Vita quotidiana

L’EGITTO CRIMINALE

Di Livio Secco

Ieri, 30 gennaio, ho svolto la sesta lezione del Corso di Egittologia, anno V, nell’ambito delle attività dell’UniTre di Torino. La stessa conferenza la terrò venerdì 3 febbraio all’UniTre di Fossano nel contesto dal X Corso di Egittologia.

La lezione aveva per titolo: “L’EGITTO CRIMINALE – Processi, sentenze e pene in epoca ramesside”.

La ricerca proposta vuole documentare il funzionamento della macchina giudiziaria nell’antico Egitto dettagliando le metodologie delle sentenze, delle pene capitali e delle punizioni corporali che venivano inflitte a coloro che si macchiavano di reati e delitti.

REPERIMENTO DELLE DOCUMENTAZIONI

Parlare di criminalità nell’antico Egitto è piuttosto difficile perché non esistono delle documentazioni originali precise e dettagliate che specificano il fenomeno e i mezzi predisposti dallo Stato egizio per contrastarlo.

È vero che ci sono ostraka che riportano sentenze di tribunali, transazioni commerciali e lasciti testamentari, come ad esempio a Deir el Medina, ma sono documenti episodici legati ad un preciso contesto.

In realtà noi non siamo in grado di precisare in che modo si sviluppò la criminalità come fenomeno destabilizzante nella società egizia. Intuiamo, da rilievi e papiri, che esisteva un corpo di polizia ma non possiamo stabilire come ne fosse strutturato l’organico, qual erano i compiti istituzionali a cui era preposto e soprattutto in quali contesti operava e come agiva.

I TRIBUNALI SENTENZIAVANO MA, NORMALMENTE, NON GIUSTIZIAVANO

I tribunali svolgevano una funzione inquisitiva e di accertamento degli eventi in modo da riconoscere se gli indagati erano colpevoli oppure innocenti delle accuse a loro mosse. Svolto questo compito spesso il tribunale si fermava e la procedura passava di mano.

Se i giudici avevano sentenziato una pena capitale per gli accusati, la trascrizione del processo e del verdetto venivano sottoposte ad un’autorità superiore per un giudizio finale e la definizione ultima della punizione.

In linea di massima gli Egizi riconoscevano i reati divisi in due grandi categorie: quelli contro lo Stato e quelli contro altri individui.

METODI DI ESECUZIONE.

La lezione esamina, facendo riferimenti a documenti repertati, le diverse tipologie di esecuzione capitale.

Un metodo usato fino al periodo tolemaico è l’impalamento.

Non è mai stata documentata l’impiccagione che sembra non essere mai stata applicata nell’antico Egitto.

Un altro sistema era l’annegamento che, come sua importante variante, prevedeva che il condannato fosse sbranato dai coccodrilli.

Piuttosto raro nella documentazione è il rogo.

Per quanto riguarda invece le personalità di alto e altissimo rango, il Papiro Giudiziario di Torino ci dimostra che ad esse, una volta condannate a morte, era concesso il suicidio, considerato molto meno infamante.

GRADI DI COLPA

Una considerazione decisamente moderna dell’antica giustizia egizia è quelle che essa prevedeva diversi gradi di colpa a seconda che i giudici avessero compreso l’intenzionalità o meno dell’indagato nel compiere il suo delitto.

Ci sono casi documentati in cui la pena è ridotta o addirittura del tutto esclusa se il reato era stato commesso senza nessuna intenzione o colpa.

PRIGIONI E LUOGHI DETENTIVI

Nell’antico Egitto è documentata l’esistenza di prigioni, ma non è mai stato provato che la prigione fosse sanzionata come punizione da un tribunale.

La detenzione serviva piuttosto per trattenere i sospetti prima e durante il processo ed anche fino a quando la loro pensa non era stata eseguita.

Nei papiri riguardanti i furti nelle tombe ci sono molte persone che furono incarcerate durante la ricerca di prove relative alle rapine nei sepolcri. Terminata l’indagine, comunicata la sentenza ed eseguita la pena la prigione cessava di avere il suo scopo. La detenzione era esclusivamente un passaggio temporaneo del sistema giudiziario egizio.

IL DESTINO DELLE ANCELLE

La condizione femminile in Egitto è sempre stata decisamente più paritetica rispetto alle altre civiltà (compresa la nostra che riteniamo moderna ma che si deve dotare del Ministro delle Pari Opportunità e inventarsi idiozie inefficienti come le “Quota Rosa”).

Questa parità di importanza della donna è documentata dal fatto che, contrariamente alla nostra, non esisteva nella legislazione egizia una normativa che tutelasse la donna per il semplice fatto che non ce n’era bisogno.

La donna egizia poteva divorziare (più spesso subiva il divorzio) rientrando in possesso della propria dote e di un terzo della ricchezza acquisita in comune con il marito.

In caso di vedovanza non tornava alla famiglia d’origine e si gestiva da sola i figli e il patrimonio familiare.

Detto questo è evidente che, d’altra parte, non aveva agevolazioni in caso di problematiche penali. Era ascoltata come testimone e indagata come sospetta di reati. In caso di colpevolezza subiva certamente la stessa sorte di un condannato maschile.

Quello che qui esemplifico è la sentenza, a margine del processo contro i cospiratori di Ramesse III, a carico delle ancelle della regina secondaria Tiyy.
Ella, madre di Pentaur, figlio carnale di Ramesse III, cospirò con molti altri nobili importanti e di primo piano per il regicidio affinché sul trono salisse il figlio.
Il regicidio fu consumato ma sul trono salì Ramesse IV che organizzò la repressione.
La regina non poteva contattare i cospiratori esterni all’harem regale in prima persona perché i suoi movimenti non sarebbero passati inosservati.
Come agenti di collegamento pensò bene di usare le proprie ancelle che avevano, evidentemente, maggiore libertà di spostamento.
Nel testo non è dettagliato il supplizio, ma è indubbio che fu di tipo capitale. Normalmente si procedeva per impalamento.

Il tutto è documentato dal celeberrimo PAPIRO GIUDIZIARIO di Torino, una delle voci più importanti per chi si interessa della macchina giudiziaria egizia.

Come al solito, per chi non conosce la scrittura geroglifica, ho aggiunto la codifica IPA per agevolarne la pronuncia.

Per chi fosse interessato all’argomento non mi resta che consigliare la lettura di l’EGITTO CRIMINALE (QdE45) – Processi, sentenze e pene in epoca ramesside che trovate qui: https://ilmiolibro.kataweb.it/…/624175/legitto-criminale/

Vita quotidiana

LE ACCONCIATURE NELL’ANTICO EGITTO

A cura del Docente Livio Secco

Le acconciature nell’antico Egitto sono spesso interessate dalla manifattura di parrucche che differenziano caratteristicamente il genere maschile da quello femminile ma anche lo stato sociale.

Soprattutto tra il popolo non potevano essere diffuse perché il loro costo di produzione, ed anche la loro manutenzione, non erano indifferenti.

Quindi il popolano si acconciava con i suoi capelli naturali.

