Di Piero Cargnino
Dopo Sekhemkhet nella lista di Abidos come nel Canone Reale di Torino, compaiono due termini “hudjefa” e “sedjes” ai quali viene attribuito il significato di “lacuna”. Ciò significa che già al tempo della compilazione delle liste le fonti fossero scarse, ma potrebbe anche essere che i nomi siano stati cancellati.
Secondo Manetone dopo Sekhemkhet regnò per 19 anni un faraone che egli chiama Mesochris, gli studiosi abbinano questo nome a quello di Horo Khaba avvalendosi di quanto attestato su alcuni reperti archeologici. In questa posizione però il Canone Reale assegna un periodo di soli 6 anni.

Il nome di Khaba Nebkare compare su alcuni frammenti di vasellame provenienti da una tomba, mai completata a Zawyet el-Aryan, un paese situato lungo il bordo del Nilo, a metà strada circa fra Giza e Abusir, circa 6 km da Saqqara. In questo luogo ha sede un’antica necropoli distinguibile solo per le rovine di due costruzioni, la più antica di queste è stata identificata come la sovrastruttura di quella che avrebbe dovuto essere un’altra piramide.

Dalla tipologia della costruzione gli egittologi la individuarono come “Layer Pyramid” ovvero piramide a strati concentrici per la presenza di strati indipendenti perpendicolari al rivestimento di cui, tuttavia, è rimasto poco o nulla.
Gli abitanti della zona la chiamano in arabo “Haram el-Meduwara” (piramide rotonda).
Una prima indagine, di cui rimane solo una breve descrizione, fu eseguita dall’egittologo Perring nel 1839. Le prime descrizioni meglio documentate del monumento furono fatte tra il 1842 e il 1846 dall’egittologo tedesco Lepsius il quale dopo aver studiato il pozzo principale e i suoi dintorni ha segnato la costruzione nella sua lista dei pionieri come piramide numero XIII.
Agli inizi del 900, mentre stava lavorando a Giza, l’egittologo italiano Alexandre Barsanti si interessò al sito in modo più approfondito. Esplorò la regione dove giacevano innumerevoli frammenti di pietre di granito e grandi blocchi di calcare sparsi con al centro una profonda depressione che attirò la sua attenzione. Assoldò una cinquantina di operai i quali sgombrarono quella che parve subito come un’enorme trincea scavata nella roccia le cui pareti a strapiombo sprofondano di ventuno metri più in basso del livello del suolo circostante.

Il sito si presenta come un grande scavo a forma di T contornato da alcuni corsi di pietra calcarea. Larga 8,50 metri e lunga 110 metri al termine presenta un grande pozzo rettangolare profondo circa 30 metri che era stato riempito con enormi blocchi di calcare del peso di quasi 4 tonnellate ciascuno, gettati alla rinfusa. Barsanti scavò per oltre un anno finché riuscì a raggiungere il fondo della fossa nel 1905. Il pavimento era formato da enormi blocchi di granito e calcare perfettamente sistemati. Il caso volle che durante i lavori si verificò un’eccezionale acquazzone che riempì la fossa fino ad un’altezza di tre metri.
Ma un evento ancora più eccezionale sorprese Barsanti, improvvisamente il livello dell’acqua scese di circa un metro. Fatti due calcoli, l’acqua che era sparita corrispondeva a circa 180 metri cubi e questo portò subito a pensare all’esistenza di una camera sotto il pavimento. Iniziò quindi un lungo lavoro per spostare i blocchi del pavimento che però venne interrotto (non si sa perché) nel 1907. I lavori riprenderanno solo nel 1911. Barsanti, tornato sul luogo, si concentra in modo particolare su di un enorme blocco del peso di quasi 40 tonnellate che sospetta sia una barriera per impedire l’accesso alla ipotetica camera funeraria. Purtroppo la scarsità di fondi lo induce a sospendere i lavori, anche se in realtà non di sospensione si tratta ma decisamente di abbandono e sul suo lavoro cadde l’oblio.

