Antico Regno, C'era una volta l'Egitto, IV Dinastia

LA PIRAMIDE DI CHEFREN

Di Piero Cargnino

Lasciamo ora Abu Rawash e scendiamo in direzione sud ovest, dopo circa 8 chilometri ci ritroviamo nella piana di Giza. Spieghiamo ora perché invece di proseguire con le altre piramidi di Giza siamo andati a visitare quella di Djedefra. Come accennato nel precedente articolo alla morte di Cheope avrebbe dovuto succedergli il figlio primogenito predestinato Kawab ma questi premorì al padre per cui la lotta per la successione si svolse tra Chefren e Djedefra il quale prevalse e riuscì a salire al trono regnando, secondo alcuni per pochi anni ma, come abbiamo già visto, alcuni ritrovamenti ci inducono a pensare che il suo regno sia durato molto di più.

Alla sua morte, Chefren, con l’appoggio degli altri fratelli, tra cui Hardedef,  e della madre, ricondusse il trono nella linea di discendenza principale escludendo da questa i figli del predecessore.

Col nome originale di Khafra e Hor Userib, Chefren regnò, secondo Manetone, (che nei suoi scritti lo chiama Shuphis II), per 66 anni. Erodoto e Diodoro Siculo gliene assegnano 56. Manetone non aggiunge altro ma Erodoto e Diodoro Siculo, che grecizzarono il suo nome Khafra in Chefren, asseriscono che fu un tiranno almeno quanto il padre Cheope, despota e megalomane che avrebbe fatto patire al popolo le stesse, sofferenze che fece patire Cheope in precedenza. Come si sa gli storici greci che scrissero la storia dell’Egitto descrivendo fatti accaduti duemila anni prima non danno molta affidabilità, utili le notizie che ci riportano ma come ogni storico che si rispetti dove queste vengono a mancare si ricorre alla fantasia. Sovrani che costruiscono monumenti così imponenti sicuramente stupirono i greci e gli stessi sacerdoti del Nuovo Regno per cui si crearono un’immagine forse un po distorta dei sovrani. Se a ciò aggiungiamo che durante il regno di Chefren era vietato esporre negli spazi aperti sculture diverse da quelle del sovrano, le quali erano quasi sempre scolpite in materiali pregiati, si può capire che i posteri non potevano che pensare ad un ipotetico carattere megalomane  dei sovrani.

Sulla scia del padre Chefren scelse la piana di Giza per la sua piramide; non cercò di superare quella del padre in altezza ma scelse però un posto più in alto così che, come detto in precedenza, al turista appare più alta di quella di Cheope, proprio per il fatto che è stata costruita su uno zoccolo di roccia più alto circa 10 metri, apparirebbe ancora più alta se avesse ancora parte della cima e il pyramidion.

La piramide di Chefren in origine doveva essere alta 143,5 m, (oggi 136,4), con i lati lunghi 215,25 m ed una pendenza 53°10′, il suo volume è pari a 2.230.000 metri cubi circa. Lo zoccolo di roccia alto 10 metri ha rafforzato la stabilità dalla costruzione al punto che i primi corsi di pietra sono scavati direttamente nel fondo roccioso. La parte inferiore, fin oltre metà altezza si presenta composta da grandi blocchi grezzi, disposti in modo irregolare senza la precisione che abbiamo riscontrato in quella di Cheope. Il nucleo infatti si presenta molto meno curato, gli strati non sempre sono perfettamente orizzontali ed i massi non combaciano presentando delle fughe molto larghe spesso neppure corrette con della malta. La causa va forse ricercata nei vari movimenti sismici che si sono succeduti nei millenni causando lo spostamento dei blocchi. La piramide si doveva presentare con alcuni strati inferiori in granito rosa mentre la restante parte era in calcare.

Sulla sommità, per un breve tratto ha mantenuto la copertura originale in calcare bianco di Tura che originariamente ricopriva l’intera struttura, è mancante di parte della cima e priva del pyramidion.

Alla base è ancora presente parte del rivestimento di “pietra etiopica variegata”, (così come la definisce Erodoto), ovvero granito rosso e grigio di Assuan. A conferma di ciò grosse schegge di granito, che componevano lo zoccolo, sono state ritrovate alla base della piramide.

A differenza di quella di Cheope, l’interno della piramide di Chefren era conosciuto fin dall’antichità, fu visitata numerose volte in epoca cristiana ed anche musulmana, a tal proposito esiste una scritta interna, (in arabo), che nomina un certo Muhammad Ahmed, muratore in un tempo impossibile da definire.

