All’interno della tomba di Tutankhamon sono stati trovati moltissimi archi di due differenti tipologie, ora esposti al museo del Cairo.
Alcuni archi di Tut
Il primo modello è l’arco di legno cosiddetto “semplice”, ottenuto con un’asta priva di giunte e dotato di un’unica curva realizzata con una tecnica di piegatura a caldo, che diventava ancora più accentuata quando veniva teso; l’impugnatura e l’estremità dei flettenti era decorata con lamine d’oro.
Il secondo è l’arco composito “angolare” (cosiddetto per la sua forma), anch’esso in legno di acacia ma dalle migliori prestazioni; esso infatti, pur essendo di dimensioni ridotte ed adatto ad essere utilizzato su di un carro in corsa, aveva grande flessibilità, potenza e precisione.
Archi e frecce di Tutankhamon
Gli archi compositi venivano realizzati secondo una tecnica sviluppata in Mesopotamia ed introdotta in Egitto attorno al XVII secolo a. C., che prevedeva che l’asta di legno venisse rinforzata all’interno con corno per resistere alla compressione ed all’esterno con tendine per sopportare la trazione; le estremità dei flettenti avevano sedi su cui infilare i cappi terminali di una corda fatta con strisce di budello o di lino attorcigliate.
La corda e modalità di ancoraggio all’arco
La forma era simile a quella dei moderni archi ricurvi, ma la venatura del legno e le tracce della corda testimoniano che essi erano concepiti per essere incordati dalla parte opposta, ottenendo un profilo che ricorda la lettera beta.
Ramses III raffigurato a Medinet Habu con l’arco senza corda
L’uso di questo tipo di arco è documentato dai rilievi e dalle pitture egizie dei secoli successivi, in particolare nelle raffigurazioni di Ramses III che combatte i popoli del mare, nel tempio di Medinet Habu.
Ramses II raffigurato ad Abu Simbel, mentre sta scoccando una freccia nel corso della battaglia di Kadesh
LA FARETRA E L’ARCO COMPOSITO “LIMITED EDITION”
Gli egizi usavano l’arco per la caccia e la guerra e a far tempo dalla XVIII dinastia lo trasportavano insieme alle frecce in faretre di legno che potevano essere appese ai carri.
Questa magnifica faretra in legno placcato in oro e l’arco composito raffigurati nelle fotografie provengono dalla tomba di Tutankhamon; la faretra è decorata con scene che lo raffigurano in forma di sfinge ed a caccia con il carro; anche l’arco è finemente decorato e reca i suoi cartigli e il disegno di un piccolo cavallo.
Abbiamo visto nella tomba di Userhat la scena dei soldati in fila davanti al magazzino per ricevere la razione di pane che, in assenza di moneta, costituiva la loro retribuzione insieme ad altri beni di prima necessità; i militari di stanza nelle fortezze nubiane riscuotevano quanto loro dovuto ogni 10 giorni, previa consegna all’addetto di un gettone o di un cono di legno sul quale era inciso l’ammontare del compenso.
Quelli raffigurati nelle immagini risalgono alla XII dinastia, furono trovati nella località di Uronarti, nella Bassa Nubia (ora Sudan), e sono custoditi presso l’MFA di Boston.
Il gettone ha il diametro di cm. 13,1 e reca sul dritto la data di emissione, (anno 23 Amenemhat III), il numero 70 (incisi), un segno djed in orizzontale tracciato in inchiostro nero; sul rovescio ha il segno nefer; non è stata trovata alcuna spiegazione per i tre forellini lungo il diametro, mentre quello più grande serviva probabilmente per poterci infilare un cordino atto ad appenderlo al collo.
Il cono è lungo cm. 22 e pare che anch’esso fosse destinato ad essere appeso dal lato più stretto.
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale anche il Canada utilizzò un analogo sistema per contingentare la vendita della carne: i cittadini potevano acquistare la propria razione solo presentando i buoni ricevuti dall’Amministrazione; ogni buono poteva essere frazionato in otto gettoni come quello azzurro che vedete nella foto qui sotto, in pasta di legno con il foro al centro. Esso è custodito nel piccolo museo canadese “Sam Waller”, sito a Le pas (Manitoba), che espone oggetti strani del recente passato, raccolti nel corso della sua vita dal personaggio dal quale esso prende il nome.
Popolazioni soggette all’Egitto durante la Diciottesima Dinastia:
Queste raffigurazioni compaiono su una parete della tomba di Anen, funzionario di corte nel corso della Diciottesima Dinastia e fratello della regina Tiy.
