Antico Regno, C'era una volta l'Egitto

LE OASI NELL’ANTICO REGNO

A cura di Piero Cargnino

Localizzazione delle Oasi in Egitto

Con la fine del regno di Unas Manetone, inspiegabilmente, fa finire anche la V dinastia e Teti viene considerato il fondatore di una nuova dinastia, la VI. Prima di addentrarci nella VI dinastia proviamo a dare un’occhiata al resto del paese.

C’era una volta l’Egitto, la splendida Valle del Nilo, si però c’erano anche le oasi.

Nell’immenso deserto occidentale dell’Egitto, lontano dalla valle del Nilo, circondate dalla distesa sabbiosa del deserto. incontriamo delle zone, più o meno grandi, dove abbonda una fiorente vegetazione e soprattutto l’acqua. Sono le oasi che dai tempi dei faraoni venivano considerate angoli di paradiso oltre a rivestire una grande importanza strategica.

Come abbiamo detto all’inizio parlando della preistoria, il deserto del Sahara non era quella distesa sabbiosa e inospitale che oggi conosciamo, in luogo della sabbia scorrevano fiumi ed erano presenti laghi, sorgenti di acqua fresca che caratterizzavano il territorio, una immensa savana dove vivevano animali di varie specie. Un ambiente che aveva permesso l’insediamento, durante il Neolitico, di vari gruppi umani di nomadi di cacciatori-raccoglitori. Con il passare del tempo però subentrarono notevoli cambiamenti climatici che causarono la desertificazione della savana. Ciò causò la migrazione delle popolazioni le quali iniziarono a spostarsi sempre più verso oriente fino a giungere sulle sponde fertili del Nilo. Questi popoli divennero stanziali e da essi, con ogni probabilità, discende la prima civiltà faraonica. L’acqua, che prima era presente in abbondanza sparì, fiumi e laghi si disseccarono ma grazie alla particolare geomorfologia nel sottosuolo rimase una grande quantità di acqua che nei punti di maggiore depressione era presente anche in superficie.

Oasi di Siwa – (Ph by Volker Scherl)

Fu grazie anche all’azione delle popolazioni locali che, scavando dei pozzi, incrementarono l’afflusso di acqua in superficie dando origine alle oasi, alcune più piccole ma altre molto estese. Le più importanti, presenti ancora oggi, sono cinque distribuite da nord a sud della vasta distesa desertica, esse sono: Siwa, Bahariya, Farafra, Dakhla e Kharga oltre alla grande depressione del Fayyum. Kharga, dopo il Fayyum, è la maggiore, con un’estensione di circa 3000 kmq che ospita numerosi villaggi dove vivono oggi circa 100.000 persone. La più piccola di esse, Farafra di circa 500 kmq situata ai margini del Deserto Bianco, conta circa 5000 abitanti. Pur facendo parte, a tutti gli effetti, del territorio amministrato dai faraoni, gli antichi egizi non le consideravano molto ad eccezione di Dakhla e Kharga che costituivano stazioni di rifornimento per le spedizioni verso il sud che si recavano alla ricerca di beni pregiati.

Oasi di Baharyya – (Ph. by Volker Scherl)

Per quanto riguarda Siwa, Bahariya e Farafra, che si trovavano nei territori occupati dalle tribù libiche, le vestigia più antiche trovate risalgono al massimo alla XXVI dinastia nonostante siano state integrate sotto il dominio egizio durante la XVIII dinastia. Ma dobbiamo arrivare al Medio Regno perché i faraoni si rendano conto che era necessario controllare questi luoghi nel deserto in quanto si trovavano lungo le strade carovaniere.

Oasi di Farafra – (Ph. by Roland Unger)

In un primo tempo venne affidata la gestione delle oasi al nomarca di Abidos anche se la cosa durò ben poco. Con Tuthmosis III (1490-1436 a.C.) si riscontra un notevole cambiamento, ciascuna oasi viene posta sotto la giurisdizione di un proprio governatore appositamente nominato, dopo alcune generazioni la carica di governatore diventa ereditaria pur continuando ad essere oggetto di un controllo amministrativo esercitato dal faraone. La vita tranquilla nelle oasi attrasse a poco a poco molte persone, nacquero città e fortezze, di conseguenza furono costruite lussuose tombe per i vari funzionari delle oasi.

Oasi di Dakhla – (Ph. by C. Sappa, DEA)

Non sono presenti nelle oasi molti resti archeologici di qualche importanza ma da vari testi si apprende che erano in essere stretti contatti tra queste fertili zone e la valle del Nilo. Troviamo un riferimento alle oasi in una delle opere cardine della letteratura antica in prosa, la “Storia dell’oasita eloquente” nella quale si narrano le sventure di un contadino dell’oasi di Farafra (detta “l’ Oasi del sale”) che si reca con i suoi asini a Eracleopoli per vendere i suoi prodotti consistenti principalmente nelle “canne di Farafra”, un tipo di canna coltivata nell’oasi, utilizzata per la costruzione di mobili o canne da pesca. L’oasita viene derubato dei suoi asini e della merce che trasportava. Si reca quindi a portare lagnanza all’intendente Rensi, durante il regno del faraone Kheti III, ultimo re della IX dinastia, dal quale, dopo un lungo colloquio, ottiene giustizia. E’ un piacevole racconto molto lungo, il cui scopo principale è quello di mettere in evidenza le nove orazioni con le quali l’eloquente oasita chiede giustizia,  di cui vi raccomando la lettura.

Oasi di Kharga – (Ph. by Kenneth Garrett)

Le oasi rivestivano comunque una notevole  importanza sia dal punto di vista commerciale che strategico, in modo particolare durante il Secondo Periodo Intermedio (1786-1633 a.C.) epoca in cui le popolazioni asiatiche degli Hyksos invasero il Delta assumendo il potere nel nord dell’Egitto. Sono stati ritrovati vari reperti quali due stele di Karnak e la tavoletta Carnarvon, che descrivono il ruolo attivo delle oasi nella guerra fra il re tebano Kamose (1555-1550 a.C.) e il principe Hyksos Apope o Apophis. Pur trovandosi sotto il controllo che il faraone esercitava sulle oasi del nord, durante il Nuovo Regno, in epoche di crisi del potere centrale diventava assai difficile governare queste aree.

Oasi del Fayyum – (Ph. by Gabe Martini)

Durante gli scontri con i nubiani e i popoli del mare, che tentarono di penetrare in Egitto dall’Asia e dalla Libia, sia il faraone Merneptah (XIX dinastia) che Ramses III (XX dinastia) molto probabilmente utilizzarono le oasi di Bahariya e Farafra come postazioni militari. Maggiore importanza rivestirono le oasi del sud in quanto utilizzate come punti di rifornimento per le rotte carovaniere dirette verso l’ Africa centrale. Una delle rotte più importanti partiva da Abydos e raggiungeva l’oasi di Kharga e da qui si dirigeva a sud e terminava all’oasi di Selima, in pieno deserto nubiano, all’altezza di Kerma (Sudan). L’importanza di questa via era tale che fu citata da Erodoto che la chiamò la “via dei quaranta giorni”, in arabo viene chiamata Darb el-Arbain.

L’OASI  DI KHARGA

Dall’oasi di Kharga partiva un’altra via carovaniera che raggiungeva l’oasi di Dakhla nella quale sono stati effettuati dei ritrovamenti presso il sito di Ayn Asil dai quali è possibile dedurre che l’oasi raggiunse la sua massima estensione durante il regno di Pepi II. Recenti scavi hanno messo in evidenza la residenza degli amministratori del faraone le cui sepolture si trovano in grandi mastabe nella vicina necropoli di Qila el-Dabba.

Rilievo del tempio di Amon a Hebit, nell’oasi di Kharga

Un documento molto interessante che ci parla dei percorsi carovanieri delle oasi da parte degli egizi lo troviamo nelle iscrizioni autobiografiche rinvenute sulle pareti della tomba di Harkhuf (o Hirkhuf o Horkhuef) a Qubbet el-Hawa, presso Assuan. Harkhuf fu un nomarca di alto rango sotto i regni dei faraoni Merenre I e Pepi II (VI dinastia), esperto in grandi spedizioni, venne incaricato da Pepi II di avanzare nel deserto verso la Nubia. Qui Harkhuf incontrò il governatore di uno Stato africano intenzionato a  distruggere una tribù libica, dopo averlo convinto a desistere lo seguì nella sua terra ove soggiornò alcuni mesi tornando poi carico di doni di quella terra.

Palazzo del governatore e necropoli dell’oasi di Dakhla

Dalle iscrizioni nella sua tomba si apprende che Harkhuf organizzò almeno quattro spedizioni dall’Alto Egitto fino a Yam, dalle quali tornò ogni volta carico di merci per il faraone. Nella sua autobiografia incisa sulla parete della sua tomba rupestre, Harkhuf racconta che scrisse al faraone che gli avrebbe portato in dono un nano ballerino.  L’iscrizione riporta pure la risposta di Pepi II:

<< Tu hai detto in questa lettera che hai portato un nano danzante del dio dalla terra degli spiriti di Yam , simile al nano che il tesoriere del dio, Burded, portò da Punt  ai tempi di Isesi…….Torna alla corte subito, devi portare con te questo nano che hai preso vivo, prospero ed in salute…….danzerà per rallegrare ed allietare il cuore del Re dell’Alto e Basso Egitto Neferkara (Pepi II), che viva in eterno…….>>.

Col tempo i faraoni pensarono che, data la loro lontananza, le oasi erano il posto ideale per esiliare i nemici liberandosi così della loro presenza senza ricorrere alla pena di morte. Si sa che tra la fine della XX dinastia e l’inizio della XXI, a cavallo dei regni di Ramesse XI e Smendes I, il profeta di Amon a Tebe Pinedjem I, grazie al potere ormai acquisito dal clero, decise di affidare l’incaricodi profeta di Amon al proprio figlio Masuharte (1055 a.C.), dopo di che si attribuì titoli regali.

Ovviamente il faraone si oppose e questo provocò una specie di rivolta che si protrasse per 10 anni fino al 1045 a.C. e che si concluse con la deportazione di tutti i capi dell’opposizione nell’oasi di Kharga. L’evento è riportato nella “Stele dell’esilio” fatta erigere dal gran sacerdote di Amon Menkheperra, sulla stele viene rappresentato il dio Amon davanti al suo tempio mentre ascolta le suppliche del sacerdote per gli esiliati dell’oasi di Kharga. 

L’OASI  DI EL-FAYYUM

Vediamo ora come si presentavano le oasi, partendo dal nord incontriamo quasi alla stessa altezza Siwah e el-Fayyum.

Come oasi el-Fayyum (in arabo Wahet el-Fayyum) copre un’area che si estende tra i 1.270 e i 1.700 kmq nel deserto libico a circa 130 km a sud-ovest del Cairo e prende il nome dalla vicina città di Medinet el-Fayyum. Occupa una posizione poco distante dal Nilo e consiste in una vasta area coltivabile i cui campi vengono irrigati  attraverso uno o più canali del Nilo, particolarmente importante è il Bahr Yussef lungo 24 km. Al centro della depressione chiamata Birket Qarun che si trova a circa 45 metri sotto il livello del mare, si estende il lago Qarun, un tempo chiamato Meride il lago era molto più grande, oggi, purtroppo, il lago si è ritirato molto anche se misura ancora più di 200 kmq con una profondità massima di circa 8 metri.

Purtroppo il livello di sale nelle acque del lago sta crescendo e ricopre le spiagge di cristalli di sale rendendolo inadatto al nuoto. Data la relativa vicinanza alla valle del Nilo el-Fayyum era già molto apprezzata fin dall’antichità, il faraone Amenernhat III fece costruire una serie di canali che consentirono un ampliamento della zona coltivabile. In epoca più tarda divenne uno dei luoghi preferiti dai faraoni che si recavano a trascorrere momenti di svago. Grazie alle fiorenti coltivazioni di frutta e verdura, il paesaggio si mostra così lussureggiante che ancora oggi è considerato il “giardino dell’Egitto”.

