serie. Entro la fine della Fase V i vasi fatti in casa sparirono quasi del tutto.
Il secondo periodo abitativo (Fase III) ha portato un significativo cambiamento dell’assetto architettonico. In particolare, fu aggiunta una recinzione di pali e canne, che correva per l’intera lunghezza del lato sud (20 metri) dello scavo, realizzata con oltre 40 pali di acacia. Lunghi tratti di stuoia di canna furono fissati con una sorta di spago e rivestiti sul versante meridionale con un leggero strato di fango. Un’apertura, nei pressi dell’estremità occidentale della recinzione, serviva probabilmente da accesso ad un recinto o cortile le cui dimensioni non sono ancora state determinate. La recinzione racchiudeva un pavimento grigio duro e compatto con un focolare rivestito di pietra e circondato da terra rossastra e molta cenere. Incastrati nel pavimento, sono stati rinvenuti aghi ed un amo in rame finemente lavorati. Nonostante fossero stati lungamente utilizzati, hanno mostrato un notevole stato di conservazione. L’amo è di particolare interesse se si considera che l’abitazione si trova attualmente a circa 4 Km, dalla sponda del Nilo. Nel settore nord-occidentale erano presenti cinque buche rivestite di fango. Le due più profonde potrebbero essere state destinate alla conservazione, mentre le altre tre, poco infossate si può ragionevolmente associarle a collocazioni per vasi. In alternativa, considerando i depositi di cenere e le numerose “torte di sterco” rinvenute (utilizzate come combustibile), si può supporre che fossero utilizzate come aree di cottura dei cibi.
I resti litici non danno alcuna indicazione di una manifattura specializzata. Il predominio dei pezzi riadattati indica un utilizzo estremamente pratico e il basso numero di strumenti specialistici suggerisce situazioni che privilegiano piuttosto la quantità. Mentre una dotazione per un sito di allevamento o un’area industriale, ad esempio, sarebbe focalizzato su un insieme specifico di classi di strumenti, un’attrezzatura domestica riflette la fluidità e semplicità dell’attività che è caratteristica di una famiglia. I reperti includono la sezione centrale di una statuetta di animale in pietra scheggiata, tre frammenti di piccole teste di mazza in pietra discoide e un frammento di un vaso cilindrico in pietra calcarea con una piccola ansa verticale. Nell’illustrazione il frammento di selce in origine a forma di animale (forse un ippopotamo)

La successiva fase occupazionale (Fase IV) è caratterizzata da un accumulo relativamente esteso di rifiuti, lungo la recinzione con stuoie, che è stata successivamente ricoperta da una seconda pavimentazione grigia (Fase V).
Durante questa fase è continuato l’accumulo di scarti lungo la recinzione ed in particolare nei pressi dell’ingresso. La presenza tra i rifiuti di grosse quantità di escrementi animali, suggerisce che in quella parte del complesso, in quel determinato periodo fossero tenuti bovini e altri animali domestici. L’intera superficie dell’abitazione non è ancora stata determinata in quanto la parte meridionale risulta fortemente rimaneggiata. Tuttavia, in base all’estensione dell’area del cortile scavato, deve ritenersi senz’altro abbastanza spaziosa. La fase finale (Fase VI) è rappresentata da una grande fossa di rifiuti che è stata scavata dalla sommità dell’abitazione sino ai sedimenti dello wadi sottostante. La fossa, profonda circa 86 cm., conteneva materiale ceramico risalente a Naqada IIC ed è stata scavata sicuramente dopo l’abbandono della casa. I resti ceramici stratificati forniscono un’importante indicazione sul mutare, nel tempo, dei metodi di fabbricazione. E’ rintracciabile un graduale cambiamento nella produzione domestica di vasellame in quanto da materiali temperati in scisto si passa ad una serie di articoli da cucina prodotti in serie e temperati con paglia.

I resti animali (circa 4000 elementi) sono stati esaminati da Wim Van Neer e Veerle Linseele. Il materiale era ben conservato e comprendeva corna, zoccoli (nell’immagine) e, in alcuni casi, anche pelli. Predominano le specie domestiche tradizionali (bovini caprini e, in minor misura suini), ma erano presenti anche resti faunistici derivanti dalla caccia come gazzelle (Gazella dorcas), ippopotami (Hippopotamus amphibius), volpi (Vulpes rueppelli) e coccodrilli (Crocodylus niloticus). Tra le specie ittiche le più comuni erano il persico del Nilo (Lates Niloticus) il pesce gatto (Synodontis) e la tilapia nilotica (Oreochromis niloticus)
Nella Fase I, le stoviglie pregiate nere e rosse lucidate costituivano il 42% del totale, quelle temperate con paglia il 40% e le ceramiche di scisto realizzate in casa il 18%. Entro la Fase III i valori si attestano rispettivamente al 20%, 73% e 6%. Nel tempo la ceramica temperata con paglia diventa sempre più diffusa sino a costituire oltre l’85% del totale rinvenuto tra i rifiuti della fossa relativa alla fase VI (Naqada IIC). Riguardo a questo insediamento, sono ancora molte le domande che attendono risposta. Ancora non si sa con certezza chi l’ha abitato (pastori, contadini, ceramisti o forse birrai?) e per quale ragione (per servire il culto funerario della necropoli d’élite HK6 o, più semplicemente, per trovare un rifugio temporaneo durante le inondazioni?). Va pure rilevato che da una delle fosse sono state recuperate le ossa di un bambino e ciò suggerisce una sepoltura avvenuta sotto il pavimento della casa, secondo un uso ben attestato anche nel sito contemporaneo di Adaima.In ogni caso, l’esplorazione di quest’area sta aprendo una finestra affascinante sulla vita domestica di quell’epoca così remota.
L’AREA INDUSTRIALE HK11C
Su un terrazzamento che fiancheggia il lato meridionale del Great Wadi (Wadi Abu Suffian), si estende una vasta area che è stata denominata HK11C. E’ ubicata di fronte e leggermente più a sud-ovest del cimitero d’élite Hk6 che è già stato esaminato in precedenza. La parte orientale di questa località ha fornito prove dell’esistenza di un insediamento urbano, mentre in quella occidentale sono state rinvenute per lo più attività industriali. Si tratta principalmente di centri per la produzione della birra e di ceramiche le cui dimensioni sono state valutate in base alle grandi quantità di ceneri e detriti depositati in cumuli, fosse ed altre strutture apparentemente andate in disuso. Le indagini in questa zona sono iniziate nel 2003 ed hanno interessato due aree adiacenti denominate Operation A e B di cui ci occuperemo separatamente. Le caratteristiche osservate nel corso dei primi dieci anni di scavi stupiscono per il loro livello di conservazione e per quanto possano aggiungere alle conoscenze sulle produzioni industriali in epoca predinastica. (Immagine n. 1)

HK11C Operazione B
Gli scavi dell’Operazione B sono stati intrapresi per la prima volta nel 2003 a seguito di una forte anomalia evidenziata dai rilievi magnetometrici. Le indagini condotte da Masahiro Baba dal 2004 al 2009 hanno mostrato almeno due distinte fasi di occupazione.Il livello superiore, risalente con tutta probabilità alla seconda metà di Naqada II, era caratterizzato da una struttura a fornace (denominata Forno A) del tipo a piattaforma, composta da fango molto arso nella quale erano state ricavate numerose buche di cottura, aperte su un lato. Poco più a nord erano presenti i resti di una struttura rettilinea simile ad una recinzione di pali lignei. Tutto all’intorno erano presenti i resti di frammenti lavorati in forma ovale, apparentemente utilizzati nelle fasi di produzione di ceramiche. Per lo più erano contenuti all’interno di vasi conici sistemati verticalmente in appositi alloggiamenti della pavimentazione. Il più grande conteneva ben 554 frantumi di questi utensili di coccio. I depositi di attrezzi e la fornace suggeriscono che la fase di occupazione del livello superiore fosse associata all’attività produttiva di ceramica , mentre la recinzione in legno poteva far parte dell’abitazione ovvero dell’officina di un vasaio (Immagini nn. 2-3-4-5).
2. Operazione B, livello superiore: I forni per la produzione di ceramica. 3. Mappa del livello superiore dell’area di scavo Operazione B 4. Frammenti di utensili 5. Uno dei depositi di strumenti di coccio.
Nel livello inferiore, databile alla prima metà del periodo Naqada II sono stati identificati cinque forni a fossa. Accanto a ciascuno di essi era presente un segmento di muro alto circa 30 cm. realizzato con pietre e fango. Le cavità avevano un diametro medio di 60-70 cm. e contenevano detriti da fornace costituiti da carbone, cenere, lastre di pietra, frammenti e detriti di fango bruciato. Una plausibile ricostruzione delle tecniche di cottura suggerisce che le fosse, una volta riempite di combustibile e vasellame, venissero poi ricoperte con una specifica sovrastruttura composta da cocci cementati insieme a fango. Da un’attenta valutazione delle condizioni del terreno bruciato intorno alle fornaci, è risultato chiaro che funzionassero individualmente. (Immagini 6-7-8-9-10).
6. HK11, Operazione B: mappa del livello inferiore 7. Veduta del livello inferiore. 8. Scavi in corso nel livello inferiore 9. Esperimento di cottura sperimentale in un forno ricoperto di fango. 10. Il risultato dell’esperimento.
Subito a nord dei forni erano presenti cinque tini a vasca, più o meno ben conservati, contenenti, tra gli altri possibili alimenti, residui della cottura del grano per la produzione della birra. Erano disposti su due file e circondati su due lati da pareti intervallate da aperture. Avevano conservato un’altezza variabile da 40 a 60 cm. ed un diametro compreso tra 60 e 85 cm., ma essendo privi della parte superiore dovevano originariamente essere più alti e larghi. Inoltre, a giudicare dalla quantità di frammenti ritrovati in una fossa, doveva essere presente un altro tino che probabilmente fu successivamente rimosso. (Immagini nn. 11-12).