Per approfondire, (QdE49): CON LA SABBIA TRA I CAPELLI – LE ACCONCIATURE NELL’ANTICO EGITTO https://ilmiolibro.kataweb.it/…/con-la-sabbia-tra-i…/

C’è da chiedersi quanto tutto ciò influiva sulla manifattura delle corone soprattutto da parte delle popolazioni straniere che gli Egizi sottomettevano.

Per spiegarmi meglio vi mostro una diapositiva della mia conferenza ALLA TESTA DEL RE – LE CORONE NELL’ANTICO EGITTO che è diventato anche un testo della collana Quaderni di Egittologia e che, per approfondire, trovate qui (QdE22): https://ilmiolibro.kataweb.it/…/623283/alla-testa-del-re/

A sinistra potete vedere un’acconciatura Tutsi (Abatutsi in kirundi ed in kinyarwanda, impropriamente noti anche come Vatussi o Watussi).

A destra, sono sicurissimo che abbiate riconosciuto Ramesse II, allo statuario del Museo Egizio di Torino.

Al di là di pure ipotesi, non esistono prove archeologiche e storiche che si tratti di influenza, e neanche in che direzione l’influenza potrebbe essersi sviluppata. Nonostante ciò la curiosità della situazione resta davvero grande.

A proposito di corone: quante corone sono state repertate fino ad oggi e custodite nei musei mondiali?

Nonostante centinaia di sovrani egizi e centinaia di tipologie di corone egizie, ce ne sono pervenute … zero!

Solo diademi. Cioè la replica metallica del nastro che cingeva i capelli.

Questo cosa ci suggerisce?

Che le corone erano prodotte con materiali deperibili!

Scrittura, Vita quotidiana

I SANDALI DEL RE

A cura del Docente Livio Secco

Gli Egizi, quanto alle calzature, indossavano esclusivamente i sandali che avevano una funzione accessoria tutt’altro che indispensabile.
Pur fabbricando sandali dal periodo predinastico, gli Egizi camminavano perlopiù scalzi, le donne non ne facevano uso e gli uomini li indossavano raramente e solo in occasione di visite a qualcuno.
I nobili avevano un servo incaricato di “portare i sandali” che venivano indossati, curiosamente, solo una volta giunti a destinazione.
Da questa usanza derivava l’incarico di corte, molto prestigioso, di “PORTATORE DEI SANDALI DEL RE” (vedi la tavolozza di Narmer). Nel Medio Regno solo i poveri non possedevano calzature mentre tutti gli altri le avevano a portata di mano anche se le indossavano sempre e solo a destinazione.
Era buona educazione non mostrarsi calzati in presenza di persone di rango più elevato mentre per i cortigiani era un vanto rimanere calzati in presenza del sovrano.
Nel Nuovo Regno l’uso delle calzature si generalizzò.
Esse consistevano in una semplice suola di scorza di palma, di fibre di papiro o, più raramente, di cuoio, alla quale erano attaccati due o tre lacci dello stesso materiale.
A partire dalla XVIII dinastia i sandali potevano essere provvisti di una punta ricurva.

Immagine custodita alla Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi

Le calzature che vi mostro portano raffigurati due nemici dell’Egitto.
Questa rappresentazione ha un notevole significato magico poiché essa è riportata sulla suola e permette al sovrano di calpestare i suoi avversari ad ogni suo passo come è dimostrato dalla didascalia che è scritta accanto alle figure.
Perciò il re, mentre cammina, calpesta magicamente i nemici dell’Egitto rendendoli inoffensivi.

ANALISI


Traduciamo solo un sandalo perché nell’altro l’iscrizione è praticamente illeggibile.
Lettura da destra a sinistra, dall’alto verso il basso.
Ricordo che, per convenzione internazionale (occidentale) le iscrizioni egizie qualunque orientamento abbiano, vanno riportate in orizzontale da sinistra a destra. Questo, ovviamente, per facilitare i lavori didattici per il nostro orientamento di lettura.


TRASLITTERAZIONE
xftyw.k Xr Tbwy.k
PRONUNCIA
[kefetiu.ek ker ʧebui.ek]
TRADUZIONE LETTERALE
nemici tuoi sotto due sandali tuoi
TRADUZIONE COLLOQUIALE
I tuoi nemici sono sotto i tuoi sandali.

.


(Questa è una esercitazione che i miei allievi del Primo Anno di Filologia Egizia sono tenuti a fare).
GUIDA PRATICA ALLA GRAMMATICA EGIZIA (Programma del Primo Anno) https://ilmiolibro.kataweb.it/…/guida-pratica-alla…/


Scrittura, Vita quotidiana

LA NINFEA

A cura del Docente Livio Secco

XXVI Dinastia, Museo del Louvre

In questo rilevo della XXVI Dinastia sono rappresentate due donne intente a preparare un’essenza profumata

Proviamo a leggere il testo che è a didascalia dell’immagine.

Innanzi tutto dobbiamo stabilirne la direzione di lettura.

Sapendo che i geroglifici sono direzionati sempre verso l’inizio della frase e che vanno letti andando loro incontro, possiamo affermare che vadano letti da destra a sinistra.

Una cosa importante è quella di evitare di usare dei segni simmetrici per decidere l’orientamento della scrittura. Infatti, nel nostro caso, ben due segni su cinque sono simmetrici e non ci avrebbero aiutato. Scegliamo, se possibile, raffigurazioni di fauna e umanità.

Quindi da destra a sinistra, dall’alto verso il basso.

Il primo segno, un braccio teso, è il monolittero “a”, si legge [a].

Il secondo segno, una vipera cornuta del deserto, è il monolittero “f”, si legge [f].

Il terzo segno, un chiavistello, è il monolittero “z” oppure “s”, si legge [s].

Il quarto segno, un bacino d’acqua, è il monolittero “S”, si legge [ʃ].

Il quinto segno, un fiore chiuso, è un determinativo e quindi è muto e non si legge.

Riepilogando: af sS

Pronuncia: af seʃ

Traduzione: il torchiare la ninfea.

Le due donne stanno quindi torchiando un sacco contenente dell’olio nel quale sono stati lasciati in infusione molti fiori di ninfea allo scopo di far cedere loro il profumo. Torchiando la miscela le due donne separano l’olio, diventato profumato, dai fiori infusi.

Le voci relative alla ninfea (da “Dizionario egizio-italiano italiano-egizio” di Livio Secco, Kemet Editore)

Le ninfee nilotiche

Trattando l’argomento delle ninfee nilotiche, è innanzitutto doveroso chiarire una secolare confusione terminologica fra ninfea e loto.

Da un punto di vista strettamente botanico, per loto si intende la pianta Nelumbo nucifera Gaertner, della famiglia delle Nelumbonaceae.

Con il termine ninfea si intendono invece le specie del genere Nymphaea appartenenti alla famiglia delle Nymphaeaceae.

Il loto e le ninfee hanno in comune le caratteristiche di essere piante acquatiche e di produrre fiori appariscenti, ma hanno in comune anche termini vernacolari che hanno incrementato la confusione attorno al “complesso del loto”: la ninfea azzurra è chiamata in inglese “blue lotus” (“loto blu”), mentre la ninfea bianca viene chiamata “white lotus” (“loto bianco”).