Sulla sponda settentrionale del lago Qarun ci troviamo di fronte ad un misterioso fenomeno decisamente inspiegabile, la costa presenta una miriade di strani buchi nel fango, allineati in modo abbastanza regolare. In quelli che emergono dall’acqua nidificano i gabbiani anche se è improbabile che siano stati gli uccelli a scavarli.

All’estremità occidentale del lago si trova il tempio di età tolemaica di Qasr Qarun, dedicato al dio-coccodrillo Sobek, in epoca antica le paludi vicine erano piene di coccodrilli. Dopo il restauro effettuato nel 1956 è possibile visitare il tempio anche negli ambienti sotterranei (con molta prudenza per la presenza di serpenti), è inoltre possibile salire sul tetto per ammirare il paesaggio del deserto circostante.

Il tempio di Qasr Qarun riserva uno spettacolo ai turisti che si trovano al suo interno il 21 dicembre quando, in concomitanza con il solstizio d’inverno e l’inizio della stagione più fredda, i raggi del sole penetrano all’interno dell’edificio e vanno ad illuminare  la parte più interna che è sempre al buio, il sancta sanctorum con le statue del dio Sobek, proprio come avviene due volte l’anno nel Tempio Maggiore di Abu Simbel.

Presso la più grande città greco-romana del Fayyum, Kiman Faris, l’antica Crocodilopolis (Arsinoe), è stato recentemente (2015) inaugurato il museo all’aperto del centro dedicato al culto di Sobek, il centro fu fondato da Tolomeo II Filadelfo (285-246) come sede dei mercenari del suo esercito.

All’estremità orientale del Fayyum si trova la necropoli di Fag el-Gamous dove gli archeologi statunitensi dell’Università di Provo, Utah, che scavano il sito da oltre trent’anni, hanno scavato più di 1700 sepolture. Utilizzata in epoca romana e bizantina fino al VII secolo d.C. era destinata in modo particolare alla gente comune, i corpi sono sepolti senza bare e senza corredi è la mummificazione è naturale grazie al clima secco della zona.

Rimane un mistero il fatto che la necropoli sia così vasta quando il vicino villaggio è troppo piccolo per giustificare una simile estensione e la città di Filadelfia (da Tolomeo II Filadelfo) possiede già una sua necropoli.

Altra importante area archeologica è Kom Aushim, che custodisce le rovine di Karanis, una città sorta nel III secolo a.C, all’estremità orientale del bacino.

Esistono anche testimonianze di epoca cristiana come il Monastero dell’Arcangelo Gabriele a Naqlun.

Altra località nel Fayyum è Medinet Madi (Narmouthis in greco) ove si trovano i resti di un tempio tolemaico, modificato in epoca romana. All’interno del tempio si trova l’unico esempio di edificio di culto risalente al Medio Regno (XII dinastia) riportato alla luce nel 1935 dall’egittologo italiano Achille Vogliano.

A sud est di  Medinet Madi si trova il sito archeologico di Tebtynis (Tepten in greco, Oumm el-Baraga in arabo) fondato durante la XIII dinastia, fu abitato fino al XIII secolo d.C., qui sono stati scoperti gli archivi sacerdotali, in geroglifico e demotico, oltre a papiri di epoca tolemaica e romana, sono state rinvenute anche diverse mummie di coccodrillo. Scavi risalenti ad epoche precedenti hanno portato alla luce diverse chiese decorate con affreschi.

Di rilevante interesse è il “Labirinto di Meride” una costruzione annessa al tempio funerario di Amenernhat III. Scoperto da Flinders Petrie nel 1888 che rinvenne i nomi di Amenernhat III e della figlia Sebeknofru venne citato da molti storici antichi, Manetone racconta:

<<…..egli costruì il Labirinto nel nomo di Arsinoe, come tomba per sé……>>. Divenne molto conosciuto grazie alla descrizione di Erodoto: <<…….stabilirono, poi, anche di lasciare un monumento a ricordo del comune dominio……..costruirono il Labirinto, che si trova un po’ sopra il lago Meri, press’a poco all’altezza di quella che è detta la «città dei coccodrilli…….>>.

Strabone lo descrive proprio alla stregua di un labirinto: <<……. si aprono numerose e lunghe gallerie sotterranee, collegate fra loro da tortuosi passaggi; sicché senza guide per nessun visitatore è possibile entrare e uscire…….>>. Anche Pitagora visitò il sito: <<……Il mio interprete mi condusse nel labirinto all’estremità del lago Meride……..in virtù del sigillo reale, che ne apriva l’ingresso……… >>. Gardiner ebbe a dire che era del tutto simile a quello di Cnosso.

Di notevole importanza sono i “Ritratti del Fayyum”, circa 600 ritratti funebri risalenti all’epoca tolemaica, principalmente sotto Tolomeo II Filadelfo, ed all’epoca romana (vedi anche: https://laciviltaegizia.org/2021/11/06/i-ritratti-del-fayyum/). I dipinti sono realizzati  per lo più su tavole lignee e ricoprivano il volto delle mummie mettendo in evidenza la loro immagine.

L’OASI  DI SIWA

Spostiamoci ora verso occidente per andare a visitare l’Oasi di Siwa. Si, spostiamoci ma non in linea retta, non abbiamo la tempra dei beduini e per evitare spiacevoli inconvenienti è meglio se prendiamo la strada che dal Cairo porta a Marsa Matruh poi di li ci dirigiamo verso Siwa, sono solo 750 km. in tutto, circa 8 ore e 21 minuti di viaggio.

Siwa è il nome berbero dell’oasi più occidentale dell’Egitto. Si trova nel Governatorato di Matrouh quasi al confine con la Libia, via strada è collegata con Marsa Matrouh e con l’oasi di Bahariya. L’oasi si trova in una depressione di circa 18 metri sotto il livello del mare ed è molto ricca di acqua, pare (da verificare) che un’impresa italo-egiziana imbottigli parte di quest’acqua che poi viene  commercializzata in gran parte dell’Egitto.

L’enorme presenza di acqua dell’oasi è spesso fonte di gravi problemi in quanto se il livello aumenta troppo c’è il rischio che vengano allagati i terreni coltivati ma non solo, si potrebbe verificare che l’acqua raggiunga le grandi distese di sale e quindi spargendosi renda sterili i campi. Per ovviare a questo inconveniente è necessario tenere sotto controllo la situazione ed agire con una costante opera di drenaggio delle acque. Il fatto che la sua posizione è molto spostata verso occidente fa si che i suoi abitanti (circa 15.000) siano tutti berberofoni in quanto la lingua parlata è il berbero.

Sono stati ritrovati strumenti fabbricati in selce che testimoniano che Siwa era già abitata nel Paleolitico e nel Neolitico. I primi documenti storici risalgono al Medio e Nuovo Regno anche se, vista la distanza dal centro del potere, è molto improbabile che i faraoni ed i loro governatori abbiano realmente governato su Siwa, ne è una prova la mancanza di edifici risalenti a questo periodo.

Il nome Siwa deriva dall’arabo Wahat Siwah, che significa “Protettore del dio del sole egiziano Amon-Ra”. L’oasi è famosa per il tempio dedicato al dio sole a testa di ariete Amon-Ra, che nel 700 a.C. circa, ospitava un oracolo divino la cui fama era diffusa nel Mediterraneo orientale. Erodoto ci racconta che le tribù che abitavano Siwa nei tempi antichi erano gli Ammonii. Ancora oggi, come un tempo le costruzioni dell’abitato di Siwa, che si stende ai piedi dell’antica cittadella (Shali), presenta un’architettura molto suggestiva e del tutto particolare, le abitazioni sono costruite con materiali ricchi di salinità presi sul luogo, con l’umidità tendono a sciogliersi, per cui ogni pioggia richiede frequenti restauri.

La società tradizionale di Siwa coltivava usanze del tutto particolari, esisteva la casta dei nullatenenti (zaggala) ai quali era imposto il divieto di sposarsi prima di una certa età, lavoravano come braccianti nei campi ed erano costretti a vivere all’esterno dell’abitato, conducevano una vita promiscua ed erano frequenti veri e propri “matrimoni omosessuali”. Oggi queste usanze  sono quasi del tutto scomparse e gli zaggala sono noti per le loro canzoni che vengono anche riprodotte su cassette e diffuse nel paese.

Molto nota la storia che ci riporta lo storico Erodoto sull’Armata perduta di Cambise. Il re Cambise di Persia, figlio di Ciro il Grande, nel 524 a.C., dopo aver conquistato l’Egitto venne a sapere che l’oracolo di Siwa aveva predetto che le sue conquiste in Africa avrebbero presto vacillato, come in effetti fecero. Colmo di rancore nei confronti dell’oracolo, Cambise inviò un’armata di 50.000 uomini a Siwa per distruggere l’oracolo. L’intera armata però non raggiunse mai Siwa, di essa non se ne seppe più nulla, forse inghiottita per sempre dalle sabbie del deserto come racconta Erodoto:

<<………transitata l’armata dall’oasi (di Kharga), di essa nessuno seppe più alcunché, ma quando aveva ormai percorso circa la metà del tragitto che la divideva dalla meta (Siwa), mentre erano intenti gl’uomini al pasto, soffiò contro di loro un vento del sud insolitamente impetuoso e trascinando vortici di sabbia li seppellì, ed essi scomparvero in questo modo. Gli Ammonii dicono che questo è avvenuto di tale spedizione……..>>.

Recenti scoperte archeologiche ad opera dei fratelli Angelo e Alberto Castiglioni parrebbero confermare la versione tramandata dallo storico greco. Ma un altro condottiero famoso decise di consultare l’oracolo di Amon a Siwa, Alessandro Magno, il macedone. Dopo aver sconfitto il re persiano Dario nella battaglia di Issus nel 333 a.C. Alessandro viene proclamato faraone d’Egitto. Due anni sopo, nel 331, Alessandro lascia la città che aveva appena fondato, Alessandria, con l’intento di andare a consultare l’oracolo di Siwa ma lui non fece l’errore dell’armata di Cambise, non puntò direttamente sull’oasi ma si diresse prima a Marsa Matruh e di qui, come avviene ancora oggi, marciò verso Siwa lungo la strada del deserto. Non si sa con certezza ma con ogni probabilità Alessandro fece il viaggio a Siwa poiché tutti i faraoni della XXVIII dinastia si erano recati a Siwa per essere riconosciuti come figli di Amon-Ra dall’oracolo del  tempio, infatti da allora tutti i faraoni sono raffigurati con le corna di ariete di Amon sulla loro testa. Forse fu la brama di veder legittimato il potere divino a portare Alessandro a Siwa. Secondo molti erano talmente grandi i vincoli che univano il conquistatore macedone all’oracolo che egli abbia deciso di farsi seppellire

L’acqua dell’oasi di Siwa – (foto propria)

L’OASI  DI BAHARIYA

Come promesso partiamo per una nuova escursione nelle oasi egiziane e, scendendo verso sud-ovest del Cairo, nel deserto occidentale, dopo circa 400 km. arriviamo all’oasi di Bahariya (in arabo al-Wahat al-Bahariyya, spesso solo Bahariya che significa “Marina”).

