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IL TEMPO CHE FU

Raccolta di immagini antiche a cura di Enzo Marchese

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I RITRATTI DEL FAYYUM

A cura di Luisa Bovitutti

Nell’area del Fayyum, un’oasi a circa 130 km dal Cairo, sono state rinvenute moltissime mummie risalenti ad un periodo compreso tra il I secolo a.C. ed il III secolo d.C. che recavano sul volto ritratti simili; i dipinti, realizzati su tavole lignee a tempera o ad encausto, cioè con pigmenti colorati amalgamati a cera d’api, sono fortemente realistici e si staccano nettamente dalla tradizione egizia, la cui arte era molto convenzionale.

Fin dall’età tolemaica la regione era popolata principalmente da coloni greci, soprattutto veterani di guerra e ufficiali, e da egizi ellenizzati, ivi trasferitisi per lavorare le terre, e i volti riprodotti sui ritratti sono quelli dei discendenti di questi uomini, che sposarono donne egizie e adottarono sia le abitudini locali (la mummificazione) che quelle greco-romane (il realismo della pittura).

I defunti raffigurati avevano un’età media di 35 anni (l’aspettativa di vita era intorno ai 40 – 45 anni) ed appartenevano ad una classe sociale elevata, in quanto non tutte le famiglie potevano permettersi il costo di tali ritratti, oggi esposti nei maggiori musei del mondo, tra i quali il Museo egizio del Cairo, il British Museum, il Royal Museum of Scotland, il Metropolitan Museum of Art di New York, il Louvre di Parigi, la Pinacoteca di Brera di Milano, il Landesmuseum Württemberg di Stoccarda.

Sono dei piccoli capolavori, di una vividezza incredibile.

I RITRATTI DEL FAYYUM: ANTE MORTEM O POST MORTEM?
UN INTERESSANTE INTERROGATIVO

Alcuni studiosi come Flinders Petrie e Klaus Parlasca hanno sostenuto che probabilmente i ritratti venivano eseguiti quando i modelli erano ancora in vita (quindi ante mortem), e restavano esposti nelle case fino a quando non veniva il momento di inserirli tra le bende della mummia del proprietario, dopo averli ritagliati nella misura adatta.

Per questo la maggior parte di essi raffigurano soggetti nel pieno del vigore fisico, mentre l’analisi delle relative mummie ha permesso di accertare che il defunto era molto più anziano al momento della morte, intervenuta magari diversi anni dopo la loro realizzazione: un caso eclatante è quello di Demetrios, che morì a 89 anni – un vero record per l’epoca -, così come emerge da un’iscrizione e dall’analisi dei suoi resti, mentre il ritratto lo mostra come un uomo di mezza età (figura in alto a destra – Brooklin Museum New York).

Altri invece, muovendo dalla considerazione che in moltissimi altri casi le indagini condotte attraverso la Tac sulle mummie hanno dimostrato che la loro età anagrafica corrisponde con quella apparente dei ritratti, ritengono che essi avessero una funzione esclusivamente funeraria e quindi che venissero dipinti dopo la morte della persona effigiata, copiandone i tratti dal vero.

Albert Jean Gayet in particolare ipotizza che venissero acquistati al bisogno presso pittori o mercanti che disponevano di immagini standard, che venivano poi adattate mediante l’aggiunta di abbigliamento, gioielli, capigliature per renderle somiglianti al defunto.

Peraltro, sebbene esistano ritratti dalla stessa provenienza geografica accomunati da identica forma del viso (ci si riferisce alla celebre “serie degli ufficiali”, così detti perchè i ritratti raffigurano soldati con il gladio a tracolla, rinvenuti nella necropoli di er-Rubayat, due dei quali vedete nelle fotografie a sinistra – Windsor, Eton College – ed al centro a destra – Berlino, Neues Museum) ve ne sono altri che evidenziano tratti unici e fortemente realistici, tanto che rappresentano i segni dell’età e della malattia, come nel caso della donna definita l’”ebrea” (figura in basso a destra – Berlino, Altes Museum); inoltre molti di essi sono stati dipinti direttamente sulle bende della mummia, e dovevano evidentemente essere stati realizzati poco dopo il decesso.

