E' un male contro cui lotterò

PICCOLO LESSICO MEDICO

Di Andrea Petta

ALLATTARE

“snḳ» («senek»)

Compare nei papiri medici con grafia a volte leggermente diversa nella parte fonetica, ma sempre con il determinativo D27 (una mammella) per indicare che si tratta dell’azione di allattare il bambino.

L’azione da parte del bambino/cucciolo di poppare dal seno si diceva invece “imeh” (“imH”) e veniva usato sia per gli umani che per gli animali.

AMULETO

“udjau” (wḏⳍw) o “sa” (sⳍ)

I due termini hanno una valenza leggermente diversa: udjau si riferisce solitamente al singolo amuleto o ad un incantesimo specifico e deriva da udjat (wḏⳍt), l’Occhio di Horus nella sua funzione di protezione, mentre sa ed il suo derivato saw (protezione)possono indicare anche un gruppo di oggetti che sono “legati” come nel simbolo Gardiner V17 che lo compone (il riparo del pastore) e che nel caso specifico indicherebbe una corda che li lega; la borsa (legata) con un amuleto al suo interno e le parole e i gesti necessari per attivare l’incantesimo.

Da “sa” deriva anche il termine “sau” che abbiamo visto indicare quelli che oggi chiameremmo “guaritori”, i quali utilizzavano formule magiche ed esorcismi per tentare di debellare le malattie.

BALIA

“mnat» («menat»)

In realtà ci sono diversi vocaboli egizi che possono indicare le balie, ma quello più rappresentato è questo, in cui il determinativo D27, che abbiamo visto indicare una mammella, si trova soprattutto nel Nuovo Regno e può essere sostituito dai simboli Gardiner B5 (donna che allatta) o B6 (donna con un bambino sulle ginocchia).

Da notare che esiste il termine anche al maschile (“mnai”) senza il simbolo X1 = “t” (la pagnotta che identifica il genere femminile) ma sempre con il determinativo della mammella ed è generalmente tradotto con “tutore”.

I cosiddetti “Mammisi”, i santuari dedicati alle nascite sacre (vedi anche  https://laciviltaegizia.org/2021/02/10/il-mammisi/), erano definiti “pr-mnat”, ovverosia “La casa delle balie”.

BATTITO CARDIACO

“dbdb” (“debdeb”)

Per indicare il battito cardiaco i medici egizi usavano un termine onomatopeico: “debdeb” indica infatti il suono del battito cardiaco. Non per nulla il determinativo è quello del “parlare” (Gardiner A2) ad indicare il suono del battito – ma ricordiamoci anche che il cuore nella medicina egizia effettivamente “parla” al corpo attraverso i vasi “metu” (si veda anche https://laciviltaegizia.org/2022/10/21/come-il-cuore-parla-al-corpo/).

Quando associato ad altri sintomi (pallore, blocco intestinale) lo stesso termine indica le palpitazioni; il rimedio principale associato consisteva in birra dolce in cui venivamo lasciati a macerare frutti di sicomoro precedentemente essiccati e bevuta per quattro giorni. Da notare che in questo caso il Papiro Ebers consiglia al medico di “alzarsi presto tutti i giorni per controllare le sue feci” e verificare se il rimedio avesse avuto effetto.

CAPELLI

“šny” (“sini”)

Abbiamo visto come i capelli fossero molto importanti nella cura della persona degli antichi egizi. Dovevano essere sempre in ordine, eventualmente impreziositi da una parrucca per le donne più abbienti, e bisognava averne cura tanto da occupare una parte del Papiro Ebers proprio con le prescrizioni adatte.

Il termine šny, che indica appunto i capelli, ha come determinativo il simbolo Gardiner D3 (composto da tre ciocche di capelli) che identifica proprio la nostra capigliatura; ripetuto tre volte indica i capelli particolarmente lunghi.

Curiosamente, lo stesso simbolo può indicare il carattere, il temperamento di una persona: i capelli, la parte superiore e più alta del nostro corpo, venivano identificati come rappresentazione delle nostre forze spirituali.

Rifacendosi al mito di Iside, che si taglia una ciocca dei suoi capelli scarmigliati in segno di lutto per la morte di Osiride (Papiro Ramesseum XI) lo stesso simbolo indica il lutto, periodo durante il quale uomini e donne della famiglia del defunto si lasciavano crescere in maniera disordinata capelli e barba, tagliandoli poi al termine dei 70 giorni previsti per il lutto.

Due donne con i capelli scarmigliati al funerale di Amenemhat (TT53, XVIII Dinastia)

CASA

“pr”

Il nome è indicato da un rettangolo aperto in basso che indica ideograficamente la pianta dell’ingresso di una casa (bilittero Gardiner O1).

Come sappiamo, questo simbolo insieme al bilittero “aa” (Gardiner O29, una colonna nel senso di “grande”) forma anche il nome “Faraone”.

CASA DELLA VITA

“pr ankh”

Il modo per indicare le “Case della Vita” era molto semplice e lineare: il simbolo della casa (bilittero “pr”, Gardiner O1), che abbiamo già incontrato diverse volte, e la famosissima croce ansata (“ankh”, Gardiner S34) che indicava “vita”.

I due simboli potevano essere accompagnati dal determinativo per “edificio”, ripetendo il bilittero O1, oppure “accorciati” per motivi di spazio con un simbolo molto evocativo, in cui la vita sembra letteralmente entrare nella casa.

CATARRO

“ḫnt” (“khenet”)

Il “frutto della putrefazione del muco”, come è indicato nel Papiro Ebers, viene indicato con questo termine, che si ritrova solo nei papiri medici.

Oltre alla parte fonetica, direi che il determinativo chiarisca bene da dove uscisse. Da notare che la stessa parte fonetica con il determinativo della testa (Gardiner D1) indica un’altra patologia (“khenet della testa”) su cui gli studiosi discordano (sinusite? cefalea?)

CAUTERIZZARE

“sꜢm” (“shemem”)

Derivato dal verbo “Ꜣm” (= bruciare). Si ritrova sia nel Papiro Ebers che nel papiro Edwin Smith con significati leggermente diversi. Nel Papiro Ebers si parla di cauterizzare utilizzando direttamente una punta incandescente, mentre nel Papiro Edwin Smith viene indicato di riscaldare la lama o bisturi utilizzato per l’intervento.

