Trent’anni dopo Richard Pococke troviamo un altro britannico sulle sponde del Nilo. Questa volta è uno scozzese, che in realtà era destinato a ben altro. Nato nel 1730, studia giurisprudenza a Edimburgo; sposa poi la figlia di un mercante di vini ed inizia a viaggiare in Spagna e Portogallo a caccia di vini iberici. Viaggiare gli piace; la moglie muore però dopo soli nove mesi di matrimonio. Poco dopo James eredita la proprietà di famiglia a Kinnaird e, libero da ogni vincolo, si dedica a ciò che gli piace di più: girovagare per il mondo e descrivere i suoi viaggi.
Dopo il nord Africa, si dedica alla scoperta delle sorgenti del Nilo; dal 1768 risalirà il fiume fino in Etiopia per scoprire l’origine del Nilo Azzurro e scriverà le sue memorie di viaggio (“Travels to Discover the Source of the Nile”) in cinque poderosi volumi per più di tremila pagine complessive, prima di risposarsi e dedicarsi alle sue proprietà in Scozia. Tradito dal suo antico amore per il vino, troverà il suo destino cadendo dalle scale della sua dimora, appesantito da un fisico ormai pingue e annebbiato dai fumi dell’alcool.
Non è chiaramente un archeologo, ma trova posto in questa rubrica perché risalendo il Nilo fa tappa a Tebe ed entra nella tomba di Ramses III rimanendo affascinato dai dipinti murali che vede. Questa volta però, e a differenza di Pococke, Bruce disegna alcuni di quei dipinti. È rimasto colpito da due figure di arpisti in una stanza laterale della tomba (tanto da passare la notte nella tomba per ritrarle, con sommo terrore da parte delle guide che lo accompagnavano) e quei disegni vengono inseriti quasi per caso come tavole fuori testo nei suoi Travels.
I due arpisti riprodotti da James Bruce. Da: Travels to Discover the Source of the Nile – Vol. I. G.G.J. and J. Robinson, London 1790
Non sono rilievi precisi; piuttosto “interpretazioni” filtrate dal gusto inglese del XVIII secolo, ma sono le prime immagini di una tomba della Valle dei Re che arrivano in Europa.
Ciò che rimane dei due arpisti disegnati da Bruce nella KV11. Foto: kairoinfo4u
La tomba di Ramses III diventa quindi “la tomba di Bruce” e sarà la meta preferita dei viaggiatori che seguiranno (non senza danni ingenti alla tomba, purtroppo).
Un altro piccolo passo verso la riscoperta dell’Antico Egitto è stato fatto.
Riferimenti:
Ceram, C. W. Civiltà sepolte: il romanzo dell’archeologia. G. Einaudi, 1953.
Ceram, C. W., and Maria Grazia Locatelli. Civiltà al sole. 1958.
Bruce, J. Travels to Discover the Source of the Nile – Vol. I. G.G.J. and J. Robinson, London 1790
Richard Pococke nel 1738, ritratto di Jean Etienne Liotard
Questo esotico signore, che sembra uscito dalle pagine di Marco Polo, è in realtà un vescovo anglicano del XVIII secolo. In un certo senso è un altro antefatto, perché prima ancora che Napoleone fosse nato lui aveva già girovagato in lungo ed in largo sulle sponde del Nilo, riportando i primi disegni “moderni” di una civiltà che stava per essere riscoperta in tutto il suo splendore.
Richard Pococke era nato nel 1704 da una famiglia di religiosi. I suoi studi sono quindi prettamente umanistici, ma non focalizzati sulla storia e risente molto della sua estrazione famigliare. Dopo aver effettuato un primo Grand Tour in Francia ed Italia (come stava diventando di moda per i britannici facoltosi) ne effettua un secondo tra il 1737 ed il 1741, stavolta in Medio Oriente, spendendo parecchio tempo in Egitto. Ne risulteranno due volumi di racconti di viaggio (“A Description of the East and Some other Countries”), uno specifico sulla terra dei Faraoni. Forse la prima pubblicazione a poter essere avvicinabile all’archeologia.
