Filosofia

“IB” – IL CUORE

A cura di Ivo Prezioso

Per gli antichi egizi il cuore era la sede del pensiero e della forza vitale. Si usavano due termini per designarlo: “ib” che lo connota come sede dei sentimenti e della coscienza e “haty”, che era utilizzato prevalentemente nei testi di medicina. Considerato come essenza stessa della persona, era l’unico organo a non essere rimosso nel processo di mummificazione. Apro qui una breve parentesi per una mia considerazione su come quella antica concezione condizioni ancor oggi la nostra quotidianità. Oggi sappiamo che, in realtà, tutto ciò che riguarda il pensiero, le emozioni, i sentimenti, la coscienza ecc. origina dall’attività cerebrale. Eppure, quell’antichissima idea riverbera ancora. Se, ad esempio intendiamo sottolineare la bontà di una persona diremo “è buono di cuore” viceversa, per rimarcarne la malvagità, diremo “ha un cuore di pietra”. La stessa parola “ricordo” ci giunge attraverso il latino (il prefisso “re” seguito da cor, cordis) che significa letteralmente riportare, richiamare, al cuore.

Nelle raffigurazioni del “Libro dei morti” (o meglio “r3w nw prt m hrw”, – approssimativamente, rou nu peret em heru – Capitoli per uscire al/nel giorno), durante la “psicostasia” (dal greco psykhè, anima e stasis, pesatura), il giudizio del defunto di fronte al tribunale di Osiride, il cuore veniva posto sul piatto di una bilancia, mentre sull’altro era posta una piuma simbolo di Maat: se il cuore risultava più pesante, veniva divorato da Ammut. Per assicurarsi che il cuore non testimoniasse contro il defunto, si poneva tra le bende di mummificazione, all’altezza del petto, uno scarabeo (detto appunto “scarabeo del cuore”, il cui lato inferiore riportava il capitolo 30 del Libro dei morti.

Fonte: Grande Enciclopedia illustrata dell’Antico Egitto, a cura di Edda Bresciani.

Il simbolo geroglifico “ib

Ideogramma in “ib” (cuore), determinativo nel sinonimo “h3ty”. A prima vista, questo simbolo, sembrerebbe evocare un vaso con collo ed anse. In realtà è la riproduzione piuttosto fedele del cuore di un ovino, visto in sezione, come si può riconoscere dagli esempi più arcaici, in cui “collo” ed “anse” corrispondono all’innesto dei vasi arteriosi e venosi. Talvolta la parte superiore è rappresentata di colore più chiaro rispetto al marrone rossiccio di quella restante, forse ad indicare lo strato grasso che riveste l’organo. Il papiro Ebers (inizi della XVIII Dinastia), ci ha tramandato un vero e proprio trattato di anatomia relativo al sistema circolatorio. Nonostante le inevitabili imprecisioni in alcune delle teorie enunciate, vi si ravvisa un serio tentativo di comprensione della realtà, assolutamente razionale e, pertanto, da considerare come un vero e proprio trattato scientifico. Nei testi medici il termine usato più di frequente è “h3ty”, mentre “ib” è riservato di solito ai testi liturgici e letterari. I medici egiziani conoscevano bene il valore della pulsazione come elemento di diagnosi. Il primo capitolo del trattato recita, infatti: “il cuore parla nei vasi di tutte le membra”.

Nella concezione “filosofica”, il cuore era considerato l’organo supremo. Nel Testo di teologia menfita si legge: “L’azione del braccio, il moto delle gambe, il movimento di ogni altro membro è fatto seguendo l’ordine che il cuore ha concepito”. E, più avanti, lo stesso testo subordina al cuore i cinque sensi e la parola: “E’ lui che dai sensi trae ogni giudizio e la lingua annuncia ciò che il cuore ha pensato”. Centro della vita sia fisica che emotiva ed intellettuale, il cuore entra in tutte le locuzioni della lingua che esprimono stati d’animo, spiritualità, peculiarità caratteriali. Ad esempio: felicità, gioia viene espressa con la locuzione “larghezza di cuore”; appagare un desiderio con “lavare il cuore”; celare il proprio pensiero, “immergere il cuore”; essere amico di qualcuno, “entrare nel cuore (di qualcuno); morire (fra le altre perifrasi) , “avere il cuore stanco”.

Fonte: Maria Carmela Betro’ Geroglifici, 580 Segni per capire l’Antico Egitto

Amuleto del cuore, associato con l’uccello “benu”. (a chi volesse saperne di più su questo mitologico uccello consiglio vivamente la lettura dell’interessante post di Francesco Alba QUI).

Proviene dai reperti rinvenuti nell’Annesso della tomba di Tutankhamon ed è realizzato in legno ricoperto da foglia d’oro. Un lato è inscritto con il prenome del re (Nebkheperura) con il cartiglio fiancheggiato dagli scettri Heqa del potere regale e dalla piuma di Maat.

Il lato che si vede nell’illustrazione è intarsiato con faience colorata che riproduce la figura del benu.

Il Cairo, museo egizio.

Fonte: Tutankhamun, T.G.H. James

Sarcofago di Ashait, XI Dinastia, con a destra il particolare del cuore di un animale sacrificato deposto tra le vivande funerarie. Il Cairo, Museo Egizio.

