Bassorilievi in calcare provenienti dalla cappella del Supervisore delle Truppe Sehetepibra
Dimensioni: parete posteriore: cm 30,5 x 42,5 x 10,6 parete destra: cm 30,5 x 49,2 x 9,7 Luogo di probabile provenienza: Abido Medio Regno, Tredicesima Dinastia (1802-1650 a.C. circa) The Metropolitan Museum of Art, New York, Rogers Fund, 1965 (65.120.1, .2)
Nel corso del tardo Medio Regno divenne pratica comune includere nelle cappelle votive e nelle stele erette ad Abido, membri della famiglia e colleghi dei proprietari dei monumenti funerari. È questo il caso delle due pareti superstiti di quella che probabilmente era una piccola cappella a tre lati eretta in favore del sorvegliante delle truppe Sehetepibra, figlio di Sitankhu, e della sua famiglia. Entrambi i pannelli superstiti presentano la figura di Sehetepibra seduto davanti a un tavolo delle offerte, che includono carne di manzo, volatili, frutta, verdura e pane. Sulla parete di fondo, una formula di offerta richiede queste e altre provvigioni agli dèi Osiride, Upuaut, Horus e Khnum e alle dee Heqet, Hathor e “le dee che risiedono in Abido”. Il testo sulla parete destra contiene un elenco di epiteti elogiativi di Sehetepibra e un appello per ricevere offerte da parte di coloro che avrebbero visitato la cappella.
L’angolo inferiore destro della parete posteriore e la metà inferiore della parete destra sono profondamente intagliati a formare una nicchia occupata da una fila di dieci figure mummiformi, ciascuna delle quali è identificata da un’iscrizione. Mentre le stele con figure presenti all’interno di nicchie sono abbastanza comuni nel tardo Medio Regno, il santuario di Sehetepibra è del tutto insolito per il fatto di includere un numero così elevato di figure, alcune delle quali presentano caratteristiche identificative peculiari. Gli uomini sono tradizionalmente raffigurati con la pelle rossa, il copricapo khat dalla forma caratteristica e la mano destra che afferra il polso sinistro. Le donne hanno la pelle gialla, indossano parrucche con estensioni sul davanti e hanno entrambe le mani nascoste sotto le bende.
Tutti gli individui possiedono orecchie grandi, occhi dalle palpebre pesanti e volti disegnati. Sia queste convenzioni artistiche che lo stile delle preghiere di offerta rendono consistente una datazione dei rilievi alla tredicesima dinastia.
La figura mummiforme più grande e più a destra è proprio Sehetepibra. Accanto a lui si trova la “Signora della casa”, Djehutyhotep, presumibilmente sua moglie. Alla sua sinistra si trova la figlia Sitankhu, seguita da Wahka, figlio di Sitmay, la cui relazione con Sehetepibra non è chiara. Seshemi, figlia di Sitankhu e quindi nipote di Sehetepibra, è la successiva, seguita da Senebes, figlia di Gifet, e dal “supervisore delle truppe” Khentikheti, figlio di Renesankh. Le ultime tre figure, sulla parete di fondo, sono Djehutyhotep, figlio di Ity; Gifet, figlia di Djedes; e Sehetepibra, figlio di Djedes. Mentre alcune di queste persone appartengono con sicurezza alla cerchia familiare di Sehetepibre, altre sono più difficili da identificare.
Sehetepibra in caratteri geroglifici
Nella cappella non compaiono né Sitmay, madre di Wahka, né Djedes, madre di Gifet e Sehetpibra; si ipotizza che fossero mogli di Sehetepibra raffigurate sulla parete sinistra, oggi perduta. Perciò, Senebes, figlia di Gifet, sarebbe un’altra nipote del nostro. Khentikheti riveste particolare interesse, essendo l’unica persona, oltre a Sehetepibra, a essere identificata con un titolo e l’unico individuo maschile con le mani nascoste. La sua parrucca khat mostra segni di ritocchi: è possibile che si tratti di un apprezzato collega incluso nella cappella rielaborando una precedente figura femminile.
Alcune nozioni grammaticali – a cura di Livio Secco
L’occasione è valida per mostrare alcune regole grammaticali della lingua egizia. Il mio scopo è sempre lo stesso: incuriosirvi nella grafia egizia finché cederete alla tentazione di imparare la lettura e la scrittura del geroglifico!