Il determinativo è il simbolo Gardiner Q7 (un braciere da cui fuoriesce una fiamma) ad indicare un’azione legata al fuoco.

CECITÀ

«Špt» («scepet»)

Deriva dalla radice ḫp.w (malattia degli occhi) e, tra i termini a sua volta derivati, la forma verbale Šp ha sia la forma intransitiva (“essere/diventare cieco”) che quella transitiva (accecare/abbagliare).

Nel termine “cecità” il determinativo nei papiri medici è sempre il Gardiner D4 inteso come “relativo agli occhi”, mentre nel sostantivo “cieco” gli scribi usavano più spesso il simbolo Gardiner D6 (un occhio con trucco/tintura sulla palpebra superiore) ad indicare una “condizione degli occhi”

CERVELLO

“Ais”

Viene indicato come “le visceri” (sottinteso: del cranio).

Il termine è stato una sorta di rompicapo perché non si capiva a cosa esattamente si riferisse (in una prescrizione del Papiro Ebers si parla di “ais” di rana, ad esempio) fino alla traduzione completa del papiro Edwin Smith, in cui viene esplicitamente indicato come ciò che viene esposto all’interno del cranio dopo una sua frattura.

E il mistero fu risolto.

COAGULAZIONE

s snf” o “tes senef

Il termine usato per indicare la coagulazione del sangue è uno degli esempi di come la lingua egizia potesse essere incredibilmente descrittiva ed evocativa.

Deriva infatti dal verbo “s” che vuol dire “annodare”. Il simbolo principale, Gardiner S24, è proprio quello della cintura annodata.

La coagulazione del sangue diventa quindi un “nodo del sangue”. Ed in effetti, se ci pensiamo, è una sorta di “nodo” che lega e blocca la fuoriuscita di sangue. Senza averne compreso appieno il meccanismo, il termine evoca l’effetto, e tanto serviva ai medici egizi.

Per praticità e risparmio di papiro, la parte “senef” (sangue) viene quasi sempre omessa, essendo sottintesa in ambito medico.

CREPITÌO

“nḫbḫb” (“nekhebkheb”)

Il crepitio o crepitazione ossea indica in medicina il rumore stridente e scricchiolante o di sfregamento che viene percepito muovendo ossa fratturate o articolazioni artrosiche (detto anche scroscio articolare).

Per i medici egizi era l’unico modo di determinare con sicurezza la presenza di fratture, con grande pena per il povero paziente (“anche se (il paziente) ne avrà grande paura”).

Siamo nuovamente di fronte ad un termine puramente onomatopeico (come il “debdeb” per indicare il battito cardiaco) per cercare di rendere sonoramente il rumore percepito dal medico. I simboli usati non hanno quindi valore ideografico ma solo fonetico, ad eccezione del simbolo Gardiner Z9 che funge da determinativo ed indica che si sta parlando di una frattura.

CUORE

“ib o “ḥꜢtj” (hati)

Come abbiamo visto nella rubrica, “hati” è il cuore fisico, il cui determinativo è il simbolo Gardiner F34 (un cuore bovino), mentre “ib” è il cuore spirituale, indicato con lo stesso simbolo. Spesso, nelle traduzioni di “ib” dall’Antico Egizio, per facilitare la comprensione del testo si usa il termine “mente” invece di “cuore” quando si riferisce a funzioni che adesso sappiamo appartenere al nostro cervello.

HAt”, il simbolo Gardiner F4 con la parte anteriore di un leone, indica normalmente la fronte; con la desinenza “y” (il simbolo Gardiner Z4) diventa l’aggettivo “frontale” e fa quindi riferimento al cuore come “organo frontale”. Un aggettivo “costruito” da un nome viene chiamato “nisbe” e si ritrova anche nelle lingue arabe e semitiche.

DEBOLEZZA

«bdš» («bedesh»)

Nella lingua egizia esistevano molti termini per indicare la “debolezza” in senso di fragilità (ad esempio nelle costruzioni o negli scavi). Quando invece nei papiri medici si parla di debolezza del paziente, si usa invariabilmente il termine “bedesh”.

Il termine si riferisce non solo alla debolezza fisica ma anche a quella del cuore fisico (“hati”), intesa come insufficienza cardiaca.

Per indicare che si tratta di una condizione patologica, oltre al simbolo Gardiner A7, che indica genericamente la stanchezza, viene utilizzato anche il simbolo G37, il passero dalla coda arrotondata, che abbiamo visto indicare il “male” inteso in senso di malattia.

DENTE e DENTISTA

ibeh

I due termini sono praticamente uguali, con la parte fonetica “ibh” sostenuta dal determinativo Gardiner F18 che indica la zanna di un elefante – sappiamo infatti che spesso per indicare le parti del corpo si usavano simboli legati agli animali, soprattutto mammiferi, forse per motivi di facile identificazione, forse per motivi scaramantici.

Nei casi in cui l’interpretazione avrebbe potuto essere dubbia, si aggiungeva il simbolo della freccia, forma accorciata per indicare il medico, e molto spesso per le solite ragioni di praticità e spazio sul papiro, si indicava la figura professionale con la sola zanna di elefante

FECI

“hes”

Il Libro dei Morti, all’Incantesimo 53, specifica che feci ed urine sono “detestabili”, in particolar modo le feci (Incantesimo 189: “Io non le mangerò…non mi avvicinerò ad esse con le mani, non le toccherò con i miei alluci…non le calpesterò con i miei sandali” – prescrizioni scritte normalmente all’interno del sarcofago all’altezza delle gambe e dei piedi).

Nonostante questo, come vedremo più avanti, vennero usate in molte prescrizioni sul principio del “chiodo scaccia chiodo”: essendo il “male” un essere ripugnante che ha invaso il corpo del malato, un’altra cosa ancora più ripugnante potrà scacciarlo. Per questo motivo il determinativo Gardiner Aa3 usato, che potrebbe indicare un pitale che viene svuotato, viene normalmente indicato come “secrezione ripugnante”.