Quest’ultima è chiamata dai botanici Nymphaea lotus L. E con white lotus i floricultori indicano anche il vero e proprio loto, Nelumbo nucifera.

Come se non fosse sufficiente, il termine loto è un nome con cui vengono popolarmente chiamate diverse altre piante nel Mediterraneo e in Europa, piante o arbusti non acquatici e che nulla hanno a che vedere con il loto asiatico e con le ninfee.

È il caso di considerare anche che, come ulteriore motivo di confusione, sebbene il vero loto sia di origine asiatica e sia giunto in Egitto solo in epoca tarda, i Greci lo osservarono per la prima volta proprio sul Nilo e lo chiamarono loto egizio (o anche fava egizia), un nome che si diffuse presso le successive culture europee latine e medievali.

Nel 1834 l’italiano Cattaneo cercava di apporre chiarimenti sulla confusione che ruota attorno al termine loto (e della confusione che ruota attorno alle ninfee egiziane si lamentava Spanton nel 1917) scrivendo: “Sembra come se i botanici da un lato abbiano ignorato gli archeologi, e questi a loro volta non apprezzino le distinzioni botaniche”.

E in effetti gli archeologi, inclusi gli egittologi, hanno continuato a denominare nei loro scritti le ninfee col nome di loto, una convenzione che continua tuttora. Finché gli studiosi delle diverse discipline continueranno a chiamare loto le ninfee, la confusione persisterà.

Per questo motivo Samorini propone una nuova sistematizzazione terminologica, che può risultare utile nel campi dell’archeologia, della filologia e più in generale degli studi classici, e dell’etnobotanica. Samorini utilizza il termine loto in un senso strettamente botanico, cioè per “loto”, o meglio “loto asiatico” intende unicamente la Nelumbo nucifera, e chiama Nymphaea caerulea unicamente con il nome di “ninfea azzurra” e Nymphaea lotus col il nome di “ninfea bianca” (Samorini, 2012-13, 2016).

Durante i periodi dinastici, lungo il Nilo erano presenti due specie di ninfee, la ninfea azzurra e la ninfea bianca.

Riguardo il loto asiatico, come detto fu introdotta dall’Asia probabilmente in seguito alla conquista persiana dell’Egitto del VI secolo a.C. (Keimer, 1948).

Oggigiorno la ninfea azzurra è quasi scomparsa sul Nilo, ma durante i periodi dinastici era diffusa dal Delta alla Nubia (Koemoth, 1997).

La ninfea bianca e la ninfea azzurra erano i due fiori più frequentemente coltivati sul Nilo, con l’impiego anche di appositi stagni creati artificialmente (Germer, 1985).

Sintetizzando: i termini esposti nei dizionari, soprattutto vecchi, sono sorpassati dagli studiosi moderni come il SAMORINI.

Posso accettare la denominazione di GIGLIO D’ACQUA dando per sottinteso che si parli di NINFEA.

Il termine LOTO invece no. Non è storico. Non esiste nessun loto egizio fino all’epoca persiana.

Papiri, Vita quotidiana

PAPIRO: la parola

Di Giuseppe Esposito

«Papyrum ergo nascitur in palustribus Aegypti»

«…il papiro nasce nelle paludi dell’Egitto o in pozze lasciate dal Nilo, dopo l’inondazione, profonde non più di due cubiti. La radice ha lo spessore di un braccio ed è obliqua, il fusto ha sezione triangolare e non ha altezza maggiore di dieci cubiti; è assottigliato verso l’alto con un’infiorescenza, a mo’ di tirso[1], che non offre alcun seme e che può al massimo essere usata per ricavarne corone per gli Dei.»

Così, intorno al 77 a.C., descrive la pianta di papiro (cyperus papyrus) Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Historia”[2], ma il primo a usare la parola “pàpyros”, almeno 300 anni prima, deve indicarsi in Teofrasto, nella sua “Historia plantarum[3]. In realtà, Teofrasto indica con tale nome il papiro come alimento, mentre, volendo indicare le fibre della pianta che, intrecciate, consentono di realizzare ceste, cordami, e supporti per la scrittura, usa il termine “biblos”. Del resto, gli stessi egizi erano soliti distinguere con “twfy” la pianta nella sua accezione edibile, mentre “dt” indicava il papiro inteso come supporto da scrittura. Per il solito, onnipresente, Erodoto il papiro, inteso come supporto scrittorio, era “biblion[4]” e solo nel IV secolo a.C., con Teofrasto, si passò, come sopra visto, al termine “pàpyros”.

Quanto al termine “biblos”, o “biblion”, questo deriverebbe dalla città fenicia Gùbla, chiamata dai greci, appunto, “Byblos”, principale porto da cui partiva il papiro egizio destinato ai paesi dell’area egea.

Nella Bibbia, infine, il termine usato per indicare il papiro era “game”.

Isidoro di Siviglia, nel VII secolo scrive che

«il papiro è stato chiamato così perché ottimo per accendere il fuoco…in greco, infatti, fuoco si dice “pyr”…» [5].

A solo titolo di curiosità, si può aggiungere che il termine accadico per la parte edibile del papiro era “niaru”, mentre il rotolo di supporto scrittorio era “kerkè”. La stessa parola greca “pàpyros”, infine, si ritiene derivi, comunque, dall’egiziano e, più precisamente, dal copto boharico[6]papouro” con il significato di “quello del re”.

E potremmo ancora continuare sull’etimologia della parola papiro e sulle sue continue trasformazioni, nel corso della storia dei supporti di scrittura[7], fino a giungere a più fogli di papiro, incollati tra loro, a formare “volumen”, ovvero rotoli, avvolti sugli “umbilici”, gli ombelichi. Per avere un vero e proprio “libro”, per come lo intendiamo noi, ovvero una serie di “pagine”, di uguale dimensione, rilegate assieme e racchiuse da una copertina, si dovrà attendere la fine del primo secolo, o gli inizi del secondo; è in questo periodo, infatti, che il papiro verrà soppiantato dalla pergamena, molto più costosa, ma meno soggetta a variazioni dovute al clima e producibile dappertutto. …per la carta? Dovranno passare altri 10 secoli giacché il suo uso corrente entrerà in vigore solo dal XIII secolo.

Un’ultima notazione riguarda l’uso del papiro in ambito arabo. Dopo la conquista araba dell’Egitto, nel VII secolo, si continuò a usare il papiro e tale uso proseguì fino al XV secolo[8].     