Sebbene differissero per dimensioni, la loro realizzazione e il tipo di supporto era del tutto simile. Veniva alloggiato in una fossa poco profonda e sorretto da alcune pietre. Quindi all’esterno della vasca si realizzava una copertura di cocci e fango. Alla base, un anello di frammenti di coccio e cemento di fango creava uno spazio protetto per il fuoco. Alcune aperture praticate in questi anelli consentivano l’inserimento del combustibile ed la circolazione d’aria. E’ evidente che questi impianti a vasca erano pensati per riscaldare qualcosa ed in grande quantità. Aderente alle pareti interne era presente uno spesso strato di residuo nero lucido. L’esame botanico preliminare ha rilevato che conteneva, malto di farro; non vi è alcun dubbio, quindi che i tini venissero utilizzati per riscaldare cereali mescolati con acqua. Il prodotto finale poteva essere una sorta di polenta oppure birra. Lo spesso rivestimento esterno di fango suggerisce che con tutta probabilità, fosse la birra il prodotto finale dell’operazione. Infatti, nella sua produzione è richiesto che il mosto sia riscaldato a temperature relativamente basse (intorno ai 70 °C). Una ricostruzione sperimentale ha dimostrato che in una struttura configurata come quella rinvenuta in Operazione B, l’interno della tinozza, ricoperta di frammenti e fango non poteva raggiungere la temperatura di 100 °C. Mettendo insieme i vari elementi la struttura sembra essere stata un impianto integrato per la produzione di birra, con i forni a fossa per la realizzazione delle vasche in cui sarebbe stata successivamente trattato e contenuto il prodotto finale.
Dopo che i tini a vasca rimasero inutilizzati e completamente ricoperti dall’occupazione del livello superiore, la produzione di questi recipienti continuò per rifornire attività presenti in aree diverse: con tutta probabilità quella evidenziata dagli scavi dell’Operazione A di cui ci occuperemo in seguito.
Nell’area immediatamente a ovest, gli scavi di J.F. Harlan, condotti nel 1978, hanno rivelato diversi elementi che potrebbero essere associati alla lavorazione del grano. La presenza di un abbeveratoio e di un vasca di fango, inizialmente ritenuti una mangiatoia per animali, potrebbero essere stati destinati al trattamento per ricavare il malto dai cereali, sebbene ciò non possa essere confermato. D’altra parte nelle vicinanze è presente una grande dispersione di pula di grano e altri cereali. Durante gli scavi di Operazione B sono stati recuperati ingenti quantità di frammenti composti di limo del Nilo temperato con paglia. La forma più comune è quella di vasi con bordo modellato. Oltre il 60% del materiale emerso era riconducibile a questo tipo di vasellame, pertanto è ragionevole presumere che fosse il prodotto principale delle fornaci rinvenute nel corso dell’Operazione B. Vasi con corpi di medie dimensioni e basi piatte sono stati rinvenuti dentro e intorno ai forni a fossa e nelle strutture per i tini del livello inferiore dell’area: sono strettamente correlabili a quelli delle tombe d’élite di HK6, tutti databili tra Naqada IC e IIB (Immagine n. 13).
Inoltre, il test al radiocarbonio del residuo interno alla tinozza n. 4 ha restituito una data compresa tra 3762 e 3537 a.C., perfettamente corrispondente al periodo in questione e molto vicino alle datazioni fornite dal radiocarbonio per la Tomba 16 di quella necropoli. Questi dati suggeriscono che questo potrebbe essere il birrificio più antico del mondo, fino ad oggi conosciuto. E’ anche interessante notare che le attività dell’Operazione B sembrano essere iniziate contemporaneamente alla fondazione dei grandi complessi cimiteriali d’élite in HK6. E’ probabile che questo birrificio di dimensioni ridotte rispetto a quelli in prossimità delle coltivazioni, sia stato istituito per provvedere ai riti funebri.
HK11C Operazione A

Nel 2003, sotto la direzione di Izumi Takamiya sono iniziati gli scavi in un’area poco più a nord (settori A 6-7 della mappa). Nel 1979 JF Harlan, vi aveva scoperto quelli che riteneva i resti di un forno a pozzo per la produzione di ceramica e, nel 1999, l’indagine magnetometrica rivelò, anche in questo caso, una forte anomalia, indizio della probabile esistenza di ulteriori forni sotterranei. Inoltre, in superficie, erano visibili porzioni di una struttura semicircolare, molto erosa, riconducibile ad una fornace. Ci si aspettava quindi di riportare alla luce elementi funzionali alla produzione di vasellame, ma ciò che si trovò era, invece, un birrificio o comunque un locale adibito alla cottura di cereali, piuttosto che dell’argilla (Immagine n. 1).
Situato ai margini della terrazza del wadi, lo scavo ha fatto emergere un grande impianto di riscaldamento semi-sotterraneo e sebbene i livelli superiori fossero stati distrutti, era abbastanza percepibile quella che poteva essere la pianta generale (Immagine n. 2).

Il complesso presentava originariamente una forma rettangolare ed era delimitato da almeno tre muri sui lati est, sud e ovest. Se mai sia esistita una parete nord, questa deve sicuramente essere stata demolita dalla successiva azione dell’acqua che si incanalava nel wadi. Di dimensioni approssimative di 3 metri da est a ovest ed almeno 7 metri da nord a sud presenta, incorporata nella parete meridionale, una caratteristica forma ad U, avente probabilmente le funzioni di canna fumaria per favorire la ventilazione. All’interno delle mura sono state scoperte otto configurazioni circolari, con un diametro di circa 100-120 cm., disposte su due file parallele lungo l’asse nord-sud. E’ possibile che altri due o più elementi di questo tipo fossero presenti all’estremità settentrionale, ma il pavimento gravemente eroso non ne ha conservato traccia. (Immagine n. 3).
Il meglio conservato di questi elementi si è rivelato quello denominato Feature 12, che presentava 13 barre taglia-fuoco (con le parti superiori spezzate) ancora in situ, posizionate verticalmente, con una leggera inclinazione verso l’interno, ed infisse per una decina di cm. nei depositi naturali. Erano disposte in quattro cerchi concentrici attorno ad un piccolo deposito di sabbia sul quale, un tempo, trovava alloggiamento una vasca di ceramica, i cui frammenti erano dispersi nei livelli superiori della struttura. (immagini n. 4-5).


Barre antincendio sono state rinvenute in tutta l’area: presentano un’estremità appuntita e una parte superiore a forma di cuneo, mentre la sezione trasversale ha una forma a D.
Le misure sono diverse, variando da un minimo di 54 cm. ad un massimo di 64 cm. Nella disposizione le più corte erano posizionate più vicine al centro mentre le più lunghe verso l’esterno (Immagine n. 6).

La ricostruzione della collocazione originale della vasca, operata sulla base delle evidenze scoperte, suggerisce che per sostenerla erano necessarie 24 di queste barre, il che rappresenta un impegno notevolmente più oneroso, rispetto al metodo di supporto con frammenti e pietre utilizzato nella vicina struttura HK11 Operazione B, analizzata in precedenza (Immagine n.7) .

Come nell’esperimento condotto in Operazione B, la vasca prima di essere posizionata è stata rivestita con fango e frammenti per proteggerla dall’eccessivo calore e dalle conseguenti incrinature. Ma In questo caso, risultava evidente che, per mantenere gli elementi al loro posto era stata avvolta una corda. Infatti, su numerosi frammenti della vasca, ne erano ancora visibili i resti carbonizzati posizionati ad intervalli di 5 cm. I bordi a forma di cuneo delle barre sono stati adattati intorno alla vasca e fatti aderire con il fango (Immagine 8).

Sono visibili i fori per il passaggio di quest’ultima
Le pareti del complesso semi-sotterraneo erano rivestite con grossi frammenti di lastre ceramiche quadrate, cementate con intonaco di fango. Sebbene nessuna di loro fosse completa, risulta evidente che misurassero anche più di 70 cm. per lato per uno spessore di circa 10 cm. E’ chiaro che queste lastre giocassero un ruolo importante nella struttura, del quale ad oggi ancora non si è in grado di fornire spiegazioni (Immagine n. 9).

Il pavimento era completamente ricoperto da un sottile strato di cenere bianca adagiata su una superficie che era stata livellata dai depositi naturali formatisi nei letti di wadi pleistocenici. Per una profondità di 20 cm. il suolo sottostante si presentava intensamente arrossato, segno evidente di un’esposizione al calore intensa e prolungata. Lungo le pareti est e ovest sono stati ritrovati massicci depositi di carbone comprendenti resti di grossi tronchi arsi. Per lo più formavano dei veri e propri cumuli prominenti tra le barre tagliafuoco di cui si è parlato. L’alta concentrazione di combustibile rinvenuto lungo le pareti e l’uniformità dell’arrossamento sotto lo strato di cenere, suggeriscono che all’interno della struttura tutte le postazioni venissero riscaldate contemporaneamente (Immagine n. 10).

Installazioni che presentavano vasche supportate da barre sono state rinvenute ad Abydos, Mahasna e Tell el-Farkha. La struttura e le postazioni dell’Operazione A sono del tutto simili ai complessi scavati ad Abydos nei pressi dell’Osireion da Eric Peet all’inizio del XX secolo (Peet 1914; Peet & Loat 1913). Ad Abydos i complessi erano formati da strutture rettangolari contenenti almeno 23 supporti per i tini. Peet riferì che le grandi vasche della struttura vicina all’Osireion erano sostenute da barre tagliafuoco di diverse lunghezze poste concentricamente attorno ad esse e ricoperte da fango bruciato, in maniera del tutto analoga a quelle rinvenute nel corso dell’Operazione A. Valutò che gli impianti fossero forni per l’asciugatura dei cereali, mentre a Mahasna una configurazione simile era stata considerata da John Garstang come un forno per la ceramica. In seguito, J. Geller suggerì che fossero utilizzati per la produzione di birra, ipotesi confermata dall’analisi dei residui trovati all’interno dei tini a Hierakonpolis e Tel el-Farkha.Il metodo di utilizzo dell’installazione di Operazione A, con impiego massiccio di manodopera rispetto a quelli di Operazione B e HK 24A (vedi paragrafo “Le esplorazioni della seconda metà del novecento” https://laciviltaegizia.org/…/i-siti-predinastici…/), suggerisce che l’impiego di barre tagliafuoco abbia apportato notevoli vantaggi, anche se al momento non è ancora chiaro quali potessero essere. Nell’insieme l’impianto di Operazione A appare molto più pianificato è ciò potrebbe essere dovuto alla sua età posteriore e al conseguente sviluppo di nuove tecnologie.
I complessi di Abydos erano datati al tardo predinastico (Naqada III) ed una data simile può essere attribuita all’installazione dell’Operazione A, anche se il campione su cui è stato applicato il metodo al radiocarbonico C14 appare piuttosto problematico. Tuttavia è evidente che corrisponde al rinnovamento dell’attività funeraria nel cimitero d’élite HK6 e suggerisce che la fabbriche di birra dello wadi furono realizzate per approvvigionare i culti funerari delle classi agiate.
I PETROGLIFI – INTRODUZIONE
Fonti per testo e immagini: sito internet “hierakonpolis-online.org”; sito internet “interactive.archaeology.org”

Per lungo tempo si è pensato che a Ieracompoli, diversamente che a El-kab, situata sulla sponda orientale del Nilo, la presenza di incisioni riconducibili all’arte rupestre predinastica fosse davvero esigua.
Grazie alle indagini avviate da Fred Hrdtke (Immagine n. 1) nel 2009, si è invece dimostrato che non è così. Su un lato della collina che si erge tra uno wuadi laterale e lo Wadi Abu Suffian (Località HK61), già nel 1979 era stato rinvenuto un gruppo di petroglifi: una bellissima barca (che poi sarebbe diventata il logo della spedizione) faceva bella mostra di sé in una fenditura naturale della roccia (Immagine n. 2).
Sulle pareti opposte erano presenti altre tre barche a forma di falce con elaborate prue con testa di animale e sopra due di esse sono riconoscibili incisioni di animali, uno dei quali è sicuramente un toro (Immagine n. 3). Sempre nello stesso luogo c’è una giraffa finemente scolpita, ma non è chiaro se sia stata realizzata prima o contemporaneamente alle barche, ritenute tutte di epoca tardo predinastica (Immagine n. 4).