Dallo studio dei papiri, inoltre, si desume che il funerale delle classi agiate dell’Egitto romano prevedeva che un’effigie del defunto venisse portata in processione prima che il corpo venisse consegnato agli imbalsamatori (in una tomba ne sono state rinvenute tre raffiguranti il medesimo soggetto), ed essa, evidentemente predisposta per l’occasione, poteva ben essere la medesima che poi veniva posta sul volto della mummia; è poi difficile immaginare che i ritratti dei bambini siano stati realizzati in previsione della morte e non in occasione di essa.

Allo stato non vi sono elementi che consentano di propendere con decisione per l’una o per l’altra ipotesi; sommessamente osservo, da non specialista, che le due modalità potevano benissimo convivere….

I RITRATTI DEL FAYYUM ERANO SOMIGLIANTI AL DEFUNTO?

Abbiamo visto che i ritratti funerari sono molto individualizzati e pur avendo in molti casi una matrice di base analoga, forse imposta da convenzioni artistiche dell’epoca, è probabile che in molti casi fossero piuttosto somiglianti al loro modello, quanto meno quelli dipinti in epoca vicina alla morte dai pittori più bravi.

Il team guidato dal prof. Andreas Nerlich, ricercatore presso l’Istituto di Patologia di Monaco Klinik Bogenhausen, ha realizzato un esperimento molto originale, ricostruendo il volto di una mummia proveniente da Hawara al fine di confrontarlo con il suo ritratto funerario.

Il corpicino, lungo 78 cm e largo 26 cm, apparteneva ad un bimbo tra i tre ed i quattro anni (età desunta da denti ed ossa), probabilmente deceduto per polmonite, ed il suo ritratto, molto particolare, mostra un infante con capelli ricci e scuri trattenuti da un cerchietto costituito pare da strisce di pelle ritorte, un viso ovale, grandi occhi marroni, naso dritto e sottile e bocca piccola con labbra carnose.

Gli studiosi hanno scansionato il cranio della mummia ed hanno incaricato un artista specializzato in ricostruzioni facciali di realizzare un’immagine virtuale e tridimensionale del viso sulla base dei dati biometrici.

Per evitare che l’artista fosse condizionato nel suo lavoro dalla visione del ritratto, esso non gli è stato mostrato e gli sono stati fornite solo le informazioni in ordine all’acconciatura ed al colore dei capelli e degli occhi, che non poteva desumere dalle scansioni.

FOTOGRAFIE: © Nerlich AG, et al. PLOS One (2020)

Il risultato, come si può vedere dalle immagini, è stato notevole: il volto ricostruito ed il ritratto presentano una buona somiglianza, soprattutto nella forma del viso e del mento; inoltre sono identici con riguardo a certe proporzioni, soprattutto tra la fronte e la linea degli occhi, anche se il bambino del ritratto appare leggermente più grande dell’età attribuita alla mummia, forse perché naso e bocca sono stati disegnati più stretti rispetto alla ricostruzione.

LA CORONA DI GIUSTIFICAZIONE

Abbiamo visto che molti tra i defunti effigiati nei ritratti del Fayyum portano una corona realizzata in foglia d’oro. Essa è conosciuta come “la corona di giustificazione” e simboleggiava il positivo superamento del giudizio di Osiride da parte del defunto e quindi il trionfo sulla morte che precludeva alla vita eterna nell’Aldilà.

Tale interpretazione deriva dal capitolo 19 del libro dei morti, dove si legge:

CAPITOLO XIX Formula della Corona di Giustificazione A dirsi dall’Osiride NOME DEL DEFUNTO.