Il supporto scrittorio

Come sopra abbiamo anticipato, con la descrizione di Plinio il Vecchio, la pianta di papiro ha stelo a forma triangolare e ancora a lui dobbiamo rifarci per avere una descrizione delle tecniche di lavorazione ancora oggetto, tuttavia, di approfondimenti. Scrive l’Ammiraglio[9]:

«…per ottenere il foglio di papiro, si divide la pianta con una lama sottile (Plinio usa il termine “ago”) in strisce sottilissime, ma il più larghe possibili. La qualità migliore è quella ricavata dal centro della pianta, poi, via via, le altre… la varietà dedicata ai testi sacri era chiamata “hieratica” ma, più tardi, per semplice piaggeria, le venne imposto il nome di “Augustea” mentre quella di seconda qualità, dal nome di sua moglie, venne detta “Liviana” fu così che la varietà ieratica passò dal primo al terzo posto per qualità. Veniva quindi la carta “amphitheatrica”, dal luogo di sua produzione…»

Qui Plinio, per quanto riguarda quest’ultimo tipo, aggiunge una nota di colore informandoci che, a Roma, un tale Fannus assunse l’appalto della sua realizzazione e fornitura; con procedimenti particolari Fannus riuscì a rendere della mediocre carta “dell’anfiteatro”, in carta di prima scelta, così sottile e di qualità da imporle il suo nome. Per sottolineare la qualità della carta di “Fanniana”, Plinio specifica che ogni altra carta “amphiteathrica”, non trattata con il procedimento brevettato dall’intraprendente commerciante, continuò a chiamarsi con il suo nome originale.

Abbiamo perciò visto che il papiro veniva realizzato con strisce di pianta e che. maggiore era la vicinanza al centro dello stelo, maggiore era anche la qualità: Augustea, Liviana, Amphitheatrica (Fanniana), ma la qualità dei papiri egizi non si fermava qui. Esistevano, infatti, anche:

«…la “saitica”, dal nome della città in cui abbonda maggiormente il papiro (Sais), fatta con materiale di qualità molto inferiore, e ancora la “teneòtica” così chiamata da una località vicina (Tanis)… e questa carta viene venduta a peso, e non in base alla qualità…»

E ancora non è finita, giacché la più scadente delle carte ricavate dal papiro era la “emporética”:

«…non usabile per scrivere, ma solo per avvolgere le altre carte di maggiore qualità o per impacchettare mercanzie, e questo è il motivo per cui il nome si rifà a quello degli empori…»

Sin qui gli strati di stelo utilizzabili, sia pure in differente qualità, per produrre papiro; resta lo strato più esterno che Plinio sottolinea non essere utile neppure per produrre cordami «…a meno che questi non debbano lavorare in acqua… ».

Si passa, poi, alla preparazione dei fogli di papiro:

«[10] Tutto il papiro si prepara su una tavola umida di acqua del Nilo in cui il limo fa da collante. Si distendono le strisce verticalmente sulla tavola… poi si dispone sopra un altro strato di strisce, in senso ortogonale alle prime. Si pressa il tutto e si fa quindi asciugare al sole e si uniscono l’uno all’altro… un rotolo non ne contiene mai più di venti… le diverse qualità variano in larghezza: 13 dita le migliori (Augustea e Liviana), due di meno la “hieratica”, dieci dita la “fanniana”, nove la “amphitheatrica”, meno ancora la “saitica”… quanto all’“emporética”, è più larga di sei dita. Si tiene altresì conto dello spessore, della consistenza, della bianchezza e della levigatezza…»  

Interessante è, inoltre, una precisazione di carattere davvero pratico riguardante un altro Imperatore, Claudio. Questi, infatti, notò che una carta troppo sottile (Augustea, o Liviana) lasciava trasparire il testo scritto sulla parte a ciò destinata e, per i testi scritti su ambo i lati, che tale trasparire rendeva talvolta illeggibile il testo,

«…perciò, per lo strato base vennero impiegate strisce di minor qualità e di miglior qualità per lo strato superiore. (Claudio) Ne aumentò, inoltre, la larghezza fino a un piede… la carta “Claudia” venne perciò preferita alle altre; quella di Augusto venne riservata alla corrispondenza…».

La minuziosa descrizione di Plinio, peraltro suffragata anche da altri autori, tra cui il botanico arabo Abu al-Abbas a-Nabati[11], ha tuttavia suscitato, tra gli studiosi, diatribe ancora oggi in corso che, a una esattezza di base del procedimento, contrappongono la perfetta qualità dei papiri archeologicamente rinvenuti più antichi, facendo infine notare che le descrizioni degli autori più recenti fanno di certo riferimento a realizzazione di papiri del periodo ellenistico, e che il botanico arabo, molto verosimilmente, si rifece proprio al testo di Plinio.

L’analisi dei papiri più antichi, ed esperimenti realizzati negli anni ‘80/’90 del secolo scorso, hanno consentito di ipotizzare che il fusto del papiro venisse effettivamente tagliato in strisce sottilissime che venivano affiancate e leggermente sovrapposte; a questo primo strato ne veniva sovrapposto un secondo perpendicolare che aderiva al precedente grazie a sostanze collose proprie della pianta, o anche usando collanti a base di miglio. Si procedeva, quindi, alla battitura mediante un bastone per ottenere una superficie il più possibile priva di dislivelli; si passava poi all’asciugatura al sole e alla levigatura, probabilmente con un lisciatoio in avorio o una conchiglia. Per evitare che il foglio, con il tempo, ingiallisse, s’inserivano, in fase di realizzazione, sostanze saline e, per evitare che fosse attaccato da parassiti o insetti, se ne spalmava la superficie con una soluzione di resine gommose, oppure oleose, dal forte odore repellente. L’ultima operazione consisteva in un trattamento a base di albume d’uovo, gomma arabica e amido, che fissava le fibre superficiali ed evitava che l’inchiostro usato per scrivere si espandesse. I fogli rettangolari che se ne ricavavano erano detti “shedefu” in egiziano, e “kòllema” in greco.

Ne consegue che anche la distinzione tra le varie qualità di papiro[12] risale al periodo in cui Plinio scrive, ovvero al I secolo; alcuni secoli dopo, una ripartizione più o meno simile è dovuta a Isidoro di Siviglia[13]; questi omette, però, la “Claudiana” e aggiunge la “Corneliana” derivata dal nome del Prefetto dell’Egitto Cornelio Gallo e sostituisce la “Liviana” con la “Lybiana” (semplice errore di copiatura?). 

Quanto all’archeologia, il papiro più antico, non scritto, risale al terzo millennio a.C. e venne rinvenuto nella tomba 3035 di Saqqara, intestata ad Hemaka[14], Ufficiale di confine, tesoriere del re del Basso Egitto; quello invece scritto più antico che si conosca costituisce, di fatto, libri contabili redatti durante il regno del re Neferirkhara Kakai[15], V dinastia.

Un discorso a parte meritano, benché non connessi in senso stretto all’egittologia, i “Papiri Ercolanensi”.