Poi sopraggiunse l’oblio tanto che nel 1548 Jean Chesneau, scrittore e segretario dell’ambasciatore francese presso l’Impero Ottomano in Egitto, descriveva la piramide come impenetrabile. Da secoli circolavano leggende che raccontavano di fantasiosi tesori, Erodoto affermava che questa piramide non aveva alcuna stanza al suo interno, mentre Diodoro Siculo raccontava che le piramidi erano le tombe dei faraoni che però non erano ivi sepolti. Alcuni storici arabi gli attribuivano ben 30 camere contenenti armi misteriose, storici cristiani affermavano che vi fosse stato inumato il corpo di Adamo con un ricchissimo tesoro in oro, incenso e mirra. L’interesse suscitato in seguito alla campagna di Napoleone in Egitto, sulle costruzioni di Giza, era diventato ormai l’argomento principale in tutti i salotti europei e non solo, schiere di archeologi, e pseudo tali si precipitavano in Egitto in cerca di tesori prima ancora che di reperti.

Quando dico pseudo archeologi intendo esploratori e avventurieri il cui scopo primario era quello di arricchirsi vendendo i reperti trovati e, se del caso, trattenersi eventuali tesori. Tra questi spicca un italiano Giovanni Battista Bolzon, nato a Padova, (più noto come Belzoni), (1778 – 1823), ingegnere idraulico, è considerato un pioniere dell’archeologia.

Belzoni dapprima viaggiò in lungo e in largo per l’Egitto recuperando reperti per conto del British Museum. Come accennato vi era la convinzione che la piramide di Chefren fosse priva sia dell’ingresso che della camera mortuaria, in seguito agli inutili tentativi di accedervi; si pensava quindi che fosse un imponente e massiccio monumento impenetrabile.

Fu così che durante un suo viaggio in Egitto, dopo aver ricevuto in prestito il denaro necessario, Belzoni si lanciò nell’impresa di penetrare all’interno della piramide di Chefren. Dopo i numerosi tentativi già effettuati in precedenza da parte di molti archeologi, fu proprio Belzoni a riuscirci il 2 marzo 1818.

Dopo aver iniziato le sue ricerche, accampato in una tenda ai piedi della piramide, Belzoni assoldò numerosi fellahs che iniziarono a scavare sul lato nord. Come si vede nella prima foto in un disegno abbozzato di fine ottocento, la base della piramide si presentava avvolta per molti metri dalla sabbia che ostruiva gli ingressi dai quali si entrava in tempi antichi per cui Belzoni non poteva sapere se e dove esistesse l’ingresso.

Dopo aver rimosso una quantità di materiale si presentò una falla nella parete e qui scoprirono un corridoio che però si rivelò cieco. Dopo aver studiato a fondo l’ingresso della piramide di Cheope, Belzoni capì che l’ingresso non doveva essere al centro della piramide ma spostato di circa 30 metri verso est. Dopo pochi giorni, alla presenza del cavalier Ermenegildo Frediani, apparve ai loro occhi l’entrata tanto agognata.

Va detto che, forse dovuto ad un cambiamento nel progetto di costruzione, gli ingressi sono due, quello che viene considerato il più antico si trova a circa 30 metri a nord quasi al livello della base. L’altro si trova sempre nella parete nord a circa 12 metri dal suolo. Il primo, chiamato ingresso inferiore scende in profondità scavato interamente nel fondo roccioso, scende per alcuni metri poi diventa orizzontale per poi risalire dopo pochi metri fino ad inserirsi nel corridoio orizzontale dell’ingresso superiore.

Quasi a metà del tratto orizzontale, nella parete occidentale si trova un breve cunicolo che conduce in una piccola camera dove probabilmente veniva depositato il corredo funerario o, secondo alcuni conteneva il serdab del sovrano. L’ingresso superiore avviene attraverso un corridoio che scende verso il centro della piramide per 32 metri, tutti nel corpo della piramide ed è interamente rivestito con blocchi di granito rosa, raggiunta la base della piramide diventa orizzontale.

Ad un certo punto si trova una barriera di granito rosa che, in epoca successiva venne aggirata dai saccheggiatori di tombe che scavarono alcuni cunicoli. Il cunicolo orizzontale prosegue al livello della base e dopo alcuni metri incontra il passaggio inferiore che si innesta in esso. Da qui il cunicolo prosegue fino a raggiungere la camera funeraria, completamente scavata nella pietra sotto il livello della base della piramide, ad eccezione delle capriate in calcare del soffitto che si trovano nel corpo della costruzione, la camera si trova in corrispondenza dell’asse verticale della piramide.