Una successiva esplorazione in località HK61 ha rivelato la presenza, su un’altra fenditura rocciosa situata nelle vicinanze, di una scena di una scena processionale con barche e animali altrettanto elaborata, ma in scala minore. Queste figure furono realizzate picchiettando la superficie, piuttosto che scolpendola. Oggi si presentano poco visibili e sfortunatamente sono stati danneggiate dai cavatori prima che la decorazione potesse essere completamente ricopiata. (Immagine n. 5).

Nella stessa località, sono stati rinvenuti petroglifi che rappresentano un minuscolo elefante (Immagine n. 6) ed una figura umana aggiogata (Immagine n. 7). Iscrizioni e petroglifi di epoca successiva sono sparsi in altri luoghi del sito. In un’altra fenditura presso la necropoli HK6, i sacerdoti del Nuovo Regno hanno inciso i loro nomi e titoli; anche all’estremo confine meridionale del sito sono presenti incisioni che riportano serie di nomi di sacerdoti.


L’INDAGINE SULL’ARTE RUPESTRE
Da tempo l’area di Ieracompoli è soggetta ad una massiccia attività di estrazione di risorse minerarie; in particolare fosfati, ghiaia e pietra per uso edilizio. L‘innalzamento della falda freatica ha accresciuto la richiesta di tali risorse, soprattutto per quanto riguarda la pietra da costruzione, al fine di approntare solide fondamenta per le nuove abitazioni. La facilità di accesso alle falesie che attraversano la metà occidentale del sito, ha portato alla distruzione di molte aree che, potenzialmente, avrebbero potuto conservare tracce di arte rupestre. L’esempio più clamoroso e devastante dei danni apportati dall’attività estrattiva è senza dubbio quello verificatosi nei pressi dei petroglifi delle barche nel settore HK61, situato in un affluente del Wadi Abu Suffian. I cavatori, nel processo di estrazione e riduzione di un blocco di arenaria hanno distrutto degli stambecchi meravigliosamente incisi che facevano parte di una scena più ampia di barche ed animali. (Immagini n. 1-2).


A sinistra: immagine n. 1 Il lato nord del masso spaccato a HK61b (prima), decorato con una scena intricata di animali (Credits: Fred Hardtke, Archaeology’s InteractiveDig). A destra: immagine n. 2 La stessa roccia dopo che i minatori hanno cercato di romperla per rimuoverla. (Credits: Fred Hardtke, Archaeology’s InteractiveDig)
E’ praticamente impossibile presidiare tutte le zone del sito archeologico. Per poter ridurre l’impatto delle attività estrattive si è ricorso alla ricognizione delle aree interessate provvedendo ad un’accurata registrazione di quanto rimane e cercando di ostacolare l’accesso ai minatori, ove possibile, per guadagnare un po’ di tempo. Nelle poche settimane della stagione in cui Fred Hrdtke ha operato, è riuscito a individuare resti di arte rupestre sparsi su un’area di 2.375Kmq., di cui 0,75 Kmq. accuratamente censiti. L’indagine ha permesso di censire 57 siti che sono andati a costituire un totale di 165 pannelli di petroglifi caratterizzati dalla seguenti figure: Figure umane: 2%
Animali, tra cui giraffe, mucche, uccelli: 10%
Barche: 4%
Scritte in geroglifici e altri segni: 4%
Simboli astratti che includono linee graffiate, a volte in schemi intricati: 80% La maggior parte dei siti (76%) si trova nelle aree a sud e ad ovest della collina di località HK11, sul lato meridionale del Wadi Abu Suffian e del piccolo wadi che corre accanto agli elaborati petroglifi di barche presso HK61. (Immagini 3-4-5).



A sinistra: Immagine n. 3 I nuovi petroglifi trovati in questa stagione erano di tutte le dimensioni, alcuni piuttosto piccoli. Al centro: Immagine n. 4 Questo intrigante disegno astratto è stato rinvenuto in diversi luoghi intorno al sito. A destra: Immagine n. 5 Quasi la metà dell’arte rupestre è ubicata in ripari rocciosi. (Credits: Fred Hardtke, Archaeology’s InteractiveDig)
I petroglifi più noti ad Ieracompoli sono le barche e la giraffa descritte in precedenza. Le barche sul masso nord e la giraffa su quello sud sono state documentate in facsimile; viceversa, la barca sulla rupe sud non è stata registrata sul momento. È molto più sbiadita essendo stata esposta ai venti del nord nel corso dei millenni, ma considerando i rischi cui va incontro la sopravvivenza dell’arte rupestre di Ieracompoli, è stato deciso che un intervento dovesse essere fatto il più presto possibile. L’incisione era così sottile e consunta che si poteva distinguere solo in certi momenti, quando il sole era in una determinata posizione (per essere precisi, l’ora giusta era alle 7:20 del mattino e rimaneva evidente per soli 20 minuti!). Questo è il momento in cui la barca si sarebbe rivelata per poi rimanere pressoché invisibile per le successive 24 ore (Immagini n. 6-7).


A sinistra: Immagine n. 6. Un momento della tracciatura della barca sul masso a sud durante i pochi minuti a disposizione delle ore mattutine in cui le condizioni di luce permettevano di intravvederne i contorni. A destra: Immagine n. 7. Dopo circa 20 minuti l’irraggiamento solare non permetteva più di distinguere i contorni delle incisioni. Per prolungare il lavoro cercando di estrarre i dettagli della barca si è ricorso all’uso di materiale riflettente. (Credits: Fred Hardtke, Archaeology’s InteractiveDig)
Il lavoro è stato ripagato quando nel ricalco si è palesata una barca tanto elaborata quanto le sue compagne. Lungi dall’essere incompiuta, come si era creduto inizialmente nel 1980, anch’essa aveva una testa di animale e corna elaborate leggermente diverse dalle altre. Infatti ogni barca differisce nei dettagli delle corna sulla testa dell’animale e nella decorazione a poppa. La grande sorpresa è stato il piccolo animale che si è evidenziato sopra la barca: se sia un toro alla carica carica o un vitello rimane da determinare (Immagine n. 8.

Tutto ciò, suggerisce che la spaccatura nella roccia fu utilizzata per rappresentare una composizione unitaria, con le barche di nord-ovest e sud-est pensate, probabilmente, come “immagini speculari”. Barche simili si trovano su un’ altra fenditura (HK61B) non lontano, ma i minatori hanno recentemente deturpato gli stambecchi che vi erano incisi. Le barche su questo masso sono più piccole e rese in modo più schematico, anche se si possono distinguere le teste, le corna, gli ornamenti di prua e le cabine (Immagine n. 9).

LA GROTTA DELLE GIRAFFE
Non è solo la località HK61 ad aver restituito esempi di arte rupestre. La prima grande collina rocciosa sul lato meridionale del Wadi Abu Suffian, che si erge in prossimità di HK11, doveva rivestire sicuramente in epoca predinastica un significato davvero particolare. Qui, infatti, in una piccola sporgenza (impropriamente chiamata grotta) l’esplorazione a cura di Fred Hardtke ha osservato delle tenui figure che in un primo tempo erano state identificate come bovidi. Ad un più approfondito esame, effettuato in condizioni di luce molto più favorevoli, si è constatato che si trattava di tre settori separati, ognuno dei quali raccontava una diversa storia relativa agli animali raffigurati. I tre elementi conservati sulle tre diverse sezioni, presi nel loro insieme, hanno permesso di constatare che si trattava di giraffe (Immagini n. 1-2-3).



Tutto questo è diventato chiaro solo quando le deboli tracce sono state ricopiate sui fogli di acetato trasparente nei pochi momenti di luce ottimale offerti dal sole al mattino presto, nell’arco di più giorni e con l’aiuto di coperte isotermiche del tipo spaziale. Per poter ricalcare le linee incise sulla roccia era fondamentale la giusta illuminazione. Grazie all’utilizzo di tali coperte, che permettono di riflettere la luce su un lato e di fare ombra con l’altro, e all’aiuto degli assistenti che si adoperavano nel posizionarla, è stato possibile controllare l’incidenza luminosa sui petroglifi, mentre Hrdtke, tracciava le linee man mano che si palesavano (Immagini n. 4-5).
Immagine n. 4. Quando l’illuminazione non era più ottimale, si ricorreva all’uso della coperta isotermica per indirizzarla nel punto giusto (Courtesy of the Hierakonpolis Expedition © Fred Hardtke, Archaeology’s InteractiveDig) Immagine n. 5 Un momento del ricalco delle giraffe sfruttando la luce residua. (Courtesy of the Hierakonpolis Expedition © Fred Hardtke, Archaeology’s InteractiveDig)
E’ stato utilizzato anche uno strumento ideato dallo studioso. Si tratta di un treppiede con un lungo palo centrale ed un braccio laterale per stabilizzare la fotocamera contro la parete rocciosa. Un lungo cavo collegato al computer permetteva di posizionare la macchina fotografica e di scattare i fotogrammi nel miglior modo possibile.

A poco a poco sono apparse le giraffe: la prima cosa che si è evidenziata è stata la composizione trasversale che rappresentava il manto a chiazze dell’animale. Il settore successivo rappresentava la criniera lungo la parte posteriore del lungo collo, mentre il terzo restituiva una testa con le corna. Un elemento particolarmente interessante era costituito dal fatto che almeno una delle giraffe era legata al collo, una caratteristica piuttosto ricorrente nelle rappresentazioni rupestri egiziane.
Probabilmente la grotta potrebbe essere la stessa che fu indagata da Ambrose Lansing nel 1935 e che fu da lui denominata “High Place” (sito alto). Vi furono rinvenute interessanti ceramiche dell’inizio del predinastico ora in mostra al Metropolitan Museum of Art di New York (Imagine n. 7).

Il Lansing suppose che la sporgenza era stata utilizzata come spazio di riparo e ristoro dai vasai, ma la presenza delle giraffe e di altri glifi poco chiari all’intorno, suggerisce che questa grotta poco profonda deve aver rappresentato molto di più che un semplice luogo di riposo. La presenza, nelle vicinanze, di un terrazzamento ricoperto di impronte di cucchiai, presumibilmente per libagioni, indica che questa collina ha un’ importanza speciale: forse demarca l’ingresso a HK6, la zona riservata come sepoltura all’élite del predinastico. Per contro il significato della giraffa, come del resto di gran parte dell’arte rupestre, rimane ancora piuttosto oscuro. Paradossalmente, nonostante il numero sempre crescente, per quantità e varietà, di resti di animali restituiti dalla necropoli HK6, che all’epoca della missione di Hardtke, avviata nel 2009 ammontava ad oltre 70 esemplari (tra cui 2 elefanti, 1 toro selvatico. 1 alcefalo, 2 ippopotami, 8 babbuini, 7 gatti e un gran numero tra cani bovini e capre), nessuna giraffa è tra loro (Immagine n. 8). Almeno per il momento.