Come noto, Ercolano venne distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. e, per oltre un millennio, quasi si perse il ricordo della città stessa. A metà del ‘700, re Carlo III di Borbone[16] iniziò campagne di scavo delle due città vesuviane e, nel 1750, accidentalmente, durante lo scavo di un pozzo, si pervenne alla scoperta di quella che verrà poi chiamata “Villa dei Papiri”, in origine molto probabilmente appartenente a Lucio Calpurnio Pisone Cesonino[17]. Durante gli scavi svolti inizialmente mediante cunicoli, stante anche lo spessore della tefra, pari a 20-30 m, venne alla luce una biblioteca contenente quasi duemila rotoli papiracei[18] carbonizzati. La carbonizzazione era avvenuta, tuttavia, in tempi brevissimi e in ambiente già privo di ossigeno, talché i delicati papiri erano comunque intatti. Per trattarli, oltre i danni che vennero causati dai primi pionieristici tentativi di studiosi dell’epoca, venne chiamato da Roma, ove svolgeva incarichi presso la Biblioteca Vaticana, Padre Antonio Piaggio[19] «…un genio potente e speculativo… di onesta famiglia… ed educato ben per tempo agli studi classici…», come lo descrisse il suo biografo, padre Giovan Battista Cereseto. Fu così che padre Piaggio inventò una macchina, che da lui prese il nome, per “svolgere” i papiri carbonizzati che verrà poi impiegata fino alla metà del XX secolo.   

La “macchina di Piaggio” per srotolare i “Papiri Ercolanensi”

Il primo papiro pubblicato in Europa, in assoluto, si deve al Card. Stefano Borgia[20]; si tratta della cosiddetta Charta Borgiana[21], un semplice elenco di nomi di operai che lavorarono alla realizzazione di un canale idrico a Tebtynis[22] tra il 192 e il 193 d.C. Il suo valore sta principalmente nell’essere considerato il primo mai letto in Europa e, per tale motivo, lo si indica come data di nascita della “papirologia”.

…Non solo per scrivere…

Parafrasando una vecchia frase riferita al maiale, di cui come noto non si butta niente, direi che questa ben si attaglia anche al Papiro. Già più sopra abbiamo infatti letto che Teofrasto[23], nella sua Historia Plantarum, specifica che «…gli abitanti della zona adoperano le radici non solo per arderlo, come legname, ma anche per ricavarne utensili…  con la pianta, inoltre, realizzano imbarcazioni… vele, stuoie, vesti, materassi e cordame…», inoltre, come una sorta di antesignano del chewing gum, «…usano masticarla, cruda o cotta, ingoiandone solo il succo…»[24].

In effetti, evidenze archeologiche hanno consentito di appurare che, di papiro erano fatti sandali, ceste, stuoie, vele, stoppini da lucerna, e che il papiro veniva usato anche  in ambito medico per la cura degli occhi[25] e, con valore apotropaico, per al protezione della madre e del bambino[26].

Ma anche nei riti funerari il papiro trova la sua collocazione; fin dal I millennio a.C., infatti, di cartonnage erano i sarcofagi antropoidi di minor valore. Tale materiale era, originariamente, costituito da gesso e tela, ma dal III secolo a.C., in luogo della più costosa tela, si cominciò ad impiegare carta di papiro già utilizzato e proveniente da scuole, veccie biblioteche, case private e archivi dismessi o depredati. Veniva realizzata, in sostanza, una sorta di cartapesta costituita da strati di papiri macerati e incollati; tale usanza, peraltro, grazie all’intuizione, nel 1825, del francese Jean Letronne[27] ha consentito di recuperare, “sfogliando” alcuni elementi in cartonnage, testi scritti tra i vai strati; originariamente i risultati furono alquanto deludenti e di scarsa utilità, ma i progressi fatti nello specifico settore, anche con l’uso di metodologie all’avanguardia, come la Tomografia Computerizzata, hanno consentito di leggere testi altrimenti persi.   

I materiali scrittori

Fin qui abbiamo trattato del supporto scrittorio costituito dal papiro, ma per scrivere manca ancora un elemento: lo strumento che consente di farlo, ovvero il materiale scrittorio.

Il geroglifico che indica il papiro, e lo scriba, appare di per se già esaustivo se lo si sa interpretare nei suoi elementi essenziali: un rettangolo con due cerchi, rappresentano la tavoletta dello scriba con le due cavità destinate a contenere i due colori essenziali per la scrittura, il nero e il rosso; ma la tavoletta è unita, per il tramite di uno strano legaccio, a quella che sembra essere un’ampolla. Si tratta, nel primo caso, del laccio che, passando dietro al testa e sulle spalle dello scriba, faceva pendere la tavoletta con gli “inchiostri” su un lato del petto, mentre dall’altra parte, quasi un contrappeso, si trovava un’ampolla, forse in terracotta, o forse un semplice sacchetto  in cuoio, destinato a contenere verosimilmente l’acqua da utilizzarsi per diluire i pigmenti colorati. Un quarto elemento, affiancato all’ampolla, sembra un bastoncino terminante con una sorta d’infiorescenza o di spatola: si tratta di un astuccio, destinato a contenere i calami, ovvero le penne, dotato di un lisciatoio, forse per cancellare eventuali errori.

I calami erano realizzati in giunco, tagliando, obliquamente, circa 20 cm di stelo dello spessore di circa 2 cm. L’estremità veniva quindi masticata per renderla più simile a un pennello e la forma, obliqua, consentiva di avere un tratto sottile o più largo, a seconda della necessità.

Lo “Scriba rosso”, Museo del Louvre, risalente, forse alla IV/V dinastia. Il personaggio rappresentato è, forse, Pehernefer. Vista la posizione delle mani, si ritiene che tenesse, tra le dita della mano destra, un calamo.

Gli “inchiostri” usati dagli scribi egizi erano di vari colori ed è interessante notare che nelle due “vaschette” sopra indicate e riportate nel geroglifico relativo allo scriba, si trovavano specialmente il nero, per il testo normale, e il rosso che veniva usato in special modo per evidenziare parti di testo e, per eventuali correzioni. I colori principalmente adoperati nell’Antico Egitto[28] erano:

  • nero: ricavato dalla combustione del legno;
  • rosso: ocra con piccola quantità di ematite (per un rosso ocra); oppure, per ottenere un rosso più brillante, solfuro di arsenico;
  • blu: (blu egizio) silice, rame e calcio; durante la XVIII dinastia è attestato anche l’uso di cobalto;
  • marrone: ossido di ferro oppure ocra;
  • verde: malachite (raramente), oppure metasilicato di calce (wollastonite);
  • grigio: gesso e carbone;
  • giallo: ocra gialla, e materiali contenenti ferro come la goethite (ruggine) e la lemonite;
  • arancio: misto di rosso e giallo;
  • rosa: ocra rossa e gesso bianco;
  • bianco: carbonato di calcio o solfato di calcio.

Un’ultima curiosità, a proposito del papiro, riguarda l’Italia e, precisamente Siracusa e la fonte Aretusa[29] del fiume Ciane. Si tratta di una fonte di acqua dolce che sgorga nell’isola di Ortigia, nella parte più antica della città, alimentata nel sottosuolo dal fiume Ciane. Qui si trova l’unico papireto d’Europa; i botanici dibattono se possa trattarsi di una pianta autoctona o d’importazione, certo è che sono noti rapporti diplomatici tra Gerone II di Siracusa[30] e Tolomeo II “Filadelfo”[31]; non è quindi da escludersi che il papiro sia giunto a Siracusa come dono del sovrano egizio.

La fonte Aretusa in una foto storica di Carlo Brogi[32]

I papiri della fonte Aretusa oggi (2019)

Roma, 27 ottobre 2022                                                    


[1]    Tirso: In botanica, termine impreciso e attualmente pressoché desueto, che indica una infiorescenza semplice o composta, racemosa o cimosa, d’aspetto ovoide (definizione da Enciclopedia “Treccani”).