Belzoni e Frediani si calarono con l’aiuto di corde fino a raggiungere la camera che apparve subito del tutto disadorna e grezza, misura 14,15 x 5 metri con il soffitto a capriata, formato da 17 coppie di travi in pietra calcarea. Come detto le pareti si presentano grezze coperte da una specie di intonaco, secondo alcuni queste dovevano essere rivestite con blocchi di granito rosa probabilmente asportato dai saccheggiatori.

Subito, facendosi luce con delle torce, Belzoni cercò il sarcofago avendo come riferimento la disposizione di quello nella piramide di Khufu, ma in quel punto però non c’era nessun sarcofago. Continuando le ricerche riuscì poi a scorgerlo nell’angolo ad ovest semisepolto al livello del terreno e circondato da grossi blocchi di granito.

Il coperchio era spezzato e sollevato cosa che gli permise di vedere al suo interno dove si trovava un groviglio di ossa che si rivelarono poi appartenute ad un bovino. Belzoni esaminò l’intera stanza, che si presentava priva di iscrizioni, ad eccezione di una scritta in arabo, probabilmente risalente al 1200 circa, che attesterebbe un precedente ingresso nella piramide. Se iscrizioni non c’erano a questo ovviò subito Belzoni che, purtroppo come si usava al tempo, per la sua vanità di mostrare al mondo chi fosse, il “Gigante della Patagonia”, così era chiamato, decise di compiere quello che oggi noi definiremmo uno scempio, sulla parete meridionale della camera sepolcrale campeggia ed impera questa iscrizione: “Scoperta da G. Belzoni. 2. Mar. 1818”.

L’impresa di Belzoni venne celebrata dal governo britannico che coniò per l’occasione una medaglia con inciso in un lato il profilo di Belzoni mentre dall’altro il nome, la data e l’oggetto della sua notorietà, la piramide. Il destino volle però prendersi gioco di lui, forse per un madornale errore, la piramide raffigurata non era quella di Chefren, ma quella di suo padre Cheope.

Oggi i visitatori possono accedere all’interno della piramide attraverso l’ingresso che si trova a livello del suolo. Usciamo ora dalla piramide ed andiamo a visitare le varie pertinenze.

Come abbiamo potuto vedere l’interno della piramide di Chefren non è così complesso come quella di Cheope, vorrei solo far notare una cosa molto importante, se erano realmente tombe, Chefren rispettò il principio secondo cui il corpo del defunto <<…….appartiene alla terra, perché da essa è stato creato……..>>, mentre è l’anima che può salire in cielo, cosa che non fece Cheope.

Ora che siamo usciti dalla piramide facciamoci un giro per vedere le pertinenze. Il termine “pertinenze” può apparire riduttivo se si tiene conto della loro imponenza ma non ho trovato un termine diverso per definire gli edifici che contornano la piramide di Chefren. Vediamoli.

Sul lato sud, in asse con la Piramide, si incontrano i resti di una piccola piramide secondaria. Possiede un corridoio discendente che sbuca in una camera sotterranea a forma di T. Al suo interno furono rinvenuti frammenti di legno, perline di corniola, alcune ossa di animali e tappi d’argilla per vasi, non vi è alcuna traccia di sepoltura, nonostante tutto Maragioglio e Rinaldi conclusero che si trattasse della tomba di una delle mogli di Chefren. Ipotesi che Stadelmann non condivise affermando che si trattasse di una piramide cultuale.

Dalle esplorazioni di Petrie, effettuate all’esterno della cerchia muraria, emersero le rovine di un enorme edificio formato da 111 lunghi ambienti, Petrie, e con lui Holscher, ipotizzarono che si trattasse di un alloggiamento in grado di ospitare quattro o cinque mila uomini che lavoravano alla piramide. Recentemente Zahi Hawass e Mark Lehner hanno ipotizzato invece che si trattasse di un vero e proprio villaggio degli operai di cui abbiamo già parlato nella descrizione della necropoli di Giza.

Interessante il ritrovamento di numerosi gusci di molluschi all’interno che fanno pensare che durante la IV dinastia la piana di Giza non fosse ancora l’arido deserto che è oggi ma una sorta di savana con flora e fauna.