LE INDAGINI SULL’ARTE RUPESTRE DEL 2010
Incoraggiato dai risultati ottenuti, Fred Hardtke, nel marzo del 2010 ritorna sul sito alla ricerca di ulteriori esemplari di arte rupestre. Sono stati scoperti diversi siti interessanti che hanno permesso ampliare le conoscenze sulla distribuzione di petroglifi nell’area. In tutto sono state individuate altre 23 location sicché alla fine dell’esplorazione si è potuta aggiornare la composizione tipologica complessiva:
- schemi semplici (linee, picchiettature ecc.): 20%
- disegni compositi (linee parallele, righe di tacche): 60%
- composizioni complesse (animali, barche ecc.) 18%
- sconosciute o non riconoscibili: 2%
La maggior parte è concentrata ancora nel settore sud-occidentale, vale a dire l’area intorno ad HK11 (o Collina dei Glifi), ma le scoperte più sorprendenti sono state fatte in prossimità di intriganti cerchi di pietre e ripari rocciosi. Alcuni di questi cerchi era già stati notati in precedenza, ma non vi erano state mai trovate tracce di arte rupestre nelle vicinanze. Il primo ad essere studiato si trova appena a sud di HK11 nei pressi di un canalone che si immette nel Wadi Abu Suffian. Nonostante sia rimasta meno della metà delle pietre che lo costituivano, il contorno del cerchio, del diametro di circa 8 metri, si palesava ancora con chiarezza.Sono stati notati anche diversi cerchi più piccoli di pietre e tumuli. Assieme a segni di politura e file di tacche, sulle rocce dell’area, un piccolo masso presentava un ippopotamo con il corpo tratteggiato con dei segni incrociati. In suo onore il luogo è stato soprannominato “Hippo Rise”. (Immagini 1-2).
Immagine n. 1 Il cerchio di pietre presso “Hippo Rise”(© Fred Hardtke, Neken News Vol.22 Autunno 2010) Immagine n. 2 L’ippopotamo rinvenuto presso “Hippo Rise” (© Fred Hardtke, Neken News Vol.22 Autunno 2010)
Le rappresentazioni di ippopotami sono abbastanza comuni nell’arte predinastica (Naqada I-IIB), ma relativamente rare nei petroglifi; se ne contano una cinquantina di esemplari noti tra Egitto e Nubia, per cui questa nuova scoperta ha destato molto interesse. Ma le sorprese non erano ancora finite: poco distante a circa un chilometro di distanza, in una località soprannominata “Rock Hut Hill”, ne è stato rinvenuto un altro su una roccia alla base di una collina sulla quale, anche in questo caso, era visibile, un cerchio di grosse lastre di arenaria. E’ piuttosto piccolo, ma profondamente inciso e molto ben dettagliato. Il corpo dell’animale è contrassegnato da un motivo incrociato e sono visibili piccole orecchie e le zanne. C’è inoltre una linea che corre dal naso del pachiderma fino ad una crepa della roccia che, presumibilmente, rappresenta un arpione come suggerito dai tanti dipinti su ceramica. In effetti rappresentazioni i tale tipo sono piuttosto ricorrenti su ciotole del periodo Naqada I-IIB e questo potrebbe anche fornire un indizio sulla datazione di questa raffigurazione rupestre (Immagine n. 3).

Ma le scoperte non sono finite qui. Nelle vicinanze, su una distesa rocciosa, sono stati rinvenuti altri petroglifi: una imbarcazione, un asino e un possente toro. L’asino e la barca furono realizzati creando prima un profilo picchiettando la roccia e poi procedendo all’incisione, mentre il toro fu inciso interamente in rilievo. L’equino presenta una caratteristica curvatura del muso, criniera incisa lungo il collo e un ciuffo sulla coda. Una linea che attraversa la groppa dell’animale, suggerisce le caratteristiche naturali dell’asino selvatico (onagro), mentre un’altra che tocca le zampe posteriori potrebbe rappresentare un ostacolo o anche una freccia. La tecnica utilizzata e il tipo di patinatura farebbero pensare che la barca a forma di falce ricurva fu realizzata nello stesso lasso di tempo.
Il toro è raffigurato con grandi corna a forma di mezzaluna, a capo chino in atteggiamento aggressivo e sembra rivolto verso l’asino, magari a simboleggiare uno scontro, anche se l’eccessiva distanza tra le due rappresentazioni non permette di poter concludere che furono realizzate contemporaneamente.
Tra e intorno alle immagini e vicino all’ippopotamo son presenti zone in cui la pietra è stata levigata e lucidata forse da attività legate a qualche rituale. (Immagine n. 4-5).


Altri petroglifi sono state rinvenuti alla base di una collinetta che è proprio di fronte. Sui massi erano presenti intricati disegni geometrici: righe, segni di scalpellatura e levigatura, incisioni varie ed uno schema a griglia. Circa la metà dell’arte rupestre di Ieracompoli è localizzata in presenza di uno strapiombo o di un riparo naturale. Le ultime scoperte sono avvenute, invece, sui dolci declivi delle colline. E’ possibile che i cerchi di pietre avessero la funzione simbolica di sostituire la copertura o il riparo naturale, ma ovviamente si tratta solo di un’ipotesi che per essere avvalorata richiede ulteriori indagini.
La seconda parte delle indagini si è svolta presso il grande affioramento al centro del Wadi Suffian. La sua piatta cima offre una veduta impressionante e, scendendo verso il fondo sul versante occidentale, è stata notata una sporgenza rocciosa circondata da alcuni massi sulle cui superfici orizzontali erano presenti vari petroglifi. Sia i massi, sia la facciata dello strapiombo erano ricoperti da spessi strati di ghiaia e sedimenti, ma le piogge verificatesi nel periodo immediatamente precedente e anche la moderna attività estrattiva hanno permesso di rendere nuovamente visibili diverse incisioni rupestri. Tra queste prevalgono le imbarcazioni raffigurate sia in maniera parziale che completa. In particolare ce n’è una a forma di falce corredata di numerosi remi che è la prima di questo tipo attestata ad Ieracompolis (Immagine n. 1).

Poco più in basso un piccolo masso di arenaria spostato, presentava una spettacolare rappresentazione di due asini stupendamente incisi: uno più grande ed un altro più piccolo, forse la sua progenie, subito sotto. Si tratta, indubbiamente di una delle più belle raffigurazioni di questo equino nell’arte rupestre (Immagini n. 2-3).


La raffigurazione è completata da numerose linee singole o incrociate, incisioni sovrapposte: forse una barca e un cane(?) appena accennato, caratteri geroglifici e una rappresentazione graffiata di un uccello, apparentemente un’upupa, sicuramente realizzata in epoca posteriore. Le linee che ritraggono l’asino e il suo puledro e altre, come quelle che attraversano la groppa del quadrupede, hanno una patina più scura. Tutte quelle che si presentano più chiare sono evidentemente più recenti.
Il blocco su cui sono presenti queste incisioni proviene molto probabilmente dalla zona dello strapiombo, forse da un punto più alto dell’affioramento che ora porta il suo nome: “Donkey Hill” (Immagine n. 4).

Rappresentazioni di animali con prole sono state osservate in diverse parti in Egitto, ma solitamente sono riferite a bovidi; pertanto la composizione di “Donkey Hill” aggiunge nuove riflessioni sulla simbologia relativa all’asino. Infatti, nelle rappresentazioni rupestri, all’asino è stata attribuita di solito una connotazione malvagia o comunque negativa, mentre questa scena sembra simboleggiare piuttosto la rigenerazione continua di questa importante bestia da soma. Ad ogni modo, quale che sia il simbolismo del reperto, di sicuro si è rivelato essere il più interessante venuto alla luce durante la stagione esplorativa. Ciò che distingue l’arte rupestre di Ieracompoli da quella di altri siti è l’aderenza alle caratteristiche occupazionali della zona. Pertanto, non solo permette di avanzare nuove associazioni cronologiche e culturali, ma, studiandone attentamente la distribuzione e il repertorio iconografico, ci potrà fornire nuove chiavi di decifrazione del simbolismo di queste eleganti ed enigmatiche immagini.
CONCLUSIONI
Ieracompoli è certamente il più grande insediamento predinastico d’Egitto, ancora esistente. Conservato nelle sue caratteristiche peculiari, contiene tutti gli elementi tipici di una città: case e cumuli di rifiuti (tipici elementi distintivi degli insediamenti HK29 e HK11), necropoli, zone industriali (birrerie, centri di produzione della ceramica), centri di culto (HK29A) e tant’altro ancora che abbiamo incontrato in questo nostro viaggio indietro nel tempo (Immagini n. 1-2).


I ritrovamenti avvenuti in questa località, possono fornire preziose informazioni sul periodo formativo della civiltà egizia. Intorno al 3600-3500 a.C. , Ieracompoli aveva raggiunto il suo apice e doveva già essere uno dei maggiori agglomerati urbani presenti lungo le sponde del Nilo: un centro di potere regionale che si estendeva per oltre tre miglia, vivace e laborioso, ricco di quartieri ed attività e, come confermano i ritrovamenti e le ricerche effettuate, già capitale di un primo regno (nell’Alto Egitto) che avrebbe poi prodotto dei legami indissolubili con la regalità egizia, come dimostrano la Tavolozza di Narmer (https://laciviltaegizia.org/…/23/la-tavolozza-di-narmer/ è il link che invito a consultare per chi volesse saperne di più) e gli altri meravigliosi oggetti rinvenuti nel tempio della piana alluvionale. Questo raffinato reperto era sepolto in un deposito dell’area occupata dal tempio: realizzata in onore di Narmer, il primo re della prima dinastia, che regnò intorno al 3100 a.C., è considerato il primo documento politico della storia. (Immagini n. 3-4-5)

A sinistra: immagine n. 4 L’area del tempio in cui fu rinvenuta la Tavolozza di Narmer. A destra: immagine n. 5 Vaso risalente all’epoca di Narmer rinvenuto in una fossa del cortile del Tempio che fu solo parzialmente esplorata nel 1989. (Courtesy of the Hierakonpolis Expedition © Archaeology’s InteractiveDig)
Le scoperte effettuate hanno riportato la storia di Ieracompoli e lo sviluppo della civiltà egizia, molto più indietro nel tempo di quanto fosse lecito aspettarsi, ma il sito presenta anche un importante serbatoio di evidenze riconducibili all’epoca dinastica. Sebbene ingiustamente trascurate, sono per molti versi uniche e il loro studio contribuisce a chiarire molti degli aspetti e dei periodi ancora oscuri della storia dell’ Antico Egitto.
Tra queste, un esempio impressionante è il recinto di Khasekhemwy (l’ultimo faraone della II Dinastia), conosciuto anche come “Forte di Ieracompoli”. Si tratta di una costruzione in mattoni crudi con pareti spesse 5 metri e conservate, in alcuni punti, sino all’originaria altezza di 9 metri. E’ stato inserito per tre volte nella lista del World Monument Fund, come uno dei 100 monumenti più a rischio di scomparsa. É decorato esternamente con un motivo a nicchie ed era in origine intonacato di bianco, il che doveva conferirgli un aspetto straordinariamente suggestivo. Dopo quasi 5.000 anni si erge ancora come muta testimonianza dell’abilità dei suoi costruttori, ma le ragioni per cui fu edificato rimangono avvolte nel mistero (Immagini n. 6-7).


