“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”, Nefertari

LA TOMBA DI NEFERTARI – QUEL CHE RIMANE DI LEI

A cura di Andrea Petta

I RESTI

La scoperta della tomba di Nefertari, pur regalandoci alcuni dei più bei dipinti dell’Antico Egitto, non fu particolarmente generosa in termini di reperti.

Nella tomba, saccheggiata nell’antichità, fu ritrovato il coperchio del sarcofago in frantumi insieme ad un certo numero di ushabti (ben 34, in legno di sicomoro) e diversi oggetti sparsi, molti anch’essi in frantumi.

Il coperchio in frantumi del sarcofago di Nefertari (inv. S5153), rientrato al Museo Egizio di Torino dopo una lunga serie di mostre all’estero. In granito rosa, con ancora tracce di colore visibili. Il Museo Egizio di Torino conserva tutti i reperti della tomba, a parte alcuni ushabti ceduti ad altri musei. Foto: Patrizia Burlini

Da un punto di vista archeologico sono stati molto importanti un amuleto “djed”, che ha permesso di stabilire con relativa certezza che Nefertari fu effettivamente sepolta nella QV66, ed un pomolo con impresso il nome di Ay, il Gran Visir e successivamente Faraone succeduto a Tutankhamon, che ha fatto ipotizzare un rapporto di parentela tra Nefertari ed Ay (nipote?).

L’amuleto a forma di pilastro “djed” di Osiride, rappresentato anche sui pilastri della Sala del Sarcofago. Il pilastro djed era considerato un simbolo di stabilità e di rettitudine. È uno dei simboli più antichi della cultura egizia: si hanno, infatti, attestazioni fin dalla III dinastia (intorno al 2700 a.C.), come decorazione di edifici sacri. Il ritrovamento dell’amuleto nella tomba costituisce una prova che la tomba stessa sia stata effettivamente usata per la sepoltura di Nefertari. Probabilmente questo amuleto era inserito all’interno di uno dei quattro “mattoni magici”, andati persi. Legno dorato e faience, 13×5.5×1 cm, Museo Egizio di Torino 

Questo pomolo di un cofanetto o di uno scettro con il nome di Ay (Kheper Kheperure) sopra ha fatto ipotizzare un rapporto di parentela tra il Faraone della XVIII Dinastia e Nefertari. Troppo distanti nel tempo per essere padre/figlia, si è ipotizzato nonno/nipote. In mancanza di ulteriori evidenze, e non potendo comparare il DNA, rimane un’ipotesi intrigante.

E’ molto importante che nella tomba non siano stati ritrovati reperti riconducibili ad altre persone, rendendo molto improbabile una co-sepoltura.

La descrizione della tomba fu talmente poco entusiasmante che Maspero concesse a Schiaparelli di tenere tutti i reperti ritrovati. Riportati quasi in sordina a Torino, sono rimasti pressoché lasciati a loro stessi per decenni, fino al 2016, quando un fondo di ricerca svizzero (!) dedicato al rituale dei vasi canopici ma anche al riconoscimento delle mummie egizie ha permesso di analizzare anche dei resti umani che erano stati ritrovati nella tomba. Per essere precisi: un ginocchio pressoché completo (parte distale del femore, patella e parte prossimale della tibia), la parte distale di un secondo femore e quella prossimale di una seconda tibia.

I resti umani ritrovati nella QV66. Pur non essendo un corpo completo, personalmente l’esposizione di queste due gambe, probabilmente di Nefertari, su un pezzo di plexiglas ”tirato” in mezzo a frammenti di vasi rotti mi infonde una profonda tristezza. Una mancanza di rispetto per una persona, che ha avuto oltretutto un grande impatto sulla storia della sua epoca. Senza contare il fatto di non aver approfondito la loro analisi per decenni

I resti sono stati analizzati al gas cromatografo per la composizione chimica; è stato estratto il DNA (Istituto di Medicina Evoluzionistica, Università di Zurigo) ed è stata effettuata la datazione al radiocarbonio.

I RISULTATI

I resti sembrano appartenere alla stessa persona (apparenza esterna, caratteristiche del bendaggio, analisi chimiche) e sottoposti a numerose fratture post-mortem durante i saccheggi della tomba.