Nell’angolo a est della piramide, ma non addossato ad essa, si trova il Tempio funerario, o meglio ciò che ne resta di esso, la cui funzione era quella di permettere il culto del sovrano.

A riportarlo alla luce fu la missione tedesca di Ernst Von Sieglin che operò in loco dal 1909 al 1932. Oggi non restano che imponenti rovine dalle quali spicca un masso di oltre 400 tonnellate. L’accesso avveniva da est ed all’interno si trovavano stanze con colonne di granito rosa e, secondo Ricke, 12 statue alte 3,75 metri di Chefren assiso (secondo Lehner invece il sovrano era rappresentato in posizione stante), seguiva un cortile aperto pavimentato in alabastro con al centro un altare. A completamento si trovavano in fondo 5 camere-deposito dove si conservavano le offerte votive e le attrezzature da impiegare durante i riti.

Fuori dal Tempio sono state rinvenute le fosse di 5 barche solari, due sul lato nord e tre su quello a sud, tutte sono state saccheggiate già nell’antichità.

Dal Tempio partiva una Rampa Cerimoniale che, superando un dislivello di circa 46 metri scendeva per quasi 500 metri fino al Tempio a Valle. Della Rampa, il cui percorso è ancora oggi visibile, rimangono solo poche rovine.

Sono state avanzate numerose ipotesi su come doveva apparire la Rampa, si pensa che fosse un corridoio chiuso con il soffitto in calcare e le pareti ricoperte di rilievi ornamentali attinenti alla via che il sovrano doveva percorrere per prepararsi alla sua ascesa alla Duat. Probabilmente l’esterno era rivestito con blocchi di granito rosa, tutto il materiale è sparito e forse è stato utilizzato per erigere il Cairo. A questo punto però ritengo opportuno mettere in evidenza un fatto che deve farci pensare. Se osservate attentamente la prima foto noterete subito che la Rampa cerimoniale non scende perpendicolare alla faccia della piramide ma devia verso sud fino a raggiungere il Tempio di Valle. Ma perché la rampa non venne costruita secondo l’usanza scendendo dritta verso est? Non sono riuscito a trovare teorie di egittologi che ne parlino, la Rampa scende inclinata e questo è un dato di fatto. Ho fatto alcune ricerche nel campo delle teorie alternative, senza però finire nel campo della fantarcheologia e, parlo cioè di teorie che, magari con qualche forzatura, vengono supportate da studi ed indagini effettuate sul posto da parte di archeologi ed esperti nel campo della geologia. A questo punto ho riflettuto su un particolare della costruzione che mi è rimasto nella mente.

Osservando la facciata est della piramide si nota che in linea perpendicolare alla facciata stessa si trova la Sfinge. Ora viene da chiedersi perché i costruttori hanno deviato la Rampa per poi costruire la Sfinge in quel luogo? A rigor di logica la cosa non avrebbe senso, a meno che la Sfinge non esistesse già in quella posizione e di conseguenza dovette essere deviata la rampa. Mi riesce difficile pensare che il faraone abbia preferito costruirsi una statua così grande prima di costruirsi la sua tomba.

Si pensa che il luogo in cui sorge la Sfinge fungesse da cava di calcare per la costruzione della piramide di Cheope e, secondo alcuni, il prelievo del materiale sarebbe avvenuto risparmiando una collina centrale dalla quale sarebbe poi stata ricavata la statua. Secondo l’egittologo Stadelmann la costruzione della Sfinge sarebbe da attribuire a Cheope e non a Chefren, La maggior parte degli egittologi non concorda e l’idea che prevale è che a costruirla sia stato Chefren. Come la maggior parte di voi sa, esistono molte altre teorie alternative che ritengono che la costruzione della Sfinge vada collocata in un periodo di molto antecedente, 10.200 a.C. secondo alcuni, 7.000-8.000 a.C. secondo altri ma questo è un problema che esamineremo quando parleremo della Sfinge.

Scendiamo ora per la strada normale e rechiamoci a visitare il Tempio della valle.

IL TEMPIO DELLA VALLE

Ora noi, comuni mortali rispettosi della sovranità antico egizia, non ci permettiamo di scendere dalla Rampa cerimoniale (anche perché non è che sia molto agevole) ma percorriamo la strada asfaltata che in parte la costeggia.