Spesso viene scritto con il solo simbolo Gardiner F52, con lo stesso valore fonetico

FETO

“wnw» o “swḥt”

Solitamente il feto viene indicato con il termine “wnw”, il cui determinativo è il simbolo Gardiner A17 che rappresenta un bambino. Una curiosità per chi non lo avesse notato prima: in questo simbolo la posizione delle gambe è quella di una persona seduta, in questo caso idealmente sulle gambe di un genitore (ovviamente omesso per ragioni di praticità) per favorire la comprensione che si tratti di un bambino.

A volte però il termine è sostituito con “swḥt”, che letteralmente vorrebbe dire “uovo”. In questo termine il determinativo è appunto quello dell’uovo. Allo stato attuale delle conoscenze non sappiamo se volesse essere una distinzione tra feto ed embrione.

FRATTURA SEMPLICE o CHIUSA

“ḥsb” (“heseb”)

Come si può immaginare, questo termine si trova solo nei papiri medici; anzi, si ritrova praticamente solo nel papiro Edwin Smith. I medici egizi avevano una profonda conoscenza dei diversi tipi di frattura e di come intervenire in ciascun caso. La heseb è la frattura semplice, quella in cui “la carne è sana e non ci sono ferite della pelle”.

Interessante notare che il simbolo Gardiner Aa2, che abbiamo conosciuto come determinativo per “pustola, secrezione”, in questo caso ha valore fonetico “Hsb” – spesso viene usato da solo per i soliti motivi di spazio sul papiro e di tempo – mentre il determinativo è il simbolo Z9 (una croce) che indica “discontinuità” o “rottura”.

FRATTURA “DA IMPATTO”

“sed”

Nella sorta di classificazione delle fratture spiegata nel papiro Edwin Smith, il secondo tipo potremmo tradurlo “da impatto”. “Sed” si usa anche all’esterno del campo medico per indicare la rottura ad esempio di un vaso, di un uovo o di un sigillo. Si ritrova ben 23 volte in questo papiro e viene spiegato molto bene nel Caso 5 come una frattura in cui “il cranio è schiacciato ed affonda verso il suo interno…spaccato in molti frammenti scivolati verso l’interno”.

Siamo quindi di fronte ad una frattura comminuta, che coinvolge anche almeno le meningi e, nel caso del cranio, una frattura depressa. Questo termine viene utilizzato anche per indicare un’arma (“sed-kesh”, “spacca-ossa”) una sorta di mazza che dagli studiosi è considerata la principale causa di questi tipo di frattura.

FRATTURA “DIVISA”

«pšn» («peshen»)

Un terzo tipo di frattura identificato nel Papiro Edwin Smith è quella che potremmo tradurre con “frattura divisa”. Nel Caso 4 si parla infatti di “una ferita aperta alla testa, che penetra l’osso e divide (spacca) il suo cranio)”.

Peshen” è un termine molto arcaico, risalente ai Testi delle Piramidi ed ai Testi dei Sarcofagi, coerente quindi con la presunta data di prima stesura del Papiro Edwin Smith, dove si trova anche con il determinativo dell’ascia per indicare “spaccare il legno”.

Oplologia e medicina si uniscono nuovamente quindi, identificando nell’ascia a lama lunga egizia la principale “causa” di queste fratture che vengono descritte non solo sul cranio ma anche sulla mandibola e sulle braccia. La spada egizia, che pure poteva infliggere questo tipo di ferite, era scarsamente usata all’epoca della stesura del papiro Edwin Smith.

Esempi di asce a lama lunga egizie. La lama poteva superare i 40 cm di lunghezza.

Da notare che la frattura “peshen” del cranio è “un male contro cui lotterò”, e l’evidenza paleopatologica ci mostra che effettivamente poteva essere curata con successo dai medici egizi.

Un caso di frattura “peshen” del cranio di epoca tolemaica. Nonostante l’estensione della frattura, il paziente è sopravvissuto al colpo, dimostrando che contro questo tipo di fratture si poteva lottare.

GRAVIDANZA

“sjwj» («siui»)

“Gravidanza” in sé è un termine poco usato nell’Antico Egitto e si trova praticamente solo nei papiri medici, dove il determinativo Gardiner D53 indica chiaramente l’origine della gravidanza.

Ricordiamoci che nel pensiero egizio il figlio derivava solo dallo sperma paterno, mentre la madre aveva “solo” il ruolo di protettrice e nutrice della nuova vita.

INCINTA

“bkAt” (“bekat”)

Molto più frequentemente si trova invece l’aggettivo “incinta” riferita alla donna (“bkA” come verbo indica appunto “rimanere incinta”).

Da notare il determinativo B2 che indica, con la sua leggera prominenza del ventre, una donna in dolce attesa.

GUARIRE

dr

Ci troviamo di nuovo di fronte al concetto di malattia come “invasione” di una forza malvagia, estranea al nostro corpo.

La parola che indica “guarire”, infatti, non è altro che la rappresentazione di “guidare fuori”, “espellere”, intendendo ovviamente la natura malvagia della patologia.

Il determinativo Gardiner A24, infatti, indica “colpire” o “insegnare” (mi sa che gli studenti egizi avessero bisogno di…motivazioni per studiare) ma è anche quello che indica il pastore che guida i suoi armenti con un piccolo bastone in mano: il medico diventa un pastore che allontana con parole ed azioni i demoni che tormentavano il corpo del malato.

GUARITORE

“Sau”

No, i guaritori non erano sardi come si potrebbe pensare dal loro nome…

Derivano semplicemente il loro nome dalla radice “sa” (simbolo Gardiner V17, una tenda da pastore arrotolata) che vuol dire “protezione” e che indica anche gli amuleti che erano i loro “ferri del mestiere”. I “sau” infatti utilizzavano solo le arti magiche per “curare”, con gli amuleti e le formule magiche da recitare in presenza del malato.

Tra i nome dei medici pervenuti fino a noi, in pochissimi casi il titolo “sau” è affiancato a quello “swnw” che indicava i medici veri e propri, a sottolineare una netta differenza tra i due ruoli.