La pittura murale nella sua interezza raffigura Amenhotep III e la regina Tiy. Sotto di loro vi sono nove prigionieri, che rappresentano i nove paesi nemici controllati dall’Egitto in quel periodo (i Nove Archi):
1. Shasu – Nomadi (beduini) – Levante meridionale
2. Mentju nu Setjet – Nomadi – Isola di Sehel (Setjet), Bassa Nubia
3. Tjehenu – Libici
4. Iuntju – Nomadi nubiani “Arcieri”
5. Keftju (Caphtor) – Minoici; Cretesi
6. Irem – Nubia Superiore
7. Naharin – Mitanni, Siria settentrionale
8. Kush – Nubia Superiore
9. Sangar – Mesopotamia meridionale
I prigionieri portano degli steli di loto e di papiro attorno al collo; il loto dell’alto Egitto per i Nubiani e il papiro del basso Egitto per gli Asiatici e i Libici.
I Nove Archi
Col termine “Nove Archi” ci si riferiva ai nemici tradizionali dell’Egitto presumibilmente sia per il loro utilizzo in battaglia di archi e frecce sia a causa del rituale dello “spezzare gli archi” fisicamente, quale metafora della sconfitta militare e della resa. Designare con questo termine dei nemici ben precisi era una questione di scelta, ma la selezione generalmente includeva Asiatici e Nubiani.
I Nove Archi venivano di solito rappresentati come file di archi (anche se il numero effettivo può variare), ed erano regolarmente utilizzati per decorare elementi d’arredo della dimora reale come poggiapiedi e base del trono, perché il faraone potesse simbolicamente calpestare i suoi nemici sotto i piedi.
Sui monumenti essi appaiono spesso come delle serie di prigionieri in ceppi; sono anche dipinti sulla parte interna delle suole dei sandali di Tutankhamon.
La raffigurazione di nove prigionieri in catene sormontati da uno sciacallo sul sigillo della necropoli della Valle dei Re era evidentemente intesa per proteggere la tomba dalla depredazione degli stranieri ed da altre fonti di male.
Come dettaglio nel mio testo, e come ho già descritto nel post relativo all’interrogatorio degli esploratori ittiti catturati, Ramesse avanzò in territorio nemico distanziando di un itrw [iteru] le quattro divisioni di cui disponeva. In ordine sequenziale erano la Amon (comandata da Ramesse stesso), la Ra, la Ptah e la Seth.
Come si vede dalla prima diapositiva, la distanza di un iteru, cioè 10 km circa, che separava una divisione dall’altra era necessaria perché l’esercito egizio doveva esplorare, marciando, la maggior parte di territorio disponibile, non sapendo la corretta ubicazione del nemico. Contemporaneamente, però, lo spazio era eccessivo qualora una divisione fosse stata attaccata all’improvviso impedendo di essere rapidamente soccorsa dalle altre. Ciò è dimostrato dal fatto che infatti la Ra fu distrutta e la divisione Seth arrivò sul campo di battaglia addirittura il giorno seguente ad eventi compiuti.
In ogni caso, l’attenzione vostra la vorrei focalizzare su come Ramesse si salvò dalla completa disfatta di una battaglia iniziata davvero male con la perdita della Ra sorpresa in ordine di marcia e completamente indifesa e, giocoforza, abbandonata.
Ciò che salvò il faraone fu il corretto studio orografico del territorio con la conseguente perfetta decisione di dove attendare la divisione Amon.
Come si può vedere dalla seconda diapositiva, la migliore ubicazione era esattamente lo spazio tra i due torrenti Nahr es-Sih e Nahr Iskargi avendo alle spalle le paludi formate dall’Oronte. In questo modo l’anello del campo visivo delle sentinelle era notevolmente ampio e permetteva un ampio margine di allarme. Contemporaneamente l’orografia del territorio realizzava una virtuale recinzione dell’accampamento proteggendolo da ogni lato. Ricordo che l’accampamento egizio non era assolutamente un “castrum” romano né tantomeno possedeva le sue qualità di difesa passiva.
Il lato meridionale, in realtà, era aperto ed accessibile per la (ri)concentrazione delle forze egizie e per la movimentazione dell’Amon stessa. È altresì interessante notare che ciò non creava un grave problema in caso di un attacco del nemico che sarebbe risultato concentrato in un unico punto assolutamente prevedibile e facilmente difendibile.