Superiamo la Sfinge che si trova sulla nostra destra e poco oltre ci dirigiamo verso sinistra ed arriviamo allo spiazzo dei Templi di Chefren e della Sfinge. Poniamoci ora di fronte al due templi, a destra si trova il Tempio della Sfinge, che vedremo in un altro articolo quando parleremo della Sfinge stessa, si trova oggi in pessime condizioni.

A sinistra verso sud, separato da uno stretto corridoio, troviamo il Tempio della Valle di Chefren, l’unico tempio della Valle ancora esistente in Egitto che si sia conservato e che ci è pervenuto in buono stato.

Si tratta di un edificio nel quale avveniva il culto del re, dall’imbalsamazione alla cerimonia dell’apertura della bocca. A scoprirlo fu Auguste Mariette nel 1852 che erroneamente, in un primo momento, lo attribuì alla Sfinge, salvo poi ricredersi. Esso era collegato al Tempio Funerario di Chefren per mezzo della già citata Rampa cerimoniale lunga circa 500 mt. che superava il dislivello di 46 mt. per arrivare al Tempio Funerario situato accanto alla piramide sul lato est, di cui abbiamo già parlato. 

Il Tempio della Valle in origine doveva avere l’aspetto di una mastaba a pianta quadrata di 45 mt. di lato per 13 di altezza. La cosa che lascia più impressionati sono le poderose mura, costruite con blocchi di calcare di Tura di enormi dimensioni per un volume di circa 55 metri cubi che sviluppano un peso di quasi 150 tonnellate. Ciascuna parete è poi rivestita all’interno con blocchi giganteschi di granito rosso di Assuan, del peso di circa 45 tonnellate ciascuno, perfettamente combacianti e privi di decorazioni, ad eccezione di alcuni geroglifici incisi (forse in tempi successivi) sui montanti delle porte, che lo rendono impressionante per il severo ed elegante aspetto.

Nella grande sala a forma di T rovesciata sono presenti 16 pilastri monoliti in granito rosso alti circa 4 metri che sorreggono imponenti architravi sempre monolitiche in granito. La pavimentazione in alabastro con le pareti in calcare rivestite di granito nero creavano uno spettacolare contrasto cromatico che colpiva ed impressionava il visitatore. In origine la sala conteneva 25 enormi statue di Chefren assiso ricavate da diorite verde del deserto nubiano, alabastro e grovacca.

Nella prima anticamera era stato ricavato un pozzo nel quale furono riposte le statue del sovrano allo scopo di preservarle dai profanatori e dai ladri. Auguste Mariette, nel 1859 scoprì il pozzo ma purtroppo solo una statua era intatta ed è oggi esposta al Museo del Cairo. Erano inoltre presenti altre camere con vari corridoi e vestiboli oltre ad ambienti atti a contenere forse altre barche solari.

Quando visitai il Tempio di Valle di Chefren lo feci a ragion veduta. Avevo già studiato la struttura dell’edificio tempo prima ed avevo maturato il desiderio di poter constatare di persona le notizie che avevo appreso anche perché pochi ne parlano e chi lo fa viene spesso tacciato di eresia o, nella migliore delle ipotesi di fantarcheologia. Lungi da me l’idea di avanzare ipotesi che non sarei in grado di sostenere in una discussione con gli esperti, ma dopo aver visitato personalmente il monumento posso dire qualche parola in più.

Nel Tempio ci troviamo di fronte ad una architettura ciclopica difficilmente riscontrata in altri luoghi. La perfetta armonia delle massicce colonne monolitiche di granito disposte seguendo un ordine quasi maniacale. La possente consistenza delle architravi che dovevano sostenere la copertura del Tempio e la perfetta esecuzione delle pareti con blocchi enormi di puro granito; confesso che rimasi incantato per parecchio ad osservare cotanta magnificenza.

Tornando agli studi e alle ricerche che avevo effettuato non mi ci volle molto per constatare ciò che avevo appreso, personalmente rimasi stupito dall’indifferenza dei turisti che, ignari di ciò che avevano di fronte, proseguivano tranquillamente nella loro visita senza che la guida richiamasse la loro attenzione su ciò che stavano osservando. Io avevo trovato quello che cercavo. Osservate le foto che ho scattato alle pareti, i massi non sono sistemati in modo regolare, alcune pietre hanno degli incastri particolari pur combaciando tra loro in modo perfetto. Tranne forse alcuni documentari, non ricordo di aver trovato informazioni ufficiali più dettagliate sull’argomento che trovo decisamente importante. Non credo esistano in Egitto altri edifici che presentino una metodologia di costruzione simile al Tempio di Chefren. Mi chiedo quale sia la ragione che giustifichi una simile disarmonia nella sistemazione dei blocchi in una parete che si presenta perfettamente piana. E non solo ma se osservate come sono stati ricavati alcuni angoli dove il blocco enorme è stato completamente scalpellato per formare un angolo retto.