LO SCARABEO DEL CUORE

Un grande scarabeo, chiamato “scarabeo del cuore” veniva posto sulla mummia all’altezza del cuore. Questo grande amuleto, legato al simbolismo derivante dall’associazione con Khepri (il sole nascente) e con il significato come verbo di “rinascere”, “divenire” e come sostantivo di “forma”, “apparizione”, “manifestazione”, comincia a diffondersi all’inizio della XVIII Dinastia, ma amuleti a forma di scarabeo, sebbene con altre funzioni (prevalentemente commemorative o di sigillo), sono attestati già dalla VI Dinastia. Riportava nella parte inferiore la formula di “non permettere che il cuore dell’Osiride N (N sta per il nome del defunto) sia tenuto lontano dalla Necropoli” (cap. XXX del Libro dei Morti). Di questa formula se ne conoscono due versioni aventi lo scopo di impedire che il cuore del defunto possa testimoniare contro di lui durante il giudizio. Nonostante il Libro dei Morti risalga al Nuovo Regno, la formula è da ritenersi senz’altro più antica, risalente al Primo Periodo Intermedio, quando nei Testi dei Sarcofagi si ha la prima menzione della valutazione degli eccessi che precede la pesatura del cuore.

Il Capitolo XXX del “Libro per uscire al giorno” (Libro dei morti)

Oh cuore mio da parte di mia madre, cuore mio da parte di mia madre, mio muscolo cardiaco delle mie trasformazioni! Non levarti come testimonio contro di me, non accusarmi nel tribunale, non rivolgerti contro di me alla presenza dell’addetto alla bilancia1. Tu sei il mio ka, che è nel mio corpo, lo Khnum2 che rende sane le mie membra. Possa tu rivolgerti al bene cui aspiro. Non fare che il mio nome puzzi davanti alla corte3, che assegna il posto alla gente. Sarà bene per noi, sarà bene per il giudice. Sarà lieto il cuore di chi giudica. Non dire menzogna contro di me davanti al dio grande, signore dell’Occidente (Osiride)…

Dire le parole sopra uno scarabeo di nefrite, montato in elettro e il cui anello è d’argento.

Si ponga al collo dello spirito (il defunto).

Questa formula fu trovata a Ermopoli, ai piedi della maestà di questo dio venerabile (Thot), su un blocco di pietra “bia” del Sud, essendo uno scritto del dio in persona, al tempo del re Menkaure (Micerino), da parte del figlio reale Hergedef4. Egli l’ha trovato mentre passava per fare l’inventario nei templi.

Fonte: Edda Bresciani, Letteratura e poesia dell’Antico Egitto

Note:

  1. Anubi, che ha questo compito durante la psicostasia. E’ anche detto “colui che solleva il braccio”(per fermare la bilancia)
  2. Il dio vasaio che ha creato gli uomini con il suo tornio.
  3. Il Tribunale Divino, cioè la Grande Enneade di Eliopoli che giudica nella sala di Maaty (Le due Maat)
  4. Il figlio di Khufu (Cheope),autore dell’omonimo Insegnamento.
Scarabeo del cuore proveniente dalla necropoli di Soleb (Sudan). (Nuovo Regno) Collezione Egittologica dell’Ateneo di Pisa.

LO SCARABEO DEL CUORE DEL GENERALE DJEHUTY

A cura di Luisa Bovitutti

Questo scarabeo del cuore è appartenuto a Djehuty (noto anche come Thuti e Thutii), un generale al servizio di Tuthmosis III che portava i titoli di scriba del re di sorvegliante dei paesi stranieri del nord; il suo re lo stimava molto e per i servizi resi gli fece dono di oggetti in oro di squisita fattura, rinvenuti nel 1824 da Bernardino Drovetti nella sua tomba di Saqqara insieme ad altri beni personali oggi esposti in vari musei del mondo.

Questo scarabeo, attualmente al museo di Leida, fu trovato sulla mummia di Djehuty, della quale si sono perse le tracce, così come il sarcofago; esso è alto 8,3 cm e largo 5,4 cm, circondato da una montatura in oro dotata di un anello allungato nella parte superiore nella quale è infilata la catena lunga 133 cm.

E’ scolpito in diaspro verde ed è ornato da due bande d’oro (una quasi orizzontale e l’altra verticale), che delimitano la corazza e le elitre. La parte piatta di questo scarabeo reca la formula abituale, composta da undici linee orizzontali geroglifiche, mentre sulla corazza, da destra a sinistra si legge il nome del defunto: “Il governatore dei paesi settentrionali, Teti”.

Informazioni e fotografie tratte da una serie di articoli di Marie Grillot.

LO SCARABEO DEL CUORE DI SOBEKEMSAF

Secondo Periodo Intermedio, XVII Dinastia 1575-1560 a.C. circa. Provenienza: Tebe. Oro e diaspro verde Lunghezza: 3,8 cm. Larghezza: 2,5 cm. British Museum, Londra.

Questo scarabeo in diaspro verde montato su oro, è il più antico scarabeo del cuore reale conosciuto. Invero, il primo oggetto di questo tipo, fino ad ora ritrovato, apparteneva a un funzionario privato ed è di circa un secolo precedente a questo esempio.

Presenta tratti umani vagamente accennati ed è incastonato nell’incavo di una tavoletta d’oro dal bordo posteriore arrotondato. Ciascuna delle zampe dell’insetto è costituita da una striscia di lamina d’oro con delle incisioni che ne rappresentano la peluria. I geroglifici incisi intorno al bordo ed in cinque righe orizzontali nella parte inferiore riportano il nome del re seguito da frammenti del capitolo 30B del “Libro dei morti” che già abbiamo incontrato in precedenza.(La preghiera affinché il cuore non si levasse a testimonio contro il suo proprietario nel momento del giudizio). Nell’iscrizione su questo scarabeo, le figure a forma di uccello sono private delle zampe: una caratteristica comunemente definita “geroglifici mutilati”. Questo accorgimento era impiegato nei contesti funerari e magici a partire dal tardo Antico Regno per impedire che le figure prendessero vita prodigiosamente ed attaccassero il defunto. Così come nei rilievi e nei dipinti, si riteneva che i geroglifici avessero la capacità di trasformarsi in realtà tridimensionali e si rendeva, pertanto necessario, neutralizzare quelli potenzialmente pericolosi.