Nella prima diapositiva trattiamo i verbi causativi e la metatesi onorifica. Lettura da destra a sinistra, dall’alto verso il basso.
Nella seconda diapositiva studiamo la scrittura piena e la scrittura difettiva. Lettura da destra a sinistra, dall’alto verso il basso.
Essendo un post appositamente didattico ho aggiunto la riga della traduzione letterale, oltre a quella consueta della fonetizzazione italiana con la codifica IPA.
Spero di avervi incuriosito a sufficienza. Prima o poi cederete!
Riferimenti A. Oppenheim, D. Arnold, Dieter Arnold, K. Yamamoto Ancient Egypt transformed – The Middle Kingdom The Metropolitan Museum of Art, New York – Yale University Press, New Haven and London. 2015
G. Miniaci, W. Grajetzki The World of Middle Kingdom Egypt (2000-1550 BC) – Vol. I Middle Kingdom Studies 1 Golden House Publications, London. 2015
Nuovo Regno, XVIII Dinastia, molto probabilmente tardo regno di Amenhotep III, forse inizio regno di Amenhotep IV (ca. 1350 a. C.). Provenienza Tebe. Ubicazione attuale: Londra, British Museum. Dieci frammenti furono acquistati come parte della prima collezione Salt nel 1823; l’undicesimo (EA37981) fu acquistato da George Waddington e Richard Hanbury nel 1821 e donato al museo da sir Henry Ellis nel 1833.
Pittura su base di intonaco in calce e fango.
Introduzione
Gli undici frammenti della tomba di Nebamun, conservati al British Museum, rappresentano probabilmente uno degli esempi più belli (se non il più bello in assoluto) finora noti dell’arte pittorica dell’Antico Egitto. L’ubicazione della tomba è molto incerta, poiché non è ancora stato possibile associare i frammenti ad alcuna cappella di Tebe. Oltre ai frammenti del British Museum, pezzi più piccoli si trovano ad Avignone, Berlino e Lione, mentre altri tre sono stati fotografati al Cairo negli anni quaranta. Dieci dei frammenti del Museo erano tra gli oggetti portati in Gran Bretagna come parte della prima collezione di Henry Salt. Il dipinto fu scoperto nel 1820, ma i documenti forniscono poche informazioni sull’ubicazione della cappella. Uno dei frammenti berlinesi, raffigurante uomini che catturano quaglie, è stato visto durante gli scavi del marchese di Northampton nell’area di Dra Abul Naga (estremità settentrionale della necropoli) nel 1898/9. Ciò probabilmente causò un danno considerevole alla cappella della tomba, la cui ubicazione andò perduta e ora potrebbe essere stata occultata da una struttura recente.
Sebbene i frammenti siano definiti come appartenenti a Nebamun, il nome del proprietario non è conservato in modo chiaro da nessuna parte. L’esempio meno rovinato è alla fine del testo del frammento EA 37976, dove, dopo il titolo “scriba e contabile del grano”, segue una serie di segni la cui ricostruzione più probabile è “Nebamun”. Il nome fu infatti danneggiato durante il periodo amarniano, quando ogni riferimento al dio Amon, veniva sistematicamente distrutto. Il titolo del proprietario non è particolarmente elevato, ma nella necropoli tebana, sempre riconducibili alla media e tarda XVIII dinastia, si trovano numerose altre tombe, piccole ma splendidamente decorate, di altri detentori di questo e altri titoli simili.
Ed ora passiamo ad illustrare in dettaglio questi splendidi frammenti.
Scena di caccia nelle paludi. (Frammento EA 37977). Larghezza: 98 cm.
Il dipinto più noto mostra Nebamun che partecipa ad una battuta di “caccia agli uccelli nelle paludi”. (Immagini n. 1,2,3,4,5,6). E’ rappresentato in posizione eretta e dominante in una piccola barca di papiro, in compagnia della moglie, dietro di lui, vestita con i suoi abiti migliori e con la figlia seduta tra le sue gambe. Sta per lanciare un bastone contro una serie di diverse specie di uccelli presenti all’interno e sopra un boschetto di papiro, mentre ne ghermisce tre con l’altra mano. Un gatto ha in bocca un’anatra e tra gli artigli altri due uccelli. Sono presenti numerosi pesci nello stagno. I colori e l’attenzione ai dettagli sono stupefacenti. Una caratteristica sorprendente, notata negli anni ’90, è l’uso della foglia d’oro per l’occhio del gatto. Una scena di questo tipo è di solito bilanciata da un’altra che mostra il proprietario della tomba mentre arpiona i pesci, e la fiocina, infatti, si intravvede nell’angolo in basso a sinistra. Due dei frammenti del Cairo mostrano la testa del proprietario della tomba e il bambino tra le sue gambe.