Infatti le cose andarono proprio in questo modo e Ramesse riuscì a salvare sé stesso e una notevole parte del suo esercito.
Nell’ormai lontano 2020 ho pubblicato un articolo su un evento particolare avvenuto poco prima che si svolgesse la battaglia di Qadesh.
L’evento fu così importante che il faraone Ramesse II lo comprese nella sua esposizione grafica e narrativa. Il suo dettaglio ci sorprende ancora oggi per la drammaticità della tortura alla quale furono sottoposti i militari nemici.
Noi qui ripercorriamo rapidamente gli eventi che portarono alla battaglia e poi, filologicamente, analizziamo la didascalia relativa ai due sfortunati esploratori che caddero nelle mani degli Egizi.
Anni fa ebbi già l’idea di fonetizzare la pronuncia italiana per coloro che non conoscono la scrittura geroglifica e quindi non la sanno leggere. All’epoca, diversamente da oggi, non usavo ancora la codifica IPA, ma semplicemente davo le indicazioni colloquiali.
Spero che apprezziate il lavoro ugualmente.
Per coloro che fossero interessati alla narrazione completa della pianificazione e sviluppo della guerra che portò Ramesse alla battaglia di Qadesh do il collegamento per trovare il testo: https://ilmiolibro.kataweb.it/…/storia-e…/624937/qadesh/
Secondo Giacomo Cavillier l’arco semplice egizio è un fusto unico di acacia con i flettenti di 1,50-1,70 metri lavorato a fuoco. La sua gittata massima è 60-70 m in tiro diretto. Il fatto che sia di acacia lo rende abbastanza economico. L’acacia è un albero indigeno e l’Egitto è poverissimo di legno sia normale che pregiato.
L’arco composito è simile nella forma, ma ha una anima lignea lavorata a fuoco e stagionata. All’esterno, sul lato concavo, è ricoperto di tendine animale, all’interno, sul lato convesso, da corno. Il tutto è rivestito da corteccia o legno leggero. L’arco composito, rispetto a quello semplice, è costosissimo. Infatti richiede legni più pregiati d’importazione, una stagionatura decennale e la reperibilità di materie prime animali e vegetali non sempre facili da trovare. Tecnicamente l’arco composito, essendo più potente, ha una gittata di 100-150 m in tiro diretto e fino a 250 m nel tiro curvo.
Le frecce sono costituite da fusti legnosi di particolare leggerezza del diametro di 60 – 70 mm, dotati di alette stabilizzatrici e di punte in selce o in metallo.
Queste ultime sono ottenute per fusione e sagomate: fogliate con codolo, triangolare o rombico con cordonatura per minor resistenza aerea e maggior penetrazione. L’archeologia sperimentale documenta che questi dardi non solo penetrano gli scudi, ma sono in grado, lacerandone le fibre lignee, di divaricarne le parti e quindi di spaccarli.
Nelle immagini: punta di freccia bidimensionale di selce ritrovata nel Fayum, punta tridimensionale in bronzo ritrovata a Kafr Ammar e datata al Terzo Periodo Intermedio, punta di freccia in ferro con codolo lungo ritrovata a Ibrim; disegno di arco semplice monolitico e arco composto con immagine della stratificazione dei materiali (Cavillier).
Il faraone Ramses III, attorno al 1175 a.C. , si trovò a fronteggiare sul Delta del Nilo un tentativo di invasione da parte dei cosiddetti “popoli del mare” .
Un bassorilievo raffigurante la battaglia fu ritrovato nel suo mausoleo a Medinet Habu, Egitto meridionale, di fronte a Luxor sulla sponda opposta del fiume.
E’ raffigurato uno scontro molto cruento e caotico, che ha fornito però molte indicazioni agli studiosi, estrapolando le singole imbarcazioni egizie ed avversarie dal groviglio dei combattenti e dei morti e feriti caduti in acqua.
Riporto qui una immagine (da Nelson 1945) dove togliendo i corpi in acqua dalla cruenta rappresentazione complessiva vista nel post precedente, si possono meglio osservare le imbarcazioni coinvolte, con la lettera E le egizie, con la N quelle dei “popoli del mare”.
Si vede subito che tutte hanno la vela quadra imbrogliata (serrata sul pennone, che ha in tutte la stessa forma arcuata). Le imbarcazioni egizie hanno però i remi in posizione d’ uso; questo ha fatto pensare ad alcuni che la flotta di Ramses III abbia sorpreso gli invasori non pronti al combattimento.