Tuo padre Atum ha disposto questa bella corona di giustificazione sulla tua fronte, che gli dei amano, affinché tu viva in eterno. Osiride, residente nell’Amenti, ti rende giustificato contro i tuoi avversari. Tuo padre Geb ti ha trasmesso tutta la sua eredità. Che vi sia esaltazione per te, giustificato, Horo figlio di Iside e di Osiride sul trono di tuo padre Ra, mediante la sconfitta dei tuoi avversari! Atum ti ha decretato le Due Terre. Atum ha decretato ciò e la Compagnia degli dei ti ha confermato il bel talismano di giustificazione della parola di Horo, figlio di Iside e di Osiride, per l’eternità. L’Osiride NOME DEL DEFUNTO è giustificato per l’eternità! (…) questo giorno in cui è reso giustificato contro Set e i suoi alleati alla presenza dei grandi Divini Giudici che sono in Helipolis la Notte della Battaglia e della sconfitta dei malvagi, innanzi ai grandi Divini Giudici di Abydos, la notte in cui è reso giustificato Osiride contro i suoi avversari (…) Horo ha ripetuto questa proclamazione quattro volte e tutti i suoi avversari cadono e sono rovesciati e sgozzati. [ Se ] ripete l’Osiride NOME DEL DEFUNTO giustificato questa proclamazione quattro volte, tutti i suoi nemici cadranno, saranno rovesciati e sgozzati. Horo figlio di Iside e di Osiride le ha ripetute milioni di volte e tutti i suoi nemici sono caduti, rovesciati e sgozzati. La loro dimora è trasferita ai ceppi di tortura dell’oriente. E` tagliata la loro testa, mozzato il loro collo, tagliate le cosce ed essi sono stati dati al Grande Annichilatore che dimora nella Valle delle Tenebre, affinché essi non sfuggano alla sorveglianza di Geb per sempre. RUBRICA Questa formula deve essere detta sopra una corona consacrata che deve essere posta sulla testa dell’uomo. Tu devi mettere l’incenso sul fuoco per l’Osiride NOME DEL DEFUNTO, e gli sarà dato di essere giustificato contro i suoi nemici morti o viventi e sarà tra i seguaci di Osiride e gli saranno dati cibi e bevande alla presenza di questo Dio. Tu la pronuncerai al mattino due volte: essa è invero di grande protezione per infinite volte.

L PITTORE DI MALIBU

Gli studiosi hanno esaminato i molti ritratti del Fayyum ed in base alle loro caratteristiche di stile li hanno attribuiti a vari artisti che operarono nella zona nei primi tre secoli dopo Cristo.

In particolare hanno ipotizzato che durante il I ed il II secolo ad Hawara, ove aveva sede la necropoli della città di Arsinoe, esistesse un’importante scuola di ritrattisti, alla quale apparteneva l’autore del ritratto proposto da Ossama Boshra e Patrizia Burlini (a sinistra), oggi al Cairo, che appartiene a Demos, così come si evince da un’iscrizione sulla mummia.

Egli è noto con il nome di PITTORE DI MALIBU, ed è ritenuto esecutore anche del ritratto che vedete a destra, custodito proprio a Malibu, al Museo Paul Getty, accomunato dalla resa di alcuni dettagli anatomici, soprattutto naso e bocca.

I due ritratti, entrambi ad encausto su legno, sono riferibili al tardo periodo flavio (100 d. C.), così come si rileva dalle identiche acconciature delle due matrone.

L PITTORE DI BROOKLIN E LA SIMBOLOGIA DEL VINO E DELLA ROSA

Il Pittore di Brooklin, che lavorò a Er-Rubayat verso la metà del IV secolo d. C., aveva uno stile “naif” caratteristico riconoscibile in diversi dipinti, uno dei quali si trova al museo di Brooklin a New York (a sinistra) ed un altro al Getty Museum di Malibu (a destra); molti altri, tuttavia, presentano caratteristiche analoghe e suggeriscono l’esistenza di una scuola di ritrattisti che a lui faceva capo, come ad esempio il terzo (in basso, anch’esso a Brooklin).

I personaggi ritratti tengono nella mano destra una coppa che contiene del vino e nella sinistra una ghirlanda di rose.

Gli egizi riconoscevano un legame tra il colore rosso del vino e il sangue di Osiride, di conseguenza esso simboleggiava la rigenerazione e la rinascita e veniva utilizzato per le offerte nei templi.

Analogo significato hanno assunto gli elementi vegetali fin dalle epoche più antiche, e le ghirlande di frutti e di fiori sono sempre state associate alla fertilità, al rinnovamento ed alla prosperità; particolare significato aveva la rosa, allegoria dell’immortalità o del passaggio da una vita all’altra e sacra ad Iside (tant’è che nell’area mediterranea talvolta la dea veniva rappresentata con questo fiore), il cui culto rifiorì in epoca greco romana anche oltre le frontiere egizie.

Nel mese di maggio i romani celebravano le feste chiamate “rosàlia”, in occasione delle quali ponevano rose sulle tombe come offerta agli dei Mani, ossia alle anime dei defunti destinatarie di un devoto culto domestico.

IL PITTORE “A”

L’acconciatura delle matrone induce a ritenere che egli abbia lavorato in un’epoca comprendente il tardo adrianeo e il primo periodo antonino (30 – 140 d. C.).