La composizione non è, come verrebbe facile pensare, una semplice rappresentazione dei piaceri della caccia, ma è parte integrante del programma decorativo della tomba: l’interpretazione più plausibile è che la scena sia formata da una complessa serie di simboli che alludono alla riproduzione e alla rinascita, in questo caso nell’aldilà, che sarebbero assicurate da tali raffigurazioni nella cappella funeraria. Le fertili paludi erano viste, infatti, come un luogo di rinascita ed erotismo. La caccia agli animali potrebbe rappresentare il trionfo di Nebamun sulle forze della natura mentre rinasceva. Domina l’enorme figura ambulante di Nebamun, sempre felice e sempre giovane, circondato dalla vita ricca e varia della palude.
Scena del Banchetto: Frammenti EA 37984 (larghezza 99,5 cm.), EA 37981 (Larghezza 50 cm.), EA 37986 (Larghezza 126 cm.)
Di questa scena, sono sopravvissuti 3 frammenti, i quali, disposti come mostrato (Immagine n. 7), rappresentano i quattro registri della rappresentazione di un banchetto. Tre dei registri mostrano ospiti intervenuti a questo evento, alcuni in coppia, altri in gruppi dello stesso sesso. Sia gli uomini che le donne sono vestiti con raffinati abiti bianchi con sottili soprabiti che aggiungono una tonalità di giallo all’ indumento principale. Tutte le donne hanno folte parrucche lunghe, mentre gli uomini indossano per lo più acconciature che arrivano alle spalle, anche se alcuni sono rasati (questa caratteristica sembra verificarsi solo nel gruppo degli uomini, dove gli stili si alternano).
Il terzo registro mostra due gruppi di musiciste e cantanti, con una coppia di danzatrici nude nel gruppo di sinistra. I servitori, uomini e donne, servono tutte le coppie; ospiti e i musiciste recano sulla testa coni di grasso profumato. Queste ultime sono uno dei rari esempi nell’arte egizia in cui il soggetto è rappresentato di fronte anziché di profilo. Tali deroghe alle normali convenzioni si riscontrano solo nelle figure secondarie di rappresentazioni come questa.
Anche se si pensa che le scene del banchetto siano in qualche modo da porre in relazione col Festival della Valle di Tebe, quando la statua di Amon giungeva dal tempio di Karnak per visitare i santuari della sponda occidentale, non si tratta solo del semplice riflesso di una celebrazione. Vengono consumate bevande oltre che cibo e le figure portano alle loro narici fiori di loto (ninfea) o frutti di mandragola. L’intossicazione sembra un elemento importante e sia il loto, sia la mandragola con le loro proprietà narcotiche o allucinogene aiutavano i banchettanti ad avvicinarsi alla divinità.
Questi e altri simboli suggeriscono che queste scene esprimono ancora una volta il desiderio di rinascita dopo la morte, che era uno degli scopi della cappella tombale.
I frammenti superstiti, nella composizione originaria del dipinto, hanno la seguente sequenza: EA37984, EA37981, EA37986 (Immagini nn. 8, 9, 10 )
Nebamun ispeziona bovini e oche: Frammenti EA 37979 (larghezza 67,5 cm.), EA 37978 (Larghezza 115,5 cm.), EA 37976 (Larghezza 97 cm.)
Oltre alle rappresentazioni più esoteriche, le tombe della XVIII dinastia ne contengono altre, apparentemente, di vita quotidiana. Questi tre frammenti provengono dalla stessa parete, che mostrava due volte il proprietario della tomba, seduto su uno sgabello mentre ispezionava due scene, una di oche e una di bovini (Immagine n. 14).
Si è conservata solo una di queste rappresentazioni di Nebamun (frammento EA 37979), che lo ritrae su un sedile pieghevole con schienale (Immagine n. 15). Nella mano sinistra tiene un bastone e nella destra lo scettro dell’autorità e un piccolo fascio di fiori. La sagoma in bianco e nero immediatamente sotto di lui è una rappresentazione della morbida pelle della seduta della sedia.