Nell’ingrandimento della imbarcazione N1 degli invasori (da Nelson 1930 ) ho evidenziato a colori alcuni particolari interessanti :
in giallo la vela raccolta sul pennone ed in rosso le manovre. Quest’ultima è una innovazione tecnica importante, comune a tutte le imbarcazioni dei due schieramenti e consente di conferire alla vela quadra la forma migliore a seconda del vento (Vinson 1993) o di raccoglierla sul pennone, senza dover lasciare il ponte di coperta.
Le sole navi degli invasori sono caratterizzate dall’ornamento a prua e poppa a forma di testa di uccello , e dalla struttura in testa d’albero interpretata come una coffa , in azzurro, assolutamente assente nella tradizione egizia.
Come abbiamo visto spesso nei dipinti murali e bassorilievi egizi, i protagonisti della scena sono raffigurati con dimensioni decisamente aumentate rispetto alle navi, che appaiono così piccole “barchette”. In realtà nel 1175 a.C. entrambe le flotte avversarie sono dotate di mezzi navali consistenti. Wachsman ha aggiunto alla sua analisi l’immagine riportata in scala più realistica della nave N3 dei “popoli del mare” .
Parleremo ancora dei “popoli del mare” anche se con cautela, perché molto si è detto e scritto in proposito basandosi più su miti che su prove concrete.
Nel bassorilievo di Medinet Habu abbiamo già visto la particolarissima forma di prua e poppa delle navi degli invasori , con le teste di uccello alle due estremità, entrambe rivolte (in senso opposto fra loro) verso l’esterno dello scafo. E’ una forma assente nella tradizione micenea/egizia/mediterranea-orientale, che invece è collegata all’Europa centrale e alla “Cultura dei campi di urne” con le sue “vogelbarke” le “barche-uccello”. Nel lavoro di Wachsmann del 2013 sono mostrati gli esempi qui riprodotti: A) nord Romania, B) Ungheria, C) Tirinto. Si potrebbe pensare ad una migrazione di popoli del Centro-Europa verso sud a costituire almeno una parte degli invasori.
La constatazione non è certo nuova, vari studiosi hanno parlato di migrazioni . Lo stesso Prof. Maurizio Damiano parla della
“…gigantesca ondata migratoria che intorno al XIV-XIII secolo sconvolse il mondo orientale : interi popoli si spostarono portando con sè famiglie, masserizie e bestiame, occupando le terre sul loro cammino e spingendo gli abitanti ad abbandonarle a loro volta.”
I popoli del mare non sono occasionali predoni associati in bande, ma parte di un fenomeno vasto.
Concludo il discorso sugli invasori raffigurati nello scontro con Ramses III (circa 1175 aC) anche se una vera parola fine sul tema nessuno la può dire fino ad oggi.
Come detto in precedenza una migrazione gigantesca ed invasiva si verifica da Nord verso il Mediterraneo orientale. Arrivano al collasso quasi contemporaneo la Civiltà Micenea , l’Impero Ittita, il regno dei Mitanni fra il 1200 ed il 1170 a.C.
I cosiddetti “popoli del mare” sono una parte del fenomeno e non è escluso che abbiano partecipato alle predazioni lungo le coste anche gli “italiani” aggregandosi in un momento propizio per le scorribande : equipaggi Sardi , Siciliani, qualcuno ha parlato anche di etruschi . Nell’immagine una possibile ricostruzione di una delle aggressive navi. Ricordiamo però che bande di aggressori ben attrezzati e numerosi non possono aver provocato di per sé il collasso della Civiltà del Bronzo nel mediterraneo orientale (fissata convenzionalmente al 1200 a.C.)
Riporto anche lo schema pubblicato da Kaniewski et al. dove si può vedere il progredire delle invasioni (ho solo colorato terra e mare per miglior visione in un post) . La ricerca aveva lo scopo di determinare l’esatta data della caduta di Gibala (in rosso) , ricordiamo che era un importante porto presidiato dagli Ittiti.
Solo il faraone egizio potrà fermare l’ondata minacciosa .
Riferimenti:
Wachsmann, Shelley, “The Ships of the Sea Peoples.” International Journal of Nautical Archaeology 10, no. 3 (1981): 187–220. doi:10.1111/J.1095-9270.1981.TB00030.X.
Nelson, Harold Hayden, 1930, “Medinet Habu” , Vol.I , Oriental Inst. Publ. , University of Chicago Press.