Il loro nome veniva scritto in diversi modi; in alcuni casi il determinativo che indicava una persona veniva sostituito con quello utilizzato di solito per i pastori, per rafforzare il significato di “guardiano” e “protezione”.

INFARTO

wꜢḏ“ (“wadj”)

La comprensione di questo termine è stata possibile (per quanto si possa essere certi di un termine tecnico egizio, è sempre bene ricordarlo) dal contesto (Papiro Ebers 191).

Il termine “wadj”, infatti, di solito indica il colore verde, con il simbolo Gardiner M13 formato da gambo e fiore di papiro. Ma solo qui è abbinato al determinativo Aa2 che indica una pustola, una secrezione e si parla di “malattia wadj”, ossia “una malattia al cuore e (il paziente) ha dolori alle braccia, al petto e a un lato del cuore…la morte si avvicina”, permettendo così di identificarlo con l’infarto (un’angina non farebbe dire al medico “la morte si avvicina”).

Secondo alcuni studiosi l’utilizzo della radice “verde” del termine sarebbe un riferimento esagerato al colorito verdastro del paziente in shock cardiaco. Chissà?

INTERVENTO (CHIRURGICO)

“ḏwꜥ» (“djua”)

Quando il medico doveva intervenire chirurgicamente, nell’Antico Egitto si parlava di un “trattamento con il coltello”. Ebbell fu il primo nel 1937 ad interpretare questa locuzione come “intervento chirurgico”, una traduzione accettata ormai universalmente.

Il determinativo è di nuovo il simbolo Gardiner T30, quello del coltello (diverso, ricordiamolo, da quello utilizzato per indicare ad esempio la macellazione).

I VERMI “HERERET”

Ancora una volta entriamo in un tema ancora dibattuto. Il microscopio non era ancora stato inventato e Linneo non aveva ancora proposto il suo sistema di nomenclatura degli esseri viventi. E di sicuro non è sopravvissuto un medico egizio a raccontarcelo…

I vermi “hereret”, citati diverse volte nei papiri medici, cosa sono allora?

Ebbell nel 1937 era certo che si trattasse dello Schistosoma haematobium responsabile della bilharziosi e della conseguente ematuria leggendo il Papiro Ebers (“È la malattia aaa che li ha creati. Non saranno uccisi da nessun altro rimedio”, Ebers 62). Ma nel Papiro Hearst viene citato un altro rimedio contro questi vermi, il mesdjemet (probabilmente l’antimonio o il solfuro di piombo).

Attualmente molti studiosi pensano che le dimensioni molto piccole dello schistosoma non ne permettessero l’individuazione da parte dei medici egizi, e che quindi i vermi hereret siano vermi intestinali – forse l’Ascaris lumbricoides, un verme rotondo che causa l’ascaridiosi (una parassitosi che causa in genere disturbi intestinali ma può arrivare a bloccare le vie biliari causando ittero o la necrosi del tratto intestinale colpito) Da un punto di vista lessicale, è da notare che il determinativo Gardiner I14, che indica un essere strisciante, è lo stesso sia per i vermi che per i serpenti; è il contesto della frase on cui è inserito ad essere discriminante.

MALATTIA

“mr” o “inedi”

Il grande nemico del medico. Talmente grande che nella forma più comune “mr” ha spesso un doppio determinativo: il passero dalla coda arrotondata (Gardiner G37) che significa “male” e la figura di Seth, associata alla malvagità. Si applica sia alle malattie che alle ferite, artificiali (come in battaglia) o accidentali (come una caduta)

Il determinativo di Seth compare anche nell’altra forma “inedi” che indica la malattia.

Entrambe le forme possono indicare anche il dolore che la malattia provoca, anche se il dolore in sé aveva altri termini per definirlo.

LA MALATTIA “aaa

Da tempo questo termine medico è uno dei più dibattuti tra gli studiosi. Ricorre ben 22 volte nel Papiro Ebers e 50 in totale considerando anche gli altri papiri medici; deve quindi trattarsi di una patologia “importante” per gli antichi egizi. Il determinativo del pene da cui sgorga del liquido è stato interpretato in maniera diversa – da tener presente che questo determinativo è presente anche nel vocabolo che indica un “veleno”.

Ebbell nel 1937 era certo che si trattasse dell’ematuria, che abbiamo visto nella rubrica essere il sintomo principale della bilharziosi (ricordate? La “mestruazione degli uomini” menzionata dalle truppe napoleoniche). Ricordiamoci però che Ebbell era medico, ma non egittologo, e la sua traduzione (che purtroppo è l’unica del papiro Ebers in inglese) è viziata dal suo parallelismo con la medicina moderna. Dello stesso parere erano anche Jonckheere e Levebvre negli anni successivi. Però esiste anche un verbo “aaa”, usato molto raramente, che si può tradurre come “spargere il seme” o “eiaculare”, e si parla anche di “far uscire l’aaa da un uomo deceduto” come se si trattasse di un incantesimo o di un veleno.

L’associazione con la bilharziosi si deve al passaggio del papiro Ebers che abbiamo visto nella rubrica (Ebers 62):

  • Foglie di carice e di pianta “shames” (non identificata), tritate finemente e cotte con il miele; devono essere ingerite dal malato nel cui addome crescono i vermi hereret. È la malattia aaa che li ha creati. Non saranno uccisi da nessun altro rimedio

Ma è da tener presente che nel Papiro Ebers esistono altri rimedi indicati contro la malattia aaa, intesa come una sostanza velenosa creata da una divinità o un defunto (noce di giunco e frutti thwj e ibw – ancora sconosciuti – macinati e mescolati con la birra, da prendere prima di dormire).

Un’interessante curiosità: nel Papiro Hearst si fa riferimento ad un’altra sostanza per eliminare i vermi hereret chiamata mesdjemet, che potrebbe essere l’antimonio (Hanafy, 1974) oppure il solfuro di piombo (Nunn, 2000). Un secolo fa, l’unica sostanza chimica per trattare la bilharziosi era…l’antimonio.

Chissà se in futuro troveremo nuovi documenti che facciano luce sulla misteriosa malattia “aaa”….