Il frontespizio de “A Description of the East and Some other Countries”. Si riconoscono una sfinge alata, un vaso canopo, la statua di un fanciullo, con la treccia dell’infanzia ed il dito in bocca, ed un sarcofago.
Pococke non si fa mancare nulla: da Alessandria risale il Nilo fino ad Assuan, anche se preferisce soggiornare al Cairo ed a Rosetta (più di sessant’anni prima della scoperta della famosa stele). È interessato soprattutto all’architettura egizia: riporta in patria la prima descrizione del tempio di Karnak, che chiama “Tempio di Giove a Tebe” ed un’attenta analisi dei capitelli delle colonne egizie.
Planimetria e descrizione dei piloni del “Tempio di Jupiter a Tebe”
Entra anche nella Grande Piramide, di cui disegna una sezione sorprendentemente moderna.
La sezione di Pococke della Grande Piramide, in cui era evidentemente entrato
La grande Sfinge è di nuovo rappresentata con il naso, come nel caso di Diderot più tardi. Una “licenza” pittorica?
“Sfortunatamente” è molto più antropologo di formazione che archeologo; descrive molto meglio le usanze degli egiziani del XVIII secolo piuttosto che la storia antica.
Non conosce ovviamente i geroglifici e si limita a descriverli come figure, notando la ripetizione di determinati segni, come pure la moltitudine di animali e di figure umane a testa di animale, che correttamente identifica come divinità.
Uno dei colossi di Memnone. Notare l’ovvia incerta rappresentazione dei geroglifici
La “Statua di Osymanduas a Tebe”. La corona di Ramses II diventa una sorta di tiara papale
È anche il primo occidentale ad ottenere una “licenza”: il Grande Sceicco di Furshout gli concede di visitare con la guida del figlio di uno sceicco locale, oltre al tempio di Karnak, ben 14 tombe della Valle dei Re, di cui disegna diligentemente posizione e mappa (purtroppo, non le decorazioni).
La prima mappa della Valle dei Re disegnata da Pococke
Le planimetrie di alcune delle tombe visitate da Pococke nella Valle dei Re
Dopo aver girovagato come predicatore errante in Scozia ed Irlanda, troverà il suo destino in un colpo apoplettico nel 1765 proprio in Irlanda, nel castello di Charleville.
Forse per essere stato più un narratore dei suoi tempi che della storia passata (ma ricordiamoci che aveva oggettive difficoltà, senza poter leggere i testi), forse perché i tempi non erano maturi, Pococke rimane molto poco noto, nascosto tra le pieghe dell’archeologia moderna. Ed è un peccato.
La “Statua di Arpocrate” (Horus il fanciullo) con un mix di simboli e sigilli egizio-macedoni
Forse il primo disegno di una statua-cubo, identificata da Pococke come “statua di Iside”
Riferimenti:
Ceram, C. W. Civiltà sepolte: il romanzo dell’archeologia. Vol. 161. G. Einaudi, 1953.
Ceram, C. W., and Maria Grazia Locatelli. Civiltà al sole. 1958.
Pococke, R. A description of the East, and some other countries – Vol I – Observations on Egypt. Londra, 1743
Caduto il potere degli ultimi Faraoni (anche se Macedoni), l’Egitto ormai provincia romana perse gradualmente il suo fascino. Saccheggiato dei suoi obelischi e trasformatosi nel granaio dell’Impero, pur mantenendo la sua importanza culturale con la biblioteca di Alessandria divenne oggetto di mere manovre politiche e quasi nessuno si interessò alla storia passata. Non senza danni, però.
Prima intervennero le dispute teologiche nell’ambito cristiano e le ondate iconoclaste; Ario era infatti presbitero ad Alessandria, e all’inizio del IV secolo lo scisma legato all’arianesimo fu di fatto il primo della storia cristiana, con relative conseguenze. Un secolo dopo, sempre ad Alessandria, l’assassinio di Ipazia da parte dei cristiani capitanati dal vescovo Cirillo (assurdamente ancora venerato come santo…) pose di fatto fine alla cultura “classica”, considerata ormai pagana. La conquista dell’Egitto da parte degli arabi nel VII secolo chiuse definitivamente l’epoca greco-romana in Egitto.