Questo artista è probabilmente autore anche del ritratto di uomo oggi a Digione (Fausto Coppi…. ricordate? – a sinistra), e di un altro, femminile esposto al Louvre, entrambi da noi già pubblicati (a destra), esposto al Louvre. Oltre alla generale somiglianza fisica dei soggetti raffigurati, la mano dell’artista si nota nella resa della bocca e degli occhi, posti a diversi livelli e, aggiungo io, nelle orecchie insolitamente grandi.

IL PITTORE DI ST. LOUIS

Il pittore di St. Louis lavorò a Er-Rubayat (o a Philadelpheia) attorno al 300 d.C.; egli aveva uno stile ingenuo come quello del suo collega Pittore di Brooklin, ma le sue opere si caratterizzano per l’ombreggiatura ottenuta a tratteggio che enfatizza gli zigomi ed il collo, per la particolare forma delle labbra e per il naso lungo dei soggetti ritratti.

Questi segni distintivi sono particolarmente evidenti sul ritratto a tempera ora al St. Louis Art Museum (a sinistra in alto) e sul ritratto di una donna custodito al Fogg Art Museum di Harvard (a destra in alto), attribuibile quanto meno ad uno dei suoi allievi.
Ho trovato anche quelli in basso (a sinistra che si trova nella Collezione archeologica dell’università di Zurigo, al centro custodito al British Museum di Londra, a destra esposto a Leida) che a mio sommesso parere presentano analogie davvero significative.

FONTI:

Antico Regno, Immagini, Mastaba

LE OCHE DI MEYDUM

Di Ivo Prezioso

Provenienza: Meydum, mastaba di Nefermaat e Atet (o Itet). Inizi IV Dinastia databile all’incirca al 2600 a.C. Calcare dipinto. Altezza: cm. 27 Lunghezza cm. 172. Ubicazione attuale: Museo Egizio del Cairo.

Il sito da cui proviene il dipinto è ubicato presso la necropoli, risalente alla III Dinastia, a Nord della piramide di Meydum che oggi si presenta in una forma particolarissima dal momento che è stata interessata da crolli e sfruttamento coma cava. Il nucleo interno di questo monumento ci ha rivelato una struttura che è un’ottima testimonianza del passaggio dalla piramide a gradoni a quella propriamente detta.La grande mastaba in oggetto, è appartenuta a Nefermaat e a sua moglie Atet. Le iscrizioni ci informano che egli fu “Sacerdote di Min”, Profeta di Bastet e Shesmetet”, visir e “primogenito del re Snefru”. Nefermaat, dichiara di aver inventato un metodo di pittura “che nessuno può cancellare”. In sostanza, si incidevano i contorni delle figure nella parete calcarea. Questi venivano riempiti con una resina che avrebbe dovuto assicurare la presa degli impasti di colore. In realtà, gli impasti una volta disseccati, si sono staccati e ciò deve essere avvenuto in breve tempo, dal momento che la tecnica fu ben presto abbandonata. Le celeberrime oche, hanno sempre destato meraviglia per l’equilibrio della composizione, il gioco dei colori e la raffinata cura dei particolari (si osservi il dettaglio del piumaggio).

Si possono distinguere tre generi di questi uccelli: alle estremità, in posa diversa per movimentare la scena, ma perfettamente simmetrica per mantenerne la stabilità, osserviamo due Anser fabalis, centralmente a sinistra una coppia di Anser albifrons, riconoscibili, come suggerisce il nome, per il contorno bianco dove il becco si inserisce nella fronte dell’animale, e infine al centro a destra due Branta ruficollis caratterizzate dalle macchie rosse sul petto e vicino l’occhio.


Ed eccoci alla trattazione dell’ipotesi del prof. Francesco Tiradritti, che nel 2015, pose in dubbio l’autenticità del reperto. Per brevità schematizzo i punti salienti dell’intervista in cui vengono sottolineate quelle che sarebbero le “prove” a sostegno. (Ma chi fosse interessato può facilmente trovare in rete l’intero articolo).