MALE INCURABILE

betu” o “bitu

Come abbiamo visto, secondo la medicina egizia le influenze maligne non sono prettamente metafisiche ma sono in grado di entrare nel corpo umano dall’esterno e causare malattie. Lo sforzo del medico deve essere anche quello di allontanare questi demoni, con le formule di rito e con le prescrizioni adeguate.

Ma quando lo sforzo è inutile, si parla di “betu” che possiamo tradurre come malattia incurabile. Al termine “bṯw” che indica di solito un malfattore, un malvagio, si aggiunge infatti il determinativo Gardiner I14, un serpente, che indica l’origine spirituale, un demone che non si può sconfiggere. Il “betu” diventa così, ahimè, “un male che non posso curare”.

Da notare che le vecchie traduzioni (soprattutto di origine anglofona, che hanno sottovalutato l’importanza spirituale nella medicina egizia) parlano di “betu” come “verme”, “parassita”, cosa che è stata successivamente smentita riconoscendo il determinativo I14 come “demoniaco”.

MEDICO

swnw” o “sinw”

È formato dal simbolo della freccia (Gardiner T11), che è un trilittero (‘swn’) abbinato al bilittero ‘nw’ con il simbolo del vaso (Gardiner W24). La persona seduta è il determinativo maschile (Gardiner A1).

Se il medico è una donna, il determinativo maschile è sostituito dal simbolo della pagnotta (Gardiner X1), equivalente alla nostra consonante “t”, ed il termine diventa così “swnwt” o “sinwt

Si è discusso a lungo se il simbolo in alto fosse una lancetta (o un bisturi), ma le iscrizioni più eleganti e precise non lasciano dubbi che sia in effetti una freccia; è anche possibile che la freccia fosse anche un simbolo ideografico, indicando il medico come “l’uomo capace di estrarre una freccia” come nel caso dei soldati. Spesso, per motivi di spazio o di praticità, il medico veniva indicato con il solo simbolo della freccia.

Il termine è sopravvissuto nel copto “saein”, che indica appunto il medico.

E se il termine “sinu” vi è famigliare, “Sinuhe l’Egiziano” (quello del romanzo di Mika Waltari) è, appunto, un medico.

MESTRUAZIONI

“ḥsmn» («hesmen»)

Tanto per cambiare, è un termine su cui esistono dei dubbi tra gli studiosi. “Hesemen” è infatti anche il natron, utilizzato per le pratiche di mummificazione e nei rituali di purificazione, per cui è possibile che indicasse invece un rituale al termine delle mestruazioni stesse oppure dopo il parto. Plinio il Vecchio riporta inoltre che il natron di Menfi fosse “di colore rosso”

Spesso veniva scritto, sempre per le solite ragioni di spazio, con il solo simbolo Gardiner U32 (il pestello nel mortaio).

Un brano del papiro Edwin Smith contenente un rimedio per ripristinare il flusso mestruale regolare (senso di lettura da destra a sinistra)

I passaggi del Papiro Jumilhac facenti riferimento alle donne con le mestruazioni come “proibite” (immagini gentilmente fornita da Nico Pollone)

NASCITA

“mswt» («mesut»)

La radice del termine, “mss”, è quella che indica il figlio (Ra-mses o Ra-messu = figlio di Ra); il sostantivo che ne deriva ha come determinativo il simbolo Gardiner B3, che abbiamo già visto anche nelle rappresentazioni nei templi, raffigurante una donna in posizione accucciata da cui sta uscendo la testa e le braccia del nascituro.

Una curiosità: i cinque giorni cosiddetti epagomeni, aggiunti dagli egizi ai 12 mesi di 30 giorni ciascuno per raggiungere i 365 giorni dell’anno solare, erano dedicati alla nascita delle cinque divinità principali. Nell’ordine erano quindi i “giorni della nascita” di Osiride, Horus, Seth, Iside e Nephtys. Erano giorni considerati molto “pericolosi” e soprattutto “mswt-Sth”, la “nascita di Seth” particolarmente funesto…

OCULISTA

“swnw irty” (“sunu irti”)

La “specializzazione” in oculistica è una delle più antiche della medicina egizia: ci sono pervenuti i nomi di ben sette oculisti dell’Antico Regno (uno lo abbiamo già conosciuto, Iry: https://laciviltaegizia.org/2022/11/20/ir-en-akhty-iry/). Venivano designati con il termine comune per i medici, “swnw”, insieme al simbolo degli occhi che indicava la loro professione specifica.

Da notare che gli oculisti erano così importanti nell’Antico Egitto da avere una vera e propria gerarchia che è pervenuta fino a noi

La gerarchia degli oculisti. Dal basso verso l’alto: oculista, oculista di Palazzo, capo degli oculisti di Palazzo, Sovrintendente degli oculisti di Palazzo

POLMONE

“wfꜢ” o “smꜢ” (“wefa” o “sema”)

Come in molti casi nei papiri medici lo stesso organo può essere scritto in modi diversi, ed il polmone è uno di questi casi. Spesso per risparmiare tempo e papiro veniva utilizzato il solo simbolo F36 (“smA”) che rappresenta proprio i polmoni e la trachea.

Il simbolo F36 dalla tomba di Paheri a El-Kab (XVIII Dinastia): si vedono chiaramente le “origini” del simbolo con gli anelli tracheali ed i polmoni

Da notare che lo stesso termine “smꜢ” può indicare sia “polmone” che “unione” (il nodo di loto e papiro “Sema-Tawi” che simboleggia l’unione del Basso ed Alto Egitto ha al centro proprio il simbolo F36); oltre al contesto lo scriba utilizzava quindi il determinativo Gardiner F51 (“carne”) per indicare che si trattava di una parte del corpo (si usa invece il simbolo Y1, il rotolo di papiro, per indicare il “concetto” di unione).

Il nodo Sema-Tawi (Luxor, I pilone del tempio) in cui il loto ed il papiro vengono annodati, solitamente da Hapi, intorno al simbolo F36 che in questo caso rappresenterebbe il “Respiro della vita” per il Paese.

Sappiamo infine che i polmoni venivano estratti dal corpo al momento della mummificazione e posti nel vaso canopo raffigurante Hapi (il figlio di Horus che personifica l’inondazione del Nilo, solitamente a testa di babbuino) e sotto la protezione di Nephtys.