[2]    Plinio il Vecchio (23-79): “Naturalis Historia”, XIII, 71.

[3]    Teofrasto (371-287 a.C.): “Historia plantarum”, IV, § VIII, 2; VI, § III, 1-2.

[4]    Erodoto (484-425 a.C.): “Ἱστορίαι” (Historíai), II, 92, 5; V, 58, 3.

[5]   Isidoro di Siviglia (560-636): “Etymologiarum sive Originum libri XX”, XVII, § XI, 96.

[6]    Copto boharico, detto anche “dialetto menfitico” o “copto del Basso Egitto” che, a far data dal IV secolo, si parlava nelle aree costiere di Alessandria, il che è confermato dalla derivazione araba del termine “al-bohuaria”, ovvero “mare”. Soppiantato nell’VIII secolo dall’arabo, con la conquista islamica dell’Egitto, permane tuttavia ancora oggi nella liturgia della Chiesa ortodossa copta. 

[7]    Carlo Pastena, “Storia dei materiali scrittori e delle forme del libro”, Vol. 1, Regione Sicilia, Assessorato ai Beni Culturali e dell’dentità siciliana, 2019.

[8]    Carlo Pastena, Opera citata, vol. 1, 4. A oggi, sono noti oltre quindicimila papiri arabi: il più antico risale all’anno 22 dell’Egira (643 d.C.), il più recente, al 780 dell’Egira (1378.).

[9]    Plinio il Vecchio, Opera citata, XIII, 74.

[10] Plinio il Vecchio, Opera citata, XIII, 77.

[11]   Ahmad bin Muhammad bin Mufarrai bin Ani al-Khalil, noto anche come Ibn al-Rumiya (“figlio della donna romana” poiché di etnia greco-bizantina) o al-Ashshab (116-1239), botanico, farmacista, teologo arabo nato in Al-Andalus (la Spagna islamica).

[12] Claudia; Augustea; Liviana; Hieratica; Amphitheatrica; Fanniana; Saitica; Teneòtica; Emporética.

[13] Isidoro di Siviglia, Opera citata, VI, X, 2-5. Tipi citati: Augustea; Lybiana; Hieratica; Tenèotica; Saitica; Corneliana; Empòretica:

[14] Per il numero di oggetti rinvenuti recanti il cartiglio del re Den (sigilli di giare di vino,  etichette in avorio, modello di falce, sigillo di Den su una sacca in pelle, tre vasi globulari), la tomba 3035 di Saqqara è stata anche identificata come cenotafio di tale sovrano della I Dinastia (~3000 a.C.), la cui tomba principale sarebbe, invece, ad Abydos.

[15] Neferirkhara Kakai Hor Userkhau, V dinastia (~2480 a.C.), fratello e successore del re Sahura. La “Pietra di Palermo” (lista dei re stilata proprio durante la V dinastia) gli assegna un regno di forse 10 anni (cinque censimenti del bestiame che venivano eseguiti ogni due anni); Manetone nella sua “Aegyptiaca” gli assegna, invece, un regno di venti anni.

[16]  Carlo I di Borbone, re di Napoli dal 1734 al 1759, quindi re di Sicilia, come Carlo III dal 1735 al 1759 re di Sicilia, e infine re di Spagna, come Carlo III di Spagna, dal 1759 al 1788, anno della sua morte.

[17] Lucio Calpurnio Pisone Cesonino (105/101 – 43 a.C.), suocero di Giulio Cesare.

[18] Il primo papiro venne rinvenuto il 19 ottobre 1752, l’ultimo il 25 agosto 1754.Un primo inventario indica in 1814 il numero di papiri, e di frammenti, rinvenuti. A oggi (1986) il numero è di 1826bdi cui oltre 300 quasi completi e quasi 1.000 danneggiati, ma in buona parte leggibili. Si tratta, principalmente, di trattati di filosofia epicurea, specie del filosofo Filodemo di Gadara (110-35 a.C.).  

[19] Antonio Piaggio, appartenente all’ordine degli Scolopi (1713-1796).

[20] Stefano Borgia (1731-1804) Cardinale, storico, numismatico e bibliofilo; a diciannove anni entrò a far parte dell’Accademia Etrusca di Cortona e, dopo svariati incarichi pontifici, nel 1770 divenne Segretario della Propaganda Fide il che gli permise, data anche la responsabilità delle missioni estere, di acquisire notevoli reperti archeologici.

[21] “Charta Papyracea Grecae scripta” Musei Borgiani Velitris, 1788

[22] Tebtynis, oggi Tell Umm el-Braygat, nel governatorato del Fayyum, Città del Basso Egitto (140 km circa dal Cairo) fondata, intorno al 1800 a.C., dal re Amenemhat III, della XII dinastia. Centro economico e religioso particolarmente importante durante il periodo Tolemaico e fino al periodo Bizantino. Nel Medio Evo, con il nome di Touton, divenne uno dei principali centri copia di manoscritti copti.

[23] Teofrasto, Opera citata, IV, § VIII, 2.

[24] Da questa usanza deriva il termine “papyrophagòi”, ovvero “mangiatori di papiro”, assegnato agli egizi dai greci.

[25] Papiro Ebers.

[26] Papiro di Berlino 3017.

[27] Antoine Jean Latronne (1787-1848), archeologo e numismatico.

[28] Carlo Pastena, Opera citata, vol. 2, 18, che cita uno studio del British Museum.

[29] Aretusa, personaggio mitologico, naiade, figlia di Nereo e Doride. Alfeo, figlio del titano Oceano, se ne innamorò, ma la ninfa fuggì nell’isola di Ortigia dove Artemide la trasformò in fonte. A sua volta, Alfeo, persa l’amata chiese e ottenne, da Zeus, di essere trasformato in fiume consentendogli, così, di attraversare, nel sottosuolo, il Mar Ionio e ricongiungersi alla fonte.

[30] Gerone II di Siracusa [Ἱέρων] (308-215 a.C., in carica dal 269 a.C. alla morte), stratego dell’esercito siracusano dal 275 al 270 a.C. e basileus, ovvero re, di Sicilia dal 269.

[31] Tolomeo II “Filadelfo” [Πτολεμαῖος Φιλάδελφος ] (308-246 a.C., faraone dal 282 alla morte), successe al padre Tolomeo I “Sotere”, fondatore della dinastia tolemaica, o dei Lagidi.

[32] Carlo Brogi (1850-1925), fotografo italiano, figlio di Giacomo (1822-1881), fotografo a sua volta, fondatore delle “Edizioni Brogi Firenze”, attive in campo fotografico fino al 1950.

Vita quotidiana

L’OSTRAKON DELLE ASSENZE DAL LAVORO

Di Patrizia Burlini

Dal British Museum un ostrakon con risvolti simpatici.

Si tratta di un registro di presenza risalente a 3270 anni fa e riporta le ragioni per cui alcuni operai non si presentarono al lavoro.