Nel frammento EA 37978, disposto a destra del precedente, (Immagine n. 16), gli allevatori sono raffigurati nelle loro mansioni in due sottoregistri; a sinistra uno scriba, che si distingue per l’abito più elaborato e la tavolozza sotto il braccio, presenta un pezzo di papiro a Nebamun, presumibilmente, con il conteggio delle oche.
Le scene sono accompagnate da didascalie idealizzate di ciò che avrebbero potuto dire alcuni degli uomini presenti; il testo più lungo della scena del bestiame è pieno di elogi per Nebamun.
Come in tutti questi dipinti, il livello di dettaglio è notevole; ogni creatura è chiaramente differenziata, grazie all’uso accurato di pigmenti diversi, in modo che nessun animale di colore simile sia adiacente.
Scene come queste hanno anche un significato più profondo; proiettano la personalità e la ricchezza di Nebamun nell’aldilà e aiutano a creare un mondo in cui il suo spirito possa risiedere dopo la morte.
Portatori d’offerte: Frammento EA 37980 (Altezza massima, 41 cm.)
Il frammento (Immagini n. 20-21-22-23) descrive una processione di servi, vestiti in modo semplice, che presentano a Nebamun offerte di cibo, consistenti in spighe di grano e animali provenienti dal deserto. Dal momento che le cappelle tombali erano predisposte in modo che la gente potesse portare oboli in memoria dei defunti, è piuttosto comune che sulle loro pareti venisse riprodotta una simile scena.
Tra i personaggi dipinti spiccano in particolare i due servitori centrali quello a sinistra ha fra le braccia una gazzella viva che colpisce per la disposizione e per l’occhio che sembra esprimere al contempo tenerezza e spavento. L’altro, invece, tiene per le orecchie due lepri del deserto. Gli animali si caratterizzano fortemente per la pelliccia minuziosamente particolareggiata, i baffi e le lunghe orecchie, oltre alla posa molto naturale. Il disegno, molto accurato, e la composizione, tanto equilibrata quanto dinamica, rendono questa scena, tutto sommato piuttosto convenzionale,molto fresca e vivace.
Offerte per Nebamun: Frammento EA 37985 (Altezza: 104,20 centimetri, Larghezza: 61 centimetri)
Questo frammento (Immagini nn. 24-25-26-27) è ciò che rimane di quella che doveva essere la scena culmine dell’intero ciclo di dipinti.
Raffigura le offerte funerarie presentate a Nebamun e colpisce per la varietà e vivacità dei colori posti ancor più in risalto dall’utilizzo di uno sfondo bianco. Presenta, inoltre, quattro registri verticali superstiti di iscrizioni geroglifiche, anch’esse policrome.
Rilevamento nei campi di Nebamun: Frammento EA 37982 (Altezza: 45,8 centimetri, Larghezza: 106,70 centimetri)
Nebamun era il contabile responsabile del grano presso il grande Tempio di Amon a Karnak.
In questo frammento (Immagini n. 28-29-30-31) si rappresenta la valutazione dei raccolti, a fini fiscali. Si conservano cinque registri verticali di geroglifici; la parte restante è divisa in due registri, raffiguranti un carro trainato da cavalli sopra e un carro trainato da altri equidi sotto.
Il tutto faceva parte di una più ampia scena di attività agricole. A sinistra, di fronte a una coltura di grano, un uomo anziano, con in mano un bastone, si china di fronte a un piccolo segno di confine e giura, come riportato nel testo geroglifico, che la stele è posizionata nel posto giusto. Alla sua sinistra si intravvede ciò che resta di un corteo di personaggi che lo accompagnavano; sopra il grano, quanto rimane di una quaglia in volo.
La parte destra della scena presenta i due sottoregistri con carri ed equini; quelli sottostanti sembrano curiosare nell’albero raffigurato sulla destra e costituiscono la parte più singolare di questo frammento in quanto non sembrano essere degli abituali cavalli egizi. Forse si trattava di qualche altra razza di equidi, la cui identificazione è oggetto di dibattito.
Esistono pochissimi altri esempi di scene simili. Ce ne sono altre due che mostrano lo stesso insolito tipo di cavallo, e tre che presentano il controllo della stele di confine. Tutte queste altre tombe sono databili tra la metà e la fine della XVIII dinastia, tutte si trovano a Tebe e tutte appartengono a uomini che esercitavano professioni simili: chiaramente, doveva trattarsi di un motivo decorativo peculiare di un determinato gruppo sociale e rimasto in voga solo per un breve periodo.