  1. Le oche alle due estremità “Anser fabalis” e le due dal petto rosso “Branta ruficollis” non risultano attestate in altre opere d’arte egizia.
  2. Le oche alle estremità sono più grandi rispetto a quelle centrali.
  3. Le Anser albifrons (quelle con il contorno bianco intorno al becco) e le Branta ruficollis sono specie diffuse a latitudini più elevate.
  4. Il tipo di stesura è possibile solo con l’uso di pennelli moderni.
  5. Albert Daninos nel suo resoconto afferma che il dipinto fu staccato dalla parete dal milanese Luigi Vassalli ma non viene da lui menzionato nei suoi rapporti. Probabilmente, essendo anche pittore, fu lui a dipingerlo o ridipingerlo
  6. In un frammento di intonaco anch’esso proveniente dalla cappella di Atet, compaiono una coppia di geroglifici, un cestino ed un avvoltoio, corrispondenti alle lettere A e K (o G) che sembrerebbero indicare un monogramma. Vassalli aveva sposato in seconde nozze una tale Angiola Gagliati ed ecco che il dipinto potrebbe essere spiegato come un tributo di Vassalli alla sua sposa.

Ora veniamo brevemente a ciò che ci dicono in concreto le fonti disponibili e, per questo, mi avvalgo della trattazione dell’argomento fatta dal prof. Maurizio Damiano nel suo volume Antico Egitto (sezione L’Antico Regno dalla IV alla VI Dinastia) edito da Electa. Allego anche la ricostruzione della decorazione della parete nord dell’ingresso ingresso in mattoni crudi da cui provengono diversi frammenti, tra cui anche le famose oche in oggetto.

La mastaba di Nefermaat e Atet fu documentata nei diari di scavo sin da XIX secolo; prima da Mariette nel 1871 e, successivamente, nel 1891 da Petrie, che la studiarono sul posto. Lo stesso Petrie staccò i dipinti su richiesta di Gaston Maspero nel 1910 e furono portati al Museo del Cairo e in altri Musei. In particolare i frammenti dei musei inglesi e americani sono stati oggetto di serissime analisi che ne confermano la datazione, ove mai ce ne fosse stato bisogno, data la documentazione relativa alla scoperta in situ.

Ora, se osserviamo la ricostruzione dell’intera parete salta immediatamente all’occhio come la scena rappresentata sia perfettamente coerente sia dal punto di vista stilistico, sia da quello artistico, formale e strutturale. Oltretutto è anche visibile uno dei due frammenti conservati al British, da me postati in precedenza, in cui è lampante, nella colorazione e nei dettagli del piumaggio dell’anatra la perfetta analogia con le oche dipinte più in basso. (Consiglio, a tal proposito di visitare la pagina Facebook del prof. Damiano, ove tale ricostruzione è a colori e quindi di più facile e immediata lettura).Quando sono venuto a conoscenza delle ipotesi ventilate circa la falsità di questo prezioso reperto, non nascondo di esserne stato profondamente turbato: hanno esercitato su di me un fascino prepotente e vederne messa in dubbio l’autenticità mi ha dato molto da pensare, pertanto concludo, per quello che possono valere, con le mie impressioni circa le ipotesi di Tiradritti.

  1. Il fatto che le due specie non siano attestate in altre opere d’arte egizia, a mio parere vuol dire ben poco. Non credo sia questo l’unico caso di unicità, né si può escludere che magari in futuro verranno riportate alla luce reperti simili. Del resto è come se si volesse affermare, tanto per fare un esempio, che siccome di Cheope è conosciuta un’unica statuetta alta poco più di un soldo di cacio, si tratti di un falso, oppure che l’esistenza del faraone sia quanto meno da mettere in dubbio.
  2. la differenza di proporzioni delle due oche all’estremità può essere spiegata (come afferma, del resto, lo stesso Tiradritti), con l’intento di dare stabilità e profondità alla composizione, ma anche, aggiungo, semplicemente con il fatto che quella specie avesse delle dimensioni maggiori. Non dimentichiamo che gli egizi erano attentissimi osservatori.
  3. Le due specie al centro potrebbero benissimo non essere più presenti oggi in Egitto, ma al tempo si. Altrimenti le scene di caccia all’ippopotamo, la rappresentazioni di coccodrilli, antilopi, dovrebbero portare alle stesse conclusioni, visto che non sono più presenti.
  4. La stesura possibile solo con pennelli moderni, mi lascia esterrefatto. Gli egizi ci hanno lasciato capolavori, come ad esempio la splendida statua di Chefren lavorata nella durissima diorite, giusto per dirne una, figuriamoci se un pennello poteva costituire un ostacolo insormontabile alla stesura particolare dei colori.
  5. Il fatto che il dipinto sia stato consegnato da Luigi Vassalli contraddice clamorosamente che sia stato staccato da Flinders Petrie, nel 1910. In altra parte dell’articolo rilasciato da Tiradritti, si afferma che il dipinto fu staccato subito dalla parete e, forse, ridipinto dallo stesso Vassalli . Ora, questo “subito” deve essere stato poco dopo la scavo di Mariette, avvenuto come abbiamo detto nel 1871, essendo il Vassalli (che tra l’altro era anche pittore), morto nel 1887. L’incongruenza mi pare fin troppo evidente. E ammesso e non concesso, come sarebbe stato possibile non notare una manipolazione così recente? Oltretutto avrebbe dipinto lui un capolavoro e per quanto mi son sforzato di cercare non ho trovato alcuna opera memorabile a lui ascrivibile.
  6. La dedica alla moglie Angiola Gagliati, poi mi sembra proprio la classica ciliegina sulla torta, che neanche credo sia il caso di essere presa in considerazione.