Risalente al 40mo anno del regno di Ramses II, rappresenta il registro di presenza per 280 gg all’anno. 40 nomi sono elencati assieme ad una data, mentre in rosso sono indicati i motivi dell’assenza. Eccone alcuni divertenti

🍺 stava spillando la birra

🦂 é stato punto da uno scorpione

👁 infiammazione all’occhio

✏ é andato a prendere la pietra per lo scriba

🚪 stava rinforzando la porta

🏗️ si stava costruendo la casa

Ostracon con registro delle presenze al lavoro. Tebe , Egitto, 1250 BC.

Calcare, XIX Dinastia

Inv EA5634 – British Museum Londra

Fonte:

https://www.britishmuseum.org/collection/object/Y_EA5634

Vita quotidiana

IL POLLO NELL’ANTICO EGITTO

A cura di Franca Loi

Nel 1913 Peters era dell’avviso che né l’antico Egitto né l’Egitto dei Tolomei ebbero la fortuna di conoscere il pollo. Coltherd, nel 1965, raccoglieva in un esauriente articolo tutto ciò che nel frattempo l’archeologia era andata lentamente raggranellando, offrendo un panorama meno lacunoso di quello di Peters.

Senz’altro lungo la valle del Nilo i polli si stanziarono definitivamente sotto l’influenza greca e persiana. La loro presenza in Egitto e a Creta molti secoli prima di quest’influsso, fu solo espressione di un commercio di creature esotiche e non di un allevamento locale. Lowe fissò la sua attenzione su un sigillo in steatite di Creta, datato 1500 aC, in cui è chiaramente rappresentato un gallo domestico.

Creta – il cui centro attualmente più popoloso è Iráklion, che i Veneziani nel XIII sec. italianizzarono dall’arabo in Candia – è un’isola dalla felice posizione geografica: infatti sbarrando a sud il Mare Egeo, era tappa obbligata delle principali rotte commerciali mediterranee. Ciò favorì senza dubbio le sue relazioni con aree culturalmente più progredite, contribuendo fin da età antichissima al sorgere di una raffinata civiltà che, nella sua fase finale, molto influì anche sull’affinamento culturale dei suoi conquistatori provenienti dal continente greco. Nel 3° millennio aC, come ha chiarito la moderna ricerca archeologica, Creta era già un’importante potenza marittima, interessata ai mercati egiziani ed egeo-anatolici attraverso una fitta rete di traffici commerciali.

In Egitto è stata rinvenuta un’evidente e sicura raffigurazione di pollo in un graffito eseguito su blocchi di pietra di un tempio a Medamoud – presso Tebe, 1840 aC – i quali recano il nome di Sesostri III (1878-1840 aC), della XII dinastia. Ciò è reso oltretutto plausibile dal fatto che intorno al 1850 aC l’Egitto era collegato alla Mesopotamia e all’India da importanti scambi di import-export.

A questo documento di Medamoud segue un periodo di silenzio, fino all’emergere del genio militare di Tutmosi III (1490-1436 aC) della XVIII dinastia, che allargò i confini dell’Egitto sino all’Eufrate e giù fino alla quarta cateratta del Nilo (deserto di Nubia in Sudan – lat 18° 49’ N – long 32° 10’ E).

La spiegazione di un così lungo silenzio può essere facilmente ricondotta all’invasione dell’Egitto da parte degli Hyksos con interruzione dei normali scambi commerciali. Tutmosi III riceveva un’infinita quantità di tributi da tutti i Paesi sottomessi nonché da alcuni Paesi al di fuori della sua portata, come Assiria e Babilonia.

Negli Annali Reali incisi sulla pietra delle mura del Grande Tempio di Karnak, nella sezione che racconta il passaggio dell’Eufrate da parte delle truppe egiziane, sta scritta una frase, incompleta e ricostruita dagli specialisti, che dice:

quattro uccelli di questa terra; essi [depongono] ogni giorno“.

Dagli Annali Reali del Grande tempio di Karnak: 4 uccelli di questa terra; essi … ogni giorno.
(da The domestic fowl in ancient Egypt – J.B. Coltherd, Ibis 108, 1966)

Sfortunatamente manca il resto della frase, dalla quale sarebbe possibile sapere quale fosse la patria d’origine degli uccelli. Ma gli studiosi sono dell’avviso che si trovasse fra Siria e Babilonia: Arapha (Kirkuk) a est del Tigri.

E non lontano da Arapha sono stati rinvenuti sigilli provenienti da Mohenjo-Daro e da Harappa, e di converso oggetti sumerici sono stati trovati nella Valle dell’Indo. Tutto ciò depone per i già citati scambi commerciali che si svolgevano preferibilmente via mare – ma anche via terra seppure più pericolosi – fra Valle dell’Indo e Mesopotamia, dai quali hanno tratto profitto un po’ tutti i popoli occidentali.

Di maggiore importanza sono tre documenti pittorici, tutti sicuramente datati e raffiguranti un pollo senza dubbio alcuno: la testa di un gallo domestico in un murale della tomba di Rekhmara – Tebe, 1450 aC – ministro di Tutmosi III. Il murale, rapidamente deterioratosi, raffigurava una processione di 50 persone appartenenti a razze diverse che recavano al Faraone un tributo costituito da scimmie, leoni, leopardi, giraffe e antilopi, e tra tutti questi animali si trovava l’immagine dorata della testa di un gallo. Secondo Crawford la sua cresta è del tipo a pisello in un soggetto eterozigote e i tratti della faccia sono molto simili a quelli degli attuali ceppi Asiatici.

Raffigurazione del pollo nell’antico Egitto
Sx: Testa di gallo domestico della tomba di Rekhmara a Tebe (1450 aC)
Dx: Gallo domestico dipinto su òstrakon della tomba di Tutankamen (1338 aC)

Crawford afferma giustamente che, se questa sua interpretazione è corretta, allora la mutazione cresta a pisello deve essere parecchio antica, e che le caratteristiche degli Asiatici debbono essersi sviluppate ben presto, molto presto, appena dopo l’addomesticamento del Gallo della giungla. Ecco le sue precise parole:

«If this interpretation is correct, then the pea comb mutation must be a very ancient one, and Asiatic breed characteristics must have developed soon after domestication of junglefowl.» (Poultry Breeding and Genetics, pag. 12)

Questo punto di vista di Crawford non fa altro che rincuorare coloro che stanno bivaccando in parete, in attesa che si verifichi il tanto sospirato disgelo del mondo scientifico il quale, un giorno o l’altro, si deciderà ad ammettere l’origine polifiletica delle nostre razze domestiche.

L’altro dipinto è anch’esso un gallo domestico su òstrakon proveniente dalla tomba di Tutankamen, e forse contemporaneo al funerale del Faraone avvenuto nel 1338 aC, molto somigliante al Gallus gallus; il terzo reperto consiste in una coppa d’argento del regno di Seti II (1200-1194 aC) con incisa la figura di un gallo domestico del tutto simile a quello dell’ostrakon.