Stiamo assistendo a quello che assomiglia ad un gioco di incastri eseguito su di una scala molto più grande. Perché i suoi costruttori hanno dovuto adattare i blocchi scolpendoli con più angoli ma perfettamente combacianti? Qual è la logica che ha indotto i costruttori ad adottare una tecnica così complicata e senz’altro più dispendiosa? Per me questo è il mistero del Tempio della valle.

E’ strano ma una tecnica simile, in tempi diversi, era molto usata nell’America precolombiana. Basta osservare le ciclopiche mura del Machu Picchu, quelle della città di Cusco e quelle della fortezza di Ollantaytambo, nell’America del sud, migliaia di chilometri oltre oceano. Qui i blocchi presentano forme irregolari ma sono stati fatti combaciare perfettamente nonostante non sia stata utilizzata alcun tipo di malta per legare i blocchi tra di loro al punto che non è possibile infilare nemmeno la lama di un coltello. Anche qui gli scavi archeologici e i ritrovamenti non hanno portato alla luce strumenti di lavoro adeguati a costruire simili opere.

Non avendo nulla da aggiungere, a questo punto mi fermo lasciando il seguito all’immaginazione di ciascuno di voi. A puro titolo di curiosità ci tengo a ricordare che nel piazzale antistante i Templi della Valle di Chefren e della Sfinge, il 17 novembre 1869 ci fu l’inaugurazione del Canale di Suez, per l’occasione Mehmed Emin Âli, Pasha ottomano in Egitto, organizzò una cerimonia solenne cui fu presente anche l’imperatrice Eugenia de Montijo, consorte di Napoleone III, ultima sovrana di Francia e per l’occasione risuonarono le note della Egyptischer Marsch, composta da Johann Strauss. Fu in quell’occasione che al teatro Kedivale del Cairo fu rappresentata la prima dell’Aida di Giuseppe Verdi.

Un’ultima curiosità per i turisti è assistere ad uno spettacolo dei “Dervisci Rotanti” eseguito nel piazzale di fronte ai due templi. In abito tradizionale e accompagnati da una partitura musicale, danzano mossi dal dolore per la separazione da Dio e dal desiderio ardente di ritrovarlo nell’estasi del ballo. “La danza dei Dervisci rotanti” è un rapimento irresistibile per gli occhi. La danza estatica dei Dervisci Sufi, porta i danzatori a volteggiare interrottamente per più di 45 minuti. Durante la danza i danzatori si spogliano di alcuni strati del loro abito, usanza che equivale al ripulire l’anima dai peccati. L’incanto ipnotico della danza dei dervisci è uno degli spettacoli più suggestivi e antichi a cui potete assistere nella città del Cairo.

Fonti e bibliografia:

  • Grimal Nicolas, “Storia dell’antico Egitto” – Editori Laterza, Bari 2008
  • Cimmino Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche” – Bompiani, Milano 2003
  • Alberto Siliotti, “Giovanni Belzoni alla scoperta dell’Egitto perduto”, Ed. Geodia, 2017
  • Luigi Montobbio, “Giovanni Battista Belzoni: la vita i viaggi le scoperte”, Edizioni Martello, 1984.
  • Gianluigi Peretti, “Belzoni: viaggi, imprese, scoperte e vita”, Padova, Edizioni GB, 2002
  • Gardiner Alan, “La civiltà egizia” – Oxford University Press 1961 (Einaudi, Torino 1997
  • Alberto Siliotti, “Viaggi in Egitto e in Nubia”, Geodia Edizioni Internazionali, 1999 Tiziana Giuliani, “2 marzo 1818: Giovanni Belzoni entra nella piramide di Chefren”, Mediterraneo Antico, (Web)
  • Peter Jànosi, “Le piramidi” – (Trad. M. Cupellaro), Ed. Il Mulino, 2006
  • Corinna Rossi, “Piramidi”, Ed. White Star, 2005
  • John Porter Brown, “The Derwishes, or Oriental Spiritualism”, Londra, 1868
  • Henry Corbin, “Storia della filosofia islamica”, Milano, Adelphi, 1989)

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