Nelson. Hayden Harold, 1943, “The naval battle pictured at Medinet Habu”. Journal of NearEastern Studies, V. 2, pag. 40-45.
Vinson, Steve. “The Earliest Representations of Brailed Sails.” Journal of the American Research Center in Egypt 30 (1993).
Wachsmann, Shelley. (2013). The Gurob Ship-Cart Model and Its Mediterranean Context. College Station, Texas A&M University Press
Damiano, Maurizio, (1996), Dizionario enciclopedico dell’antico Egitto e delle civiltà nubiane. Mondadori ISBN 9788878136113
Kaniewski D, Van Campo E, Van Lerberghe K, et al. (2011) The Sea Peoples, from Cuneiform Tablets to Carbon Dating. PLOS ONE 6(6): e20232.
“Nel deserto occidentale, a tratti, il vento porta con se’ un suono lugubre. Secondo la leggenda, e’ il lamento dei 50.000 soldati persiani inghiottiti dal nulla 2500 anni fa”.
Il re persiano Cambise II, figlio di Ciro il Grande, nel 525 a. C. sconfisse l’esercito egizio nei pressi di Pelusio, catturò il re Psammetico III che poi si suicidò, si impadronì di Menfi e dilagò fino a Tebe, facendosi proclamare faraone; Erodoto, lo dipinge come un folle, dispotico e crudele, colpevole di aver distrutto numerosi templi, di aver fatto assassinare il fratello e la sorella, di aver massacrato la precedente élite egizia e di aver ucciso il sacro toro Api.
Nella primavera del 524 a.C. Cambise inviò un esercito di circa 50.000 uomini all’oasi di Siwa, sede dell’oracolo di Amon, dove era asserragliata una guarnigione egizia, per conquistarla e distruggerla ed impadronirsi di un ricco ed importante caposaldo del traffico commerciale carovaniero tra l’Africa nera ed il Mediterraneo, nonche’ di quello costiero est-ovest.
Da Tebe, luogo di partenza della spedizione, l’oasi distava 880 chilometri in linea d’aria, da percorrere attraverso il deserto chiamato il Grande Mare di Sabbia, battuto dal violento vento khamsin, secco e terribilmente caldo, che soffia a 150 Km/h, tinge il cielo di un arancio scuro e rende l’aria carica di sabbia; al suo passaggio l’umidità crolla sotto il 5%, la temperatura si innalza sopra i 45 C e si formano slavine mortali di sabbia fine.
Guerrieri persiani appartenenti al corpo d’élite definito degli “Immortali” (rilievo proveniente da Susa)
Dopo sette giorni di viaggio in difficili condizioni l’armata giunse nei pressi dell’oasi di El-Kharga ma da lì se ne perse ogni traccia. Secondo Erodoto, si trovò ad affrontare una violentissima tempesta che si protrasse per molti giorni e che decretò la fine di uomini ed animali, soffocati dalla sabbia, disidratati dal calore e dalla mancanza d’acqua, storditi dalla mancata visibilità ed alla fine sepolti per sempre da una coltre spessa di sabbia che ricopriva il teatro della tragedia.
Da oltre due secoli archeologi, esploratori e geografi cercano resti, notizie e tracce dell’armata scomparsa, ma fino ad oggi non è stato trovato nessun riscontro archeologico definitivo.
Nel 2009 gli archeologi varesini Angelo ed Alfredo Castiglioni hanno pubblicato un documentario che mostra i risultati delle spedizioni effettuate nel deserto alla ricerca dell’esercito di Cambise, che ritenevano non avesse seguito la tradizionale “via delle oasi”, presidiata dagli Egizi, ma che partendo da El Kharga, si fosse diretto verso occidente, all’altopiano roccioso di Gilf El Kebir, passando per il Uadi Abd el Melik, e puntando poi a nord verso Siwa per sorprendere il nemico alle spalle.
Lungo questo tragitto “alternativo” hanno rinvenuto degli alamat (cumuli di pietre per orientarsi), sorgenti oggi prosciugate ed un deposito di centinaia di anfore per l’acqua datate a 2500 anni fa e sepolte nella sabbia, che avrebbero reso possibile una marcia nel deserto; inoltre hanno portato alla luce nei pressi di una caverna abbastanza vicino a Siwa numerose ossa umane e piccoli oggetti di epoca achemenide che potrebbero riferirsi all’Armata perduta (punte di freccia, un pugnale, parte dei finimenti di un cavallo, un orecchino e le perle di una collana).