Il linciaggio di Ipazia, illustrazione tratta dal libro“Vies des savants illustres, depuis l’antiquité jusqu’au dix-neuvième siècle“, di Louis Figuier, 1866
I danni li possiamo vedere ancora oggi: statue e dipinti mutilati, deturpati, distrutti; edifici e tombe riadattati a monasteri o abitazioni comuni (a volte come stalle…); totale disprezzo per la storia e la cultura faraonica, caduta nell’oblio.
Nel frattempo, alla fine del IV secolo (precisamente nel 394, sotto Diocleziano) viene incisa quella che è considerata l’ultima iscrizione in geroglifici. Nesmeterakhem (o Esmet Akhom, a seconda delle traduzioni), scriba del tempio di Iside a Philae (ultimo baluardo “pagano” sopravvissuto grazie alla popolarità del culto di Iside), incide una preghiera al dio nubiano Mandulis. Con la morte del suo autore, dopo più di tremila anni tutti i testi faraonici diventano solo figure disegnate, illeggibili.
L’ultima iscrizione in geroglifici nota: “Davanti a Mandulis, figlio di Horus, per mano di Esmet-Akhom figlio di Esmet (o Nesmeterakhem, figlio di Nesmeter, a seconda delle traduzioni), il Secondo Sacerdote di Iside, per tutti i tempi e l’eternità. Parole pronunciate da Mandulis, signore dell’Abaton, grande dio”. Tempio di Phiale, 24 agosto 394 CE
Per secoli l’Egitto diventa un luogo poco raccomandabile; meta solo di temerari pellegrini in viaggio per i luoghi biblici. La conoscenza dell’Egitto si limita al solo Delta o poco più. Le piramidi diventano “i granai di Giuseppe”, la Sfinge prende il nome arabo di Abol-Haul, “Il Padre del Terrore”, ed è solo “una testa che sporge dalla sabbia”, come scrive Abd al-Laṭīf al-Baghdādī, uno studioso arabo del XII secolo.
Un gentiluomo europeo con i boccoli che spunta da un prato: così André Thevet, un frate francescano, nel 1556 rappresenta la Sfinge
In Europa arrivano poche e confuse notizie, a volte riportate da chi in Egitto non è proprio mai stato. Soprattutto la piana di Giza attira curiosità “adattata” allo stile occidentale. La Sfinge viene disegnata quindi come una donna europea, con tanto di seno che sporge dalla sabbia, oppure come un clamoroso busto colossale romano, come un Cesare conquistatore. André Thevet, un frate francescano, nel 1556 disegna la Sfinge come la testa di un gentiluomo francese, con tanto di boccoli.
Johan Helffrich (Lipsia) nel 1589 presenta la Sfinge con tanto di seno che emerge dalla sabbia. Per Helffrich la Sfinge rappresenta Iside e, notando una cavità sulla testa, immagina che i sacerdoti parlassero al popolo da quella cavità
Forse la prima testimonianza “diretta” europea è del 1610, ed è in un resoconto dei viaggi di George Sandy, un figlio minore dell’Arcivescovo di York il quale, fallito il tentativo di laurearsi a Oxford, decise di spendere allegramente parte del patrimonio di famiglia girovagando in Europa e Medio Oriente raccontando le sue imprese in quattro volumi illustrati. In uno di questi volumi quella testa, già senza naso, emerge davanti alle piramidi.
Nel 1610 Mr. Davis porta a casa un ricordo della piana di Giza e una prima realistica rappresentazione
Sempre intorno al 1610 il Civitates Orbis Terrarum (il primo Google Maps dell’epoca…) raffigura così sulla mappa del Cairo la Piana di Giza con le piramidi e la Sfinge
Un disegno molto più accurato è del 1757 (“Testa colossale con le tre piramidi” di Norden), mentre negli stessi anni Diderot, nella sua Enciclopedia, inopinatamente le rimette il naso e una sorta di ureo sulla fronte, forse immaginandone l’aspetto originale.