Ad ovest del recinto, scavate in una cresta d’arenaria, sono presenti tombe decorate ed intagliate nella pietra appartenenti a dignitari locali del tardo Antico Regno.
Esistono anche necropoli che mostrano caratteristiche chiaramente non egizie. Le indagini intraprese da Michael Hoffman nel 1978 e da Fred Harlan nel 1983, hanno rivelato la presenza di tre cimiteri che presentavano evidenti tratti culturali nubiani, apparentemente risalenti al Medio Regno e al Secondo Periodo Intermedio (ca. 1800-1500 a.C.). (Immagini n. 8-9-10-11)


A sinistra (immagine n. 8): una sepoltura nubiana rinvenuta in località HK 27C. Il defunto è adagiato in posizione contratta all’interno della sua tomba di forma leggermente ovale e poco profonda. A destra (immagine n. 9): uno scarabeo, in origine smaltato di blu, rinvenuto nella necropoli nubiana. (Courtesy of the Hierakonpolis Expedition © Archaeology’s InteractiveDig)


A sinistra (immagine n. 10): necropoli nubiana: piume che ornavano la parte terminale delle frecce, sono state ritrovate ancora incredibilmente intatte. A destra (immagine n. 11): necropoli nubiana durante la stagione di scavo 2001 è stato ritrovato questo splendido braccialetto. (Courtesy of the Hierakonpolis Expedition © Archaeology’s InteractiveDig)
Ovviamente gli scavi e le ricerche nel sito proseguono grazie alla missione di Hierakonpolis, diretta da Renée Friedman (Immagine n. 12) promettendo ulteriori scoperte e sviluppi.

Sorprese nella necropoli della località HK6, di Barbara Adams
“Nel novembre 1998 abbiamo ripreso gli scavi in Località HK6, il cimitero elitario pre e protodinastico nel Wadi Abu Suffian. Gli scavi, limitati, della precedente stagione avevano prodotto il sorprendente e unico ritrovamento della sepoltura di un giovane elefante risalente al Naqada I (3600 a.C. circa). Una tale scoperta ci ha convinti a riprenderli nella stagione successiva. Durante la ripresa del lavoro verso est, è apparso subito chiaro che una serie di ovali tracciati sulla mappa non fossero tombe, ma una profonda trincea curvilinea scavata quando la tomba fu depredata. Alle estremità opposte di questa trincea sono venuti alla luce reperti sorprendenti: due maschere uniche ma incomplete di ceramica temperata con paglia complete di aperture per occhi e bocca. Di una di esse è stata ritrovata solo una piccola (ma rappresentativa) porzione, con fori obliqui per gli occhi dall’aspetto felino e un naso aquilino. All’estremità sud della trincea vi era un ciuffo di capelli umani attorcigliati, forse una volta facente parte di un copricapo.<<Questa maschera era uno spettacolo incredibile da vedere, venuto alla luce a faccia in su. Era così inaspettata e ultraterrena…>>.
Questa maschera è piatta all’interno ed abbastanza difficile spiegare come possa adattarsi ad un volto umano, sebbene non sia di certo troppo piccola e l’inclinazione benchè esagerata degli occhi non impedisca a chi la indossi di vedere.
L’altra maschera è più grande e più completa. Anch’essa ha occhi inclinati e un naso aquilino, con sopracciglia, bocca e la barba. Le aperture sugli angoli superiori di questa maschera barbuta non sembrano essere nella posizione giusta per le orecchie umane: ciò potrebbe indicare che originariamente avesse corna bovine o orecchie di animali attaccate. E’ praticamente a grandezza naturale e presenta una curvatura che può ben adattarsi ad un volto umano: se di un vivente o di un defunto rimane una domanda intrigante.

Queste maschere sono i primi veri esemplari finora conosciuti. Niente di precisamente simile è noto dal repertorio predinastico, anche se la barba sulla maschera più completa ricorda quelle delle figurine del tardo periodo Naqada II e Naqada III.
A causa della presenza nell’area di una caotica miscela di cocci (databili Naqada I e Naqada III) e altri oggetti, comprese altre ossa di elefante, è difficile essere sicuri della datazione, ma stilisticamente sembra più probabile che risalgano al periodo Naqada III piuttosto che Naqada I.
A parte il valore intrinseco e la bellezza degli artefatti le maschere di ceramica stanno fornendo nuove informazioni sulla natura dei rituali e dell’iconografia espressi dall’élite dei residenti della prima Hierakonpolis. Certamente, ebbero uno scopo religioso nel periodo dinastico: era un mezzo attraverso il quale chi le indossava diventava una divinità o un canale attraverso il quale se ne manifestava il potere.

<<C’erano molte ragioni per investigare ancora l’area intorno alla tomba 16. Una di queste era quella di trovare i pezzi mancanti delle maschere di ceramica, specialmente la più piccola, più felina o ‘femminile’ delle due note rinvenute in quel complesso tombale. Dalla loro scoperta iniziale nel 1999, frammenti di almeno altre sei maschere sono state recuperate in tutto il cimitero. Tra questi numerosi pezzi di orecchie, occhi e bordi superiori. Con un solo volto completo a disposizione era impossibile immaginare l’aspetto completo degli altri. Poiché la maggior parte delle maschere più piccole erano state scoperte nelle vicinanze della Tomba 20, è lì che si sono intensificate le ricerche e siamo stati ricompensati, finalmente, con l’importante ritrovamento del mento a punta, o più precisamente, la barba. Possiamo ora confermare che entrambe le maschere ritraggono uomini e, insieme, le loro linee della mascella rafforzano il significato delle barbe come indicatori di status sociale o divino. Questo non significa necessariamente che le donne non fossero dotate di maschere distinte e individualizzate, ma dovremo trovare i menti per provarlo. Una ricerca di 11 anni è per ora conclusa con due volti quasi completi>>. (© tratto da Nekhen News n. 22/2010)
Sappiamo che maschere funerarie poste sui corpi mummificati dei morti servivano a trasformarli in spiriti che rinascevano nell’aldilà; il loro uso in questo contesto è ben documentato e risale alla quarta dinastia. Solo i futuri scavi a HK6 e ulteriori studi potranno confermare se questa data d’inizio debba essere rivista indietro fino al Predinastico. D’altra parte, la questione se fossero usate dai vivi nei rituali religiosi o funerari egizi non ha ancora trovato una risposta soddisfacente. Maschere in forma animale per uso cerimoniale, sebbene suggerite in alcune raffigurazioni, sono state recuperate solo raramente. Due esempi plausibili sembrano quelle indossate da cacciatori su tavolozze intagliate del tardo periodo predinastico come la “Paletta dei due cani”, anch’essa proveniente da Hierakonpolis (vedi: https://laciviltaegizia.org/…/19/le-palette-predinastiche/) e la “Paletta dello struzzo”. In questo caso il loro uso suggerisce una connessione con i rituali di caccia. Tuttavia, altre raffigurazioni intriganti possono essere rivelatrici, come quelle su un’etichetta di ebano dalla Tomba di Hemaka (Tomba 3035) a Saqqara, datata al regno di Djer (Prima Dinastia). Queste sono state interpretate come immagini femminili perché mancano di barba e hanno trecce che spuntano dalla parte anteriore delle loro teste, ma potrebbe anche trattarsi di maschere feline o rappresentare un’ immagine sacra.
Attualmente, non sappiamo se le maschere di Hierakonpolis fossero indossate come parte di un’elaborata cerimonia funebre e poi messe da parte, o furono realizzate per il defunto stesso”.

Fonte: Barbara Adams. Nekhen News, Vol. 11, 1999
Una scoperta da ricordare: La Tomba 111 a HK6, di Renée Friedman
<<Nel novembre 2017, in collaborazione con il Museo Allard Pierson di Amsterdam, abbiamo intrapreso un’indagine (sulle attività relative al periodo Naqada III) all’estremità settentrionale del cimitero HK6, nelle immediate vicinanze della Tomba 11*. Lo scopo era quello di acquisire una migliore comprensione della sua storia e di avere un’idea più chiara della sua estensione nelle epoche precedenti. Abbiamo scelto questo punto per due motivi: in primo luogo, il rilevamento magnetometrico del 1999 indicava che qui potesse trovarsi una grande tomba rivestita di mattoni; in secondo luogo, lo scavo della Tomba 11 negli anni ’80 aveva portato alla luce una grande quantità di materiale più antico, suggerendo che sepolture Naqada I-II erano sparse in tutto il sito. L’area scelta sembrava in gran parte inviolata (almeno in tempi recenti) e presto sono emerse le pareti superiori di una grande tomba, lunga quasi 5m, larga 2,5m e profonda 1,16 m. Tutti e quattro i lati erano rivestiti con mattoni (22x11x5cm) e l’interno delle pareti era ricoperto da un intonaco di fango ancora appiccicoso, spesso fino a 3 cm. Nelle dimensioni e nell’orientamento è identica alla Tomba 11, dalla quale dista solo due metri. Per sottolinearne la stretta connessione, abbiamo deciso di chiamare la nostra nuova scoperta Tomba 111(Immagine n. 1).

Entrambe contenevano una vasta e analoga gamma di ceramiche, composta da vasi cilindrici dipinti a reticolo e databili al periodo Naqada IIIA2 (dinastia 0). Nonostante i danni prodotti dai saccheggiatori, i frammenti restituiti della Tomba 111 hanno permesso di ricostruire circa 35 vasi di diversi tipi (Immagine n. 2).

Un altro elemento comune ad entrambe le tombe erano le lame di ossidiana, un vetro vulcanico scuro importato dall’Etiopia, che sembrano essere state abbinate con lame simili, ma di selce chiara. Questa scelta di tonalità contrastanti deve essere stata, senza dubbio, intenzionale e probabilmente aveva un significato rituale (Immagine n. 3).