Sono noti due re della XVII Dinastia con il nome Sobekemsaf, appartenenti al tardo Secondo Periodo Intermedio. In particolare, la tomba di Sekhemreshedtawy Sobekemsaf ci è nota attraverso i papiri. E’ menzionata nel Papiro Abbott, come l’unica tomba trovata derubata durante il regno di Ramesses IX. Analogamente il Papiro Leopold-Amherst, conservato in parte a Bruxelles e in parte a New York, riporta un resoconto del furto e del processo intentato ai profanatori. Questo scarabeo potrebbe provenire da quella tomba, ma anche da quella dell’altro Sobekemsaf. Il sito di sepoltura di questi due faraoni non è stato ancora individuato, ma un recente lavoro del German Archaeological Institut ha rivelato la tomba del re Nubkheperra Inyotef della XVII Dinastia, che si ritiene sia nelle vicinanze di quella di Sekhemreshedtawy Sobekemsaf.

LA PESATURA DELL’ANIMA

E veniamo al culmine del percorso “esistenziale” del cuore che si conclude con la sua pesatura nella sala di Maaty.

Riassumo brevemente la descrizione di questo fondamentale evento che si tiene nel tribunale dell’aldilà. Il cuore del defunto veniva posto su uno dei piatti della bilancia, davanti alla quale erano presenti il dio Thot, lo scriba divino che annotava le azioni della persona sottoposta al giudizio, Anubi, preposto alle operazioni di imbalsamazione e Ammut (la Grande Divoratrice, per metà leone e per metà coccodrillo). L’altro piatto della bilancia era occupato dalla piuma deposta dalla dea Maat, che rappresentava la giustizia.

E’ in questa sala che si compie il destino del defunto, chiarito dal capitolo CXXV del Libro dei morti

(“Parole da dire quando si accede alla sala di Maaty; separare N dai suoi peccati e vedere il volto di tutti gli dei”)

la cosiddetta “confessione negativa”, in cui, attraverso il suo cuore, che ricordiamolo per gli egizi era la sede della coscienza, il defunto dichiarava di non aver commesso una serie di “peccati” contro la Maat. Se l’ago della bilancia pendeva a sfavore, ne conseguiva che il defunto non meritava di vivere nell’aldilà e veniva dato in pasto alla Grande Divoratrice. Viceversa se la bilancia rimaneva in perfetto equilibrio (il cuore era leggero, altrettanto che la piuma di Maat), veniva dichiarato “m3’ hrw”, letteralmente “giusto di voce”, e acquisiva il diritto alla vita eterna.

Il tribunale degli Dei

Con il processo di democratizzazione dell’aldilà, cominciato a partire dal Primo Periodo Intermedio, la religione egizia offriva a tutti la possibilità di godere una vita eterna dopo la morte. A conferire questo privilegio era preposto un tribunale composto da quarantadue dei. Alla testa di questa giuria presiedeva Osiride, il re buono che, assassinato dal fratello Seth, resuscitò, grazie alle arti magiche della sorella e sposa Iside, divenendo il sovrano dei defunti. Il ruolo fondamentale era svolto dalla dea Maat personificazione della Giustizia e Verità sia degli uomini, sia degli dei e che, durante la XVIII dinastia, fu assimilata come figlia di Ra incarnando anche il principio di ordine universale. Tra le altre divinità, un altro ruolo preminente lo svolgeva Thot, scriba, mago e dio inventore dei geroglifici, la scrittura sacra. Era lui che annotava le azioni compiute dal defunto durante la pesatura dell’anima, attraverso la quale si valutava il comportamento terreno del defunto. Al suo fianco Anubi, responsabile della mummificazione e guardiano della necropoli.

Nell’immagine: Scena del Giudizio tratta dal “Libro dei Morti” dello scriba reale Hunefer (ca, 1285 a.C.).

Da sinistra: Anubi accompagna Hunefer nella Sala di Maaty; il suo cuore viene posto sulla bilancia con il contrappeso di Maat, mentre Anubi e Ammut presiedono la pesatura; Thot annota il risultato favorevole; Horus accompagna Hunefer “giustificato” al cospetto di Osiride.

Dipinto su papiro, Londra, British Museum

Fonti: 

  • Maurizio Damiano, Egitto, Volume primo: L’età dell’oro.
  • Grande Enciclopedia illustrata dell’Antico Egitto, a cura di Edda Bresciani.

m3’ hrw (lett. “giusto di voce”): la giustificazione.

E veniamo al momento “fatidico” del Giudizio che ci viene illustrato in maniera straordinaria nel capitolo CXXV di quello che oggi chiamiamo “Libro dei morti”, ma che gli Egizi, come ho già esposto, indicavano come “Le formule dell’uscire al giorno”.

Innanzitutto, darei qualche breve cenno su questa raccolta di formule ad uso funerario.

Testi delle Piramidi. Piramide di Teti, VI Dinastia. Saqqara

I testi che nell’ Antico Regno erano scritti nelle camere sepolcrali dei re menfiti a partire dalla V dinastia, noti come “Testi delle Piramidi”, riservati al sovrano e ad un esiguo numero di altissimi funzionari e parenti, nella successiva età feudale divennero di assai più largo dominio: comincia la cosiddetta “democratizzazione dell’aldilà” o, come Jan Assmann preferisce definire, “demotizzazione dell’aldilà”. Subentra l’uso di corredare di iscrizioni religiose la cassa funeraria con una serie di testi che fornissero al defunto uno strumento per affrontare vittoriosamente le prove nell’aldilà. Nascono i cosiddetti “Testi dei Sarcofagi” . Quest’uso di fornire formule magiche al trapassato, si perpetua in età tebana. A partire dalla XVIII Dinastia sono raccolte su rotoli papiro che vengono deposti nella tomba, spesso nel sarcofago stesso. Testi delle Piramidi, Testi dei Sarcofagi, e Libro dei Morti sono dunque tutti apparentati, in un certo qual modo. Non si tratta di una raccolta di contenuto fisso, ma piuttosto di vari manoscritti che si diversificano fra di loro per la scelta delle formule e per la lunghezza. A partire dalla XXVI Dinastia si osserva, però, una notevole costanza nell’omogeneità dei testi.