Il primo “vero” disegno della sfinge di Norden, 1757. I danni al volto sono molto evidenti 40 anni prima della campagna di Napoleone
La Sfinge dell’Enciclopedia di Diderot, con ureo e naso, che tante accuse porterà a Napoleone. Da notare la forma a punta delle Piramidi, forse considerandole ancora dei granai come da tradizione
Il conte Volnay, un altro che decide di spendere la sua eredità in viaggi, nel suo pensiero afrocentrico prende una svista colossale descrivendo nel suo “Voyage en Syrie et en Égypte” la Sfinge come “chiaramente di razza negroide” – un “peccato originale” che purtroppo semina frutti avvelenati tuttora.
La Sfinge “negroide” di Volnay
L’Illuminismo sta comunque sortendo i suoi effetti. Tutti questi resoconti, le Piramidi, i colossali obelischi, stanno facendo nascere la curiosità in tutta Europa. La Francia è al centro di questo inesorabile movimento. E un francese, che ha “mancato” per pochi anni la possibilità di essere italiano (anzi, genovese…) sta per accendere la miccia. Della guerra, sì, ma anche di quella che i francesi chiameranno “Égyptomanie“.
Nella prossima puntata: quaranta secoli vi guardano!
Federico A. Arborio Mella, L’Egitto dei Faraoni. Storia , civiltà, cultura, Milano, Mursia, 1976
Ceram, C. W. Civiltà sepolte: il romanzo dell’archeologia. Vol. 161. G. Einaudi, 1953.
Ceram, C. W., and Maria Grazia Locatelli. Civiltà al sole. 1958.
Curto, Silvio. L’antico Egitto. Unione tipografico-editrice torinese, 1981.
Braun and Hogenberg, Civitates Orbis Terrarum (1572-1617).
Andrews, Carol AR. The Rosetta Stone. London: British Museum Publications, 1981.
Diderot, M., ed. “L’encyclopédie de Diderot et d’Alembert” (1778).
Viene detta “Stele della Vittoria” o, impropriamente ormai (come vedremo), “Stele di Israele”.
È una lastra in granito nero di 318 x 163 x 32 cm. Fu fatta scolpire inizialmente da Amenofi III, ma Merenptah, il 13° figlio di Ramses II ed il primo in linea di successione alla morte del novantenne padre, nel suo quinto anno di regno (1209-1208) la requisisce, la gira contro il muro del suo tempio a Karnak e sull’altra faccia fa incidere la descrizione di una vittoriosa spedizione contro le tribù libiche dei Libu e dei Meshwesh.
Il Tempio di Merenptah a Karnak
Riporta la data del “quinto anno, terzo mese di Shemu, terzo giorno”Nelle ultime tre righe fa riferimento ad un’altra campagna militare verso la terra di Canaan e tra i nemici sconfitti dal figlio di Ramses II alla riga 27 viene annoverato anche “ysrἰȝr” che Petrie, con l’aiuto del filologo tedesco Spiegelberg, traduce in “Israele” (“Israele è desolato, non c’è più il suo seme”).
È la prima volta che il nome di Israele compare in un documento storico (forse, vedi nota 3), ed è l’unica volta che lo farà in un documento egizio. La successiva menzione di Israele in un documento extra-biblico sarà quella di Šulmānu-ašarēdu di Assiria, che registrò la partecipazione di un certo “Ahab l’Israelita” nella battaglia di Qarqar, Siria, nel 853 a.C.
La linea 27 con il nome di Israele. Il determinativo è composto di due elementi qui: • il “bastone” o “mazza” (Gardiner T 14), che classifica l’oggetto come “straniero”, • il segno di donna e uomo seduti accompagnato dall’indicazione di pluralità (le tre piccole righe verticali – Gardiner A1b), che classifica l’oggetto come “pluralità di persone”. Insieme quindi i due elementi determinano “Israele” come “popolazione straniera non urbana” mancando il determinativo di “città”
L’importanza storica del documento è stata ovviamente sfruttata politicamente, soprattutto nel secondo dopoguerra, creando anche diversi mal di testa agli studiosi biblici ed una scia di interpretazioni e datazioni non sempre rigorosissime.