I latini la conoscevano come “Oasi Parva” (Piccola oasi). Strabone la chiama la ‘Seconda Oasi’. Eccoci arrivati, ci troviamo in una depressione quasi ovale di circa 2.000 kmq e siamo circondati da montagne che ci offrono numerose sorgenti di acqua fresca. Sita nel governatorato di Giza, Bahariya, l’oasi comprende diversi villaggi il maggiore dei quali, che è pure il centro amministrativo, è Bawiti, non molto lontano troviamo il villaggio di Qasr el-Miqisba del tutto simile a Bawiti. Dieci km ad est si trovano i villaggi di Mandishah e al-Zabu ed a metà strada da Bawiti si incontra il piccolo villaggio di Aguz Harrah che è anche il villaggio più orientale. E ancora un ultimo villaggio el-Haiz, che però non sempre viene considerato come parte dell’oasi, data la distanza da Bahiti di circa 50 km.

Ad el-Haiz si trova un insediamento preistorico dove sono stati rinvenuti resti di macine, punte di freccia, raschietti, scalpelli e gusci d’uovo di struzzo. Per secoli Bahariya è stata considerata tappa obbligatoria per le carovane provenienti dal nord dell’Africa e dirette alla Mecca. Da Bahariya partono strade che la collegano alle altre oasi, Siwa, el-Fayyum, Farafra oltre al Cairo.

Abitata fin dal paleolitico, durante il Medio Regno fu un centro commerciale e culturale. Si trattava di un centro agricolo importante, i prodotti dell’oasi consistevano in guava, mango, datteri e olive, ma soprattutto era la produzione di vino che veniva esportava in grandi quantità nella Valle del Nilo. Secondo molti egittologi, nel periodo greco-romano vantò un notevole aumento demografico, la popolazione in quel periodo contava oltre mezzo milione di individui.

Gli abitanti dell’oasi sono detti Wahati (oasiti in arabo) e sono discendenti dalle tribù nomadi che abitavano l’oasi nell’antichità, provenienti  principalmente dalla Libia, e da altre tribù che provenivano dalla Valle del Nilo. Tra i monumenti più importanti a Qarat el-Toub troviamo una vecchia struttura consistente in una fortezza militare di epoca romana, segue un gruppo di due o tre tombe ed un tempio di Amon-Ra risalente alla XXVI dinastia.

A Qasr el-Miqisba si trovano le rovine di un tempio greco eretto in onore di Alessandro Magno, nel 332 a.C. Alcuni egittologi ritengono che il conquistatore greco sia passato da Bahariya di ritorno dall’oracolo di Ammon a Siwa.

Due miglia a sud di Bahariya, nel 1900 Giorgio Steidorff scoprì il sito di Garet-Helwa, che si trova vicino alla tomba di Amenhotep, chiamato Huy eretta in Qarat Hilwah alla fine della XVIII dinastia. L’oasi comprende una delle delle più importanti necropoli d’Egitto risalente all’epoca tolemaica situata nell’area desertica a circa 6 km da El-Bawiti, a sud del tempio di Alessandro Magno.

Nel 1996 una spedizione archeologica guidata dal Dr. Zahi Hawass mentre stava effettuando scavi nella necropoli successe una cosa strana, uno degli operai stava trasportando materiale con un mulo quando l’animale rimase impigliato in una buca con una zampa, scavando attorno per liberarlo si rivelò una tomba. Allargando lo scavo emerse una tomba contenente diversi corpi imbalsamati in modo naturale accatastati alla rinfusa. I corpi, in ottimo stato di conservazione, si presentavano ricchi di decorazioni e interamente ricoperti d’oro. Con sorpresa venne rinvenuto il corpo imbalsamato di una madre con quello del figlio stretto al petto. Gli scavi continuarono in quelle “tombe di famiglia” nelle quali furono trovate 142 mummie con tutt’intorno scarabei, collane, orecchini di corniola, braccialetti d’argento ed accanto immagini del dio della fertilità, Bes. Gli scavi continuano e si stima che vi si possano trovare circa 10.000 mummie le cui sepolture risalirebbero al I e II secolo d.C. La località venne battezzata la “Valle delle Mummie d’Oro” e venne istituito in loco un piccolo museo dove sono state sistemate le mummie d’oro.

I riti funebri di quel tempo avevano subito una  profonda trasformazione, i corpi non venivano più imbalsamati e le viscere del defunto non venivano più estratte e riposte nei vasi canopi, si nota anche la scarsa presenza di sarcofagi. La mummia veniva avvolta in coperte e sul capo veniva posta una maschera di cartonnage con dipinta l’immagine del defunto, come abbiamo visto nel Fayyum. Nei pressi del centro dell’oasi sono emerse anche due tombe precristiane che si trovano in un tumulo, quella di Zed Amun Ef Ankh e del proprio figlio Banentu.

Il sito dove si trovano le due mummie è estremamente interessante in quanto si presenta del tutto integro, non saccheggiato e trafugato da sciacalli, le immagini presentano ancora un colore quasi del tutto integro e i geroglifici che le corredano non hanno nulla da invidiare a quelli delle tombe della Valle dei Re, altro aspetto interessante è che le mummie denunciano la loro appartenenza a tutti gli strati sociali. Attualmente nella necropoli sono in corso gli scavi e quindi l’intera zona è interdetta al pubblico. Anche gli altri siti archeologici, la necropoli e le rovine del tempio di Ra non sono visitabili, ma e probabile che il sito denominato “Valle delle Mummie” diventi presto un grande museo all’aperto.

Nel maggio del 2000 vennero effettuate ulteriori indagini, alcune delle quali vennero riprese in diretta da un noto canale televisivo, che portarono alla luce la tomba di Djedkhonsuefankh il cui nome significa “Khonsu parla ed egli vive” (1045 a.C. circa), la tomba si trova a Karet el-Salim, vicino al cenotafio dello sceicco Soby, nei pressi della città di El Bawiti. Djed-Khonsu-Ef-Ankh, che rivestì la carica di Profeta di Amon durante la XXVI dinastia. Già conosciuto dagli archeologi che lo cercarono per decenni, Djedkhonsuefankh fu il più potente governatore di Bahariya nel Nuovo Regno. Potrebbe essere il figlio di Pinedjem I morto durante la ribellione scoppiata nella Tebaide contro la dinastia dei Primi Profeti di Amon.

All’interno della sua tomba, gli archeologi hanno trovato un sarcofago in pietra calcarea, all’interno del quale è stata scoperta una bara di alabastro che conteneva la mummia. Sia i greci che i romani, affascinati dalle pratiche e dai riti funerari degli egizi, li adottarono anch’essi, ciò si evince dalle iscrizioni nelle tombe che attestano la provenienza non solo egizia ma anche greca e romana.

Finiamo con due curiosità, nel 1934 il paleontologo tedesco Ernst Stromer rinvenne nell’oasi di Bahariya i resti della “lucertola di Bahariya” dinosauro datato circa 95 milioni di anni fa; nel 1944, in piena Seconda Guerra Mondiale un team americano guidato dal paleontologo Joshua Smith trovò i resti di un dinosauro della specie “Paralitian stromeri” (gigante della marea) risalente a circa 100 milioni di anni fa. Lasciamo ora i dinosauri per scendere verso sud-est e ci dirigiamo all’oasi di Farafra distante circa 200 km.

L’OASI  DI FARAFRA

Incamminiamoci ora per l’oasi di Farafra. Incamminiamoci si fa per dire nel senso che, magari a bordo di un fuoristrada, percorriamo i circa 180 Km di tragitto attraverso il deserto e località suggestive quali il Deserto Nero, la valle di El Agabat e la montagna di Cristallo. Dopo un paio d’ore eccoci giunti alla più piccola oasi del deserto occidentale, a metà strada tra Dakhla e Bahariya.

L’oasi di Farafra si trova a nord-ovest di El Dakhla, presso le rovine di Kasr El Farafrah, di Kasr Abou Monkara e del cimitero di El Bagawat. L’insediamento maggiore, Qasr Farafra, è costruito attorno a una fortezza ora in rovina, ci vivono circa 5.000 abitanti la maggior parte dei quali sono beduini che abitano in piccole case di terra, per la maggior parte dipinte di blu per allontanare, secondo una credenza, gli spiriti maligni, sono famosi per il loro fervore religioso e la fedeltà alle tradizioni.

La scarsità dei pozzi presenti nell’oasi è sempre stato un  ostacolo per gli insediamenti, in tempi più recenti il governo egiziano ha costruito edifici in cemento per attirare nella zona nuovi abitanti. Principale occupazione è la coltivazione, l’oasi è interamente coltivata a ulivi e albicocchi oltre ai datteri che la natura fornisce. Nell’antichità l’oasi era famosa come la “terra delle vacche dei faraoni”. Studi recenti hanno appurato che qui, come in altre località in Egitto, si svilupparono le prime forme di agricoltura durante le fasi culturali di Badari e Naqada (V-IV millennio a.C.).

Vicino a Farafra si trovano le sorgenti calde di Biʾr Sitta e il lago di al-Mufīd e, un poco più lontano verso nord, si trova il “Deserto Bianco” (al-Ṣaḥrāʾ al-Bayḍāʾ), formato da numerosi faraglioni di calcari fossiliferi, erosi dal vento in forme bizzarre che emergono dalle sabbie gialle del deserto.

La particolarità di questo deserto consiste nella crosta di calcare formatasi quando l’intera area era coperta dal mare, forma un paesaggio unico al mondo dall’aspetto quasi lunare; in esso è presente una gran quantità di fossili e coralli incastonati nella roccia.

Pur risalendo ai tempi dei faraoni, a Qasr Farafra non vi sono monumenti, viene citata su alcune stele rinvenute nella Valle del Nilo come importante tappa per il rifornimento d’acqua di carovane ed eserciti che transitavano nel deserto. Una strana casa di mattoni ospita il Museo Badr dove sono esposte le opere del figlio più illustre di Farafra, l’artista Badr, un artista che nei suoi quadri e nelle sue sculture ritrae gli abitanti del villaggio nelle loro occupazioni quotidiane.

Tra il VII e il VI millennio a.C. si formò nel Deserto Occidentale una vera cultura delle Oasi, Farafra rappresenta oggi lo scenario più completo e articolato. I piccoli villaggi di Hidden Valley e di Sheikh el Obeiyid nella parte nord della depressione mostrano la nascita di una cultura neolitica caratterizzata da insediamenti semi-sedentari in villaggi. Un paio di chilometri a nord della grotta di Hidden Valley sono state rinvenute incisioni e pitture rupestri che denotano un ruolo rituale e di culto per coloro che transitavano nell’area. Nell’oasi troviamo l’unica chiesa cristiana del deserto occidentale, la chiesa di San Giorgio del V secolo d.C., è considerata uno dei monumenti cristiani più importanti delle oasi.

L’OASI  DI DAKHLA

Adesso alziamoci di buon’ora e con una jeep partiamo attraverso il deserto. Un tour già predisposto con partenza da Baharia ci porta verso Farafra, senza dimenticare di passare da Abu Tuyur, un luogo stupendo, con formazioni che confrontate con quelle del Deserto Bianco sono meno sagomate ma più imponenti. Dopo aver pranzato a Farafra ed esserci bagnati nelle vasche d’acqua pulita dei canali d’irrigazione proseguiamo per strada asfaltata e, dopo un breve tragitto fuori strada attraverso le dune di sabbia della zona, raggiungiamo Dakhla.

L’oasi di Dakhla fa parte del Governatorato di Wadi al Jadid e si trova a circa 350 km dalla Valle del Nilo quasi a metà strada tra le oasi di Farafra e Kharga, ha una lunghezza di circa 80 km e larghezza da nord a sud di circa 25 km.. La depressione ha un’area di 410 km2 (dei quali 107 sono occupati da due oasi molto fertili), ospita giacimenti di fosfati. Sono presenti anche industrie del Musteriano evoluto, del Paleolitico medio e del Neolitico antico.

