LE STATUE VIVE DI RAHOTEP E NOFRET
Di Piero Cargnino
Avete letto bene, “guardiamoci negli occhi”, le foto che vi propongo vi invitano a farlo, più avanti capirete il perché.
Conosciamo bene tutti quello stupendo complesso statuario che ritrae il principe Rahotep e sua moglie Nofret. Ma chi erano questi personaggi per essere rappresentati nella loro tomba in modo così stupendo?
Rahotep era figlio del faraone Snefru, (anche se Zahi Hawass ha ipotizzato che il padre in realtà fosse Huni), e quindi fratello di Nefermaat, che era maggiore di lui, e di Ranefer fratello minore. Probabilmente nessuno dei tre fratelli sopravvisse al padre in quanto alla morte di questi fu il loro fratellastro Medjedu Khnum-Khufu, più noto come Cheope a salire sul trono.
Nella mastaba di Nefermaat e di sua moglie Itet (o Atet) viene citato, tra i loro quindici figli Hemiunu, per cui si pensa che costui fu quasi certamente il visir che si crede progettò la Grande Piramide di Cheope.


Membro della famiglia reale, il principe Rahotep vantava diversi titoli importanti: “Gran sacerdote del re”, “Capo dei costruttori”, “Capo dell’esercito reale”, “Direttore delle spedizioni” e, naturalmente, “Figlio del re, generato dal suo corpo”.
Da parte sua, Nofret (che significa “la bella”) vantava il titolo di “Conoscente del re”. Sembra che Rahotep sia morto giovane e sia stato sepolto in una lussuosa mastaba nella necropoli di Meidum vicino a quella del fratello Nefermaat dove venne scoperto uno dei dipinti più belli e famosi dell’arte egizia le controverse “Oche di Meidum”.
Nel 1871 Auguste Mariette, capo del Servizio di Antichità d’Egitto, stava facendo degli scavi a Meidum, famosa per la sua piramide a gradoni che si staglia nel paesaggio desertico come una gigantesca torre sprofondata. Mariette scavava nella vicina necropoli dell’Antico Regno situata nei pressi della piramide, vicino alla mastaba di Nefermaat, Albert Daninos, suo collaboratore, durante il recupero di una stele si trovò di fronte all’ingresso di un pozzo che dava accesso ad una galleria. Subito si pensò che si trattasse dell’ingresso di una nuova tomba.
Uno degli operai, con una candela, entrò per effettuare un’ispezione preliminare. Passarono pochi minuti e l’operaio riapparve correndo all’impazzata completamente terrorizzato. Raccontando l’episodio Daninos spiegò perché l’operaio era terrorizzato:
<<……Si vide davanti le teste di due esseri umani vivi che lo fissavano coi loro occhi che brillavano alla fioca luce della candela…..>>.
La mastaba, saccheggiata fin dall’antichità, conservava un tesoro sconvolgente che ancora oggi non finisce di meravigliare coloro che hanno la fortuna di vederlo, due statue a grandezza naturale dei proprietari della tomba eseguite con una finezza straordinariamente unica. Si trattava delle statue funerarie molto realistiche, che rappresentavano i proprietari della tomba: il principe Rahotep e sua moglie Nofret.


Non si tratta di un “gruppo statuario” nel vero senso della parola, sono due statue distinte che rappresentano i soggetti realizzati in calcare di alta qualità, blocchi scelti appositamente con la massima cura per garantire lo straordinario risultato dell’artista che le scolpì, capolavori della statuaria della IV dinastia. Il grande realismo e la perfezione formale le hanno ormai rese dei punti di riferimento nella storia dell’arte.
Le statue conservano ancora la meravigliosa policromia originale, il colore della pelle rispecchia le convenzioni dell’epoca, Rahotep presenta due baffetti non molto usuali all’epoca e la sua pelle compare con un tono più scuro mentre la principessa Nofert, veste sontuosamente un abito molto attillato e quasi trasparente e porta una corta parrucca, la sua pelle appare di color giallo-crema, in conformità con la tradizione secondo cui la carnagione chiara è, nelle donne, simbolo di nobiltà e di bellezza.
Ma la cosa più sorprendente sono i loro occhi, incorniciati da un tratto di colore nero e intarsiati con quarzo bianco, e cristallo di rocca, sembrano ancora vivi mentre osservano lo spettatore.
Sulle pareti della tomba sono rappresentati tutti i loro figli: tre maschi Djedi, Itu e Neferkau e tre femmine Mereret, Nedjemib e Sethtet. Sicuramente, dopo i millenni passati nell’oscurità della loro dimora eterna, debbono aver impressionato non poco il primo essere umano che li vide.
Oggi stanno in un museo e lo spettatore che li guarda non teme più il loro sguardo limpido e profondo ma ammira la loro bellezza eterna e immutabile. Come dico nel titolo: “guardiamoci negli occhi”, questo è un enigma che ci affascina, gli occhi di queste, come quelli di altre statue, sono costituiti da pezzi di cristallo di rocca perfettamente levigato, che veniva inserito, nel calcare o nel legno delle statue. La qualità delle lenti è così alta che il pensiero ci porta a formulare le più strane ipotesi.


Qui non ci troviamo di fronte al lavoro di scalpellini che percuotono coi loro mazzuoli di legno rudimentali scalpelli di rame. Per usare le parole dell’egittologa Carme Mayans di National Geographic:
“la perfezione con cui sono state eseguite le lenti fa venire in mente un fine lavoro di tornitura e rettifica con macchine rotanti ad alta velocità. L’unica spiegazione ragionevole a tutto questo è che gli egizi abbiano preso in prestito da qualche parte tali tecnologie e, quando le scorte si esaurirono, tutto si perse piano piano”.
Fonti e bibliografia:
- Carme Mayans, “Le statue “vive” di Rahotep e Nofret”, National Geographic, 2021
- Cimmino Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche” – Bompiani, Milano 2003
- Alan Gardiner, “La civiltà egizia” – Oxford University Press 1961 (Einaudi, Torino 1997
- Nicolas Grimal, “Storia dell’antico Egitto”, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998
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