Il vaso canopo destinato a raccogliere i polmoni di Psusennes I (XXI Dinastia) con rappresentato Hapi (https://laciviltaegizia.org/…/i-vasi-canopici-di…/)

PUS

“ryt” o “wekhedu”(?)

Dal Papiro Ebers sappiamo che il pus era chiamato “ryt”; oltre alla parte fonetica troviamo anche il determinativo Gardiner Aa2 che indica proprio un gonfiore o una secrezione.

Se esamini un gonfiore dovuto al pus in qualunque arto del paziente, che sporge dalla pelle ed è rotondo e chiuso, dirai: è un gonfiore dovuto al pus, un male che posso curare trattandolo con il coltello. C’è qualcosa al suo interno simile al muco, che uscendo sembra cera. Se lasci qualcosa al suo interno, il gonfiore ritornerà” (Ebers 869).

Di recente, alcuni studiosi hanno sottolineato però che non viene accennato ad alcun rossore o irritazione, proponendo l’ipotesi di una cisti sebacea.

Un altro termine usato, ma mai identificato con certezza, è “wekhedu” (Ebers 871):

Se esamini un gonfiore dovuto al wekhedu in cima alle braccia che produce del liquido, è duro è gonfio, dirai: è un gonfiore causato dal wekhedu, un male che posso curare con il coltello, ma stai molto attento ai metu (vasi). C’è qualcosa al suo interno simile alla resina. Trattalo come una ferita. Lascia che il taglio si chiuda da solo (= non suturare, pratica corretta per gli ascessi). Se lasci qualcosa al suo interno, il gonfiore ritornerà”.

In questo caso la posizione del gonfiore ha fatto pensare ai linfonodi ascellari, infiammati per un’infezione alle braccia, mentre i metu sarebbero le arterie e le vene ascellari che scorrono molto vicino ai linfonodi.

PUSTOLA/VESCICOLA

“ꜤꜢt“ o “Ꜥnut” (“aat” o “anut”)

Nel Papiro Ebers (Ebers 874 e 877) ci sono due termini che sembrerebbero indicare le lesioni cutanee quali pustole e vescicole (attribuibili invece secondo alcuni studiosi alla lebbra). L’incertezza deriva dal fatto che queste lesioni sono denominate “di Khonsu”, lasciando immaginare che si riferiscano ad una specifica patologia. Entrambi i termini hanno il determinativo Gardiner H8 (un uovo), suggerendo che queste lesioni contengano qualcosa; nello specifico dell’aria (“aat”) o del pus (“anut”).

Qualcosa appare dentro di esso (il gonfiore), come se ci fosse dell’aria” (“aat Khonsu”, Ebers 874)

Se li trovi sulle braccia (del malato), sui fianchi e sulle cosce e trovi del pus al suo interno, non farai nulla contro di essi” (“anut Khonsu”, Ebers 877)

Secondo altri studiosi, i due termini sarebbero invece riferiti a forme tumorali di incerta identificazione o addirittura ai bubboni della peste.

SANGUE

“snf” o “senef

Oltre alla fonetica snf, il suo determinativo (Gardiner D26, le labbra che sputano acqua) lo indicano come un “liquido che sgorga”.

Come abbiamo visto, il sangue scorreva nei “metu”, nei vasi, insieme però agli altri liquidi corporei (urina, muco, liquido seminale). Naturalmente, il medico doveva impedire che il sangue scorresse all’esterno del corpo (“fai attenzione al sangue…”), ma il sangue poteva anche diventare un pericolo per il paziente, una sostanza che corrode (“il sangue che divora”, Papiro Ebers 592-602). Si sapeva inoltre che il sangue veicolasse alcune malattie (“le feci che entrano nel sangue e lo infettano”).

Il sangue mestruale, considerato impuro e repellente, poteva però essere usato anche come rimedio per allontanare i demoni responsabili della malattia in una sorta di “chiodo scaccia chiodo”.

SCATOLA CRANICA

nnt” o “djennet”

Questo termine ha creato un bel po’ di grattacapi agli esperti, perché nel tempo è passato dal definire il cranio (o meglio, la scatola cranica, ovvero la scatola ossea in cui risiede il nostro cervello) alla sola parte superiore del cranio stesso, dove si appoggia una corona, ed è difficilmente distinguibile da “dada”, ovvero la testa nel suo complesso.

Il primo uso documentato del termine è nei Testi dei Sarcofagi del Medio Regno (incantesimo 435), riferito a dove risiede il veleno di un serpente.

L’uso nei testi medici è praticamente limitato al solo Papiro Edwin Smith, dove diventa importante essere precisi per le procedure chirurgiche e dove viene utilizzato per identificare le fratture della sola scatola cranica escludendo il maxillo-facciale; il viso è infatti escluso dal “djennet”.

Ꜣis n ḏnnt” (ajs n djennet) ovvero “le visceri del cranio” come abbiamo già visto è il termine per indicare il cervello

SERPENTE

“ḥfꜢw” (maschio) e “ḥfꜢt” (femmina)

È uno dei primi termini che incontriamo che ha (ovviamente) sia la forma al maschile che al femminile, entrambi comunque con il determinativo Gardiner I14 (che abbiamo visto significare “essere strisciante” ad indicare sia i vermi che i serpenti). La radice “ḥfꜢ” è una di quelle che più spesso ha la finale “w” ad indicare il genere maschile (spesso omesso nei geroglifici), mentre quella femminile ha la solita pagnotta X1 “t”.

Una curiosità: nei Testi delle Piramidi e dei Sarcofagi i simboli ritenuti “pericolosi” per il defunto come quelli della vipera cornuta (Gardiner I9, “f”) o il determinativo I14 venivano spesso decapitati (un simbolo per la testa ed uno per il corpo, separato) per annullarne la pericolosità, mentre nei testi funerari del Nuovo Regno a volte venivano barrati a livello del collo (anche con il simbolo di un coltello) con lo stesso scopo.

SERQET

Srḳt

Forse è strano trovare nel nostro piccolo lessico medico il nome di una Dea, ma c’è una ragione.