Un piccolo specchio d’acqua ospita pesci, piante e uccelli, mentre gli alberi che lo circondano sono palme da dattero, palme dum, sicomori e mandragole. Nell’angolo superiore destro, una figura femminile, che è parte integrante di un albero (si tratta, probabilmente di una divinità sotto questa forma), porge un vassoio di offerte, contenente per lo più frutti degli alberi adiacenti e vino o birra. Scene analoghe lasciano supporre che più a destra doveva esserci la figura del proprietario della tomba che le riceveva. Gli artisti avevano accidentalmente dipinto in rosso la pelle della dea, ma successivamente la ridipinsero nel corretto colore giallo.
Ciò che resta del testo nell’angolo superiore sinistro è il discorso del sicomoro, un’altra divinità sotto forma di albero.
Ancora una volta la scena è ricca di simbolismi: le piante, gli uccelli e i pesci alludono alla rinascita e il frutto della palma dum, che contiene acqua, è un potente nutrimento per la vita nell’aldilà. Come nella scena del banchetto (frammenti EA37981-37984-37986), la presenza della mandragola può essere posta in relazione con le sue proprietà allucinogene.
Visto che nel precedente articolo ho accennato alla danza dei “Dervisci Rotanti” che viene eseguita sul piazzale davanti al tempio della Valle di Chefren e al tempio della Sfinge voglio approfondire l’argomento soprattutto per coloro che non lo hanno mai visto e non sanno di che cosa si tratta. Lasciamo per un attimo i grandi monumenti egizi del passato allontanandoci idealmente, ma non di troppo, l’Egitto è in grado di offrirci meraviglie del passato appaiate a quelle moderne.
Dall’epoca delle piramidi facciamo un salto di secoli ed arriviamo all’Egitto moderno, quello che molti di voi, penso, hanno già visitato ed a coloro che non lo hanno ancora fatto.
Spero di fare cosa gradita presentando una tradizione caratteristica da non perdere quando approderete in questo magnifico paese. Io ho avuto il piacere di vederla rappresentata di fronte al tempio della Sfinge, non potete immaginare quanto mi sia sentito coinvolto e trasportato nel misticismo, è stata una bellissima esperienza.
Nelle diverse culture antiche la musica era considerata per tradizione di origine divina, dalla secolare tradizione islamica è nato il misticismo Sufi.
Così lo definisce Henry Corbin, orientalista e storico della filosofia islamica:
<< Il sufismo è per eccellenza lo sforzo di interiorizzare la Rivelazione Coranica, la rottura con la religione puramente legalitaria, l’intento di rivivere l’esperienza intima del Profeta nella notte del Mi’râj; al suo grado estremo, esso è una sperimentazione delle condizioni del tawhîd, che conduce alla coscienza che Dio solo può enunciare, per bocca dei suoi fedeli, il mistero della sua unicità >>.
Il sufismo è oggi universalmente identificato nei suoi danzatori in abito tradizionale. I “Dervisci Rotanti”. Il termine Derviscio (in arabo darwish), significa “povero” o “monaco mendicante” e sta ad indicare i discepoli delle varie confraternite islamiche sufi il cui scopo è quello di raggiungere la salvazione, ovvero staccarsi dai beni e dalle lusinghe del mondo e dalle passioni mondane. I Dervisci corrispondono praticamente ai nostri frati mendicanti.
In un certo modo il fenomeno Derviscio interessa un po’ tutti i percorsi ascetici mistici che coinvolge sia gli ebraici che i cristiani, buddisti e induisti, caratterizzando colui che è indifferente alle cose materiali. Fra le varie confraternite che praticano questo concetto cito in particolare la Mawlawiyya (Meyleviyè in turco), ovvero la confraternita sufi dei “Dervisci Rotanti”, il cui fondatore fu il teologo musulmano sunnita, e poeta mistico di origine persiana Jalal al-Din Rumi nel XIII secolo. La confraternita ebbe un ruolo importante nelle cerimonie d’incoronazione dei sultani ottomani durante la quale avveniva la spettacolare esibizione dei “Dervisci Rotanti” i quali, nella ricerca dell’estasi che li avvicina a Dio tentano di raggiungere stati meditativi librandosi in una danza che consiste nel ruotare su se stessi, avvolti nelle loro colorate e caratteristiche vesti, sotto la guida del loro “pir” (vecchio), in turco “dede” (nonno), accompagnati da musica dove predomina il suono del flauto “ney”.