L’egittologo prof. Olaf Kaper dell’Università di Leida sostiene invece che l’esercito non scomparve ma venne semplicemente sconfitto in battaglia dopo essere caduto in un’imboscata mentre cercava di riconquistare parte del paese che gli Egizi, sotto la guida del nobile Petubasti III, proclamato faraone, avevano sottratto al dominio persiano. Dario I, successore di Cambise, alla fine soffocò nel sangue la rivolta egizia, e per non offuscare la gloria di quest’ultimo attribuì la disfatta dell’esercito ad una calamità naturale.
I reperti si trovano ora presso il Museo Castiglioni di Varese, dal cui sito sono tratte le immagini.
Ramses II combatte contro gli Ittiti sulle rive dell’Oronte, a Qadesh.
Ora benché pregassi nella terra lontana, la mia voce risuonò nel meridione di On.
mi porse la sua mano ed io fui pieno di gioia.
Mi chiamò alle spalle, come fosse vicino:
“Avanti, sono insieme a te,
Io, tuo padre, la mia mano è con te,
prevalgo su centomila uomini,
Io sono il signore della vittoria, amante del valore!”
Ritrovai il mio cuore saldo, il mio petto pieno di gioia,
riuscivo in tutto quello che facevo, ero come Mont.
Scagliavo dardi alla mia destra, aggrappato con la mia sinistra,
ero davanti a loro come Seth nella sua ora cruciale.
Mi accorsi della massa di carri in mezzo alla quale mi trovavo,
si disperdevano davanti ai miei cavalli;
nessuno di loro trovava la propria mano per combattere,
i loro cuori non reggevano nei loro corpi per la paura di me.
Le loro braccia erano come rallentate, non potevano scagliare,
non avevano il coraggio di afferrare le proprie lance;
Li ho fatti precipitare in acqua come si tuffano i coccodrilli,
Caddero sulle loro facce, uno sull’altro.
Portai il massacro fra loro a mio piacimento,
nessuno guardò dietro di sé, nessuno si voltò,
chi cadde, mai più si rialzò. . .
Il testo del Poema di Pentaur, riportato sui monumenti di Tebe, Karnak e Abido e nei Papiri Sallier, descrive la Battaglia di Qadesh e le prodezze di Ramses Il grande. Pentaur fu probabilmente uno scriba vissuto ai tempi di Merenptah, figlio e successore di Ramses. È estremamente probabile che egli abbia copiato il testo da una versione più antica. Non si tratta in effetti di un vero e proprio poema; l’opera tratta diversi episodi della campagna contro gli Ittiti culminata con lo scontro presso le rive dell’Oronte. Ulteriori dettagli sono contenuti in bollettini militari e nei rilievi monumentali.
Ramses il Grande (1290 – 1224 a.C., XIX Dinastia), nel quinto anno del suo regno si scontrò con gli Ittiti guidati dal re Muwatallis, a Qadesh (odierna Siria), presso il fiume Oronte. Entrambe le parti reclamarono la vittoria dopo una serie di scontri, inclusi spionaggio e imboscate; infine Egizi e Ittiti riconobbero di trovarsi in una situazione di stallo. La battaglia di Qadesh è ben documentata nei bassorilievi ramessidi e sulle tavolette ittite in linguaggio cuneiforme accadico. Dopo alcuni anni di conflitti, ambedue le potenze si accordarono sulla stipula di un trattato di pace che fu sigillato dallo sposalizio di Ramses con una principessa ittita, la figlia di Hattusilis III e della regina Pedukhipa.
La riproduzione pittorica è di Émile Prisse d’Avennes, egittologo francese (1807 – 1879):
Ramses, ritratto come l’unico eroe della battaglia, conduce il carro mediante delle redini legate alla vita e scaglia frecce verso gli Ittiti. Il fiume Oronte, prossimo al campo di battaglia, è visibile sul fondo della scena, ma la fortezza di Qadesh (che non fu presa) è stata tralasciata. L’abito, l’imbracatura e l’equipaggiamento del carro sono stati riprodotti con dettagli elaborati e nei loro completi e originali colori. La scena proviene dal Secondo Pilone del Ramesseum, a Tebe.