Serqet raffigurata nella tomba di Nefertari, con l’usuale simbolo senza pungiglione

L’ipotesi più accreditata sull’origine del nome della Dea è che derivi dal verbo arcaico “srk”, che vuol dire “causare il respiro”. Si riferirebbe all’insorgere del respiro accelerato (tachipnea) derivante da una puntura di scorpione; il significato del suo nome sarebbe quindi “Colei che accelera il respiro”, sottintendendo che era meglio non farla arrabbiare…

Il determinativo dello scorpione (come il simbolo solitamente raffigurato sulla testa della Dea) non ha pungiglione: sempre secondo questa ipotesi indicherebbe la natura benevola della Dea (che toglie pericolosità all’animale) e si potrebbe quindi tradurre anche come “Colei che impedisce al respiro di accelerare”

Una seconda teoria sostiene invece che il determinativo non indichi uno scorpione (aracnide) ma uno “scorpione acquatico” (insetto), il cui sifone sembra permettergli di respirare sott’acqua. In questo caso il nome della divinità potrebbe diventare “Colei che permette di respirare”.

Serqet a guardia dei vasi canopi di Tutankhamon: si nota anche in questo caso come il suo simbolo sia privo del pungiglione

SOFFERENZA

mn

Accanto alla parte fonetica per pronunciare la parola, ritroviamo il determinativo costituito dal passero dalla coda arrotondata (Gardiner G37) a significare “male”. Attenzione: non si tratta però del “dolore”, che ha diversi termini per indicarlo e che vedremo più avanti.

Ma la sofferenza non è soltanto quella fisica: “mn” indica anche uno stato di malessere interno; in generale ciò che non ci fa stare bene. Corpo e psiche nuovamente riunite da un vocabolo.

Ogni forma di disordine della Ma’at genera uno stato di “mn” ed uno sforzo conseguente e necessario per cercare di riportare un “ordine” da contrapporre al caos (e, nel nostro caso, alla malattia).

STOMACO

“r-jb o “ra-ib

Come abbiamo visto nella rubrica, lo stomaco nella medicina egizia è strettamente collegato al cuore, tanto da esserne la “bocca”. Il suo nome, “r-jb” è anche figurativamente scritto unendo il simbolo Gardiner D21, la bocca, con quello F34, che abbiamo visto rappresentare un cuore bovino.

Allo stomaco è dedicato un’intera sezione del Papiro Ebers (188-208). In esso viene evidenziato che cibo e bevande passino per lo stomaco e di lì “vadano giù” (“ha”) verso l’ano, ma il processo digestivo non fu mai completamente chiarito dai medici egizi.

Oltre ai richiami moderni che abbiamo visto nella rubrica (“stoma” e “cardias”), i nostri amici anglosassoni ancora oggi per dire che hanno un bruciore di stomaco usano il termine “heartburn” – cioè “brucior di cuore”…

SUTURARE

«nḏry» (“nedry”)

A differenza di tanti altri termini che abbiamo incontrato, “nry” è un termine abbastanza comune nella lingua egizia e vuol dire “unire insieme”, “legare”. Si usa ad esempio per i prigionieri o per i capi di bestiame. Uno dei suoi significati al di fuori del campo medico è anche “chiudere” (ad esempio una porta).

In un termine solo si uniscono quindi i concetti di “chiudere” la ferita e “legare insieme” i suoi lembi. Anche il determinativo Gardiner A24, che indica “comandare, controllare” è evocativo dell’azione del chirurgo che “comanda” alla ferita di chiudersi.

Attenzione, però: il Caso 41 del Papiro Edwin Smith (“Una ferita malata (infetta) del suo petto”) specifica che “…la ferita è infiammata e un vortice di infiammazione esce continuamente dalla bocca di quella ferita al tuo tocco; le due labbra di quella ferita sono rosse e gonfie, mentre il paziente continua ad essere febbricitante a causa della ferita; la sua carne non può ricevere una fasciatura (sutura)”.  Il concetto di lasciare una ferita infetta aperta e NON suturarla è estremamente moderno, tanto da essere tuttora nelle linee guida dell’OMS per la cura delle ferite.

I punti di sutura usati si chiamavano invece “ydr”.

TESTA

“dꜣdꜣ” o “dada”

Come menzionato nella rubrica, una lunga diatriba ha accompagnato la traslitterazione del simbolo Gardiner D1, che indica appunto la testa, ma proprio dai papiri medici è arrivato il “suggerimento” che in ambito medico/anatomico sia ḏꜣḏꜣ o dada quella più corretta, formata dalla ripetizione del simbolo U28 (la fiamma, ma senza implicazioni politiche…) e G1, l’avvoltoio. Di entrambi viene “usata” la parte fonetica, supportata dal determinativo D1.

Il termine è molto antico (si ritrova anche nei Testi delle Piramidi) e viene usato anche in senso figurato (il tetto di una casa oppure l’avanguardia di una formazione militare).

Nel Papiro Edwin Smith (dove ricorre più frequentemente) lo scriba, per risparmiare tempo e spazio sul papiro – che ricordiamo era carissimo e gli scribi odiavano gli sprechi – viene spesso abbreviato senza le due figure di avvoltoio. 

TRACOMA

«nḥꜢt» («nehat»)

Per molto tempo gli studiosi hanno discusso su cosa potesse indicare la misteriosa malattia “nehat” degli occhi citata diverse volte dal papiro Ebers.

Questa volta l’aiuto è arrivato dal…greco. La parte fonetica “neha” come aggettivo indica infatti in egizio qualcosa di aspro, ruvido (ed anche terribile o feroce – è uno degli aggettivi riferiti al serpente Apophis). Tracoma deriva invece da τραχύς (tracos) che in greco significa appunto “aspro, ruvido” facendo riferimento all’aspetto delle palpebre del malato.

Il determinativo Aa2, che abbiamo già incontrato in diverse occasioni e che indica una pustola, una secrezione, ci dice che in questo caso il termine fa riferimento ad una patologia. Mistero risolto.

L’aspetto “ruvido” dell’occhio affetto da tracoma dovuto alla congiuntivite mista follicolare-papillare associata a secrezione muco purulenta

TUMORE?