Però, al di là di questi componenti di base, le due tombe erano altamente personalizzate e forse rispecchiavano gli interessi e lo status del defunto.
La tomba 11 apparteneva a un bambino di 10-12 anni che fu sepolto su un letto di legno con piedi splendidamente scolpiti per assomigliare alle zampe di un toro. Il proprietario della tomba 111, invece, era un giovane maschio adulto, secondo le analisi di Daniel Antoine e Rebecca Whiting (British Museum). A giudicare dalle impronte di assi trovate sul pavimento della tomba, fu probabilmente sepolto in una bara lignea. Sono state, infatti, raccolte copiose quantità di assi in legno di acacia (10 cm di larghezza, 3 cm di spessore e almeno 42 cm di lunghezza), alcune delle quali probabilmente appartenenti al coperchio.
Altre ossa recuperate dalla tomba 111 indicano che questo giovane non fu sepolto da solo. L’analisi archeo-zoologica condotta da Wim Van Neer e Bea De Cupere (Istituto Reale Belga di Scienze Naturali, Bruxelles) ha rivelato che era accompagnato da tre asini. Triadi di questi equini sono stati trovate in altre tombe di questo periodo, ma, sorprendentemente, questi erano esemplari giovanissimi: due appena nati ed uno di circa 8 settimane di età. Era presente anche lo scheletro quasi completo di un maiale di circa 2 mesi.
Altro elemento caratteristico del corredo di questa sepoltura sono le punte di freccia, di un tipo fuori dall’ordinario. Dal momento che i frammenti erano sparsi in modo caotico (un plauso alla squadra di cercatori per aver recuperato tutti i pezzi e a Xavier Droux per averli rimessi insieme), non siamo del tutto sicuri di quante fossero le diverse varietà, ma un tipo è certamente unico. Si tratta di punte di freccia a punta smussata in avorio intagliato con due serie di barbe poste su lati alternati. La maggior parte di esse sono caratterizzate da piccole lame di selce inserite in fessure appena sopra una serie di barbe. In due casi, le selci erano ancora al loro posto, ma è stato possibile associare le altre alle rispettive punte di freccia dal momento che le fessure erano fatte su misura e si adattavano, pertanto, solo ad un determinato elemento.L’uso di microliti o minuscoli pezzi di selce nella costruzione di frecce combinate è una tecnica antica che risale al Paleolitico, ma divenne di nuovo popolare soprattutto nel Nuovo Regno. Anche le frecce intagliate con barbe sono ben note, ma entrambe insieme non hanno eguali in nessun periodo di tempo. Ancora più curioso è il modo in cui la base di ogni punta di freccia è stata forata per creare una presa lunga circa 1 cm, ma larga solo circa 4 mm, per l’inserimento di un altro elemento. L’incavo è così piccolo che è difficile immaginare cosa potesse entrarci se non il codolo scolpito alla fine delle lunghe aste d’avorio che abbiamo trovato nella tomba. È esattamente della misura giusta. Naturalmente è ugualmente possibile che le aste affusolate siano punte di freccia a sé stanti, delle quali sono noti molti esemplari. Lo stesso si può dire per i lunati (punte di frecce a forma di mezzaluna) di corniola rinvenuti nella tomba, che potrebbero essere stati attaccati con mastice a semplici fusti. Tuttavia, rimane la possibilità che tutti questi pezzi fossero prodotti per essere montati insieme. Si tratterebbe di un assemblaggio piuttosto elaborato e sorprendente anche se poco pratico. L’ipotesi è ancora piuttosto dibattuta dato che frecce con la punta smussata, sono usate frequentemente ancora oggi per la caccia alla piccola selvaggina, laddove non si desideri una penetrazione troppo profonda. Inoltre, le estremità smussate impediscono ai dardi di incastrarsi negli alberi o nel terreno, rendendone più facile il recupero; obbiettivo che deve essere stato in cima ai pensieri di questi lontani antenati considerando la cura e l’abilità impiegate nella realizzazione di questi codoli in avorio. In conclusione, il numero preciso (nove se tutti gli elementi furono pensati per essere assemblati insieme) e i tipi di frecce restano ancora da determinare, ma possiamo essere abbastanza sicuri che il proprietario della Tomba 111 amasse cacciare, o almeno dare quell’impressione (Immagini n. 4-5).


Altri reperti, come una piccola lama di rame, suggeriscono che si dedicava anche alla lavorazione del legno, e i bastoni da lancio in avorio, decorati, indicano anche il suo interesse per lo svago (Immagine n. 6). Il gioco, infatti, era apparentemente uno dei passatempi preferiti dall’élite, come dimostrerebbero i bastoni del tutto simili per dimensioni, forma e decorazione rinvenuti nella tomba U-j di Abydos .

Spicca per la sua assenza, invece, la gioielleria. Mentre la Tomba 11 ha prodotto un gran numero di perle e amuleti di diversi materiali preziosi (oro, argento, turchese, lapis, ecc.), solo una perla di corniola è stata trovata nella Tomba 111 ed è probabilmente estranea al corredo originario. Forse lo sfarzo non era tra le esigenze del proprietario, che comunque non disegnava gli oggetti raffinati. Un esempio è la bella placca d’avorio trovata disseminata intorno alla tomba. Ben lavorata su entrambi i lati, è scolpita con file di animali che si stagliano dallo sfondo di modo che un’antilope vivace sembra calpestare la proboscide di un elefante, dietro la quale è scolpito un leopardo. Macchie di malachite verde, presenti su entrambi i lati, sono state intenzionalmente applicate come effetto decorativo e dovevano risultare molto appariscenti contro il bianco dell’avorio (Immagini n. 7-8).
A sinistra: immagine n. 7 La placca d’avorio traforato della tomba 111, fronte e retro. (© ph. James Rossiter, Nekhen News vol.20/2018, p.6). A destra: immagine n. 8 La placca d’avorio e i suoi diversi elementi così come sono stati rinvenuti (© ph. James Rossiter, Nekhen News vol.20/2018, p.20)
Dai frammenti superstiti, che includono un’altra antilope e forse un cane selvatico, possiamo dire che questo oggetto era composto da almeno tre file di animali, e i pezzi del bordo indicano che originariamente era rettilineo. Avori modellati nelle forme di questi animali sono ben noti nel periodo Naqada III, specialmente dal deposito principale di Hierakonpolis, ma l’artigianato traforato di questo reperto non ha eguali.
Altri frammenti attestano una varietà di oggetti d’avorio intagliato nella tomba, ma non c’è dubbio che il bene più prezioso fosse l’incredibile manico di coltello decorato trovato durante l’ispezione finale del pavimento. L’importanza di questo spettacolare ritrovamento non può passare inosservata. Solo altri 12 manici di coltello più o meno completi di questo tipo sono conosciuti nel mondo e questo è uno dei pochi ad avere un contesto databile.
“Il ritrovamento di una vita, devo ammettere che mi ha fatto ballare per la necropoli fino a quando mi sono resa conto di quale compito arduo sarebbe stata la sua conservazione e registrazione. Ringrazio Lamia El-Hadidy, Daniel Bone, Jane Smythe e Jim Rossiter per tutto il loro duro lavoro in questo senso.

In breve, l’intricato intaglio su un lato mostra file di animali così come si vede su altri manici di coltello, mentre sull’altro lato, una fila di potenti animali, capeggiati da un grande scorpione, circonda due registri di barche. E’ rimarchevole la presenza dello scorpione (un animale che era particolarmente tenuto in considerazione a Hierakonpolis) nell’intaglio dell’avorio e nelle figurine, in quanto non è documentata, al momento, su altre impugnature del genere. È quindi probabile che questo manico sia stato creato proprio nei laboratori del sito. In contrasto con il rilievo modellato della maggior parte di oggetti di questo tipo, lo stile dell’intaglio è piuttosto piatto: i disegni qui sono stati incisi e lo sfondo tagliato via, con dettagli aggiunti solo tramite incisioni e colpetti (Immagini n. 9-10).

In particolare, l’avorio non è mai stato lucidato e le striature della levigatura iniziale sono ancora abbastanza evidenti ovunque la superficie originale sopravviva. Non possiamo esserne sicuri, ma è suggestivo pensare che forse la lucidatura finale non era necessaria in quanto il manico poteva essere originariamente ricoperto da una lamina d’oro, un piccolo frammento della quale è stato trovato sul pavimento della tomba. Tutti questi meravigliosi ritrovamenti sarebbero stati sufficienti a rendere la Tomba 111 una di quelle da ricordare, ma la sua storia è continuata) quando abbiamo esteso gli scavi fino al bordo della terrazza dello wadi e abbiamo trovato altre cose straordinarie proprio lì accanto>>.
Ulteriori ritrovamenti nei dintorni della Tomba 111: L’ippopotamo
Il ritrovamento del manico di coltello decorato sarebbe stato certamente una degna conclusione della storia della Tomba 111, ma c’era di più, molto di più.

Quest’area era stata parzialmente scavata nel 1985 durante l’indagine sulla Tomba 11 e, da allora, era rimasta sul sito un’antiestetica trincea. Il lavoro dell’equipe era, pertanto, principalmente finalizzato alla sistemazione dei luoghi e ad un eventuale rinvenimento della presenza di tracce di sovrastrutture intorno alla sepoltura. Gli scavi del 1985 avevano rivelato molto vasellame di prima datazione predinastica che si riteneva provenisse da sepolture rimaneggiate durante la costruzione di tombe nel periodo Naqada III.

Tuttavia, l’ingente quantità e la limitata gamma di forme inducevano, fin dall’inizio, a una spiegazione diversa. L’insieme era composto, per la stragrande maggioranza, da piccole ciotole rosse lucidate, una sorta di piattini, per lo più di circa 12 cm. di diametro. Quasi tutte hanno il centro consumato ed alcune presentano tracce di bruciatura intorno al bordo: facile dedurre che furono utilizzate come lampade o brucia – incenso.
Nel piccolo spazio esplorato c’erano oltre 180 frammenti, equivalenti a più di 45 piattini. Inoltre, il ritrovamento nella stessa area di frammenti di diverse statuette umane ha suggerito ancora di più che questo materiale non fosse il residuo di tombe riutilizzate, ma, piuttosto, ciò che restava di attività rituali. La successiva campagna ha rivelato il luogo in cui probabilmente si svolse tale attività.
<<All’estremità settentrionale del terreno del wadi abbiamo scoperto che la superficie era stata chiaramente appiattita e i suoi bordi accuratamente levigati fino a formare un angolo di 45 gradi. Non a caso, ai piedi di questo pendio, c’erano due file di lastre di pietra erette, presumibilmente poste a delimitare i confini del cimitero. Questo pendio è stato successivamente riempito con detriti di fango e mattoni e le lastre di pietra sono state ricoperte quando la terrazza è stata ampliata artificialmente con la sabbia per fare spazio alla costruzione della tomba 111. La pressione della sabbia contro la parete orientale della tomba ne provocò la deformazione. L’indebolimento della struttura fu già notata nell’antichità. Nel tentativo di rinforzarla, furono inseriti mattoni disposti in vari schemi, che sembrano aver funzionato. Nonostante queste modifiche, l’impegno profuso per ampliare la terrazza con un riempimento di terra suggeriva che questo luogo era ancora considerato di somma importanza e non abbiamo tardato a scoprire il motivo di tanta attenzione. Già mentre emergeva dal terreno presagivamo che sarebbe stato straordinario e, ricomponendolo, si è rivelato tale: una grande statua in ceramica di un ippopotamo! Sulla sommità appiattita dalla pendenza, probabilmente vicino all’installazione originaria, c’erano diversi frammenti. Qui abbiamo trovato la testa, con l’occhio in rilievo e le narici con i centri ritagliati e i bordi modellati, e due delle sue robuste zampe, ciascuna con tre piccole dita. Una terza zampa era stata rinvenuta nello stesso luogo nel 1985, ma all’epoca si pensò che fosse un porta vaso>>.