Testi dei Sarcofagi. Interno del sarcofago di Gua, XII Dinastia. Londra, British Museum

Si è fissato, in maniera fittizia, un corpus di centonovanta capitoli (stabilito da Lepsius). Infatti nessun manoscritto, a noi giunto, li contiene tutti. Solo un papiro molto tardo, di età tolemaica, li riporta nella “quasi” totalità.

La maggior parte delle formule è derivata dai Testi dei Sarcofagi (a loro volta derivati da Testi delle Piramidi), ma vi si trova anche del materiale nuovo. Lo scopo rimane quello di assicurare l’aldilà al defunto.

Raffigurazione della psicostasia, tratta dal Papiro di Ani (XIX Dinastia), Conservato presso il British Museum di Londra.

IL capitolo CXXV: PAROLE DA DIRE QUANDO SI ACCEDE ALLA SALA DI MAATY; SEPARARE N (il nome del defunto) DAI SUOI PECCATI E VEDERE IL VOLTO DI TUTTI GLI DEI.

E’ davvero con estrema umiltà che vi propongo questo straordinario testo che ci presenta, in un certo senso, un concentrato del pensiero etico e morale di questo straordinario popolo, la sua incrollabile fede nel praticare la Maat, intesa anche in senso sociale, al fine di garantirsi l’immortalità e, al contempo, assicurare quell’armonia e quell’ordine cosmico, generato con l’atto stesso della creazione (e pertanto nato perfetto) e al quale l’uomo non può e non deve apportare alcun cambiamento, pena lo stravolgimento sia sul piano reale che su quello trascendente di ciò che il creatore ha dato in custodia al suo gregge. Il risultato, di un allontanamento da questi principi, devastante, non potrebbe che essere Isefet: il caos. La delicatezza dell’argomento, l’alta sofisticazione del pensiero egizio, che ammette un’ infinità di possibili realtà, e del quale posso, a mala pena, cogliere gli aspetti “apparentemente” più evidenti, mi impone di affrontarlo e porgerlo ben consapevole di tutte le limitazioni, semplificazioni e finanche banalizzazioni a cui mi costringe la mancanza di una sia pur minima preparazione specifica.

La formula è suddivisa in due sezioni. Vi sono contenute due dichiarazioni di innocenza (le cosiddette confessioni negative): la prima rivolta direttamente ad Osiride, il grande dio. La seconda ad ognuno dei quarantadue dei che formavano il tribunale della sala delle due Maat. Il defunto è introdotto al cospetto di Osiride, il suo cuore essendo stato posto sulla bilancia che ha per contrappeso la piuma deposta da Maat, e pronuncia queste parole:

“Salute a te o grande dio, signore delle Due Maat! Io vengo a te, o mio signore, essendo stato condotto a contemplare la tua bellezza. Io ti conosco, conosco il nome dei Quarantadue dei che sono con te in questa sala delle due Maat, che vivono come sorveglianti dei cattivi e bevono il loro sangue in questo giorno delle valutazione delle qualità alla presenza di Onnofri (1)

Ecco,<< Colui le cui due figlie sono i suoi due occhi, signore delle Due Maat(2)>>, è il tuo nome . Io sono venuto a te ti ho portato la giustizia, ho respinto per te l’iniquità.

  1. Wnfr, l’essere perfetto, appellativo di Osiride. Una piccola divagazione: da questo termine sarebbe derivato il nome Onofrio).
  2. Le Due Maat, secondo l’ipotesi di Jean Yoyotte in “Les jugement des mortes” sarebbero i due occhi cioè il sole e la luna, dell’antico dio celeste di Letopoli, qui assimilato ad Osiri come giudice universale. (confr. la frase “Colui le cui figlie sono i suoi due occhi…”)

A questo punto comincia la confessione negativa

E’ ravvisabile un aggiustamento estremamente importante nella storia della religione egizia: la sopravvivenza sarà determinata non più da un mero procedimento ritualistico, dalla semplice e determinante efficacia delle formule, ma vi si innesta l’indispensabile necessità di aver condotto una vita terrena all’insegna di una morale indissolubilmente legata alla virtù ed alla giustizia. L’elenco delle colpe che il defunto dichiara di non aver commesso ne mostra chiaramente il carattere sociale ed etico: i diritti del prossimo diventano assolutamente predominanti rispetto alla forza “magica” del rituale.

Non ho commesso iniquità contro gli uomini.

Non ho maltrattato le bestie,

non ho commesso iniquità nella sede di Maat,

non ho (voluto) conoscere ciò che ancora non c’era(1),

non ho tollerato di vedere il male,

non ho cominciato nessuna giornata chiedendo un dono da quelli che dovevano lavorare per me,

il mio nome non è arrivato al Capitano della Barca(2),

non ho bestemmiato Dio,

non ho impoverito un misero,

non ho fatto ciò che è disgustoso agli dei,

non ho danneggiato un servo presso il suo padrone,

non ho avvelenato,

non ho fatto piangere,

non ho ucciso,

non ho dato ordine di assassinio,

non ho causato pena ad alcuno,

non ho diminuito le rendite alimentari nei templi,

non ho sciupato i pani degli dei,

non ho rubato le focacce dei glorificati(3),

non sono stato pederasta,

non ho commesso atti impuri nel luogo santo del dio della mia città,

non ho aggiunto e non ho tolto allo staio,

non ho alterato l’arura(4),

non ho falsificato la misura del campo,

non ho aggiunto al peso della bilancia,

non ho falsificato il peso,

non ho tolto il latte dalla bocca degli infanti,

non ho privato le greggi della loro erba,

non ho catturato gli uccelli dei boschetti degli dei,

non ho pescato i pesci dei loro stagni(5),

non ho fatto deviare l’acqua nella sua stagione,

non ho costruito una diga per deviare l’acqua corrente,

non ho spento un fuoco nel suo momento di ardere,

non ho trascurato i giorni di offerta di pezzi di carne

,non ho tenuto lontano il bestiame dei beni del dio,

non ho impedito dio nella sua uscita (processionale).