“bnwt” (“benut”)

Questo è uno dei termini più controversi nella medicina egizia. Gli studiosi lo traducono a volte con “tumore”, altre con “ascesso” ed altre con “ulcera”. L’attribuzione come “tumore” deriva da un passaggio che identificherebbe il carcinoma della vescica, da cui il determinativo Gardiner D53 che indica qualcosa che sgorga. A volte viene sostituito dal determinativo Aa2 (secrezione), per cui è possibile che indicasse due patologie a seconda del contesto.

È a questo termine che si riferisce la definizione del papiro Edwin Smith “Fratello del sangue, amico delle secrezioni (o del pus), padre del fetore dello sciacallo

UBRIACO

“Tek” o “Teki”

Quale fosse il modo più comune per ubriacarsi nell’Antico Egitto è svelato dal termine che indica l’ubriachezza – e l’ubriaco. Il determinativo è infatti di nuovo quello della birra.

L’ubriachezza era sempre considerata poco dignitosa e pericolosa per come poteva allontanare dall’ordine e da Ma’at:

“Non renderti debole nel negozio della birra…Odierai le parole che avrai pronunciato, cadrai e ti romperai le ossa…I tuoi compagni di bevuta si alzeranno e diranno di buttare fuori questo ubriacone” (I precetti di Ani, XVIII Dinastia).

URINE

“ueseshet”

Il termine deriva dal verbo “wss” che significa “espellere” e potrebbe indicare, per esteso, anche la vescica. In questo caso il determinativo è un membro maschile da cui fuoriesce il liquido.

Le urine avevano un doppio valore: oltre a quello “detestabile” che abbiamo visto, quelle delle donne incinte erano portatrici di vita

UTERO

Anatomicamente: “ḥmt” (“hemet”) o “idt” (“idet”)

Metaforicamente: “mwt rmṯ” (“mut remet”)

Nella terminologia dell’utero femminile la lingua egizia ci stupisce nuovamente con le sue simbologie.

L’utero, infatti, può essere definito anatomicamente come “hemet” o “idet” (il simbolo Gardiner N41 – il pozzo con l’acqua – ha infatti più di una pronuncia fonetica), ed il suo determinativo è quello che indica “una parte del corpo”.

Ma l’utero si trova anche descritto come “mut remet”, ed il suo determinativo diventa quello di un uomo e di una donna con i trattini del plurale: l’utero diventa quindi “la madre del umanità”.

VAGINA

“kꜢt» o “iwf” («kat» o “iuf”)

Il primo termine (“kat”) è quello prettamente anatomico ed indica il canale vaginale, mentre nei papiri medici si trova spesso “iuf”, che tecnicamente indicherebbe la carne ma che nel contesto indica dove inserire i tamponi o pessari utilizzati come medicamento o come metodo anticoncezionale. Curiosamente, l’espressione “figli della carne” o comunque il riferimento alla “carne” nell’ambito della sessualità è arrivato fino a noi.

In entrambi i casi, comunque, il determinativo è il Gardiner F51 che ormai conosciamo bene ed indica che si sta parlando di una parte del corpo.

VASO

“mtw” o “metu”

Generalmente lo si trova indicato come “vaso”, ma visto che il termine si applicava anche ai nervi, ai tendini ed ai legamenti in generale, forse sarebbe più corretto parlare di “condotti”.

Come indicato nella rubrica, i metu principali erano 22, tutti afferivano al cuore a cui portavano l’aria vitale e tutti confluivano verso l’ano, da cui il corpo si liberava da tutte le sostanze tossiche.

Con il concetto di “circolazione”, i metu sono contemporaneamente una delle grandi intuizioni ed una delle grandi sviste della medicina egizia.

VELENO

“Mtwt” o “Metut”

Con ogni probabilità questo termine prende origine da “metu” (ricordate? I vasi all’interno del corpo) ed indica un liquido forzatamente iniettato od espulso dal corpo. Per questo, lo stesso termine curiosamente indica il veleno ed il liquido seminale. Ed è ovviamente, un altro termine su cui gli studiosi stanno discutendo, a volte in ambito filosofico (collegando la vita portata dal liquido seminale alla morte portata dal veleno) ed a volte in ambito più pratico (l’aspetto del veleno di scorpione o di serpente, lattiginoso, ricorda quello del liquido seminale).

Quando si vuole indicare il suo effetto, lo si definisce anche mw mr (liquido doloroso), usato soprattutto nei papiri medici del periodo ramesside.

VOMITO

«ḳꜤ» o «ḳꜢs» («qa» o «qas»)

Il vomito era uno dei sintomi principali di un “blocco” del sistema digerente, che veniva definito spesso come una “putrefazione delle sue secrezioni” o come un “accumulo delle feci”; in quest’ultimo caso il rimedio era costituito da latte in cui veniva spremuto un frutto di sicomoro maturo e diluito con birra dolce, “da bere spesso”.

Il vomito poteva però dipendere anche da “un accumulo di sangue” in una donna che non avesse mestruazioni da tempo (e che non fosse ovviamente incinta). In questo caso il rimedio consisteva in latte a cui veniva aggiunto il midollo osseo di uno stinco di bue, ginepro, cumino ed incenso, da bere per i rituali 4 giorni.

Il vomito doveva però anche essere indotto per espellere un agente nocivo, un demone, come nel caso del tremito ad un braccio (con una purea di orzo fermentato bevuto caldo oppure con della birra in cui fosse lasciato del pesce a fermentare).

Curiosamente, non viene mai menzionato invece in caso di avvelenamento

Fonti ulteriori, oltre alla bibliografia principale:

  • Allen, James P. Middle Egyptian: An introduction to the language and culture of hieroglyphs. Cambridge University Press, 2000
  • Secco, Livio. “Dizionario egizio-italiano, italiano-egizio.” Kemet, 2016.
  • Gardiner, Alan H. “Egyptian grammar. Being an intr. to the study of hieroglyphs.” (1969).
  • Gardiner, Alan H. “The House of Life.” The Journal of Egyptian Archaeology, vol. 24, no. 2, 1938, pp. 157–79.

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