Sono ben consapevole che potrebbe sembrare presuntuoso contraddire le conclusioni di uno studioso: niente di tutto ciò. Vi assicuro che non ho alcun titolo per arrogarmi un simile onere, ma credo sia legittimo porsi delle domande anche se si è un soltanto un umile e semplice appassionato.

P.S. Un ringraziamento speciale al Prof. Maurizio Damiano, che è già intervenuto gentilmente sulla prima parte del mio post, e mi ha fornito le dritte giuste affinché potessi affrontare con sufficiente serenità un argomento così delicato.

Fonti:

  • Maurizio Damiano , Antico Egitto . 2001 by Electa, Milano Edmond Editori Associati.
  • Per l’intervista al Prof. Tiradritti, Il giornale dell’Arte, ricerca effettuata in rete
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LA MUMMIA URLANTE

A cura di Raffaele Biancolillo

La mummia urlante della principessa Meret Amun, figlia del faraone Seqenenra Tao asceso al trono tra il 1560 a.C. e il 1558 a.C.

Il celebre Zahi Hawass e Sahar Saleem, professore di Radiologia presso la Cairo University, hanno analizzato la “Mummia urlante” tramite radiografie e TAC, ricavando nuovi dati interessanti. Intanto l’età della morte è collocata tra i 50 e i 60 anni; poi è stato evidenziato il metodo di mummificazione che è consistito nell’eviscerazione, la sostituzione degli organi interni con impacchi, resine e spezie profumate e la mancata asportazione del cervello, ancora presente essiccato sul lato destro del cranio.

Ma il risultato più importante riguarda la causa di morte e il conseguente motivo dell’urlo. La donna è forse deceduta sul colpo a causa di un infarto; è stata infatti rilevata una grave forma di aterosclerosi con l’avanzata calcificazione delle pareti delle arterie coronarie destra e sinistra, iliache, del collo, degli arti inferiori e dell’aorta addominale.

La mummificazione sarebbe iniziata quando il corpo era ancora contratto per il rigor mortis. Per questo la donna ha le gambe accavallate e leggermente flesse, la testa reclinata verso destra e la mandibola abbassata.

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GINGER: UN OMICIDIO PREDINASTICO

A cura di Luisa Bovitutti

Ricollegandosi alle sepolture predinastiche, i risultati di un’analisi condotta sulla mummia oggi custodita al British Museum di Londra e chiamata l’uomo di Gebelein (dal deserto sabbioso a circa 30 km da Luxor luogo del ritrovamento) o più affettuosamente Ginger per i suoi capelli rossicci.

Essa risale al periodo Naqada II ed è tra le più antiche mummie egiziane finora conosciute: dalle analisi delle ossa e dei denti è emerso che il cadavere apparteneva ad un uomo morto tra i 18 e i 21 anni; dalla visualizzazione in 3D di femori e tibie che era alto m. 1, 60; dalla TAC che aveva ancora in situ gli organi interni ed il cervello e tracce di cibo nello stomaco.

La TAC ha altresì evidenziato una strana incrinatura sulla scapola sinistra, chiaro indizio che Ginger venne ucciso con una pugnalata alle spalle.

Recenti analisi agli infrarossi hanno permesso di accertare inoltre che la macchia scura visibile sul braccio destro del cadavere è in realtà, l’immagine di un uro (un grande toro selvatico ormai estinto) e di una capra berbera, ricorrenti nell’arte predinastica, tatuati con un ago, tramite il quale il pigmento, probabilmente fuliggine, è stato inserito in profondità nel derma.