Le gambe appartenevano ad una donna, di età apparente tra i 40 ed i 50 anni, affetta da una minima osteoporosi probabilmente associata a deficienza di Vitamina D (ipotizzata da scarsa esposizione solare, come nel caso di chi non effettui lavori all’aperto). Tracce di arteriosclerosi (calcificazione delle arterie tibiali) hanno confermato l’età presunta. Le dimensioni delle ossa suggeriscono un’altezza intorno ai 165 ± 2.5 centimetri, notevoli per l’epoca (la media in Egitto era di 156 cm per le donne nel Nuovo Regno) e di corporatura molto snella.

L’analisi radiografica delle due gambe che ha permesso di determinarne età, corporatura ed altezza presunta. A destra: evidenziate le calcificazioni delle arterie tibiali ad ulteriore conferma dell’età presunta al momento del decesso

L’altezza presunta è stata confermata anche da un paio di sandali, misura 39, trovati nella tomba. I sandali risultano essere stati usati (e non oggetti ornamentali); l’impronta dell’alluce sinistro conferma l’altezza presunta.

L’analisi chimica ha rivelato l’assenza di bitume nel processo di mummificazione, indicando una mummificazione antecedente al 3° Periodo intermedio.

Il DNA è molto danneggiato e si sono verificati episodi di cross-contaminazione (campanello – campanone – d’allarme per gli studi effettuati da Hawass sulle mummie della XVIII Dinastia, tra parentesi) probabilmente dovuti a tutti coloro che hanno maneggiato i resti. La datazione al radiocarbonio ha mostrato un’età presunta tra il 1546 ed il 1491 BCE (pur con la variabilità nota del C14), quindi apparentemente antecedente l’epoca storica di Nefertari ma è un problema noto con il C14 sulle mummie (utilizzo di materiali/bende più vecchie, dieta a base di pesce che altera la datazione).

LE CONCLUSIONI

Anche se in questo campo, e cono così pochi resti da esaminare, le certezze assolute sono molto difficili da ottenere, è ragionevolmente certo che i resti appartengano a Nefertari. Dato il pessimo stato del DNA e le contaminazioni evidenziate, anche se si facesse maggiore luce sulle sue origini (Nefertari non è indicata nella sua titolatura come “Figlia del Re”, quindi non proveniva dalla stirpe reale della XIX Dinastia) e la sua discendenza è estremante improbabile che si possano avere maggiori certezze in futuro, ma la probabilità è molto molto alta.

Che quelle parti delle gambe siano tutto ciò che rimane di una delle figure femminili più note ed amate dell’Antico Egitto è una cosa che non può non suscitare tristezza. Il sepolcro violato per rubare, il sarcofago distrutto a colpi di mazza, il corpo della Regina profanato e smembrato.

Anche se è stato un destino comune a molti sovrani della Terra di Khemet, ciò nonostante qui appare ancora più stridente con le meravigliose immagini che ne abbiamo dai dipinti della sua tomba.

Qualcosa di lei, almeno, vivrà in eterno.

Non voglio “lasciare” Nefertari con un’immagine di struggente malinconia come i suoi poveri resti; preferisco uno dei suoi dipinti con un vezzo particolare: gli orecchini a forma di cobra, l’ureo sacro, che l’accompagnano nel suo eterno viaggio di rinascita.

Riferimenti:

Habicht, Michael E., et al. “Queen Nefertari, the royal spouse of Pharaoh Ramses II: a multidisciplinary investigation of the mummified remains found in her tomb (QV66).” PloS one 11.11 (2016).

Hari, Robert. “Mout-Nefertari, épouse de Ramses II: une descendante de l’héretique Ai?.” Aegyptus 59.1/2 (1979): 3-7.

Rühli, Frank J., et al. “Mummified remains from QV 66; Queen Nefertari.”

Cose meravigliose, Nefertari

LA TOMBA DI NEFERTARI – I DIPINTI, IL DEGRADO ED IL RESTAURO

A cura di Andrea Petta

I DIPINTI

La roccia calcarea in cui è stata scavata la tomba presenta diverse fratture e depositi di materiale salino. È stato perciò necessario per gli artigiani dell’epoca intonacare le pareti della tomba con argilla mista a paglia sminuzzata e polvere di calcare. Lo strato non è però uniforme (più spesso nella Sala del Sarcofago ad esempio, dove le pareti erano più irregolari). Le figure sono in altorilievo e dipinte a tempera, i cui pigmenti sono “legati” prevalentemente con gomma arabica estratta dall’acacia. Un sottilissimo strato di bianco funge da base, sul quale veniva applicato un primo strato molto grossolano e successivamente i dettagli – con un contorno finale in tempera rossa o nera.