Io sono, puro, puro, puro. La mia purezza è la purezza di quella grande Fenice che è in Eliopoli, perché io sono il Naso, signore dei fiati, che fa vivere tutta la gente in questo giorno della pienezza dell’occhio Udjat in Eliopoli(6), nel secondo mese della stagione “peret” , l’ultimo giorno, alla presenza del signore di questo paese. Io ho visto la pienezza dell’occhio Udjat in Eliopoli. Non avverrà il male contro di me in questo paese, nella Sala delle Due Maat, poiché io conosco il nome degli dei che vi si trovano insieme a te.

Qui inizia la “Seconda dichiarazione di innocenza”, rivolta a quarantadue divinità, che sarà oggetto della prossima puntata. Da notare che il numero quarantadue, non ha rapporto con i “nomoi” dell’Egitto, in quanto questo numero di provincie è stato fissato in epoca tarda. Si tratta di divinità locali che hanno il compito di denunciare e punire una determinata colpa. E’ plausibile che questa lista di dei sia stata stabilita, almeno in parte, sulla base dei tabù della città di cui era origine ogni singola divinità.

  1. Si intende ciò che non ci dovrebbe essere, vale a dire il male.
  2. Il Capitano della Barca è Ra: significa che nessuno ha chiesto giustizia contro di lui a Ra
  3. Le offerte dei defunti
  4. L’arura era una misura di superficie
  5. Non ho catturatogli uccelli ecc. sembrano essere dei divieti sacri
  6. Allude al fatto che ha partecipato ai misteri rituali di Eliopoli.

Fonti:

  • Sergio Donadoni, Testi Religiosi Egizi, (a cura di)
  • Edda Bresciani, Letteratura e poesia dell’Antico Egitto

La seconda dichiarazione di innocenza

O Essere dal lungo passo, che esce da Eliopoli, non ho commesso iniquità.

O Essere che abbracci la fiamma, che esce da Kheraha(1), non ho rubato.

O Nasuto(2) che esce da Ermopili, non sono stato avido.

O divoratore di ombre che esce dalla Caverna, non ho saccheggiato.

O Faccia tremenda che esce da Rosetau, non ho ucciso uomini.

O Doppio Leone(3) che esce dal cielo, non ho scemato lo staio.

O Colui i cui due occhi sono di selce(4), che esce da Letopoli, non ho compiuto prevaricazione.

O Fiammeggiante, che esce da Khetkhet, non ho rubato i beni di dio.

O Spezzatore di ossa, che esce da Eracleopoli, non ho detto menzogna.

O Lanciatore di fiamma che esce da Menfi, non ho portato via il pane.

O Troglodita che esce dalla provincia dell’Occidente, non sono stato insolente.

O Essere dai denti bianchi(5), che esce dal Paese del lago, non ho trasgredito.

O Mangiatore di sangue che esce dal luogo del supplizio, non ho ucciso gli animali sacri.

O Mangiatore di Viscere che esce dal Tribunale dei Trenta(6), non ho accaparrato (?) il grano.

O Signore di Maat, che esce da Maaty, non ho rubato le razioni di pane.

O Traviato che esce da Bubasti, non ho spiato.

O Andy che esce da Eliopoli, non ho parlato a vanvera.

O Malvagio che esce dalla provincia di Busiri, non ho litigato se non per i miei beni.

O Uamenty che esce dal luogo dell’esecuzione, non ho fornicato con donna maritata.

O Guarda ciò che egli porta, che esce dalla casa di Min, non ho commesso atti impuri.

O Soprastante ai grandi, che esce da Imau, non ho causato terrore.

O Distruttore che esce da Pui, non ho commesso trasgressione.

O Incantatore di voce, che esce da Urit, non mi sono riscaldato.

O Fanciullo che esce da Heqaag, non ho reso sordo il mio volto a una parola verace.

O Batsy che esce da Scetit ,non ho strizzato l’occhio(7).

O Colui la cui faccia è la sua nuca, che esce da Tapehetgiat, non sono stato sodomita.

O Caldo di piede, che esce all’alba, il mio cuore non ha inghiottito(8.)

O Oscuro che esce dall’oscurità, non ho insultato un altro.

O Colui che porta la sua offerta, che esce da Sais, non sono stato violento.

O Signore dei volti, che esce da Negiafet, il mio cuore non si è affrettato(9).

O Serekhy che esce da Utenet, non ho offeso la mia natura, non ho trascurato un dio.

O Signore delle due corna, che esce da Assiut, non ho moltiplicato le parole nei discorsi.

O Nefertum, che esce da Menfi, non c’è la mia macchia, non ho fatto il male.

O Temsep che esce da Busiri, non ho insultato il re.

O Colui che agisce secondo il suo cuore che esce da Cebu, non ho camminato sull’acqua (10).

O Percotitore (?) che esce dal Nun, non sono stato alto di voce.

O Colui che comanda la gente, che esce dalla Residenza (?), non ho ingiuriato un dio.

O Neheb-neferet che esce dal suo castello, non ho prodotto un gonfiamento(11).

O Nehebkau che esce dalla città, non ho fatto distorsioni a mio profitto.