Recenti ricerche indicano che Dakhla era già abitata sin dalla preistoria. Durante la tarda epoca faraonica l’oasi assunse una notevole importanza per la ricchezza dei suoi pozzi che furono regolarmente accatastati dal sovrano Psusenne unitamente ai terreni. E’ formata da un gruppo di piccoli e pittoreschi villaggi in mattoni di fango tra frutteti e campi rigogliosi che si allungano da est ad ovest lungo la strada principale e comprende più di 600 sorgenti e laghetti naturali. I suoi 70.000 abitanti sono distribuiti nei vari villaggi di cui il più caratteristico dei quali è El Qasr. Costruito in età medievale sui resti del villaggio romano di Al Balat e il tempio di Deir El Hagar. Presenta inoltre le vestigia di alcuni antichi palazzi oltre ad un’interessante moschea del XII secolo e una madrasa del X secolo.

Come detto sopra tutte le case sono costruite con mattoni di fango e si trovano una vicino all’altra per ripararsi dal sole, le viuzze tortuose a volte sono coperte formando degli spazi silenziosi avvolti nell’ombra e sulle case si trovano degli architravi in legno dal disegno assai elaborato. Percorrendo una pista che parte da El Qasr, dopo circa 3 km si arriva alle tombe di El-Muzawaka di eta romana. Le due più belle sono quelle di Petosiris e Sadosiris, dipinte con bellissimi colori splendenti, mentre una terza contiene quattro mummie. Più a ovest, isolati nel deserto, sorgono i resti del tempio di Deir al-Hagar che l’imperatore Nerone fece costruire nel primo secolo d.C..

Dagli scavi effettuati nel sito di Beer El-Shaghala sono emerse altre due tombe di epoca romana con pareti dipinte di colori vivaci. Mostafa Waziri, segretario generale del Supremo Consiglio delle Antichità egizie spiega che la prima tomba presenta una scalinata di 20 gradini interamente rivestita di intonaco attraverso la quale si giunge in una stanza di mattoni di fango con il soffitto a volta in parte distrutto. Sul lato nord si trovano due camere funerarie contenenti teschi e scheletri umani, lampade e vasi in terracotta.

A Dakhla è stata trovata la famosa Stele, risalente ai tempi del faraone Sheshonq I, la “Stele di Dakhla” che narra di una richiesta all’oracolo del dio Seth in merito ad una disputa sulla proprietà dell’acqua di un pozzo. Gli scavi, nel 2014, hanno inoltre portato alla luce una scuola romana sulle cui pareti era presente un brano scritto in greco dell’Odissea di Omero.

Le ricerche di una missione locale hanno portato alla scoperta di un tesoretto di monete d’oro. Si tratta di un piccolo vaso ancora chiuso da un coperchio d’argilla contenente 10 solidi aurei risalenti al regno di Costanzo II (337-361), figlio di Costantino il Grande.

Altro centro abitato e Mut, un villaggio cosparso di piccole casette che ospita un Museo Etnografico che espone sculture dell’artista locale Mabrouk. L’oasi è ricca di sorgenti calde sulfuree, a circa 3 km da Mut si trova quella più vicina, Mut Talata. Percorrendo la strada che conduce da Mut a Kharga si incontra il villaggio di Balat, costruito in epoca medievale sulle rovine di un insediamento dell’Antico Regno che commerciava con Kush (l’antica Nubia), poco oltre si incontra il villaggio di Bashandi che possiede un bellissimo centro storico.

L’OASI  DI KHARGA

Partiamo ora da Dakhla per raggiungere la più meridionale delle oasi del deserto occidentale, Kharga o el-Kharga, che in arabo significa “l’esterna”, (Oasi Magna per gli antichi).

L’Oasi, o per meglio dire il gruppo di oasi che compongono Kharga, ha una forma allungata, si estende per circa 180 km da nord a sud con una larghezza variabile da 20 a 80 km ed una superficie di circa 1500 kmq e si trova a 200 km dalla Valle del Nilo, l’oasi copre una depressione di circa -18 metri, va però detto che le vere e proprie oasi occupano oggi solo poco più che 19 kmq, un tempo al suo interno si trovava un lago oggi scomparso. Si arriva da Dakhla percorrendo la strada che attraversa il deserto fino ad Asyut,

Kharga, conta circa 10.000 abitanti dediti principalmente alla coltivazione di orzo, grano e cotone. Un tempo era conosciuta come “Oasi del sud” e costituiva  un punto di riferimento per le carovane in arrivo dalla regione subsahariana che, attraverso la “via dei quaranta giorni”, principale via di transito per il traffico degli schiavi nel periodo della dominazione araba, arrivava alla Valle del Nilo. Capoluogo dell’oasi e El-Kharga, nel governatorato della New Valley Egiziana, modesta città oasita, l’oasi offre un paio di hotel, un Museo Archeologico nel quale sono esposti notevoli reperti archeologici provenienti da Kharga e Dakhla e conserva materiale proveniente da scavi locali e i cui reperti di maggiore spicco sono costituiti da una collezione di utensili preistorici.

I più antichi resti conosciuti risalgono all’Acheuleano evoluto (400.000 anni fa). Dopo aver attraversato un periodo molto arido, intorno ai 50.000-10.000 anni fa, l’oasi si riformò e fu nuovamente abitata agli inizi dell’Olocene, con complessi litici classificati come ‘epipaleolitici’. Si possono visitare numerosi luoghi di interesse archeologico nei quali sono stati effettuati ritrovamenti che testimoniano l’importanza raggiunta da Kharga in passato, antichi templi, roccaforti e villaggi. Ancora molto evidenti sono le tracce della via carovaniera che raggiungeva il Sudan. V

icino a Kharga, si trova la fortezza romana di Qasr el Labeka, il Museo etnico dell’oasi, il Tempio Romano di Hibis, e il cimitero cristiano con le sue cappelle dipinte.

Non molto lontano dal  centro abitato si trova il Tempio di Hibis, fatto erigere dall’imperatore persiano Dario nel VI secolo a.C, dedicato alla triade tebana, composta da Amon, Mut e Khonsu.

Quasi di fronte al tempio, in una posizione un po’ rialzata, sorgono le rovine del Tempio-Fortezza di an-Nadura, costruito dall’imperatore Antonino Pio nel 138 d.C,

Salendo verso nord si incontra la  suggestiva Necropoli di el-Bagawat dove si trovano centinaia di tombe costruite con mattoni di fango nel IV-VI secolo d.C. che si presentano con cupole decorate da affreschi copti. Le tombe sono costituite da una camera con soffitto a cupola e da un’abside. In alcune di esse è presente anche un’anticamera.

Si trovano anche due mausolei, uno dedicato all’Esodo ed uno alla Pace arricchiti da pitture di argomento biblico. Una pista dietro la necropoli conduce alle rovine di Deir el-Kashef, uno dei primi monasteri copti.

Dirigendosi verso sud si incontrano i resti di due fortezze, Qasr el-Ghueita, all’interno della quale si trova un tempio di età tolemaica ancora in buone condizioni e, nei pressi di un moderno villaggio, Qasr el-Zaiyan, fatta edificare dai romani.

L’oasi di Baris è la seconda per dimensioni nell’area di Kharga. Nella prima metà del secolo scorso vennero realizzate delle abitazioni nel tipico stile nubiano, disegnate dall’architetto Hassan Fathy. Non furono però gradite dagli abitanti per la loro somiglianza a tombe e non sono mai state abitate, i locali si sono cercati altre case causando così l’arresto dell’espansione della cittadina.

Interessante è il Tempio di Dush, dedicato alla Dea Iside e Serapis, nell’Oasi di Baris. Il nome che venne assegnato al tempio risente dell’assonanza con quello di Kush, antica capitale sudanese. Sono in corso ulteriori scavi che stanno rinvenendo l’antica citta di Kysis. Dagli scavi è emerso un ingegnoso sistema di tubazioni in argilla nel sottosuolo ed il ritrovamento di una chiesa cristiana, testimoniano il destino della città quando le sue fonti sotterranee si prosciugarono. La data esatta di questo evento rimane pero ancora un mistero.

Nei dintorni di Baris si incontrano le rovine del tempio di al-Ghueita, risalente alla XXV dinastia. Il tempio si compone di quattro sezioni: un cortile, una sala ipostila con quattro colonne, un vestibolo e tre camere interne, di cui solo la sala centrale è decorata. Sulla facciata e sugli stipiti del portale d’ingresso si trovano scene e iscrizioni di Tolomeo III Evergete I in rilievo. Sono inoltre presenti le più imponenti rovine dell’area, la fortezza romana di Qasr ed-Dush.

Fonti e bibliografia:

  • National Geographic, “Le oasi”, Articolo di José Miguel Parra, 2021
  • M. Lichtheim, “Ancient Egyptian Literature: A Book of Readings”, Vol. 1, Berkeley, 1973
  • Edda Bresciani, “Grande enciclopedia illustrata dell’antico Egitto”, De Agostini, 2005
  • Miriam Lichtheim, “Ancient Egyptian Literature: A Book of Readings”, Vol. 1, Berkeley, 1973
  • George W. Murray, “Harkhuf’s Third Journey, in The Geographical Journal”, vol. 131, n. 1, 1965
  • Mario Tosi, “Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto”, vol.I, Ananke, 2004
  • Ahmed Fakhri, “Siwa Oasis”, American University in Cairo Press, Cairo, Egitto
  • Alain Blottière, “L’Oasis”, éditions Payot, (Petite Bibliothèque Payot / Voyageurs), 2002
  • Ahmed Fakhri, “Bahariya and Farafra”, AUC Press, reprinted 2003
  • Arthur Verhoogt, “The Tebtunis Papyri at The Bancroft Library”, Bancroftiana,1994
  • Mattia Mancini, “Inaugurato il museo all’aperto di Kiman Faris (Fayyum)”,  Articolo su Djed Medu, 2015
  • Martin Gray, “Guida mondiale di pellegrinaggio”
  • Damell J.C., “The Antiquity of Ghueita Temple”, Göttinger Miszellen, 2007
  • G. Caton-Thompson, “Kharga Oasis in Prehistory”,  Londra, 1952
  • Henry P. Colburn, “Kharga Oasis”, edizione online, 2017 H. Onishi, “A Kushite Temple in a Western Oasis?”, Oxford, 2005
Antico Regno, Statue

L’ISPETTORE DEGLI SCRIBI RAHERKA E SUA MOGLIE MERSEANKH

Di Giusy Antonaci

Scultura in calcare
IV- V dinastia – Antico Regno (2700-2200 a.C.)
Museo del Louvre

Questa posa delicata di una coppia statuaria egizia fa pensare che nella vita si può guardare avanti, si deve, e lo si riesce a fare meglio con una mano sulla spalla.

Che sia quella di una donna, di un uomo, di una moglie, di un marito, di un parente caro o del più grande amico.

Avanti, sempre avanti, e mai con la testa china.

Anche se davanti a sé c’è il buio, il vuoto del deserto, tutto da costruire di nuovo, l’inconoscibile.

Il senso di ogni cosa è la rinascita….

Vista frontale
Antico Regno, Mastaba, Scrittura

UNA MALEDIZIONE (VERA) D’EGITTO

A cura del Docente Livio Secco

Poiché abbiamo parlato delle maledizioni egizie, e in particolare quella famigerata di Tutankhamon, vorrei documentare qui un’altra parte del discorso.

Ma esistevano le maledizioni egizie? Quelle vere?

Beh, almeno un caso c’è. Ve lo documento qui sotto.