La traduzione “classica” completa delle ultime tre righe:
“I principi sono prostrati, chiedendo ‘Pace!’ Nessuno alza la testa tra i nove archi. C’è desolazione per Tjehenu (Libia); Hatti è pacificata; Pa-Canaan è stata saccheggiata di tutto il male; Ashkelon è stata spazzata via; Gezer è sottomessa; Yanoam non esiste più; Israele è una terra desolata il cui seme non germoglia più; Kharru è diventata vedova a causa dell’Egitto. Tutte le terre insieme sono pacificate. Tutti coloro che erano ribelli sono stati catturati.”
Ashkelon, Gezer, Yanoam erano città stato e sulla stele hanno determinativi corrispondenti a popoli urbani (l’ideogramma con tre montagne stilizzate). Israele, invece, ha il determinativo per un popolo non urbano (semplicemente un uomo e una donna), in linea con ciò che la Bibbia ci dice circa lo status dell’Israele a quel tempo: una società tribale senza una struttura politica formale.
I rilievi di Karnak similmente ritraggono quattro scene di nemici sconfitti. Tre di essi mostrano il re che attacca città fortificate, una delle quali identificata come Ashkelon. Gli altri due nomi mancano, ma erano presumibilmente Gezer e Yenoam. Sfortunatamente, solo la porzione di fondo della quarta scena è sopravvissuta.
Basandosi sulle corrispondenze con la stele, ad ogni modo, molti studiosi sostengono che rappresenti Israele
Nota 1: da sempre, se la chiamate “Stele di Israele” in Egitto vi guardano malissimo ma a maggior ragione negli ultimi anni: nel 2017 c’è stata una cerimonia al Museo Egizio per il cambio ufficiale del nome in “Stele della Vittoria di Merenptah” dopo “aver trovato un errore nella descrizione”. A me è venuta in mente una battuta dei tempi di Arbore e Boncompagni alla radio, a parti invertite: “nave egiziana danneggia gravemente siluro israeliano…”
Nota 2: uno storico biblico, Davidovits, interpreta i geroglifici come “iisii-r-iar” indicandoli come “coloro che sono stati mandati in esilio per i loro peccati” intendendo i seguaci di Akhenaton. Interpretazione rigettata da quasi tutti gli specialisti.
Nota 3: recentemente tre studiosi tedeschi capitanati da Manfred Görg hanno trovato su una stele di granito grigio (facente parte del basamento di una statua databile al 1400 BCE) acquistata da Ludwig Borchardt nel 1913 e conservata al Museo di Berlino un frammento su cui, a fianco dei nomi di Ashkelon e Canaan POTREBBE esserci Israele. Sarebbe una “datazione” di Israele antecedente di quasi due secoli, ma la questione è estremamente dubbia perché metà del nome è andato perso e la grafia sarebbe diversa. In attesa di ulteriori scoperte…
A sinistra: il frammento conservato al Museo di Berlino. Da sinistra: Ashklelon, Canaan e…? A destra: La ricostruzione del terzo nome del frammento secondo Görg/Van Der Veen/Theis. La grafia diversa alimenta i dubbi interpretativi
Riferimenti:
Bresciani E., Letteratura e Poesia dell’Antico Egitto, Torino 1969
William M. Flinders Petrie, Six Temples at Thebes. 1896, London 1897
Herschel Shanks, When Did Ancient Israel Begin? in Ancient Israel in Egypt and the Exodus, BAS 2012
La scoperta della tomba di Nefertari, pur regalandoci alcuni dei più bei dipinti dell’Antico Egitto, non fu particolarmente generosa in termini di reperti.
Nella tomba, saccheggiata nell’antichità, fu ritrovato il coperchio del sarcofago in frantumi insieme ad un certo numero di ushabti (ben 34, in legno di sicomoro) e diversi oggetti sparsi, molti anch’essi in frantumi.