O Essere dalla testa venerabile, che esce dalla sua tana, non sono state grandi le mie razioni se non dei miei beni.

O Colui che solleva il braccio, che esce da Igheret, non ho calunniato il dio della mia città.

Salute a voi, o dèi! Io vi conosco, conosco i vostri nomi. Non cadrò e voi non colpirete. Non riferite il mio peccato a questo dio di cui siete al seguito. Non avverrà la mia disgrazia a causa vostra. Direte che mi spetta Maat, alla presenza del Signore Universale, poiché io ho praticato Maat in Egitto. Non ho offeso dio, e non avverrà la mia disgrazia da parte del re che è nel suo giorno (di regnare) Salute a voi, o dèi che siete in questa sala della Due Maat, che non avete menzogna nel vostro corpo, che vivete di Maat in Eliopoli, e che sapete di verità alla presenza di Horo che è nel suo disco. Salvatemi da Baba(12), che si nutre dei visceri dei grandi, in questo giorno del grande giudizio.

Ecco, io vengo a voi, senza iniquità, senza aver commesso frodi, senza che ci sia in me male, senza che ci sia la mia accusa. Non c’è persona a cui abbia fatto ciò. 

Io vivo di Maat, mi nutro di Maat. Ho fatto ciò di cui parlano gli uomini, di cui si rallegrano gli dèi. Ho soddisfatto dio con ciò che ama. Ho dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vesti all’ignudo, una barca a chi non ne aveva. Ho fatto offerte agli dèi e offerte funerarie ai glorificati. 

Salvatemi dunque, proteggetemi dunque. Non fate rapporto contro di me alla presenza del grande dio. Io sono uno la cui bocca è pura, le cui mani sono pure. Sono uno al quale si dice: <<Benvenuto in pace>>, da parte di chi lo vede. Perché ho udito questo discorso che l’asino ha fatto al gatto nel tempio di Colui che apre la bocca. Sono stato testimonio davanti a lui, quando gridò. Ho visto il taglio della pianta “isced” in Rosetau. Io sono uno stimato dagli dei , che conosce ciò che gli dei hanno nel ventre(13). Io sono venuto per testimoniare la verità, sono venuto per drizzare la bilancia sul suo piede.

Segue un dialogo esoterico in cui il defunto deve dimostrare di conoscere determinati misteri e dare la risposta giusta. Controbatterà alle domande che la Porta della Sala e le sue varie parti, il portinaio e Thot gli porranno: il defunto dimostrerà di conoscere il loro nome misterioso e finalmente potrà passare oltre.

  • 1 Kheraha era una località a sud di Menfi
  • 2 Thot, con chiaro riferimento al suo lungo becco di ibis
  • 3 Sono Shu e Tefnut
  • 4 Mekhenty-irty (irty, duale di ir. lett. I due occhi), dio di Letopoli.
  • 5 Il dio coccodrillo Sobek e il Paese del Lago è il Fayum.
  • 6 Secondo Donadoni in Testi Religiosi egizi, uno dei Tribunali Civili.
  • 7 (si intende) per imbrogliare qualcuno.
  • 8 Potrebbe significare non sono stato ipocrita (?)
  • 9 Non sono stato precipitoso (?)
  • 10 Non sono stato avventato (?)

Fonti: Sergio Donadoni, Testi Religiosi Egizi, (a cura di)Edda Bresciani, Letteratura e poesia dell’Antico Egitto

Nelle immagini: due illustrazioni tratte dal libro dei morti di Kha conservato presso il Museo Egizio di Torino. Si tratta di un testo policromo splendidamente illustrato, risalente alla XVIII Dinastia, scritto in caratteri geroglifici corsivi, lungo circa 14 metri che il Museo espone in tutta la sua lunghezza.

Nell’immagine superiore sono visibili Kha, seguito dalla moglie Merit di fronte ad un tavolo di offerte. Segue, in una cappella sorretta da colonne papiriformi, Osiride assiso in trono: indossa la corona Atef ed è rappresentato di colore verde, simbolo di fertilità. Il trono su cui siede presenta il classico simbolo Sma-Tawy (unione delle Due Terre) e poggia su uno zoccolo che non è altro che il geroglifico che si legge ma’at. La simbologia è molto chiara: Osiride, sovrano dell’Oltretomba è garante della Giustizia. L’immagine seguente ci mostra la scena in cui una barca con un catafalco viene trainata per mezzo di una slitta. Il sarcofago viene quindi posto in posizione eretta di fronte all’ingresso della tomba pronto a ricevere il rituale dell’apertura della bocca. Lo si intuisce dalla presenza dello strumento pesheskef, che viene utilizzato dal sacerdote Sem per portare a compimento questa fondamentale azione simbolica, attraverso la quale il defunto potrà tornare a respirare e a fruire delle offerte deposte per lui all’interno del sepolcro. Nella prima colonna a sinistra scritta con inchiostro rosso si legge la frase Kherw keres, letteralmente “giorno del funerale”. Nella seconda colonna abbiamo imy er kaut Kha maat kherw senet.f nebet per, Merit seguita, non visibile nell’immagine, dall’epiteto maat kherw (il responsabile dei lavori, Kha, giustificato – lett. giusto, veritiero di voce – Sua moglie, signora della casa Merit, giustificata). Da notare che in questa colonna gli spazi in cui sono scritti i nomi dei due personaggi è più ampio rispetto a quello degli altri geroglifici. Il che lascia supporre che questi papiri fossero già preconfezionati, con degli spazi vuoti in cui inserire il nome del defunto.