Si tratta del primo trattato conosciuto dalla storia e fu redatto in babilonese, la lingua diplomatica dell’epoca. Dal tipo di espressioni utilizzate, sembrerebbe che sia stato opera di giuristi del re Hattusili, ma alla stesura avevano contribuito anche tre eminenti uomini di legge egiziani delegati da Ramses II. I membri di questa commissione mista, presero la volta dell’Egitto, attraversando la Siria sui carri protetti da una scorta armata e facendo tappa nelle località che anni prima erano state devastate dai continui conflitti tra i due paesi. Arrivarono a Pi-Ramses, nell’anno 21 di regno del faraone, circa trenta giorni dopo la partenza da Hattusa (l’odierna città turca di Boghazkoy), e giunsero alla reggia il ventunesimo giorno del primo mese invernale (presumibilmente tra novembre e dicembre del 1259 a.C.) . Usermaatra Setpenra Ramessw Meriamon, aveva quarantasei anni. I delegati recavano una grande tavola d’argento, lucidissima sulle cui facce erano incisi caratteri cuneiformi. Al centro spiccava il grande sigillo dello stato Ittita. Sul verso era,in rilievo, l’immagine di Seth che stringe un’effigie del Gran Principe di Hatti, circondata da un’iscrizione che recita: “ Il sigillo di Seth, sovrano del cielo, il sigillo del trattato fatto da Hattusili, il grande signore di Hatti, il potente figlio di Mursili”. Sul verso un rilievo con la dea di Hatti che stringe una figura femminile che rappresenta la grande sovrana del paese. La relativa iscrizione dice: Il sigillo della dea-sole Arinna, la sovrana del paese, il sigillo di Pudukhepa, grande sovrana di Hatti, figlia di Kizzuwadna, sacerdotessa della città di Arinna”.
Ramses, circondato dai consiglieri fece chiamare lo scriba interprete, perché il testo gli fosse tradotto immediatamente al fine di confrontarlo con la versione egiziana, già redatta. Dopo lievi modifiche apportate al testo babilonese, le copie su papiro furono depositate presso quello che oggi chiameremmo Ministero degli Affari Esteri. La versione definitiva, in babilonese, fu incisa su tavolette di argilla ed affidata alla delegazione incaricata di consegnarla ad Hattusili.Questi fece deporre il testo egiziano sotto i piedi del dio Teshub , mentre ad Eliopoli la tavoletta ittita fu posta ai piedi di una statua del dio Horakhty. Inoltre Ramses, ordinò che il testo fosse inciso in geroglifici sui muri di Karnak, dove fu decifrato per la prima volta da Champollion, che non conosceva l’esistenza degli ittiti, ed anche nel Ramesseum, accanto alla rappresentazione della battaglia di Kadesh. E’ probabile che una copia fosse stata incisa anche a Pi-Ramses.
La versione ittita del trattato Museo Archeologico di Istanbul
IL CONTENUTO DEL TRATTATO
La redazione di questo trattato ha suscitato l’interesse di giuristi che hanno constatato come il testo sia sorprendentemente moderno. Uno degli studi più autorevoli è stato pubblicato dal giudice Ch.-P.Loubière, “Les chroniques égyptiennes: le traité de paix égypto-hittite, une negociation vieille de 3200 ans”. L’autore si esprime in questi termini:
<<il trattato è così un atto soggetto al diritto internazionale….che si afferma veramente come tale quando mette la guerra “fuorilegge”. Questo principio fondamentale ci ricorda la Carta dell’ONU, che vieta di ricorrere alla forza come modo di regolare le differenze fra gli stati; la guerra ormai concepita come illecita, cede il posto ai procedimenti pacifici di negoziazione>>.
Il trattato proponeva prima di tutto “bella fraternità e pace”. In sostanza un patto reciproco di non aggressione con norme sull’estradizione, sul trattamento umano degli estradati e sulla mutua assistenza contro eventuali aggressori. Si parla, inoltre dell’alleanza fra le famiglie regnanti . Il suo contenuto sorprende per la modernità di alcuni elementi di diritto internazionale, che son ancora oggi in vigore. Una nota curiosa innanzitutto: ciascuno dei due sovrani afferma essere stato l’altro a prendere l’iniziativa verso il grande passo. Nonostante le due versioni mostrino qualche lieve differenza, esse sono in sostanza sovrapponibili nella parte conservata che hanno in comune. Si tratta di una ventina di paragrafi concordanti sui punti essenziali in cui viene citato più volte l’accordo stretto tra i due paesi al tempo in cui Suppilluliuma, contemporaneo dei faraoni dell’epoca amarniana, regnava su Hatti. Quel primo accordo fu gravemente minacciato allorquando il principe Zannanza (il figlio di Supilluliuma), che la vedova di Tutankhamon, Ankhesenamon, aveva chiesto in sposo, fu assassinato, mentre si recava in Egitto, probabilmente per ordine di Horemheb. Ma veniamo ad illustrare alcuni elementi fondamentali di quel trattato.