L’aspetto più sorprendente di questa statua sono le sue dimensioni. La testa da sola misura 50 cm di lunghezza e un insieme di frammenti, provenienti da qualche punto della schiena, è lungo oltre 80 cm. Si stima quindi che l’intera statua potesse misurare da 1,5 a 2 metri di lunghezza, il che corrisponde alla grandezza naturale di un giovane ippopotamo di 3-6 mesi di età.

Interamente realizzata in argilla, la statua è stata modellata a partire da un limo del Nilo molto grossolano, con molte inclusioni di paglia e pietre appuntite. Le gambe sono state realizzate separatamente e unite al corpo prima della cottura, ma i fori in prossimità delle giunzioni mostrano come i pezzi siano stati legati insieme per conferire una maggiore resistenza.

Tra i numerosi frammenti del corpo, alcuni conservano il bordo arrotondato di un’apertura ovale, presumibilmente nella zona del ventre, per permettere di modellare questa grande scultura cava, dalle pareti spesse, prima della cottura. E’ un sorprendente esempio di arte ceramica e di ingegneria tecnica: una statua del genere non fu certo facile da realizzare e non è ancora chiaro chi l’abbia fatta. (Le statue di ippopotamo sono note in molte fasi del periodo predinastico e protodinastico, pertanto è davvero difficile stabilirlo). Le sue caratteristiche e la tecnica di modellazione possono essere confrontate, ad esempio, con il piccolo vaso a forma di ippopotamo, in argilla fine, proveniente dalla tomba U-560 di Abydos (Naqada IC- IIA), mentre le sue dimensioni e la sua manifattura sono paragonabili ad una statua in tessuto grossolano, rinvenuta presso un complesso di ricche tombe del periodo Naqada III, a Qustul in Nubia.


A destra: Immagine n. 7 Caratteristiche spaventose: La testa di ippopotamo di Naqada III proveniente da Qustul, Nubia (Williams 1986)
Stimato essere lungo circa 50 cm, l’ippopotamo di Qustul, però, è molto più piccolo rispetto alla statua di HK6, e la caratterizzazione della testa, degli occhi e delle zanne è notevolmente diversa. Sono necessarie ulteriori ricerche, ma indipendentemente dal fatto che l’ippopotamo di HK6 provenga da un’installazione rituale predinastica originale o faccia parte di una ristrutturazione avvenuta nel periodo Naqada III, si tratta della più grande statua in ceramica dell’epoca. In piedi sulla terrazza rialzata all’estremità del cimitero, forse in funzione di guardiano, questa statua di ippopotamo doveva sicuramente fornire uno spettacolo imponente e di grande impatto emotivo ed è probabile che sia rimasta al suo posto per un certo tempo. L’interesse successivo per l’area è, infatti, documentato da una serie di ciotole emisferiche che risalgono al Medio Regno, circa 1000 anni dopo la costruzione della Tomba 111.

Testimoniando una rinnovata attività di offerta nel cimitero HK6, queste ciotole assumono un’ulteriore importanza alla luce della notevole ricomparsa nel Medio Regno di immagini e oggetti pre e proto dinastici, come statuette di ippopotami o creature mitiche come i grifoni. Di recente, è stato proposto che questo “revival” sia stato innescato durante la costruzione di nuovi templi, quando si venne a contatto con gli antichi depositi rituali. Tuttavia, queste ciotole provenienti dalla tomba 111, così come altri vasi e iscrizioni rinvenuti nel cimitero, suggeriscono che questa rinascita non si limitò all’osservazione passiva delle forme arcaiche, ma contemplò anche un impegno attivo nei confronti degli antichi siti e il riconoscimento degli augusti antenati e dei notevoli risultati che seppero conseguire.
Fonte:
- Renée Friedman in Nekhen News Vol. 20, Autunno 2018 direttore della spedizione di Hierakonpolis.
- James Rossiter, fotografo e redattore fotografico (The Hierakonpolis Expedition/ Friends of Nekhen c/o Department of Antiquities Ashmolean Museum University of Oxford)
* Lo scavo della tomba 111 è stato finanziato da una borsa di studio della Netherlands Organisation for Scientific Research (NOW) assegnata all’Allard Pierson Museum, Amsterdam, e realizzato con l’assistenza di Willem Van Haarlem, Wim Hupperetz, Liam Mc Namara e Xavier Droux.
I tesori della tomba 78
Ieracompoli continua ad essere una fonte inesauribile di scoperte. Nell’ inverno del 2017, Renée Friedman e Anna Pieri, nel volume n. 29 di Nekhen News, hanno pubblicato il resoconto relativo ad una campagna di scavi che ha riportato alla luce una tomba, precisamente la n. 78, ubicata nella necropoli d’élite HK6. Lascio ai relatori dello scavo la narrazione dei ritrovamenti.
<<Certo, gli ultimi anni ad HK6 sono stati un po’ scarsi (in termini di cose belle), ma abbiamo capito che la nostra fortuna stava cambiando quando abbiamo scoperto la Tomba 78. Ci ha entusiasmato quasi subito: negli strati superficiali abbiamo rinvenuto frammenti di un braccialetto d’avorio che alla fine siamo stati in grado di ricostruire quasi completamente (Immagine n. 1).

E non abbiamo dovuto aspettare molto per avere una bella collezione di perline di corallo del Mar Rosso. Sebbene il loro colore sia ormai sbiadito rispetto all’originale scarlatto vivido, si può immaginare come dovesse essere seducente ed elegante la collana in origine (Immagine n. 2).

Poi è stata la volta di un pettine d’avorio del tipo a impugnatura quadrata già noto per gli esemplari rinvenuti nella tomba 72. Speravamo che la piccola giraffa, rinvenuta nel 2015 nelle vicinanze, potesse costituirne il pezzo mancante, ma la parte superiore, liscia e tagliata, non combacia, per cui la ricerca continua (Immagine n. 3).

Avanzando nella scavo della tomba, le cose si sono fatte ancora più eccitanti quando nell’angolo nord-est hanno cominciato ad emergere vasi completi (una rarità!) e solo leggermente danneggiati, tanto che si sono potuti restaurare con molta facilità. Si è trattato di un ritrovamento piuttosto eccezionale, poiché due di essi non erano i soliti vasi egiziani. Infatti, la loro forma, il trattamento superficiale nero striato e la realizzazione grossolana, li denotano come provenienti dal Basso Egitto. I residui gialli al loro interno suggeriscono che sono stati importati non tanto per il loro aspetto, quanto per il loro contenuto. Questo residuo è attualmente in fase di analisi e speriamo di scoprire quale sostanza esotica fosse così ambita da far arrivare questi due vasi da oltre 600 miglia di distanza. L’insieme delle ceramiche della tomba indica una datazione al periodo Naqada IIB e quindi risalenti, grosso modo, a 5600 anni fa. (Immagine n. 4).

Tra le ceramiche erano presenti le ossa di una capra femmina adulta, che era stata sepolta intera. Mentre la capra era concentrata soprattutto a est, i resti dei due giovani proprietari della tomba (rispettivamente di circa 8 e tra gli 11 e i 14 anni) erano purtroppo sparsi in tutto il riempimento. Questa combinazione di capre adulte ed esseri umani, per noi, si è rivelata una novità, ma ben si accorda con il ruolo svolto dagli animali domestici (piuttosto che da quelli selvatici) caratteristico di questa parte della necropoli (Immagine n. 5).

Avvicinandoci al pavimento, la tomba ha restituito un’altra cosa piuttosto rara ad HK6: capelli, e tanti. Questi potevano essere divisi in due gruppi in base a caratteristiche distintive. Un tipo si presentava sotto forma di grandi ciocche di capelli spessi, leggermente increspati e con alcuni riccioli, che sembravano essere stati portati relativamente corti. Un particolare piuttosto inquietante è che sembra siano diventati la dimora di un gran numero di parassiti, probabilmente attratti da alcuni grassi o oli applicati sui capelli, forse mentre la tomba era in preparazione. L’altra capigliatura era più interessante. Era, infatti composta principalmente da singole “extensions”, realizzate con due ciuffi di capelli attorcigliati insieme e che terminavano con una piccola ciocca. Siamo riusciti a raccogliere 15 “extensions” diverse, ciascuna originariamente lunga circa 14 cm. Le porzioni superstiti dei capelli naturali ondulati della proprietaria hanno rivelato che le aggiunte furono impiantate grazie a legature. Leggermente diverse dal colore dei capelli della defunta, le “extensions” furono chiaramente realizzate con i capelli di qualcun altro, il che le rende il primo esempio di capelli “finti” in Egitto, e forse nel mondo! Ma non sono le prime ad essere state scoperte. Dal cimitero non elitario HK43 di Ieracompoli abbiamo un altro esempio in cui le ciocche furono annodate ai capelli naturali sulla corona della testa per conferire un effetto di sollevamento. In questo caso, però, i capelli utilizzati erano quelli del proprietario della tomba, appena reimpiegati. I capelli effettivamente “finti” della tomba 78 sembrano essere di poco precedenti. E’ evidente che le maggiori disponibilità potevano permettere l’acquisto di capelli di altri individui, pur di abbellire il proprio aspetto (occupazione, è evidente, che in Egitto sembra aver costituito grande aspirazione sin dai tempi più remoti) e probabilmente incoraggiare una vera e propria moda. (Immagine n. 6).

Inizialmente scambiate per capelli, le piume di struzzo, incontrate sullo stesso livello, potrebbero rappresentare un’altra novità. Le piume (per lo più marroni ed una bianca) sono state trovate in fasci di tre, appena distanziati l’uno dall’altro e tutti orientati nella stessa direzione. Ciò fa pensare che facessero parte di un ventaglio di piume di struzzo, forse il più antico di cui si abbia conoscenza nell’Antico Egitto (Immagine n.7).