Nell’immagine di Nefertari sulla seconda scalinata si vede bene l’altorilievo delle figure e la discrepanza tra la “bozza” appena accennata ed il dipinto finale della parrucca della Regina, più spostata al centro

Alcuni colori, soprattutto il rosso ed il giallo, sono stati rifiniti per renderli più brillanti, probabilmente con resina ed albume SI è pensato per molto tempo che venisse utilizzata la cera d’api, mentre le analisi effettuate durante il restauro hanno invece evidenziato l’uso di gomma arabica estratta dall’acacia.

A volte anche i migliori sbagliano: nella Sala del Sarcofago alcuni geroglifici non sono stati terminati e colorati appropriatamente

Gli artisti hanno anche tentato di riprodurre ombre e rilievi mescolando i colori primari o applicando diversi strati di tempera. Un “trucco” particolare consisteva nel dare una prima mano di nero per rendere i colori come blu e verde particolarmente profondi.

Il cielo stellato è stato realizzato con un fondo di nero a cui è stato sovrapposto il blu egiziano, ottenendo un effetto patchwork

Tutti i colori seguono il concetto “iwen” che rende il colore parte integrante dell’oggetto o persona rappresentata, come ad esempio il verde per le raffigurazioni di Osiride e Ptah in quanto colore della rinascita.

Il verde è un pigmento sintetico, il Verde Egiziano, contenente anidrite, calcite, feldspato e quarzo.

Anche il blu è sintetico, il Blu Egiziano (cuprorivaite). Entrambi contengono silice, calcio, rame, ferro, sodio, magnesio ed alluminio. Il rosso è ossido ferrico (Fe2O3), con un’alta percentuale di arsenico. Il giallo è un ocra, anch’essa ricca in arsenico, mentre il bianco ed il nero sono gesso e carbone come al solito.

Una curiosità: nei lavori di restauro è “riemersa” una nota in ieratico sul ricevimento nella tomba di un carico di intonaco per “entrambe le squadre”, sottintendendo che ci fossero più squadre al lavoro contemporaneamente

IL DEGRADO

Quando Schiaparelli scoprì la tomba nel 1904, oltre all’evidente saccheggio da parte degli antichi tombaroli, che aveva lasciato pochi resti, apparve chiaro che alcuni dei dipinti erano già deteriorati.

Stranamente, il fotografo ufficiale di Schiaparelli era un religioso, Don Michele Pizzio. Don Pizzio, parroco per gli emigranti italiani in Brasile, e Schiaparelli si erano conosciuti grazie all’impegno di quest’ultimo a sostegno dei missionari. Le 132 fotografie di Don Pizzio su lastra di vetro sono state importanti per il lavoro di restauro illustrando le condizioni dei dipinti alla scoperta della tomba, ma erano di qualità enormemente inferiore rispetto a quelle che fece Harry Burton negli anni ’20 per il Metropolitan Museum di New York.

Nefertari sulla parete sud dell’Anticamera ripresa da Burton. La qualità dei dettagli è eccellente, anche a confronto con un’immagine moderna in alta risoluzione

Nel 1906 fu organizzato un primo intervento di messa in sicurezza, affidato a Fabrizio Lucarini, restauratore toscano probabilmente conosciuto da Schiaparelli negli anni della sua direzione presso il Museo Egizio di Firenze.

NOTA: Lucarini diventerà famoso qualche anno dopo, nel 1913, quando gli verrà affidato il restauro della Gioconda di Leonardo, recuperata dopo il celebre furto del 1911

Desquamazione e degrado del colore sono stati tra i principali “nemici” dei dipinti

Nonostante questo, la tomba rimase aperta ai visitatori fino agli anni ’20, quando si manifestarono ulteriori danni dovuti al caldo ed all’umidità. L’uso di lumi a petrolio in questi anni ha aggravato la situazione aggiungendo una patina grigiastra ed oleosa ai dipinti.