Estradizione di semplici rifugiati:
“Se uno o più uomini senza importanza fuggono e si rifugiano nel paese di Hatti per servire un altro padrone, non devono restare nel paese di Hatti. Bisogna ricondurli a Ramses-Meriamon, il grande sovrano d’Egitto.”
Amnistia per i rifugiati:
“Se un egiziano o anche due o tre fuggono dall’Egitto e arrivano nel grande paese di Hatti….in questo caso il grande signore di Hatti li catturerà e li manderà a Ramses, grande sovrano d’Egitto. Non gli sarà rimproverato il loro errore, la loro casa non sarà distrutta, le loro donne e i loro figli avranno salva la vita, non saranno messi a morte. Non gli saranno inflitte ferite, né agli occhi né alle orecchie né alla bocca né alle gambe. Nessun reato gli sarà imputato.”
Segue la clausola di reciprocità da parte ittita esposta esattamente con le stesse modalità.
Divinità dei due paese chiamate a testimoni del trattato:
“Per quanto riguarda le parole del trattato che il grande signore di Hatti ha scambiato con il grande re d’Egitto Ramses-Meriamon, esse sono incise su questa tavola d’argento. Mille dei e mille dee del paese di Hatti, e mille forme maschili e femminili le hanno intese e ne sono testimoni: il sole maschio signore del cielo e il sole femmina della città di Arinna. Seth del paese di Hatti, Seth della città di Arinna, Seth della città di Pittiyarik, Seth della città di Hissaspa, Seth della città di Saressa, Seth della città di Haleb (Aleppo), Seth della città di Luczina, Seth della città di Nerik, Seth della città di Nushashe, Seth della città di Shapina, Astarte della terra di Hatti……la dea di Karana, la dea del campo di battaglia, la dea di Ninive….la dea del cielo, gli dei signori del giuramento …la sovrana delle montagne dei fiumi del paese di Hatti, gli dei del paese di Kizzuwadna; Amon Ra e Seth, le forme divine maschili e femminili, le montagne e i fiumi d’Egitto, il cielo, la terra, il grande mare, i venti, le nubi, la tempesta.“
La salvaguardia del trattato:
“Per quanto riguarda le parole incise su questa tavola d’argento della terra di Hatti e della terra d’Egitto, le mille forme divine della terra di Hatti e le mille forme divine della terra d’Egitto distruggeranno la casa, la terra e i servi di colui che non le rispetterà. Quanto a colui che rispetterà le parole incise su questa tavola d’argento, ittita o egiziano, e che ne terrà conto, le mille forme divine della terra di Hatti e le mille forme divine della terra d’Egitto, assicureranno prosperità e vita a lui, alla sua casa, al suo paese, ai suoi servi.“
Ci fu tra i due paesi uno scambio di felicitazioni e doni. La regina Pudukhepa scrisse a Nefertari (Naptera, in babilonese), ignorando Isinofret, l’altra grande sposa reale di Ramses. Le esprimeva la sua soddisfazione per la pace fraterna che da quel momento avrebbe unito i due paesi . Nefertari, si affidò ad uno degli interpreti che trascrisse la sua risposta in caratteri cuneiformi.
“Allora Naptera, la grande regina d’Egitto, disse: << Per Pudukhepa, la grande regina di Hatti, mia sorella, io parlo così. Per me, sorella mia,, tutto va bene, per il mio paese tutto va bene. Per te sorella mia (auguro) che tutto vada bene. Vedi, ora ho apprezzato che tu sorella mi abbia scritto a proposito dei rapporti di buona pace e fraternità in cui sono entrati il grande re, sovrano d’Egitto, e suo fratello il grande re, sovrano di Hatti. Possano il dio sole e il dio della tempesta (Seth) apportarti la gioia; possa il dio sole fare che la pace sia buona e accordi la fratellanza al grande re, sovrano d’Egitto, e a suo fratello il grande re, sovrano di Hatti, per sempre.”
Fonti:
Christiane Desroches-Noblecourt: “Ramsès II, le Véritable Histoire”, (It. Ramsete II figlio del Sole, Trad. Maria Magrini).
Ch.-P. Loubière: “Les chroniques égyptiennes: le traité de paix égypto-hittite, une negociation vieille de 3200 ans”, Journal du Tribunal de Grande Instance de Paris, 1993.