Per approfondire l’argomento può essere utile consultare il mio testo che trovate qui: (QdE7) A DIFESA DAL MALE – GLI AMULETI NELL’ANTICO EGITTO https://ilmiolibro.kataweb.it/…/624170/a-difesa-dal-male/

Antico Regno, Mai cosa simile fu fatta, Tombe

LA PREZIOSA TOMBA DI ITI E NEFERU

Di Franca Loi

Museo Egizio di Torino: la reinterpretazione spaziale e ambientale della tomba di Iti e Neferu (Migliore+Servetto)

La grande tomba di Iti e neferum, a Gebelein, appartiene alla fase di transizione verso il Medio Regno. Le pitture, asportate dal supporto originale agli inizi del Novecento, oggi si trovano al Museo Egizio di Torino. Le scene sono calate nella loro realtà effettiva, descritte con naturalezza e semplicità, disposte in registri ordinati in una cornice che separa i vari temi.

Nell’attuale ricostruzione, le splendide pitture sono collocate su pilastri intervallati da una vista del fiume, cosa che dà la sensazione di trovarsi proprio nella tomba.

“È una tomba semi rupestre in una corte scavata nella roccia, con 16 pilastri che delimitavano un corridoio sul cui lato interno si apriva una serie di cappelle…… studiando gli archivi fotografici e l’archivio storico del museo di Torino sono riusciti a ricostruire la contestualizzazione archeologica e quindi innanzitutto lo sviluppo della tomba; dal primo pilastro alla fine della tomba ci sono 29 metri che sono stati riproposti nell’allestimento del Museo. Camminare in questo corridoio è come se camminassimo dentro lo spazio della tomba”. Nell’attuale ricostruzione, infatti, le splendide pitture sono collocate su pilastri intervallati da una vista sul Nilo: la sensazione è di trovarsi proprio nella tomba.

Ernesto Schiaparelli
Roma, Archivio A.N.S.M.I.

Studiando poi l’archivio fotografico del Museo Egizio del Cairo si è potuto risalire alle preziose e rare immagini della tomba realizzate nel 1911 da Virginio Rosa, collaboratore di Ernesto Schiaparelli che in quell’anno seguiva gli scavi della MAI, nei siti di Gebelein e Assiut.

GALLERIA DI IMMAGINI

Tomba di Iti e Neferu, scoperta a Gebelein.
Si tratta di due personaggi benestanti, il tesoriere del re e sua moglie, e le pitture disposte alle pareti mostrano scene di vita quotidiana, dalla caccia al raccolto.

Tomba di Iti e Neferu, scoperta a Gebelein.
Si tratta di due personaggi benestanti, il tesoriere del re e sua moglie, e le pitture disposte alle pareti mostrano scene di vita quotidiana, dalla caccia al raccolto. Altro dettaglio molto interessante è la rappresentazione del sacco sulla schiena dell’asino. L’artista, utilizzando la tipica rappresentazione laterale, mostra il lato nascosto del sacco ponendolo in verticale.

Fonte:

Christian Greco, Direttore del Museo Egizio di Torino

Archivio fotografico del Museo Egizio del Cairo: tomba di Iti e Neferu

Antico Regno, Mai cosa simile fu fatta, Statue

LA STATUA DI PEPI I INGINOCCHIATO

Di Grazia Musso

VI Dinastia – Scisto Altezza 15,2 cm.
Provenienza sconosciuta
New York, Brooklyn Museum, Charles Edwin Wilbour Fund, 39.121.

Questa statua, caratterizzata dalla tensione del corpo inginocchiato con le mani che offrono due vasi nu, con i tratti del volto molto marcati, è forse il primo esempio di rappresentare in questo modo il re, sottolineando vivacità ed espressività.

L’iscrizione alla base, che descrive Pepy come “figlio di Hathor”, fa pensare che forse l’opera si trovava nel tempio della dea, a Dendera.

Fonte

Antico Egitto – Maurizio Damiano – Electra

Antico Regno, Mai cosa simile fu fatta

IL GRUPPO STATUARIO DI AK E HETEP-HER-NOFRET

Di Grazia Musso

Calcare dipinto – Altezza cm 49
Saqqara – V Dinastia

La tipologia delle statue funerarie destinate a rappresentare il defunto nella sua dimora eterna sviluppa nel tempo molte soluzioni iconografiche riconducibili a dei schemi rigidi e formali.

Questo gruppo statuario, formato da Ak e sua moglie, raffigura la coppia nella posa convenzionale, sono seduti su un seggio squadrato munito di pedana.

Il colore della pelle é ocra scuro per l’uomo e giallo per la donna.

L’abbigliamento riprende i modelli “classici” dell’epoca.

La moglie, Hetep-her-nofret, abbraccia il marito, questo rivela un tentativo di dare una carica di composto affetto, a una composizione che risulterebbe fredda e impersonale.

Fonte:

I tesoro dell’antico Egitto nella collezione del Museo Egizio del Cairo – National Geographic – Edizioni White Star

Antico Regno, Mai cosa simile fu fatta, Statue

IL NANO SENEB

Di Grazia Musso

Gruppo statuario del nano Seneb e della sua famiglia.
Calcare dipinto, Altezza cm 34, Larghezza c. 22,5
Giza, tomba di Seneb – Scavi di Junker
Fine della V Dinastia e inizio VI Dinastia
Museo Egizio del Cairo, JE 51280

Il grande senso di armonia che è presente in tutta l’arte egizia, si avverte ancora di più in questo gruppo di famiglia.

Il capofamiglia, responsabile del guardaroba del faraone, è affetto da nanismo ed è qui rappresentato con crudo realismo: la testa grande, il corpo tozzo, gli arti sproporzionatamente piccoli.

L’artista ha inserito tutti i personaggi, evitando che la deformità dell’uomo sbilanciasse l’insieme.

Seneb è ritratto accanto alla moglie, su un seggio parallelepipedo, con braccia incrociate sul petto e le gambe incrociate sul davanti, nella posizione di scriba.

La sposa è seduta nella posizione tradizionale.

Nello spazio che dovevano occupare le gambe di Seneb, lo scultore ha inserito i due figli della coppia, in piedi.

Seneb ha una capigliatura corta e nera, grandi occhi, naso e bocca pronunciati e orecchie piccole.

Indossa un gonnellino bianco.

La moglie, Senetites, indossa una parrucca nera e liscia e una una lunga tunica bianca.

Le braccia circondano, con un gesto affettuoso il marito.

I bambini sono raffigurati nudi, entrambi con il dito in bocca.

Alla base del seggio sono incisi i nomi e i titoli dei quattro personaggi.

La scultura fu rinvenuta all’interno del piccolo naos in calcare nella tomba di Seneb a Giza.

Fonte:

Tesori Egizi nella collezione del Museo Egizio del Cairo – Francesco Tiradritti -fotografia Araldo De Luca -Edizioni White Star

Antico Regno, Mai cosa simile fu fatta, Statue

IL BUSTO DI ANKH-HAF

Di Patrizia Burlini

Magnifico busto in calcare dipinto del principe Ankh-Haf (h. 50,5 cm) risalente al regno di Khafre, 2558-2532 a.C., IV dinastia. Giza, tomba G 7510, scavata dalla Harvard University-Boston Museum of Fine Arts. MFA Inv. 27.442

Nell’antico Egitto, gli artisti raramente creavano ritratti realistici ma piuttosto dei ritratti idealizzati. Questo busto di Ankh-Haf infrange questa “regola”. È realizzato in calcare ricoperto da un sottile strato di gesso, e rappresenta il volto di un vero individuo.

Magnifico il modellato e la resa delle fisionomia del principe

Questa scultura dimostra la straordinaria abilità degli artisti dell’Antico Regno che avevano la capacità di realizzare dei ritratti assolutamente realistici quando chiamati a farlo.

Dalle iscrizioni nella sua tomba, sappiamo che Ankh-Haf era il figlio del re Snefru, fratellastro del re Khufu (Cheope), e che servì Khafre (Chefren) come visir e sorvegliante delle opere. In quest’ultima veste, potrebbe aver supervisionato la costruzione della seconda piramide nel complesso di Giza e la scultura della sfinge.

Ricostruzione (un po’ allucinata) del busto di Ankh-Haf con occhi, barba e baffi dipinti

Ankh-Haf è citato infatti nel papiro di Merer, di cui ha parlato il nostro Ivo Prezioso in un’esaustiva presentazione sul sito di Wadi al-Jarf.

Le caratteristiche di Ankh-Haf sono quelle di un uomo maturo. Le sue palpebre si abbassano leggermente sugli occhi originariamente dipinti di bianco con pupille marroni. I solchi diagonali ai lati della bocca conferiscono un aspetto severo. Sembra che originariamente la statua presentasse una barba corta realizzata con un pezzo di gesso separato. La barba, così come le orecchie, è andata persa nell’antichità. Il suo sguardo è quello di un uomo imponente e determinato, qualcuno abituato a dare ordini e ad essere obbedito. Era il modo in cui voleva essere ricordato per l’eternità.

Ricostruzione della collocazione del busto di Ankh Haf da parte di Bolshakov

La mastaba di Ankh-Haf era la più grande della grande necropoli orientale di Giza. Il suo busto era installato in una cappella di mattoni di fango attaccata al lato est della tomba e orientato in modo tale da fronteggiare l’ingresso della cappella. Le pareti della cappella erano coperte da bassorilievi squisitamente modellati. È stato suggerito che le braccia di Ankh-Haf fossero scolpite sul basso piedistallo su cui sedeva, facendolo apparire ancora più realistico. È possibile che le braccia reggessero un tavolo di offerte con più di novanta modelli di cibi e bevande per Ankh-Haf da gustare nell’aldilà. L’esatta funzione del busto non è chiara ed è stato scoperto disteso sul pavimento della cappella di mattoni di fango appena fuori dalla tomba. Questa insolita disposizione è presente anche nella tomba di Visir Idu (sesta dinastia) situata vicino alla G 7510. È possibile che gli scultori di Idu abbiano usato il busto di Ankh-Haf come esempio o prototipo.

Ma qual era l’aspetto originario del busto di Ankh-Haf? Ho postato l’immagine del volto ricostruito e la ricostruzione del busto nella sua possibile originaria posizione, così come presentato nel Journal of the Museum of Fine Art, Boston Volume 3 1991 in un articolo scritto dal dott. Andrey Bolshakov (Custode delle antichità egizie all’Hermitage Museum, Leningrado) . Secondo Bolshakov, il busto sarebbe stato posto di fronte ad una falsa porta e ad un tavolo per le offerte, così come appare nella tomba di Idu (G 7102).Il busto sarebbe stato incastrato nella falsa porta, così come appenare nella ricostruzione di Bolshakov allegata al post. L’immagine è una combinazione di una foto del 1927 della tomba di Idu con il busto di Ankh-Haf sovrapposto su di essa.

Ankh-Haf è citato nel cosiddetto Diario di Merer, un testo su papiro ritrovato nel sito portuale di Wadi al-Jarf, sul Mar Rosso, associato al progetto della piramide di Cheope (Akhet Khufu, l’Orizzonte di Khufu).

Fonti:

Antico Regno, C'era una volta l'Egitto, IV Dinastia

LA PIRAMIDE DI CHEFREN

Di Piero Cargnino

Lasciamo ora Abu Rawash e scendiamo in direzione sud ovest, dopo circa 8 chilometri ci ritroviamo nella piana di Giza. Spieghiamo ora perché invece di proseguire con le altre piramidi di Giza siamo andati a visitare quella di Djedefra. Come accennato nel precedente articolo alla morte di Cheope avrebbe dovuto succedergli il figlio primogenito predestinato Kawab ma questi premorì al padre per cui la lotta per la successione si svolse tra Chefren e Djedefra il quale prevalse e riuscì a salire al trono regnando, secondo alcuni per pochi anni ma, come abbiamo già visto, alcuni ritrovamenti ci inducono a pensare che il suo regno sia durato molto di più.