Le varie confraternite sufi derivano generalmente da un santo musulmano (Alì, Abu Bakr, ecc.), e trascorrono la loro esistenza in comunità monastiche simili ai conventi cristiani. Molti degli appartenenti alle varie confraternite, sono mendicanti votati alla povertà ma altri si dedicano a lavori, tipo i Qadiriyya egiziani che sono pescatori. La pratica della danza rotante, che viene praticata nelle “tekkè (i loro luoghi di raduno), è considerata dai più anziani alla stessa stregua della lettura dei libri che trattano i misteri del tempo antico.
Durante l’esecuzione della danza un Derviscio del gruppo pratica un esercizio interiore allo scopo di aumentare la frequenza del proprio organismo, impedendo allo stesso tempo che si creino squilibri tra le varie parti del corpo, in particolare tra i centri di coordinazione motoria, intellettiva ed emozionale. Dopo anni di pratica ed esperienza un Derviscio parrebbe acquisire una “super-coscienza”, una proprietà fondata sull’equilibrio dell’attività del proprio organismo che lo porta a raggiungere uno stato permanente chiamato la “Comunione con Allah”.
Esistono anche altri tipi di danze, il cui apprendimento richiede diversi anni, durante i quali i dervisci vengono addestrati da sapienti maestri a rimanere per diverse ore completamente immobili e poi di assumere numerose combinazioni di posizioni, con l’obiettivo di imparare a “sentirle” dentro se stessi. Si aggiungono poi delle operazioni mentali che si dovranno svolgere, con precisa successione, per tutta la durata dell’esercizio.
Oggi quello dei “Dervisci Rotanti” ha assunto una forma meno mistica e viene rappresentato come spettacolo per i turisti, soprattutto in Turchia e in Egitto, (come i fachiri in India). Col pieno rispetto per quello che la danza rotante vorrebbe rappresentare, assistere ad uno spettacolo di “Dervisci Rotanti”, magari in concomitanza con il caratteristico “Spettacolo Suoni e Luci” davanti alla Sfinge, con le Piramidi illuminate sullo sfondo” è una cosa affascinante e coinvolgente, irrinunciabile per il turista in visita al Cairo.
Fonti e bibliografia:
John Porter Brown, “The Derwishes, or Oriental Spiritualism”, Londra, 1868
Pierre Jean Daniel André, “Contribution à l’étude des confréries religieuses musulmanes”, Editions la Maison des Livres, 1956
Georges Ivanovitch Gurdjieff, “Rencontres avec des hommes remarquables”, Paris, 1963 Henry Corbin, “Storia della filosofia islamica”, Milano, Adelphi, 1989
Avete letto bene, “guardiamoci negli occhi”, le foto che vi propongo vi invitano a farlo, più avanti capirete il perché.
Conosciamo bene tutti quello stupendo complesso statuario che ritrae il principe Rahotep e sua moglie Nofret. Ma chi erano questi personaggi per essere rappresentati nella loro tomba in modo così stupendo?
Rahotep era figlio del faraone Snefru, (anche se Zahi Hawass ha ipotizzato che il padre in realtà fosse Huni), e quindi fratello di Nefermaat, che era maggiore di lui, e di Ranefer fratello minore. Probabilmente nessuno dei tre fratelli sopravvisse al padre in quanto alla morte di questi fu il loro fratellastro Medjedu Khnum-Khufu, più noto come Cheope a salire sul trono.
Nella mastaba di Nefermaat e di sua moglie Itet (o Atet) viene citato, tra i loro quindici figli Hemiunu, per cui si pensa che costui fu quasi certamente il visir che si crede progettò la Grande Piramide di Cheope.
Membro della famiglia reale, il principe Rahotep vantava diversi titoli importanti: “Gran sacerdote del re”, “Capo dei costruttori”, “Capo dell’esercito reale”, “Direttore delle spedizioni” e, naturalmente, “Figlio del re, generato dal suo corpo”.
Da parte sua, Nofret (che significa “la bella”) vantava il titolo di “Conoscente del re”. Sembra che Rahotep sia morto giovane e sia stato sepolto in una lussuosa mastaba nella necropoli di Meidum vicino a quella del fratello Nefermaat dove venne scoperto uno dei dipinti più belli e famosi dell’arte egizia le controverse “Oche di Meidum”.