Il coperchio in frantumi del sarcofago di Nefertari (inv. S5153), rientrato al Museo Egizio di Torino dopo una lunga serie di mostre all’estero. In granito rosa, con ancora tracce di colore visibili. Il Museo Egizio di Torino conserva tutti i reperti della tomba, a parte alcuni ushabti ceduti ad altri musei. Foto: Patrizia Burlini
L’ala di Neith cerca ancora di proteggere la sovrana. Foto: Patrizia Burlini
Da un punto di vista archeologico sono stati molto importanti un amuleto “djed”, che ha permesso di stabilire con relativa certezza che Nefertari fu effettivamente sepolta nella QV66, ed un pomolo con impresso il nome di Ay, il Gran Visir e successivamente Faraone succeduto a Tutankhamon, che ha fatto ipotizzare un rapporto di parentela tra Nefertari ed Ay (nipote?).
L’amuleto a forma di pilastro “djed” di Osiride, rappresentato anche sui pilastri della Sala del Sarcofago. Il pilastro djed era considerato un simbolo di stabilità e di rettitudine. È uno dei simboli più antichi della cultura egizia: si hanno, infatti, attestazioni fin dalla III dinastia (intorno al 2700 a.C.), come decorazione di edifici sacri. Il ritrovamento dell’amuleto nella tomba costituisce una prova che la tomba stessa sia stata effettivamente usata per la sepoltura di Nefertari. Probabilmente questo amuleto era inserito all’interno di uno dei quattro “mattoni magici”, andati persi. Legno dorato e faience, 13×5.5×1 cm, Museo Egizio di Torino
Questo pomolo di un cofanetto o di uno scettro con il nome di Ay (Kheper Kheperure) sopra ha fatto ipotizzare un rapporto di parentela tra il Faraone della XVIII Dinastia e Nefertari. Troppo distanti nel tempo per essere padre/figlia, si è ipotizzato nonno/nipote. In mancanza di ulteriori evidenze, e non potendo comparare il DNA, rimane un’ipotesi intrigante.
E’ molto importante che nella tomba non siano stati ritrovati reperti riconducibili ad altre persone, rendendo molto improbabile una co-sepoltura.
La descrizione della tomba fu talmente poco entusiasmante che Maspero concesse a Schiaparelli di tenere tutti i reperti ritrovati. Riportati quasi in sordina a Torino, sono rimasti pressoché lasciati a loro stessi per decenni, fino al 2016, quando un fondo di ricerca svizzero (!) dedicato al rituale dei vasi canopici ma anche al riconoscimento delle mummie egizie ha permesso di analizzare anche dei resti umani che erano stati ritrovati nella tomba. Per essere precisi: un ginocchio pressoché completo (parte distale del femore, patella e parte prossimale della tibia), la parte distale di un secondo femore e quella prossimale di una seconda tibia.
I resti umani ritrovati nella QV66. Pur non essendo un corpo completo, personalmente l’esposizione di queste due gambe, probabilmente di Nefertari, su un pezzo di plexiglas ”tirato” in mezzo a frammenti di vasi rotti mi infonde una profonda tristezza. Una mancanza di rispetto per una persona, che ha avuto oltretutto un grande impatto sulla storia della sua epoca. Senza contare il fatto di non aver approfondito la loro analisi per decenni
I resti sono stati analizzati al gas cromatografo per la composizione chimica; è stato estratto il DNA (Istituto di Medicina Evoluzionistica, Università di Zurigo) ed è stata effettuata la datazione al radiocarbonio.
I RISULTATI
I resti sembrano appartenere alla stessa persona (apparenza esterna, caratteristiche del bendaggio, analisi chimiche) e sottoposti a numerose fratture post-mortem durante i saccheggi della tomba.
Le gambe appartenevano ad una donna, di età apparente tra i 40 ed i 50 anni, affetta da una minima osteoporosi probabilmente associata a deficienza di Vitamina D (ipotizzata da scarsa esposizione solare, come nel caso di chi non effettui lavori all’aperto). Tracce di arteriosclerosi (calcificazione delle arterie tibiali) hanno confermato l’età presunta. Le dimensioni delle ossa suggeriscono un’altezza intorno ai 165 ± 2.5 centimetri, notevoli per l’epoca (la media in Egitto era di 156 cm per le donne nel Nuovo Regno) e di corporatura molto snella.