Alla sua morte, Chefren, con l’appoggio degli altri fratelli, tra cui Hardedef,  e della madre, ricondusse il trono nella linea di discendenza principale escludendo da questa i figli del predecessore.

Col nome originale di Khafra e Hor Userib, Chefren regnò, secondo Manetone, (che nei suoi scritti lo chiama Shuphis II), per 66 anni. Erodoto e Diodoro Siculo gliene assegnano 56. Manetone non aggiunge altro ma Erodoto e Diodoro Siculo, che grecizzarono il suo nome Khafra in Chefren, asseriscono che fu un tiranno almeno quanto il padre Cheope, despota e megalomane che avrebbe fatto patire al popolo le stesse, sofferenze che fece patire Cheope in precedenza. Come si sa gli storici greci che scrissero la storia dell’Egitto descrivendo fatti accaduti duemila anni prima non danno molta affidabilità, utili le notizie che ci riportano ma come ogni storico che si rispetti dove queste vengono a mancare si ricorre alla fantasia. Sovrani che costruiscono monumenti così imponenti sicuramente stupirono i greci e gli stessi sacerdoti del Nuovo Regno per cui si crearono un’immagine forse un po distorta dei sovrani. Se a ciò aggiungiamo che durante il regno di Chefren era vietato esporre negli spazi aperti sculture diverse da quelle del sovrano, le quali erano quasi sempre scolpite in materiali pregiati, si può capire che i posteri non potevano che pensare ad un ipotetico carattere megalomane  dei sovrani.

Sulla scia del padre Chefren scelse la piana di Giza per la sua piramide; non cercò di superare quella del padre in altezza ma scelse però un posto più in alto così che, come detto in precedenza, al turista appare più alta di quella di Cheope, proprio per il fatto che è stata costruita su uno zoccolo di roccia più alto circa 10 metri, apparirebbe ancora più alta se avesse ancora parte della cima e il pyramidion.

La piramide di Chefren in origine doveva essere alta 143,5 m, (oggi 136,4), con i lati lunghi 215,25 m ed una pendenza 53°10′, il suo volume è pari a 2.230.000 metri cubi circa. Lo zoccolo di roccia alto 10 metri ha rafforzato la stabilità dalla costruzione al punto che i primi corsi di pietra sono scavati direttamente nel fondo roccioso. La parte inferiore, fin oltre metà altezza si presenta composta da grandi blocchi grezzi, disposti in modo irregolare senza la precisione che abbiamo riscontrato in quella di Cheope. Il nucleo infatti si presenta molto meno curato, gli strati non sempre sono perfettamente orizzontali ed i massi non combaciano presentando delle fughe molto larghe spesso neppure corrette con della malta. La causa va forse ricercata nei vari movimenti sismici che si sono succeduti nei millenni causando lo spostamento dei blocchi. La piramide si doveva presentare con alcuni strati inferiori in granito rosa mentre la restante parte era in calcare.

Sulla sommità, per un breve tratto ha mantenuto la copertura originale in calcare bianco di Tura che originariamente ricopriva l’intera struttura, è mancante di parte della cima e priva del pyramidion.

Alla base è ancora presente parte del rivestimento di “pietra etiopica variegata”, (così come la definisce Erodoto), ovvero granito rosso e grigio di Assuan. A conferma di ciò grosse schegge di granito, che componevano lo zoccolo, sono state ritrovate alla base della piramide.

A differenza di quella di Cheope, l’interno della piramide di Chefren era conosciuto fin dall’antichità, fu visitata numerose volte in epoca cristiana ed anche musulmana, a tal proposito esiste una scritta interna, (in arabo), che nomina un certo Muhammad Ahmed, muratore in un tempo impossibile da definire.

Poi sopraggiunse l’oblio tanto che nel 1548 Jean Chesneau, scrittore e segretario dell’ambasciatore francese presso l’Impero Ottomano in Egitto, descriveva la piramide come impenetrabile. Da secoli circolavano leggende che raccontavano di fantasiosi tesori, Erodoto affermava che questa piramide non aveva alcuna stanza al suo interno, mentre Diodoro Siculo raccontava che le piramidi erano le tombe dei faraoni che però non erano ivi sepolti. Alcuni storici arabi gli attribuivano ben 30 camere contenenti armi misteriose, storici cristiani affermavano che vi fosse stato inumato il corpo di Adamo con un ricchissimo tesoro in oro, incenso e mirra. L’interesse suscitato in seguito alla campagna di Napoleone in Egitto, sulle costruzioni di Giza, era diventato ormai l’argomento principale in tutti i salotti europei e non solo, schiere di archeologi, e pseudo tali si precipitavano in Egitto in cerca di tesori prima ancora che di reperti.

Quando dico pseudo archeologi intendo esploratori e avventurieri il cui scopo primario era quello di arricchirsi vendendo i reperti trovati e, se del caso, trattenersi eventuali tesori. Tra questi spicca un italiano Giovanni Battista Bolzon, nato a Padova, (più noto come Belzoni), (1778 – 1823), ingegnere idraulico, è considerato un pioniere dell’archeologia.

Belzoni dapprima viaggiò in lungo e in largo per l’Egitto recuperando reperti per conto del British Museum. Come accennato vi era la convinzione che la piramide di Chefren fosse priva sia dell’ingresso che della camera mortuaria, in seguito agli inutili tentativi di accedervi; si pensava quindi che fosse un imponente e massiccio monumento impenetrabile.

Fu così che durante un suo viaggio in Egitto, dopo aver ricevuto in prestito il denaro necessario, Belzoni si lanciò nell’impresa di penetrare all’interno della piramide di Chefren. Dopo i numerosi tentativi già effettuati in precedenza da parte di molti archeologi, fu proprio Belzoni a riuscirci il 2 marzo 1818.

Dopo aver iniziato le sue ricerche, accampato in una tenda ai piedi della piramide, Belzoni assoldò numerosi fellahs che iniziarono a scavare sul lato nord. Come si vede nella prima foto in un disegno abbozzato di fine ottocento, la base della piramide si presentava avvolta per molti metri dalla sabbia che ostruiva gli ingressi dai quali si entrava in tempi antichi per cui Belzoni non poteva sapere se e dove esistesse l’ingresso.

Dopo aver rimosso una quantità di materiale si presentò una falla nella parete e qui scoprirono un corridoio che però si rivelò cieco. Dopo aver studiato a fondo l’ingresso della piramide di Cheope, Belzoni capì che l’ingresso non doveva essere al centro della piramide ma spostato di circa 30 metri verso est. Dopo pochi giorni, alla presenza del cavalier Ermenegildo Frediani, apparve ai loro occhi l’entrata tanto agognata.

Va detto che, forse dovuto ad un cambiamento nel progetto di costruzione, gli ingressi sono due, quello che viene considerato il più antico si trova a circa 30 metri a nord quasi al livello della base. L’altro si trova sempre nella parete nord a circa 12 metri dal suolo. Il primo, chiamato ingresso inferiore scende in profondità scavato interamente nel fondo roccioso, scende per alcuni metri poi diventa orizzontale per poi risalire dopo pochi metri fino ad inserirsi nel corridoio orizzontale dell’ingresso superiore.

Quasi a metà del tratto orizzontale, nella parete occidentale si trova un breve cunicolo che conduce in una piccola camera dove probabilmente veniva depositato il corredo funerario o, secondo alcuni conteneva il serdab del sovrano. L’ingresso superiore avviene attraverso un corridoio che scende verso il centro della piramide per 32 metri, tutti nel corpo della piramide ed è interamente rivestito con blocchi di granito rosa, raggiunta la base della piramide diventa orizzontale.

Ad un certo punto si trova una barriera di granito rosa che, in epoca successiva venne aggirata dai saccheggiatori di tombe che scavarono alcuni cunicoli. Il cunicolo orizzontale prosegue al livello della base e dopo alcuni metri incontra il passaggio inferiore che si innesta in esso. Da qui il cunicolo prosegue fino a raggiungere la camera funeraria, completamente scavata nella pietra sotto il livello della base della piramide, ad eccezione delle capriate in calcare del soffitto che si trovano nel corpo della costruzione, la camera si trova in corrispondenza dell’asse verticale della piramide.

Belzoni e Frediani si calarono con l’aiuto di corde fino a raggiungere la camera che apparve subito del tutto disadorna e grezza, misura 14,15 x 5 metri con il soffitto a capriata, formato da 17 coppie di travi in pietra calcarea. Come detto le pareti si presentano grezze coperte da una specie di intonaco, secondo alcuni queste dovevano essere rivestite con blocchi di granito rosa probabilmente asportato dai saccheggiatori.

Subito, facendosi luce con delle torce, Belzoni cercò il sarcofago avendo come riferimento la disposizione di quello nella piramide di Khufu, ma in quel punto però non c’era nessun sarcofago. Continuando le ricerche riuscì poi a scorgerlo nell’angolo ad ovest semisepolto al livello del terreno e circondato da grossi blocchi di granito.

Il coperchio era spezzato e sollevato cosa che gli permise di vedere al suo interno dove si trovava un groviglio di ossa che si rivelarono poi appartenute ad un bovino. Belzoni esaminò l’intera stanza, che si presentava priva di iscrizioni, ad eccezione di una scritta in arabo, probabilmente risalente al 1200 circa, che attesterebbe un precedente ingresso nella piramide. Se iscrizioni non c’erano a questo ovviò subito Belzoni che, purtroppo come si usava al tempo, per la sua vanità di mostrare al mondo chi fosse, il “Gigante della Patagonia”, così era chiamato, decise di compiere quello che oggi noi definiremmo uno scempio, sulla parete meridionale della camera sepolcrale campeggia ed impera questa iscrizione: “Scoperta da G. Belzoni. 2. Mar. 1818”.

L’impresa di Belzoni venne celebrata dal governo britannico che coniò per l’occasione una medaglia con inciso in un lato il profilo di Belzoni mentre dall’altro il nome, la data e l’oggetto della sua notorietà, la piramide. Il destino volle però prendersi gioco di lui, forse per un madornale errore, la piramide raffigurata non era quella di Chefren, ma quella di suo padre Cheope.

Oggi i visitatori possono accedere all’interno della piramide attraverso l’ingresso che si trova a livello del suolo. Usciamo ora dalla piramide ed andiamo a visitare le varie pertinenze.

Come abbiamo potuto vedere l’interno della piramide di Chefren non è così complesso come quella di Cheope, vorrei solo far notare una cosa molto importante, se erano realmente tombe, Chefren rispettò il principio secondo cui il corpo del defunto <<…….appartiene alla terra, perché da essa è stato creato……..>>, mentre è l’anima che può salire in cielo, cosa che non fece Cheope.

Ora che siamo usciti dalla piramide facciamoci un giro per vedere le pertinenze. Il termine “pertinenze” può apparire riduttivo se si tiene conto della loro imponenza ma non ho trovato un termine diverso per definire gli edifici che contornano la piramide di Chefren. Vediamoli.

Sul lato sud, in asse con la Piramide, si incontrano i resti di una piccola piramide secondaria. Possiede un corridoio discendente che sbuca in una camera sotterranea a forma di T. Al suo interno furono rinvenuti frammenti di legno, perline di corniola, alcune ossa di animali e tappi d’argilla per vasi, non vi è alcuna traccia di sepoltura, nonostante tutto Maragioglio e Rinaldi conclusero che si trattasse della tomba di una delle mogli di Chefren. Ipotesi che Stadelmann non condivise affermando che si trattasse di una piramide cultuale.

Dalle esplorazioni di Petrie, effettuate all’esterno della cerchia muraria, emersero le rovine di un enorme edificio formato da 111 lunghi ambienti, Petrie, e con lui Holscher, ipotizzarono che si trattasse di un alloggiamento in grado di ospitare quattro o cinque mila uomini che lavoravano alla piramide. Recentemente Zahi Hawass e Mark Lehner hanno ipotizzato invece che si trattasse di un vero e proprio villaggio degli operai di cui abbiamo già parlato nella descrizione della necropoli di Giza.