Fonte: Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino


Scena della psicostasia tratta dal “Libro dei morti” di Iuefankh

Questo papiro lungo circa 19 metri, completamente preservato, contiene – da destra a sinistra – 165 capitoli del cosiddetto “Libro dei Morti”, la raccolta di formule per la guida, la protezione e la resurrezione del defunto nell’Aldilà. Per raggiungere tali obiettivi, dopo l’imbalsamazione e la processione alla tomba, determinate condizioni erano indispensabili: la conservazione e il sostentamento del corpo, la capacità di trasformazione, la giustificazione e la protezione del defunto e il possesso della conoscenza. Sono questi i temi dei 165 capitoli scritti in geroglifico corsivo per Iuefankh, figlio di Tasheretemenu. Di epoca Tolemaica è conservato presso il Museo Egizio di Torino, acquisito da Bernardino Drovetti nel 1824.

La definizione “Libro dei morti” è moderna: per gli Egizi, coma già evidenziato in precedenza, era molto più significativamente “rou nu peret em heru” (Capitoli per uscire al/nel giorno). Il primo a comprendere che si trattava di una serie di formule che servivano al defunto per superare una serie di ostacoli, affinché potesse raggiungere i “Campi di Yarw” e quindi proseguire nella sua vita oltremondana, fu il tedesco Karl Richard Lepsius. Fu avviato agli studi egittologici dal pisano Ippolito Rosellini che a sua volta era stato prima allievo poi collega di Jean-François Champollion e con il quale partecipò alla spedizione franco-toscana in Egitto. Il Rosellini, nel 1826 occuperà la prima Cattedra di Egittologia al mondo presso l’Università di Pisa. Quando Lepsius, a Torino, fa il suo incontro con questo papiro, comprende che si tratta di un vero e proprio formulario, una sorta di “vademecum” per l’Aldilà gli dà il nome di “Libro dei Morti” e ne ricava una suddivisione in 165 capitoli. Tale suddivisione è quella ancor oggi in uso con l’aggiunta di ulteriori 25 capitoli, identificati successivamente in altri reperti. E’ necessario chiarire, a questo punto, che la raccolta con tutti i 190 capitoli non si trova in nessun papiro e che, essendo questo il più completo, è stato assunto come raccolta campione (in modo non storicamente corretto, proprio per la sua posteriorità, di un millennio e anche più, rispetto ai primi esemplari).

Le formule sono finalizzate al momento in cui il defunto si troverà di fronte al Giudizio presieduto da Osiride. La scena è delimitata da uno spazio architettonico ben definito da due colonne che sorreggono la parte superiore, come ad evocare un ambiente templare. Il defunto, sulla destra, vi entra e porge il suo saluto alla dea Maat. Al centro vi è la fatidica bilancia con il suo cuore posto sul piatto di destra; sulla sinistra come contrappeso una rappresentazione miniaturizzata di Maat con la sua piuma distintiva. Gli spazi tra i bracci della bilancia sono occupati da Anubi e da Horus, mentre in cima vi è una raffigurazione cinocefala di Thot in veste di “colui che presiede al braccio della bilancia”. Proseguendo verso sinistra, è riconoscibile Thot, questa volta rappresentato con testa di ibis, in veste di scriba nell’atto di registrare sulla sua tavoletta ciò che accade. Segue il mostro Ammit (la Grande Divoratrice) una divinità con muso di coccodrillo, parte anteriore di leone e posteriore di ippopotamo (simbolicamente la commistione di tre fra le più feroci belve dell’Antico Egitto), pronto a divorare il cuore del defunto ove mai dovesse risultare più pesante della piuma di Maat. Nella parte superiore della scena sono raffigurate le quarantadue divinità che raccoglieranno un’ulteriore dichiarazione di innocenza. A presiedere il giudizio è ovviamente Osiride rappresentato a sinistra nel suo tabernacolo e assiso sul trono con il simbolo “sma-tawy, classica iconografia che rappresenta l’ unione delle Due Terre (ricordiamo che, mitologicamente, Osiride è considerato il primo sovrano dell’Egitto).

Un’ultima considerazione: il “rou nu peret em heru” non deve essere visto come un libro secondo la nostra visione, vale a dire come un susseguirsi di capitoli a partire dal numero uno a seguire. In realtà, in base alle proprie necessità, convinzioni, e soprattutto possibilità economiche, si acquistavano le sezioni che avrebbero fatto parte del corredo funerario. C’è anche da dire che in molti casi i vari papiri rinvenuti danno dei capitoli una versione che può variare per aggiunte o per omissioni se non, talvolta per veri e propri mutamenti. Talvolta la correttezza del testo è piuttosto trascurata. Ciò è dovuto in parte al fatto che le copie erano preparate quasi industrialmente e per un uso esclusivamente oltremondano, in parte alla fiducia che gli stessi egizi nutrivano nel loro potere magico-religioso, tanto più efficace in quanto misterioso e incomprensibile, indipendentemente dalla correttezza o meno delle iscrizioni. E’ pur vero, però, che questa mancanza di precisione, rispetto ad esempio ai testi epigrafici antichi o ai Testi delle Piramidi, ponga problemi interpretativi forse anche più complicati.

CONSIDERAZIONI

A conclusione della parziale e sommaria, descrizione di questo importantissimo capitolo del Libro dei morti, mi sembra opportuno aggiungere alcune riflessioni. Illuminanti mi sembrano, in proposito le considerazioni di Jan Assman estrapolate dal suo Maât l’Egypte pharaonique et l’idée de justice sociale. Ne riporto qualcuna che a me è sembrata particolarmente incisiva per una migliore comprensione del testo. La cosa che mi ha sempre creato un certo disagio, fin da quando ho avuto il mio primo approccio con questa formula, è stata proprio la doppia dichiarazione di innocenza.