Barsanti che esplorò la parte sotterranea affermò che la sottostruttura ricalca quella della piramide di Sekhemkhet in forma più semplificata ma più evoluta. In fondo al pozzo si trovano due diramazioni, da queste si presentano 32 camere disposte a pettine (magazzini per il corredo funebre?). Attraverso un secondo corridoio lungo 80 metri si giunge ad una camera sepolcrale che si trova esattamente in corrispondenza dell’asse verticale di quella che sarebbe stata la piramide.
La camera misura 3,63 x 2,65 metri ed è alta 3 metri. All’interno non conteneva traccia alcuna di sepoltura e meno che mai un sarcofago che non avrebbe potuto essere trasportato all’interno in quanto il corridoio è troppo stretto. In fondo alla trincea Barsanti rinvenne anche numerose iscrizioni in inchiostro rosso sulle pietre che però non permettono di determinare con certezza a quale sovrano questa piramide fosse destinata.

All’estremità occidentale della camera, è stata rinvenuta un’insolita vasca di granito rosa lucido di forma ovale (l’unico esempio noto in Egitto) incastonata in un blocco del pavimento.

La vasca, che misura 3,15 x 1,22 metri ed è profonda 1,5 metri deve essere stata portata sul posto durante la costruzione della fondazione essendo di misura superiore a quella del passaggio. Quando venne scoperta presentava un coperchio ovale ancora sigillato con gesso. All’interno della vasca vuota Barsanti rinvenne piccole tracce nerastre alte dieci centimetri di una sostanza sconosciuta.
Quei reperti non sono mai stati analizzati e non potranno più esserlo in quanto sono andati persi. Dopo Barsanti, gli scavi furono ripresi dall’egittologo americano George Reisner, senza però giungere ad una conclusione chiara. Va detto che le scarse relazioni di cui disponiamo sia di Barsanti che di Reisner, con piante e misurazioni si differenziano in modo sostanziale fra loro non permettendo di avanzare alcuna ipotesi certa.

Anche in questo caso, si tratta di un complesso mai ultimato; la piramide fu concepita nella forma a gradoni, doveva avere un lato di base di circa 84 m sviluppandosi su cinque o sette gradoni per un’altezza totale di 42-45 m. La costruzione si presenta, come detto, a strati concentrici inclinati verso l’interno, da cui il nome di “Layer Pyramid”. Nei suoi scavi Reisner scoprì che ai lati della piramide si trovavano i resti di una muratura in mattoni, da ciò l’archeologo dedusse che il paramento non sarebbe stato costruito in calcare bensì in mattoni crudi.
Da qui l’opposizione di altri egittologi i quali sostengono che la muratura in mattoni non avrebbe costituito il paramento ma si tratterebbe solo dei resti di eventuali rampe di servizio abbandonate con la chiusura anticipata dei lavori. In seguito il lavoro degli archeologi ha incontrato parecchi ostacoli, fino alla cessazione totale, poiché la zona in cui si trova la piramide venne occupata dai militari che costruirono una base e dal 1964 non è più possibile accedere alla zona.

Sul posto degli scavi sono stati costruiti dei bungalow militari e il pozzo è stato trasformato in discarica. In conclusione l’attribuzione della piramide al faraone Khaba deve ritenersi ancora del tutto arbitraria in quanto egittologi e storici stanno ancora discutendo sull’identità del proprietario.
Fonti e bibliografia:
- Miroslav Verner, “Il mistero delle Piramidi”, Newton & Compton Ed.
- Sergio Donadoni, “Le grandi scoperte dell’Archeologia”, Istituto Geografico De Agostini, Novara
- Mario Tosi, “Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto”, Ananke
- Enrica Leospo, “Saqqara e Giza”, Istituto Geografico De Agostini, Novara
- Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
- Edda Bresciani, “Grande enciclopedia illustrata dell’antico Egitto”, De Agostini
- Cimmino Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano 2003
- Nicolas Grimal, “Storia dell’Antico Egitto”, trad. di G. Scandone Matthiae, Bari, Laterza, 2002
- Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Oxford University Press 1961 (Einaudi, Torino 1997
- Mario Tosi, “Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto”, vol. II, Ananke, 2012 Cyril Aldred, “Gli Egiziani – tre millenni di civiltà”, Roma, Newton & Compton, 1966