Interessante il ritrovamento di numerosi gusci di molluschi all’interno che fanno pensare che durante la IV dinastia la piana di Giza non fosse ancora l’arido deserto che è oggi ma una sorta di savana con flora e fauna.

Nell’angolo a est della piramide, ma non addossato ad essa, si trova il Tempio funerario, o meglio ciò che ne resta di esso, la cui funzione era quella di permettere il culto del sovrano.

A riportarlo alla luce fu la missione tedesca di Ernst Von Sieglin che operò in loco dal 1909 al 1932. Oggi non restano che imponenti rovine dalle quali spicca un masso di oltre 400 tonnellate. L’accesso avveniva da est ed all’interno si trovavano stanze con colonne di granito rosa e, secondo Ricke, 12 statue alte 3,75 metri di Chefren assiso (secondo Lehner invece il sovrano era rappresentato in posizione stante), seguiva un cortile aperto pavimentato in alabastro con al centro un altare. A completamento si trovavano in fondo 5 camere-deposito dove si conservavano le offerte votive e le attrezzature da impiegare durante i riti.

Fuori dal Tempio sono state rinvenute le fosse di 5 barche solari, due sul lato nord e tre su quello a sud, tutte sono state saccheggiate già nell’antichità.

Dal Tempio partiva una Rampa Cerimoniale che, superando un dislivello di circa 46 metri scendeva per quasi 500 metri fino al Tempio a Valle. Della Rampa, il cui percorso è ancora oggi visibile, rimangono solo poche rovine.

Sono state avanzate numerose ipotesi su come doveva apparire la Rampa, si pensa che fosse un corridoio chiuso con il soffitto in calcare e le pareti ricoperte di rilievi ornamentali attinenti alla via che il sovrano doveva percorrere per prepararsi alla sua ascesa alla Duat. Probabilmente l’esterno era rivestito con blocchi di granito rosa, tutto il materiale è sparito e forse è stato utilizzato per erigere il Cairo. A questo punto però ritengo opportuno mettere in evidenza un fatto che deve farci pensare. Se osservate attentamente la prima foto noterete subito che la Rampa cerimoniale non scende perpendicolare alla faccia della piramide ma devia verso sud fino a raggiungere il Tempio di Valle. Ma perché la rampa non venne costruita secondo l’usanza scendendo dritta verso est? Non sono riuscito a trovare teorie di egittologi che ne parlino, la Rampa scende inclinata e questo è un dato di fatto. Ho fatto alcune ricerche nel campo delle teorie alternative, senza però finire nel campo della fantarcheologia e, parlo cioè di teorie che, magari con qualche forzatura, vengono supportate da studi ed indagini effettuate sul posto da parte di archeologi ed esperti nel campo della geologia. A questo punto ho riflettuto su un particolare della costruzione che mi è rimasto nella mente.

Osservando la facciata est della piramide si nota che in linea perpendicolare alla facciata stessa si trova la Sfinge. Ora viene da chiedersi perché i costruttori hanno deviato la Rampa per poi costruire la Sfinge in quel luogo? A rigor di logica la cosa non avrebbe senso, a meno che la Sfinge non esistesse già in quella posizione e di conseguenza dovette essere deviata la rampa. Mi riesce difficile pensare che il faraone abbia preferito costruirsi una statua così grande prima di costruirsi la sua tomba.

Si pensa che il luogo in cui sorge la Sfinge fungesse da cava di calcare per la costruzione della piramide di Cheope e, secondo alcuni, il prelievo del materiale sarebbe avvenuto risparmiando una collina centrale dalla quale sarebbe poi stata ricavata la statua. Secondo l’egittologo Stadelmann la costruzione della Sfinge sarebbe da attribuire a Cheope e non a Chefren, La maggior parte degli egittologi non concorda e l’idea che prevale è che a costruirla sia stato Chefren. Come la maggior parte di voi sa, esistono molte altre teorie alternative che ritengono che la costruzione della Sfinge vada collocata in un periodo di molto antecedente, 10.200 a.C. secondo alcuni, 7.000-8.000 a.C. secondo altri ma questo è un problema che esamineremo quando parleremo della Sfinge.

Scendiamo ora per la strada normale e rechiamoci a visitare il Tempio della valle.

IL TEMPIO DELLA VALLE

Ora noi, comuni mortali rispettosi della sovranità antico egizia, non ci permettiamo di scendere dalla Rampa cerimoniale (anche perché non è che sia molto agevole) ma percorriamo la strada asfaltata che in parte la costeggia.

Superiamo la Sfinge che si trova sulla nostra destra e poco oltre ci dirigiamo verso sinistra ed arriviamo allo spiazzo dei Templi di Chefren e della Sfinge. Poniamoci ora di fronte al due templi, a destra si trova il Tempio della Sfinge, che vedremo in un altro articolo quando parleremo della Sfinge stessa, si trova oggi in pessime condizioni.

A sinistra verso sud, separato da uno stretto corridoio, troviamo il Tempio della Valle di Chefren, l’unico tempio della Valle ancora esistente in Egitto che si sia conservato e che ci è pervenuto in buono stato.

Si tratta di un edificio nel quale avveniva il culto del re, dall’imbalsamazione alla cerimonia dell’apertura della bocca. A scoprirlo fu Auguste Mariette nel 1852 che erroneamente, in un primo momento, lo attribuì alla Sfinge, salvo poi ricredersi. Esso era collegato al Tempio Funerario di Chefren per mezzo della già citata Rampa cerimoniale lunga circa 500 mt. che superava il dislivello di 46 mt. per arrivare al Tempio Funerario situato accanto alla piramide sul lato est, di cui abbiamo già parlato. 

Il Tempio della Valle in origine doveva avere l’aspetto di una mastaba a pianta quadrata di 45 mt. di lato per 13 di altezza. La cosa che lascia più impressionati sono le poderose mura, costruite con blocchi di calcare di Tura di enormi dimensioni per un volume di circa 55 metri cubi che sviluppano un peso di quasi 150 tonnellate. Ciascuna parete è poi rivestita all’interno con blocchi giganteschi di granito rosso di Assuan, del peso di circa 45 tonnellate ciascuno, perfettamente combacianti e privi di decorazioni, ad eccezione di alcuni geroglifici incisi (forse in tempi successivi) sui montanti delle porte, che lo rendono impressionante per il severo ed elegante aspetto.

Nella grande sala a forma di T rovesciata sono presenti 16 pilastri monoliti in granito rosso alti circa 4 metri che sorreggono imponenti architravi sempre monolitiche in granito. La pavimentazione in alabastro con le pareti in calcare rivestite di granito nero creavano uno spettacolare contrasto cromatico che colpiva ed impressionava il visitatore. In origine la sala conteneva 25 enormi statue di Chefren assiso ricavate da diorite verde del deserto nubiano, alabastro e grovacca.

Nella prima anticamera era stato ricavato un pozzo nel quale furono riposte le statue del sovrano allo scopo di preservarle dai profanatori e dai ladri. Auguste Mariette, nel 1859 scoprì il pozzo ma purtroppo solo una statua era intatta ed è oggi esposta al Museo del Cairo. Erano inoltre presenti altre camere con vari corridoi e vestiboli oltre ad ambienti atti a contenere forse altre barche solari.

Quando visitai il Tempio di Valle di Chefren lo feci a ragion veduta. Avevo già studiato la struttura dell’edificio tempo prima ed avevo maturato il desiderio di poter constatare di persona le notizie che avevo appreso anche perché pochi ne parlano e chi lo fa viene spesso tacciato di eresia o, nella migliore delle ipotesi di fantarcheologia. Lungi da me l’idea di avanzare ipotesi che non sarei in grado di sostenere in una discussione con gli esperti, ma dopo aver visitato personalmente il monumento posso dire qualche parola in più.

Nel Tempio ci troviamo di fronte ad una architettura ciclopica difficilmente riscontrata in altri luoghi. La perfetta armonia delle massicce colonne monolitiche di granito disposte seguendo un ordine quasi maniacale. La possente consistenza delle architravi che dovevano sostenere la copertura del Tempio e la perfetta esecuzione delle pareti con blocchi enormi di puro granito; confesso che rimasi incantato per parecchio ad osservare cotanta magnificenza.

Tornando agli studi e alle ricerche che avevo effettuato non mi ci volle molto per constatare ciò che avevo appreso, personalmente rimasi stupito dall’indifferenza dei turisti che, ignari di ciò che avevano di fronte, proseguivano tranquillamente nella loro visita senza che la guida richiamasse la loro attenzione su ciò che stavano osservando. Io avevo trovato quello che cercavo. Osservate le foto che ho scattato alle pareti, i massi non sono sistemati in modo regolare, alcune pietre hanno degli incastri particolari pur combaciando tra loro in modo perfetto. Tranne forse alcuni documentari, non ricordo di aver trovato informazioni ufficiali più dettagliate sull’argomento che trovo decisamente importante. Non credo esistano in Egitto altri edifici che presentino una metodologia di costruzione simile al Tempio di Chefren. Mi chiedo quale sia la ragione che giustifichi una simile disarmonia nella sistemazione dei blocchi in una parete che si presenta perfettamente piana. E non solo ma se osservate come sono stati ricavati alcuni angoli dove il blocco enorme è stato completamente scalpellato per formare un angolo retto.

Stiamo assistendo a quello che assomiglia ad un gioco di incastri eseguito su di una scala molto più grande. Perché i suoi costruttori hanno dovuto adattare i blocchi scolpendoli con più angoli ma perfettamente combacianti? Qual è la logica che ha indotto i costruttori ad adottare una tecnica così complicata e senz’altro più dispendiosa? Per me questo è il mistero del Tempio della valle.

E’ strano ma una tecnica simile, in tempi diversi, era molto usata nell’America precolombiana. Basta osservare le ciclopiche mura del Machu Picchu, quelle della città di Cusco e quelle della fortezza di Ollantaytambo, nell’America del sud, migliaia di chilometri oltre oceano. Qui i blocchi presentano forme irregolari ma sono stati fatti combaciare perfettamente nonostante non sia stata utilizzata alcun tipo di malta per legare i blocchi tra di loro al punto che non è possibile infilare nemmeno la lama di un coltello. Anche qui gli scavi archeologici e i ritrovamenti non hanno portato alla luce strumenti di lavoro adeguati a costruire simili opere.

Non avendo nulla da aggiungere, a questo punto mi fermo lasciando il seguito all’immaginazione di ciascuno di voi. A puro titolo di curiosità ci tengo a ricordare che nel piazzale antistante i Templi della Valle di Chefren e della Sfinge, il 17 novembre 1869 ci fu l’inaugurazione del Canale di Suez, per l’occasione Mehmed Emin Âli, Pasha ottomano in Egitto, organizzò una cerimonia solenne cui fu presente anche l’imperatrice Eugenia de Montijo, consorte di Napoleone III, ultima sovrana di Francia e per l’occasione risuonarono le note della Egyptischer Marsch, composta da Johann Strauss. Fu in quell’occasione che al teatro Kedivale del Cairo fu rappresentata la prima dell’Aida di Giuseppe Verdi.

Un’ultima curiosità per i turisti è assistere ad uno spettacolo dei “Dervisci Rotanti” eseguito nel piazzale di fronte ai due templi. In abito tradizionale e accompagnati da una partitura musicale, danzano mossi dal dolore per la separazione da Dio e dal desiderio ardente di ritrovarlo nell’estasi del ballo. “La danza dei Dervisci rotanti” è un rapimento irresistibile per gli occhi. La danza estatica dei Dervisci Sufi, porta i danzatori a volteggiare interrottamente per più di 45 minuti. Durante la danza i danzatori si spogliano di alcuni strati del loro abito, usanza che equivale al ripulire l’anima dai peccati. L’incanto ipnotico della danza dei dervisci è uno degli spettacoli più suggestivi e antichi a cui potete assistere nella città del Cairo.