Nel 1871 Auguste Mariette, capo del Servizio di Antichità d’Egitto, stava facendo degli scavi a Meidum, famosa per la sua piramide a gradoni che si staglia nel paesaggio desertico come una gigantesca torre sprofondata. Mariette scavava nella vicina necropoli dell’Antico Regno situata nei pressi della piramide, vicino alla mastaba di Nefermaat, Albert Daninos, suo collaboratore, durante il recupero di una stele si trovò di fronte all’ingresso di un pozzo che dava accesso ad una galleria. Subito si pensò che si trattasse dell’ingresso di una nuova tomba.
Uno degli operai, con una candela, entrò per effettuare un’ispezione preliminare. Passarono pochi minuti e l’operaio riapparve correndo all’impazzata completamente terrorizzato. Raccontando l’episodio Daninos spiegò perché l’operaio era terrorizzato:
<<……Si vide davanti le teste di due esseri umani vivi che lo fissavano coi loro occhi che brillavano alla fioca luce della candela…..>>.
La mastaba, saccheggiata fin dall’antichità, conservava un tesoro sconvolgente che ancora oggi non finisce di meravigliare coloro che hanno la fortuna di vederlo, due statue a grandezza naturale dei proprietari della tomba eseguite con una finezza straordinariamente unica. Si trattava delle statue funerarie molto realistiche, che rappresentavano i proprietari della tomba: il principe Rahotep e sua moglie Nofret.
Non si tratta di un “gruppo statuario” nel vero senso della parola, sono due statue distinte che rappresentano i soggetti realizzati in calcare di alta qualità, blocchi scelti appositamente con la massima cura per garantire lo straordinario risultato dell’artista che le scolpì, capolavori della statuaria della IV dinastia. Il grande realismo e la perfezione formale le hanno ormai rese dei punti di riferimento nella storia dell’arte.
Le statue conservano ancora la meravigliosa policromia originale, il colore della pelle rispecchia le convenzioni dell’epoca, Rahotep presenta due baffetti non molto usuali all’epoca e la sua pelle compare con un tono più scuro mentre la principessa Nofert, veste sontuosamente un abito molto attillato e quasi trasparente e porta una corta parrucca, la sua pelle appare di color giallo-crema, in conformità con la tradizione secondo cui la carnagione chiara è, nelle donne, simbolo di nobiltà e di bellezza.
Ma la cosa più sorprendente sono i loro occhi, incorniciati da un tratto di colore nero e intarsiati con quarzo bianco, e cristallo di rocca, sembrano ancora vivi mentre osservano lo spettatore.
Sulle pareti della tomba sono rappresentati tutti i loro figli: tre maschi Djedi, Itu e Neferkau e tre femmine Mereret, Nedjemib e Sethtet. Sicuramente, dopo i millenni passati nell’oscurità della loro dimora eterna, debbono aver impressionato non poco il primo essere umano che li vide.
Oggi stanno in un museo e lo spettatore che li guarda non teme più il loro sguardo limpido e profondo ma ammira la loro bellezza eterna e immutabile. Come dico nel titolo: “guardiamoci negli occhi”, questo è un enigma che ci affascina, gli occhi di queste, come quelli di altre statue, sono costituiti da pezzi di cristallo di rocca perfettamente levigato, che veniva inserito, nel calcare o nel legno delle statue. La qualità delle lenti è così alta che il pensiero ci porta a formulare le più strane ipotesi.
Qui non ci troviamo di fronte al lavoro di scalpellini che percuotono coi loro mazzuoli di legno rudimentali scalpelli di rame. Per usare le parole dell’egittologa Carme Mayans di National Geographic:
“la perfezione con cui sono state eseguite le lenti fa venire in mente un fine lavoro di tornitura e rettifica con macchine rotanti ad alta velocità. L’unica spiegazione ragionevole a tutto questo è che gli egizi abbiano preso in prestito da qualche parte tali tecnologie e, quando le scorte si esaurirono, tutto si perse piano piano”.
Fonti e bibliografia:
Carme Mayans, “Le statue “vive” di Rahotep e Nofret”, National Geographic, 2021
Cimmino Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche” – Bompiani, Milano 2003
Alan Gardiner, “La civiltà egizia” – Oxford University Press 1961 (Einaudi, Torino 1997
Nicolas Grimal, “Storia dell’antico Egitto”, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998