Perché discolparsi due volte da una serie di peccati che, grosso modo appare del tutto simile? In realtà, Assman afferma che, piuttosto che sovrapporsi, le due liste si completino. Egli nota che il principio di composizione segue uno schema secondo il quale un tema specificato attraverso una serie di peccati in una dichiarazione, è trattato in maniera solamente sommaria nell’altra e viceversa. Sicché laddove una lista (le indicherò in avanti con A e B è chiaramente articolata, l’altra enumera una serie di peccati mescolati insieme, senza alcuna struttura apparentemente riconoscibile. Ad esempio: “A” comincia con una decina di colpe gravi di ordine generale, di cui “B” riprende solo il primo, il più universale di tutti: (A) Non ho commesso iniquità contro gli uomini, (BNon ho commesso iniquità. Questa prima enunciazione sintetizza praticamente il cardine della nozione di Maat (non praticare il male, Isefet); si elencano poi una serie di peccati (si entra quindi nel dettaglio) che differiscono nella dichiarazione (B, ma che riguardano azioni criminose verso gli uomini o la divinità, finché si arriva alla enunciazione “Non ho danneggiato un servo presso il suo padrone”, che introduce un’altra caratteristica fondamentale del concetto di Maat: il tema della solidarietà che viene sviluppato nella lista B in maniera estremamente precisa.

Ricapitolando e facendo un’estrema semplificazione, possiamo inquadrare i due principali aspetti comportamentali che ogni uomo deve rispettare al fine di perseguite Maat. Il primo riguarda l’agire (fare la Maat), il secondo la solidarietà sociale e comunicativa (dire la Maat, intesa nel senso più ampio di parola pronunciata e ascolto).Nella lista A sono più particolarmente focalizzate le colpe relative all’agire: Non ho causato dolore, Non ho fatto piangere, non ho ucciso, non ho dato ordine di uccidere, non ho avvelenato, non ho causato pena ad alcuno, non ho tolto il latte ad un bambino ecc. Di contro nella dichiarazione (B sono, in maniera molto singolare, ben dettagliati i peccati contemplati nel campo della parola/ascolto, in chiave spiccatamente sociale e che mostrano con chiarezza l’importanza che la mentalità egizia attribuiva al comportamento etico fin in aspetti che ai nostri occhi parrebbero di non primaria rilevanza. Così ritroviamo regole che impongono di non sparlare, calunniare, tormentare, vantarsi, parlare a vanvera, incutere terrore (irretire), spiare qualcuno, strizzare l’occhio (per imbrogliare qualcuno), adirarsi (la violenza verbale), aver intentato processi contro qualcuno, in definitiva, di essere stato sordo alle parole di Maat.

Sono poi elencati altri tipi di peccato che riguardano aspetti più rituali e misterici, probabilmente derivati dall’iniziazione sacerdotale, ma mi è sembrato opportuno concentrare l’attenzione sul chiaro messaggio etico/sociale che erompe (direi fragorosamente) da questo testo. Quello che colpisce maggiormente è che, oltre agli ovvi crimini contro la persona (uccidere, rubare, usare violenza ecc. ecc.), emerge prepotente il poderoso accento che viene posto sull’aspetto comunicativo. In pratica nella mentalità egizia anche il semplice calunniare, usare un linguaggio offensivo, la prevaricazione verso il debole e l’indifeso, la presunzione, la vanagloria, l’indurre sentimenti di odio o insofferenza verso il prossimo erano considerati comportamenti contrari alla Maat e quindi deprecabili. Viene, di conseguenza, sottolineata l’importanza della correttezza, sobrietà, disponibilità, autocontrollo (anche nei confronti dei sottoposti, degli umili e dei più fragili). Questo ovviamente, non significa che questi “peccati” non si commettessero, ma semplicemente che anche da questi ne derivavano un giudizio ed una punizione in questa o nell’altra vita (che veniva preclusa in caso di non superamento della prova). L’aspetto da tener presente è senz’altro quello universale, cosmico del concetto. Vale a dire alla Maat erano tenuti ad attenersi tutti: dagli dei, al faraone (che ne era garante in terra), al più umile dei servi. Azzardando a dirla in termini moderni, era da considerare una vera e propria Istituzione e, pertanto la regola unica, immutabile da seguire: perfetta (perché nata all’atto della creazione), immodificabile, imprescindibile. Non c’era posto, in materia, per altra corrente di pensiero.

A voler fare un confronto con ciò che tante classi dirigenti odierne si affannano a propagandare, bisogna prendere atto che da quella magnifica esperienza etica, molto, troppo è cambiato. E di certo non in meglio: forse Maat bisognerebbe insegnarla a scuola fin da bambini. Non ho alcun dubbio che ce ne avvantaggeremmo tutti.

Libro dei Morti di Any (foglio n. 2) Nuovo Regno, XIX Dinastia, 1275 a.C. circa. Provenienza: Tebe. Londra, British Museum.

Questa sezione del papiro è la naturale prosecuzione del foglio n. 1 (non molto ben conservato) che mostra Any e sua moglie Tutu in adorazione del dio Ra. La parte a sinistra dell’illustrazione appartiene logicamente al testo precedente, ma fornisce anche un collegamento al contenuto di questo foglio. Ci mostra il disco solare (Ra) tenuto elevato al cielo da un segno Ankh ed adorato da due gruppi di babbuini simboleggianti il sole nascente. L’ankh è sostenuto da un pilastro Djed, emblema di Osiride ed è una simbolica raffigurazione della rinascita del sole dopo il suo passaggio notturno attraverso il regno dei morti. Il tutto si svolge sotto lo sguardo protettore di Iside e Neftis. Seguono le figure di Any e Tutu davanti ad un tavolo d’offerte, mentre il testo scritto in geroglifico “corsivo” è l’Inno ad Osiride.

Fonti:

  • Sergio Donadoni,Testi Religiosi Egizi, (a cura di)
  • Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino
  • Edda Bresciani, Letteratura e poesia dell’Antico Egitto
  • Jan Assmann, Maât l’Egypte pharaonique et l’idée de justice sociale

1 pensiero su ““IB” – IL CUORE”

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