Fonti e bibliografia:

  • Grimal Nicolas, “Storia dell’antico Egitto” – Editori Laterza, Bari 2008
  • Cimmino Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche” – Bompiani, Milano 2003
  • Alberto Siliotti, “Giovanni Belzoni alla scoperta dell’Egitto perduto”, Ed. Geodia, 2017
  • Luigi Montobbio, “Giovanni Battista Belzoni: la vita i viaggi le scoperte”, Edizioni Martello, 1984.
  • Gianluigi Peretti, “Belzoni: viaggi, imprese, scoperte e vita”, Padova, Edizioni GB, 2002
  • Gardiner Alan, “La civiltà egizia” – Oxford University Press 1961 (Einaudi, Torino 1997
  • Alberto Siliotti, “Viaggi in Egitto e in Nubia”, Geodia Edizioni Internazionali, 1999 Tiziana Giuliani, “2 marzo 1818: Giovanni Belzoni entra nella piramide di Chefren”, Mediterraneo Antico, (Web)
  • Peter Jànosi, “Le piramidi” – (Trad. M. Cupellaro), Ed. Il Mulino, 2006
  • Corinna Rossi, “Piramidi”, Ed. White Star, 2005
  • John Porter Brown, “The Derwishes, or Oriental Spiritualism”, Londra, 1868
  • Henry Corbin, “Storia della filosofia islamica”, Milano, Adelphi, 1989)

Antico Regno, C'era una volta l'Egitto, IV Dinastia

LA BREVE VITA DI KAWAB E LA PIRAMIDE PERDUTA DI DJEDEFRA

Di Piero Cargnino

A Cheope avrebbe dovuto succedergli il primogenito Kawab figlio della regina Meritites I. Kawab sposò la propria sorella Hetepheres II ed i loro figli furono Duaenhor, Kaemsekhem e Mindjedef oltre alla futura regina Meresankh III.  Ebbe modo di assumere i titoli di: “Officiante di Anubi, Sacerdote di Selkis, Figlio del Corpo del Re, Primogenito del Corpo del Re, Principe ereditario, “Conte”, Unico compagno d’amore, Visir”.

Come si può vedere non si fece mancare nulla; purtroppo per lui però non ebbe modo di goderne a lungo perché premorì al padre e fu sepolto in una grande mastaba doppia nella parte est della necropoli di Giza, si tratta della n. G7110 che appartiene alla moglie mentre lui si trovava nella n. G7120 dove in un rilievo sulla porta Kawab compare in piedi davanti a sua madre, sotto la scritta in geroglifico: <<  zȝ.s mr.s kȝ-wˤb, zȝt nṯr.s ḫrp jmȝt sšmt mrt-jt.s mwt.f mst n ḫwfw  >> (“Suo figlio, il suo amato, Ka-wab, la figlia del suo dio, colei che è al comando degli affari del jmAt, Meritites, sua madre, che lo partorì a Khuf.”).

Il complesso delle due mastabe presenta quattro pozzi come parte integrante delle mastabe stesse. Il primo G7110A non è mai stato utilizzato. Il secondo G7110B, che in origine sarebbe stato previsto per Hetepheres II ma anche questo non fu mai utilizzato probabilmente perché alla morte di Kawab  Hetepheres si risposò col di lui fratello Djedefre.

Il terzo pozzo G7120A conteneva la sepoltura di Kawab, sul posto è stato rinvenuto un sarcofago di granito rosso sul quale era iscritto il seguente testo ripartito in tre parti:

  1. << Un dono che il re dà e Anubi, primo della capanna divina, una sepoltura nella necropoli come possessore di uno stato ben fornito davanti al grande dio, officiante di Anubi, sacerdote di Selket, Kawab >>,
  2. << un dono che il re dà e Anubi, primo della capanna divina, una sepoltura nella necropoli nel cimitero occidentale, essendo invecchiato con grazia, il figlio del re del suo corpo, Kawab >>,
  3. << il figlio maggiore del re del suo corpo, officiante di Anubi, Kawab >>.

In linea di successione il trono spettò al secondogenito Djedefra, noto anche come Radjedef e Ratoises che regnò intorno al 2558 a.C. Come in ogni buona famiglia di regnanti nacquero dei dubbi che fosse stato lo stesso Djedefra a far assassinare il fratello (non si hanno notizie in proposito).

La durata del regno di Djedefra è controversa, il Papiro Regio di Torino gli attribuisce un regno di soli otto anni, ma sono stati trovati riferimenti al suo undicesimo censimento del bestiame, cosa che avveniva ogni due anni come sotto le dinastie precedenti, quindi il regno di Djedefra sarebbe durato almeno 22 anni, (11 nell’improbabile eventualità che il censimento fosse diventato annuale).

Come abbiamo detto, primogenito di Cheope e di una moglie secondaria, sposò la sorellastra Hetepheres II, forse per rafforzare il proprio diritto al trono. A quanto risulta sarebbe stato il primo sovrano ad introdurre il titolo di “Sa Ra”, (figlio di Ra).

Anche Djedefra pensò di farsi costruire una piramide che volle chiamare “Il Firmamento di Djedefra” ma per la costruzione scelse un altro luogo, mi sa che per seguire la dinastia del faraone Cheope ci toccherà ora spostarci di circa otto chilometri a nord-est della piana per raggiungere il sito di Abu Rawash, da considerarsi un ampliamento della necropoli di Giza.

Non sono chiare le ragioni per cui giunse ad optare per questa scelta, secondo alcuni fu per sottolineare la propria indipendenza e per porre la propria tomba più in alto, vicino al Sole, che il faraone adorava in modo particolare.

Il suo intento era quello di superare in grandezza e maestosità quella di suo padre Cheope e per distinguersi ancor più scelse un altro luogo. Infatti non molti sanno che forse la più bella, la più alta e splendente di tutte, che le eclissava per dimensioni, maestosità e ricchezza non si trovava a Giza ma ad Abu Rawash.

Il primo ad identificarla e indagarla fu l’egittologo ed antropologo britannico John Shae Perring nel 1840, in seguito Lepsius la inserì al secondo posto della sua lista. Nel 1880 venne esaminata da Flinders Petrie ma un vero studio sistematico avvenne solo nel 1901 ad opera del francese Emile Gaston Chassinat in seguito al ritrovamento di diverse statue danneggiate ed una grande quantità di blocchi calcarei e di granito di Assuan presenti sul sito. Ricerche più approfondite vennero effettuate nel 1960 da Vito Maragioglio e Celeste Rinaldi.  Stando al ritrovamento di sue statue spezzate, pare volontariamente, e di tentativi di abrasione del nome su alcuni monumenti, è stato ipotizzato che questo sovrano sia stato considerato un usurpatore e quindi condannato alla damnatio memoriae.

Chassinat ipotizzò che la sua piramide non fosse mai stata completata, o che addirittura fosse stata distrutta come segno di vendetta per l’uccisione del fratello Kwaf., ma tale affermazione viene contestata in quanto la piramide presenta un rivestimento in granito rosso, sienite, e quarzite rossa nei corsi inferiori, rivestimento che veniva eseguito solo a piramide ultimata. Tali supposizioni sembrerebbero inoltre smentite da alcuni graffiti presenti nelle fosse delle barche solari di Cheope che proverebbero che sia stato appunto Djedefra a celebrare i riti funebri per il sovrano scomparso, circostanza che sembrerebbe ipotizzare una successione regolare. Oggi la maggior parte degli archeologi, con in testa l’immancabile Zahi Hawass, affermano che non solo la piramide era stata completata, ma era addirittura la più alta di tutto il complesso di Giza e i materiali usati per edificarla erano di qualità più pregiata rispetto a quelli delle “sorelle”. In epoca romana sarebbe poi stata smantellata e la pietra riutilizzata per edificare altre opere al Cairo. Va detto inoltre che in seguito a studi più recenti, sono stati individuati pozzi e gallerie scavati da ladri di tombe, questo fa pensare che i ladri non avrebbero mai violato la piramide se questa non fosse stata finita e sigillata.

La piramide, grazie anche al fatto di essere edificata in cima ad una collina, sarebbe stata alta 154 metri, 7,62 in più della piramide di Cheope. Ognuna delle singole facce, alla base, misurava 122 metri e l’angolo di inclinazione era di 64 gradi, nonostante una variazione che impediva all’edificio di cadere. Fu usato granito rosso di Assuan, lo stesso utilizzato, in parte, per la piramide del padre Cheope, che arrivava da oltre 800 chilometri di distanza attraverso il Nilo. Secondo gli studiosi per edificare la piramide ci vollero otto anni di lavoro e oltre 15.000 persone (sarebbe interessante sapere su quali basi poggiano queste teorie). Ogni singolo masso pesava circa 25 tonnellate e si calcola che servissero 370 persone per sollevarlo. Nel complesso quindi sarebbe stata la più imponente piramide egizia mai costruita. Solidissima, enorme, destinata ad accogliere con tutti gli onori il faraone nel passaggio all’altra vita.

L’esterno manifestava tutta la maestosità del sovrano, la piramide era ricoperta da granito lucidato e da una lega di oro, argento e rame che al sole brillava, aumentando così l’impressione della grandezza e del potere del sovrano.

Nella parete nord c’è un residuo di un ingresso che conduce alla stanza in cui furono sepolti i morti. Durante gli scavi è stato riscontrato il ritrovamento di un frammento del sarcofago in granito rosa..

La camera funeraria è molto profonda e ampia. A far luce sul mistero della “quarta piramide di Giza”, come venne chiamata, è ora un gruppo di archeologi internazionali che da anni sta scavando minuziosamente ad Abu Rawash. rivelando particolari inediti anche sull’enigmatico faraone cui è dedicata. Le rovine della “Piramide Perduta” di Djedefra, ad Abu Rawash, (oggi sito militare ad accesso ristretto), non superano i dieci metri d’altezza; nel corso degli anni hanno dato origine a leggende e supposizioni, a partire dal suo stato considerato finora incompiuto.

Nel 1900 sono state trovate tre teste di pietra di quarzite del faraone e scavi più recenti hanno rivelato uno spazio vuoto per una barca. Oltre alla piramide di Djedefre, sono state trovate anche due piramidi più piccole, a sud-ovest della piramide quella della moglie di Djedefre, Chentatenka a sud-est di ignoto.

Fonti e bibliografia:

  • Simpson, William Kelly, “The Mastabas of Kawab, Khafkhufu I e II”, Boston: Museum of Fine Arts, 1978
  • Cimmino Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche”. Bompiani, Milano, 2003
  • Gardiner Alan, “La civiltà egizia”,  Oxford University Press, 1961 (Einaudi, Torino, 1997
  • Grimal, Nicolas, “Storia dell’antico Egitto”, Editori Laterza, Bari 2008
  • Mark Lehner, “The complete Pyramids”, Thames & Hudson, 1997
  • Miroslav Verner, “Il mistero delle Piramidi”, Newton & Compton, 2002
  • V. Maragioglio, C. Rinaldi, “Le piramidi di Zedefra e di Chefren”,  English translation by A. E. Howell,  Canessa, 1966
  • Mario Tosi, “Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto”, Ananke, 2006
  • Edda Bresciani, “Grande enciclopedia illustrata dell’antico Egitto”, De Agostini, 2005
  • Guy Rachet, “Dizionario Larousse della civiltà egizia”, Gremese Editore, 1994 Zahi Hawass in un’intervista a Matteo Sacchi per “il Giornale”)