L’ostracon della tomba di Tutankhamon (1338 a.C.)
Particolare della coppa d’argento del regno di Seti II (1200-1194 aC)
rinvenuta a Tell Basta – circa 80 km a NE del Cairo

Gli esperti sono dell’avviso che la scena è ambientata ai margini del deserto: il gallo – con le caratteristiche fenotipiche del Gallus gallus – sta in piedi presso una palma ed è in compagnia di due suoi pulciotti che si trovano alle sue spalle, ma uno solo è visibile nella foto.

Gli esperti sono dell’avviso che la scena è ambientata ai margini del deserto: il gallo – con le caratteristiche fenotipiche del Gallus gallus – sta in piedi presso una palma ed è in compagnia di due suoi pulciotti che si trovano alle sue spalle, ma uno solo è visibile nella foto.

I cinque secoli che separano la morte di Seti II dalla XXVI dinastia dei Saiti – iniziata nel 663 aC – furono gravati da un declino politico e commerciale e, per la mancanza di tracce di pollo in questo lasso di tempo, si può supporre che l’allevamento non si svolse in modo regolare. Tutti i reperti archeologici che abbiamo appena citato possono attualmente essere interpretati come dovuti a scambi di prodotti commerciali esotici.

Non v’è dubbio che polli del Sudest Asiatico e del Subcontinente Indiano, sia domestici che selvatici, facessero parte integrante degli scambi commerciali con l’area mediterranea. Quando l’Egitto conobbe il declino politico e la recessione economica, per l’arco di cinque secoli non lasciò tracce di polli, che solo nel 600 aC riapparvero negli scritti e nei dipinti giunti sino a noi.

Quando verso la fine del 1200 aC gli Ebrei guidati da Mosè lasciarono l’Egitto per la Terra Promessa, gli Egizi avevano polli addomesticati, in parte rappresentati da combattenti, mentre i figli d’Israele durante la peregrinazione nel deserto e anche più tardi non li possedevano, come non possedevano api.

È interessante approfondire un brano della storia egizia ed ebraica: Il primo re egiziano che la Bibbia chiama col suo nome è Sheshonq I della XXII dinastia – seconda metà del X secolo aC – quando: “Nel quinto anno del regno di Roboamo [intorno al 925 aC], Shishaq [= Sesac = Sheshonq I], re d’Egitto, salì a Gerusalemme, prese i tesori della casa di Jahvè e i tesori del palazzo del re: prese tutto. Prese tutti gli scudi d’oro che Salomone aveva fatti.” (I Re, 14: 25-26)Fu una vittoria molto lucrativa, tant’è che per quasi due secoli l’Egitto visse col bottino della Palestina. A partire dal secolo VIII aC, di fronte alla minaccia ogni giorno crescente dei re d’Assiria e di Babilonia, i re di Giuda e d’Israele si rivolgono all’Egitto e pongono la loro fiducia nei Faraoni. Ma anche la stabilità politica ed economica dell’Egitto vacilla e non è possibile ai Faraoni offrire sufficiente protezione ai popoli simpatizzanti. Intervengono Shabaka e Taharqa a fondare, intorno al 700 aC, la XXV dinastia (secondo altri studiosi fondata da Piankhi) e a risollevare temporaneamente le sorti della nazione. Si pensa che fu Taharqa a favorire l’avicoltura, che si trasformò in fonte di reddito nazionale. A questo periodo risalgono i famosi megaincubatoi.

Raffigurazione di gallo domestico su papiro del periodo Tolemaico
databile intorno al III secolo aC.
Le caratteristiche fenotipiche di questo gallo rispecchiano ancora quelle del Gallus gallus dei reperti di un millennio prima, per cui si può presumere che nel III sec. aC in Egitto non fosse ancora presente qualche strano e accattivante fenotipo, come il collo nudo, capace di attrarre l’attenzione e l’estro dei disegnatori. Salvo che qualche nuovo reperto archeologico smentisca presto o tardi questa ipotesi. 

Coltherd è più dell’avviso che i primi veri tentativi di un allevamento intensivo del pollo nella Valle del Nilo vadano datati ai tempi dei Saiti (quando Sais, situata sul ramo di Rosetta del Delta del Nilo, fu capitale del regno dal 663 al 525 aC durante la XXVI dinastia, detta appunto saita o saitica) o, più probabilmente, che vadano datati ai tempi dei Tolomei. Gli stretti legami tra Grecia ed Egitto durante la XXVI dinastia (663-525) rendono in parte ragione della frequenza del gallo nell’arte del delta del Nilo.

Un piccolo sigillo in diaspro del VII secolo aC proveniente da Tharros, nel golfo di Oristano, porta incise due figure di uomini in abbigliamento egiziano, con una pianta di loto e un gallo; il gallo fu il soggetto favorito dagli artisti in terrecotte sia Greci che Fenici operanti nella zona del Delta intorno al 500 aC.

Fonte:

SUMMA Gallicana Volume 1-VIII.2.3.

Abiti, Vita quotidiana

I SANDALI DEI CORREDI FUNERARI

A cura di Luisa Bovitutti

Visto che avete apprezzato i sandali delle tre spose di Tuthmosis III proposti da Grazia, ecco qui altri esemplari analoghi, trovati ai piedi di mummie eccellenti; essi riproducono quelli effettivamente utilizzati nella vita di tutti i giorni ed erano realizzati perché il defunto potesse averli nell’aldilà.

Questi che vedete erano riservati ad un sovrano, perché avevano la punta girata in su, e più precisamente quelli con il fiocchetto appartennero a Tutankhamon, quelli con la tomaia che copre il collo del piede a Psusennes I della XXI dinastia, i più semplici a Shoshenk II della XXII dinastia.

Si trovano tutti al Cairo

FONTI:

Abiti, Vita quotidiana

LE CALZATURE

A cura di Grazia Musso

Le calzature avevano per gli egizi un significato speciale.

Il materiale di cui erano fatte le calzature indicava la ricchezza del proprietario.

I sandali erano conosciuti già dall’Antico Regno, ma vennero usati soprattutto a partire dal Nuovo Regno.

Il disegno era semplice, con la pianta piana più una lista che usciva tra le dita e altre due collocate attorno alla caviglia.la maggior parte delle persone fabbrica a da sé le proprie calzature.

I sandali degli alti funzionari erano fatti di cuoio, la suola aveva due liste che uscivano dalla caviglia e si univa o sul collo del piede con un’altra che passava tra le dita.

I sandali di cuoio sono documentati già dall’antica Regno, ma solo per gente agiata, poiché non era un materiale comune.

Le rive del Nilo erano ricche di giunchi e di piante che costituivano la base della fabbricazione dei mobili e delle calzature.

Le persone meno abbienti fabbricavano i propri sandali con liste fatte di papiro e di paglia: partendo da strisce intrecciate e da giunchi realizzavano le calzature.

Nel corredo funerario di ogni egizio erano presenti vesti e calzature.

I faraoni, nel loro corredo funerario, avevano sandali d’oro, che erano rituali, e di cuoio, con i nove archi dipinti sulla suola come simbolo di potere.

A partire dal Periodo Tolemaico per il defunto venivano raffigurati sandali dorati ai piedi del sarcofago.

Fonte: EGITTO, cibo e vestiti – De Agostini – pag 45