Scendendo verso il pavimento della tomba, ci sono stati altri ritrovamenti: cuscinetti di lino imbevuti di resina, spessi fino a 1,5 cm, usati per avvolgere e imbottire alcune parti del corpo, fornendo un’ulteriore prova che la proto-mummificazione conosciuta da HK43 era praticata anche dall’élite. Il pavimento era rivestito da tre strati di stuoia, al di sotto dei quali si trovavano bastoni e pezzi di legno più grandi, fino a 4 cm di lato, che con ogni probabilità costituivano una sorta di letto. È evidente che ci si è preoccupati molto di allestire la tomba per questi due giovani.>>
Fonte: Renée Friedman e Anna Pieri, Nekhen News vol. 29 pagg.6-7-8
Un enorme vaso rosa
Gli scavi del 2012 nel complesso HK6 hanno prodotto abbondanza di ossa e tessuti e una quantità non trascurabile di rifiuti; solo pochi oggetti si sono distinti per la loro rarità. Si possono segnalare una parte di testa di mazza piriforme in calcare proveniente dalla tomba N. 53, la metà di una lancia in selce proveniente dalla N. 52 e una minuscola testa umana in argilla non cotta trovata nella N. 56, anche se questa potrebbe non essere la sua sede originaria. L’area intorno al Muro B7 è stata un po’ più generosa e ha restituito una zampa e il corno decorato di una statuetta di mucca in argilla cotta, oltre ad alcuni piccoli frammenti di una maschera in ceramica.
Perfino i cocci di ceramica erano relativamente scarsi. Ciononostante, è stato possibile ricostruire diversi vasi dai frammenti sparsi diffusamente, anche se non appariva del tutto chiaro da quali tombe provenissero. Le tipiche giare, con orlo modellato e temperate con paglia, tutte con segni di pre-cottura e in un caso anche di post-cottura, due bicchieri con tappo nero e una ciotola emisferica lucidata di rosso hanno consentito di datare il complesso al periodo Naqada IIA-IIB.
Tuttavia, i reperti ceramici più impressionanti si sono rivelati i frammenti di un grande vaso, di forma simile ai tini utilizzati nelle birrerie, ma in questo caso accuratamente rifinito con una patina rossa (ora divenuta rossastra) e una brunitura su entrambi i lati. È stato possibile ricostruire più della metà del vaso grazie agli sforzi della restauratrice Lamia El-Hadidy, abilmente assistita da Feisel Sid-ain (Immagini nn.1 e 2).


Rimettere insieme i pezzi, grandi e pesanti, non è stato un compito facile, ma una volta riassemblati è stato possibile misurare con precisione il diametro del reperto, pari a 118 cm., ed un’altezza, di ben 73 cm. Una volta sistemati i frammenti, si è potuto capire come gli antichi vasai avessero realizzato questo gigantesco tino in due pezzi, con una disposizione di linguette e scanalature lungo la giuntura (Immagine n. 3). Come abbiano fatto a cuocerlo, o addirittura a sollevarlo, è tutt’altra questione.

Vasi di questo tipo, ma privi di finiture raffinate, sono note in altri cimiteri. Da quale tomba provenisse questo vaso non è del tutto chiaro; tuttavia, alcuni frammenti, tra cui quasi l’intera base, sono stati recuperati dalla Tomba 51, una delle poche sufficientemente profonda da poterlo contenere. Considerando gli occupanti di quella tomba (ricordiamo che HK6 era la necropoli d’élite di Ieracompoli), potrebbe forse trattarsi di un vaso rosa speciale per un figlio speciale.
Il grande vaso rosa diventa ancora più grande
Man mano che apparivano altri pezzi del grande vaso rosa ad HK6, si potevano creare altri collegamenti con quanto rinvenuto l’anno precedente. Si è constatato che si trattava di un gigantesco puzzle che ha destato un’irresistibile interesse. Ci si è resi conto di un problema: c’era troppo materiale. Troppo, cioè, per la stima delle dimensioni fatta durante la stagione precedente.
Lo studio condotto da parte di Helena Jaeschke ha permesso di valutare che il grande vaso rosa non era alto 73 cm e composto da due parti, ma in realtà era costituito da ben da tre sezioni e più alto di circa 40 cm, rispetto a quanto valutato precedentemente! In definitiva, doveva avere un’ impressionante altezza di 1,14 m e un diametro di 1,24 m, anche se mancano all’appello ancora grosse porzioni del reperto per poterne permettere la completa ricostruzione (Immagini n. 4-5-6-7).


A sinistra: immagine n. 4: Helena Jaeschke, con il collega Xavier, alle prese con i frammenti dell’enorme vaso rosa(©Ph. Hierakonpolis Expedition, Nekhen News vol.25, autunno 2013). A destra: immagine n. 5: Lamia El-Hadid, rimette insieme frammenti del grande vaso (©Ph. J.Rossiter, Nekhen News vol.25, autunno 2013)

Un disegno di F.W. Green di un grande vaso trovato nel 1899, sembrava, a dire il vero, piuttosto esagerato. Quanto venuto alla luce durante le stagioni di scavo 2012/2013, ha fornito la prova del contrario. Si tratta davvero di un vaso degno di Ali Baba.

Ieracompoli a Edinnburgo: un gigantesco coltello
Il National Museum of Antiquities of Scotland (in seguito accorpato ai National Museums of Scotland), dal momento che fu tra i primi sottoscrittori dell’Egypt Exploration Fund, ricevette una parte degli oggetti rinvenuti nel corso degli scavi del 1897-99 a Hierakonpolis. Si trattava di una esigua ma rappresentativa selezione di piccoli oggetti votivi provenienti dal Deposito Principale: statuette di maiolica raffiguranti uno scorpione, un orice, un babbuino e un falco un po’ stravagante (Immagine n. 1), diverse perline a spirale, alcune delle oltre 200 teste di mazza che facevano parte del Deposito e alcuni vasi in pietra. Ma insieme a questi, ricevettero anche qualcosa di molto speciale, che sembra essere passato inosservato nella collezione.

Immagine n. 1: Statuette votive del Deposito Principale di Ieracompoli esposte a Edimburgo. (©Ph. Hierakonpolis Expedition, Nekhen News vol.24, autunno 2012)
Tra le centinaia di oggetti di età proto-dinastica recuperati dal cosiddetto Deposito Principale di Hierakonpolis, i più famosi sono ovviamente la tavolozza di Narmer e le grandi teste di mazza di Scorpione e Narmer. Oltre alla loro importante decorazione, ciò che affascina di questi oggetti sono le loro dimensioni. Si trattava di oggetti che passando dall’uso “normale” a quello rituale e cultuale venivano realizzati in proporzioni decisamente impressionanti. Se le palette e le teste di mazza sono esempi noti di questo fenomeno, meno conosciuti sono i coltelli giganti, lame di dimensioni notevoli. Tre di questi provengono da Hierakonpolis. Due sono stati donati all’Ashmolean Museum di Oxford (uno è tutt’ora in mostra!), ma il terzo, il più grande, sembrava essersi volatilizzato. Fortunatamente è stato finalmente ritrovato, sano e salvo, a Edimburgo, nascosto sotto la descrizione che gli era stata data per la prima volta nel 1900: Large Flint Flake (grosso frammento di selce). Misura 79,2 cm di lunghezza, 28 cm di larghezza e 4,2 cm di spessore! (Immagine n. 2).

Immagine n. 2: Ross Irving e l’impressionante coltello gigante di Ieracompoli, ora a Edimburgo. (©Ph. Hierakonpolis Expedition, Nekhen News vol.24, autunno 2012)
Trovato insieme a frammenti della grande testa di mazza di Narmer, non ci sono dubbi sul suo significato cerimoniale. Ma a differenza delle teste di mazza e delle tavolozze, che venivano realizzate di grandi proporzioni per contenere dettagli decorativi più piccoli, tutti e tre i coltelli giganti sono… semplicemente grandi. I segni della rifinitura dei bordi possono addirittura sembrare grossolani, ma in realtà sono del tutto proporzionati all’oggetto. Tutto è in scala come se fosse visto sotto una lente d’ingrandimento. Probabilmente tutti estratti dallo stesso giacimento di selce tabulare non è difficile immaginare l’impressione che questi coltelli dovevano suscitare quando erano portati in processione.
Fonti: Renée Friedman, Nekhen News vol. 24 p. 26
Con quest’ultima curiosità terminano, almeno per il momento, i post relativi al sito di Ieracompoli. Ringrazio tutti coloro che hanno avuto la pazienza di seguirmi in questo lungo excursus dedicato ad uno dei siti più affascinanti dell’Antico Egitto.
Riferimenti:
- Friedman, RF; Watall, E.; Jones, J.; Fahmy, AG; Van Neer, W. & Linseele, V., 2002. Scavi a Hierakonpolis. Archeo-Nil 12: 55-68.
- Fahmy, AG, Fadl, M. & Friedman, RF, 2011. Economy and Ecology of Predynastic Hierakonpolis, Egypt: Archeobotanic Evidence from a Trash Mound at HK11C [in:] Fahmy, AG, Kahlbeher, S. & D’Andrea, AC (a cura di), Finestre sul passato africano. Approcci attuali all’archeobotanica africana . Francoforte: 91-118
- Harlan, JF, 1982. Scavi nella località 11C [in:] Hoffman, MA (a cura di), The Predynastic of Hierakonpolis. Associazione di studi egiziani 1. Giza/Macomb: 14-25.
- Immagini tratte da Hierakonpolis, la città del Falco, sito internet “hierakonpolis-online.org” http://www.hierakonpolis-online.org/…/hk11-settlement…
- Takamiya, I.H., 2008. Firing Installations and Specialization: A View from Recent Excavations at Hierakonpolis Locality 11C [in:] Midant-Reynes, B. & Tristant, Y. (eds.), Egypt at its origins 2. Proceedings of the international conference ‘Origin of the State. Predynastic and Early Dynastic Egypt’, Toulouse (France), 5th–8th September 2005. Orientalia Lovaniensia Analecta 172. Leuven: 187-202.
- Baba, M., 2008. Pottery-making tools: Worked sherds from HK11C Square B4, Hierakonpolis [in:] Midant-Reynes, B. & Tristant, Y. (eds.), Egypt at its origins 2. Proceedings of the international conference ‘Origin of the State. Predynastic and Early Dynastic Egypt’, Toulouse (France), 5th–8th September 2005. Orientalia Lovaniensia Analecta 172. Leuven: 7–20.
- Baba, M., 2011. Pottery Production at Hierakonpolis during the Naqada II Period -Toward Reconstruction of the firing technique- [in:] Friedman, R.E. & Fiske P.N. (eds.), Egypt at its Origins 3. Proceedings of the Third International Conference ‘Origin of the State. Predynastic and Early Dynastic Egypt’, London, 27th July – 1st August. Orientalia Lovaniensia Analecta 205. Leuven: 647-670.
- Peet, E. 1914: The Cemeteries of Abydos. Part II. 1911-1912, Egypt Exploration Fund 34. London
- Peet, E. & W.L.S. Loat 1913: The Cemeteries of Abydos. Part III. 1912-1913, Egypt Exploration Fund 35. London.
- Fred Hardtke, Macquarie University, Sydney Australia
- sito internet “hierakonpolis-online.org”
- sito internet “interactive.archaeology.org”
- The Hierakonpolis Rock Art Survey— Year of the Hippo, Days of the Donkey — by Fred Hardtke,
- Macquarie University, Sydney, Australia, in Neken News, Vol. 22 autunno 2010 pp. 12-14
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