La Sala del Sarcofago è quella che ha subito maggiormente danni dalla scoperta di Schiaparelli ai giorni nostri. Il confronto tra le immagini del 1904 e quelle del 1989 è impietosa, qui la parete sud-est, dove inizia l’attraversamento dei 10 portali del capitolo 144 del Libro dei Morti. Aver lasciato deteriorare così alcune tra le immagini più belle che l’Antico Egitto ci aveva tramandato è, a tutti gli effetti, un crimine.

Nelle immagini si può vedere come, oltre al deterioramento dei colori, larghi pezzi di intonaco si siano staccati rovinando per sempre alcuni dipinti. Il sale presente nella tomba, evaporando con l’umidità si è ri-cristallizzato sulle pareti aggravando la situazione di molti dipinti.

Un altro esempio del deterioramento moderno, tra la tavola originale di Schiaparelli e l’attuale stato di conservazione. Il muso del Guardiano è andato perso, come una parte dei geroglifici in alto a sinistra ed in basso a destra

IL RESTAURO

A metà degli anni ’80 venne quindi varato un progetto di restauro della tomba da parte del Getty Conservation Institute in collaborazione con la Sovrintendenza alle Antichità Egiziana. A capo del progetto di restauro due italiani, i professori Paolo e Laura Mora, precedentemente impegnati per quasi quaranta anni all’Istituto Centrale del Restauro di Roma.

Paolo e Laura Mora, responsabili del restauro dei dipinti della QV66. Un lavoro pazzesco, svolto con enorme maestria. Un ringraziamento imperituro a loro ed a tutto lo staff.

Un primo restauro di emergenza è intervenuto sui decori sollevati dall’intonaco ed in pericolo di staccarsi. Strisce di carta a grana fine di corteccia di gelso giapponese sono state posizionate su ciascuno dei frammenti sollevati e fissate con cura al muro utilizzando una resina acrilica.

L’applicazione di strisce di carta di gelso fissata con resina acrilica per impedire il distacco di altre parti dei dipinti. Sono state usate più di diecimila striscioline di carta di gelso per fissare le parti più esposte dei dipinti

Il piede di Osiride, Sala del Sarcofago (scena dell’incontro con Nefertari, parete nord) prima e dopo il restauro. A partire da un pezzo di intonaco quasi completamente staccato, sono stati rimossi i depositi salini sottostanti con un bisturi, eliminati i residui con l’aria compressa, iniettato una malta composta da acqua, sabbia finissima, gesso e resina acrilica, pressato il frammento nella sua posizione originale, e successivamente ripulito. Il tutto con la paura di perdere definitivamente il dipinto originale

Dopo una pulizia preliminare (anche di precedenti tentativi di restauro), è stato consolidato l’intonaco per prevenire ulteriori danni con l’iniezione di una sorta di malta (ottenuta con sabbia, gesso ed una resina acrilica come collante) nei punti sollevati dei dipinti, e sono stati re-incollati i frammenti recuperati. Alcuni materiali dei restauri passati sono stati particolarmente difficili da rimuovere avendo anche “invaso” l’area dei dipinti.

I danni dei precedenti restauri, con il materiale di riempimento che aveva coperto parte dei dipinti, sempre scena dell’incontro con Osiride, parete nord della Sala del Sarcofago
Un altro esempio di cattivo restauro del passato è il soffitto della seconda scalinata, in alto scendendo dall’Anticamera. La zona notevolmente più chiara a sinistra nella foto è l’effetto dell’uso di un solvente troppo aggressivo che ha distrutto la colorazione blu/nero del cielo

È stato necessario rimuovere con l’acetone uno strato di fuliggine causato dai lumi a petrolio usati durante i lavori di Schiaparelli e le successive visite alla tomba, nonché un bel numero di manate sporche.

Un ulteriore esempio di restauro conservativo (Pilastro 3 della Sala del Sarcofago): un intero pezzo del dipinto con l’intonaco sottostante si era staccato ed andato perso. Si è deciso di riempire lo spazio lasciato vuoto con un nuovo intonaco in colore neutro portandolo al livello del dipinto in altorilievo segnandone il contorno, ma di non ricreare il disegno od i colori del frammento mancante. Scelta corretta? Avremmo preferito un restauro ricreativo, riproducendo il frammento mancante rendendolo più “completo” ma meno “originale”?