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C’ERA UNA VOLTA…

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SEPOLTURA PREDINASTICA

A cura di Grazia Musso

Le prime forme di sepoltura note per l’Egitto antico risalgono alla fase predinastica, quando era consuetudine seppellire i morti in semplici fosse scavate nella sabbia del deserto.

In quell’epoca i corpi non erano ancora sottoposti ai processi di imbalsamazione che si sarebbero sviluppati in seguito per salvaguardare la fisionomia e l’identità del defunto, ma grazie alla natura stessa del terreno e al clima secco i cadaveri andavano incontro a un naturale processo di mummificazione per essiccamento.

Nel museo torinese è stata ricostruita una antica sepoltura di questo tipo con il corpo in posizione rannicchiata, secondo l’usanza dell’epoca, attorniato dal suo semplice corredo funerario.Sin dall’epoca preistorica, infatti, era consuetudine dotare il defunto di cibo e di oggetti di uso quotidiano ritenuti utili per la vita post mortem che secondo il pensiero Egizio, era un’ ideale continuazione dell’esistenza terrena.

L’identità di questo uomo, morto circa cinquemila anni fa, ci è sconosciuta, ma per lui parlano, a distanza di tanto tempo, i poveri oggetti che lo accompagnano: un paio di sandali, alcuni contenitori in fibre vegetali, una sacca di cuoio, una serie di frecce e un boomerang destinati alla caccia.

Al momento della scoperta, sul cadavere vi erano ancora i resti di un “lenzuolo” e di una stuoia in fibre vegetali.

Museo Egizio di Torino( acquisto di È. Schiapparelli)

Fonte : I grandi musei – Il museo Egizio di Torino – Electra.

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LA MUMMIA DI GRANO E LA SIMBOLOGIA DEL SEME

A cura di Luisa Bovitutti

A Wittenburg, nell’estremo nord della Germania, sorge il Museo MehlWelten, dedicato alla storia della farina ed alla simbologia del seme nei miti delle prime civiltà avanzate e delle diverse religioni monoteiste; nel mese di maggio del 2019 è stata inaugurata una nuova sala dedicata alle divinità ed ai riti che fin dagli albori della storia erano destinati a propiziare ricchi raccolti. In questa nuova ala è esposta una rara “mummia di grano” contenuta in un sarcofago osiriforme con la testa di falco del dio Sokar, risalente a 2000 anni orsono e prestata dell’imprenditore austriaco Peter Augendopler, fondatore del museo Paneum di Asten, dedicato ai prodotti da forno, agli strumenti per la loro realizzazione, alle opere d’arte che li rappresentano, ai giocattoli che ad essi si ispirano ed ai libri che ne trattano. La mummia è a base di limo del Nilo, chicchi d’orzo e amido di grano ed il seme (forse orzo, o frumento o farro), posto al centro di un cerchio che poggia sulla zona ombelicale, rappresenta il potere germinativo della vita; gli egizi la usavano come dono funerario capace di risvegliare magicamente l’Anima del defunto.

Fotografie da un articolo di Adriano Forgione

Fonti: https://www.enigmaxnews.com/news/gli-dei-del-grano

Sito del museo: https://mehlwelten.de/

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PIASTRA PER IMBALSAMAZIONE

A cura di Giusi Colledan

Particolare che mostra la metà destra di una placca in foglia d’oro appartenente alla regina Henut-tawy, la madre di re Psusenne I che regnò intorno al 1040-992 ac durante la XXI dinastia del Terzo Periodo Intermedio. Targhe come questa sono chiamate “piastra per imbalsamazione “o “piastra per incisione”.

Venivano posizionati sopra l’incisione per imbalsamazione praticata nell’addome del defunto per estrarre gli organi interni durante il processo di mummificazione. Questo tipo di artefatto è documentato tra il Nuovo Regno e il Periodo Tardo. Il motivo principale è incentrato sul grande “occhio di Horus” protettivo che poggia su uno stendardo divino (in parte mostrato). A destra sono due dei quattro figli di Horus, che erano le personificazioni dei quattro vasi canopi usati per immagazzinare e conservare le viscere del defunto. I due che vediamo qui sono Imsety e Hapy, rispettivamente guardiani del fegato e dei polmoni. Le iscrizioni identificano la regina per nome e titoli. Questo pezzo è ora nel Museo delle Antichità Egizie, Il Cairo,