L’immagine di Osiride davanti alle offerte di Nefertari nell’Annesso orientale ha causato un dilemma particolare in quanto restaurato malamente negli anni ’50. Dopo lunghe discussioni, è stato deciso di ricoprire il restauro maldestro, che sarebbe però facilmente “recuperabile” togliendo lo strato di intonaco messo sopra.

L’Osiride del dilemma: in alto a sinistra la tavola originale di Schiaparelli; il alto a destra come appariva negli anni ’20. In basso a sinistra dopo il maldestro restauro negli anni ’50: colori sbagliati, disegno del trono di Osiride completamente diverso dall’originale. Si è deciso di coprire l’area restaurata con intonaco neutro, facilmente rimovibile però se si volesse ripristinare la figura come negli anni ’50.

Da notare che il lavoro di restauro non ha aggiunto nessun colore ai dipinti della tomba, quindi quelli che vediamo sono i colori originali usati dagli artisti egizi.

La famosa foto che ritrae Lorenza D’Alessandro, una delle restauratrici del gruppo di Paolo e Laura Mora, a tu per tu con Nefertari, a cui sta ridonando l’antico splendore. Ricordiamoci che dietro ad ogni scoperta, ad ogni recupero dei reperti ci sono delle persone, dei professionisti che usano tutte le loro capacità e tutto il loro talento per permetterci di continuare ad apprezzare questa straordinaria civiltà

Riferimenti:

John K. McDonald, House of Eternity: The Tomb of Nefertari.Los Angeles, 1996

Miguel Angel Corzo e Mahasti Afshar, Art and Eternity: The Nefertari Wall Paintings Conservation Project, 1986-1992 Los Angeles, 1993

Ernesto Schiaparelli (1904), “La Tomba di Nofretari Mirinmut,” Relazione sui lavori della missione archeologica italiana in Egitto, Volume 1 (Torino, G. Chiantore, 1923)

Rose, Bone-Muller, Ferrero Il passato rivelato White Star Edizioni, 2012

Donne di potere, Nefertari

La lettera di Nefertari a Pudukhepa, moglie di Khattushili III

A cura di Grazia Musso

Sappiamo che unitamente alla corrispondenza intercorsa tra Ramses II e il sovrano hittita Khattushili III ( 1265-1237) è che ha portato alla stesura del celebre trattato di pace, anche tra le regine, l’egizia Nefertari e la hittita Pudukhepa, fu scambiata una ricca corrispondenza.

Pudukhepa sposò Khattushili verso il 1265 a. C.. Ultima regina hittita di cui ci sia giunta notizia, essa mantenne il ruolo di Regina Regnante anche durante l’intero periodo del regno del figlio Tudhaliya IV ( 1237 – 1209), e morì in tarda età, nel regno del nipote Shubbiluliuma II. È considerata la più importante figura femminile della storia hittita, in campo politico e spirituale.

Segno di questo peso politico è il fatto che il suo sigillo compariva anche sulla tavoletta d”argento contenente la versione hittita del trattato di pace tra Ramses II e Khattushili III, che la cancelleria del regno anatolico aveva fatto consegnare al faraone egizio.

Nel 1906, grazie agli Scavi condotti dall’archeologo tedesco Hugo Winckhler ( 1863 – 1913) a Boghazkoi, rivelatasi poi essere stata l’antica capitale hittita Hattusha, presso l’ansa del fiume Halys, in Anatolia, vennero alla luce migliaia di tavolette d’argilla cotta. Molte di queste erano incise con caratteri cuneiformi ma in un linguaggio ancora sconosciuto : la lingua hittita. Sarà l’assirologo ceco Bedrik Hozny (1879 – 1952), tra il 1914 e il 1917, che riuscirà a decifrare e tradurre la lingua hittita, risultata essere una lingua indoeuropea.

Una di queste tavolette contiene una lettera scritta dalla regina Nefertari alla regina hittita Pudukhepa nella quale, con un linguaggio molto formale, viene ribadito lo stretto legame di amicizia esistente tra le due famiglie regnanti.

Fonte :https://mediterraneoantico.it