L’analisi radiografica delle due gambe che ha permesso di determinarne età, corporatura ed altezza presunta. A destra: evidenziate le calcificazioni delle arterie tibiali ad ulteriore conferma dell’età presunta al momento del decesso
L’altezza presunta è stata confermata anche da un paio di sandali, misura 39, trovati nella tomba. I sandali risultano essere stati usati (e non oggetti ornamentali); l’impronta dell’alluce sinistro conferma l’altezza presunta.
I sandali ritrovati nella QV66. Chissà se i sandali sono proprio quelli del dipinto? Probabilmente no, ma è bello pensarlo
L’analisi chimica ha rivelato l’assenza di bitume nel processo di mummificazione, indicando una mummificazione antecedente al 3° Periodo intermedio.
Il DNA è molto danneggiato e si sono verificati episodi di cross-contaminazione (campanello – campanone – d’allarme per gli studi effettuati da Hawass sulle mummie della XVIII Dinastia, tra parentesi) probabilmente dovuti a tutti coloro che hanno maneggiato i resti. La datazione al radiocarbonio ha mostrato un’età presunta tra il 1546 ed il 1491 BCE (pur con la variabilità nota del C14), quindi apparentemente antecedente l’epoca storica di Nefertari ma è un problema noto con il C14 sulle mummie (utilizzo di materiali/bende più vecchie, dieta a base di pesce che altera la datazione).
LE CONCLUSIONI
Anche se in questo campo, e cono così pochi resti da esaminare, le certezze assolute sono molto difficili da ottenere, è ragionevolmente certo che i resti appartengano a Nefertari. Dato il pessimo stato del DNA e le contaminazioni evidenziate, anche se si facesse maggiore luce sulle sue origini (Nefertari non è indicata nella sua titolatura come “Figlia del Re”, quindi non proveniva dalla stirpe reale della XIX Dinastia) e la sua discendenza è estremante improbabile che si possano avere maggiori certezze in futuro, ma la probabilità è molto molto alta.
Che quelle parti delle gambe siano tutto ciò che rimane di una delle figure femminili più note ed amate dell’Antico Egitto è una cosa che non può non suscitare tristezza. Il sepolcro violato per rubare, il sarcofago distrutto a colpi di mazza, il corpo della Regina profanato e smembrato.
Anche se è stato un destino comune a molti sovrani della Terra di Khemet, ciò nonostante qui appare ancora più stridente con le meravigliose immagini che ne abbiamo dai dipinti della sua tomba.
Qualcosa di lei, almeno, vivrà in eterno.
Non voglio “lasciare” Nefertari con un’immagine di struggente malinconia come i suoi poveri resti; preferisco uno dei suoi dipinti con un vezzo particolare: gli orecchini a forma di cobra, l’ureo sacro, che l’accompagnano nel suo eterno viaggio di rinascita.
Riferimenti:
Habicht, Michael E., et al. “Queen Nefertari, the royal spouse of Pharaoh Ramses II: a multidisciplinary investigation of the mummified remains found in her tomb (QV66).” PloS one 11.11 (2016).
Hari, Robert. “Mout-Nefertari, épouse de Ramses II: une descendante de l’héretique Ai?.” Aegyptus 59.1/2 (1979): 3-7.
Rühli, Frank J., et al. “Mummified remains from QV 66; Queen Nefertari.”
“Il tempo parve eterno a quelli che aspettavano accanto a lui. Non potendo più resistere, Carnarvon domandò: «Potete vedere qualche cosa?» E Howard Carter, volgendosi lentamente, rispose come incantato con una voce che gli saliva dal profondo dell’animo: «Sì, cose meravigliose!»…«In tutta la storia degli scavi, certo nessuno aveva mai visto cose meravigliose come quelle che ci rivelava la luce della nostra lampada elettrica».
UN DISASTRO CHE DIVENTA UN’OPPORTUNITÀ
Un tempo non avrebbe considerato degno di perdere il suo tempo prezioso quell’aristocratico snob, meritevole solo di essere nato nel posto giusto, che aveva di fronte. Un conte, nientemeno, che aveva studiato a Eton ed al Trinity College di Cambridge, appassionato di cavalli da corsa e di quelle infernali trappole meccaniche chiamate “automobili” con cui aveva rischiato di ammazzarsi qualche anno prima in un incidente che lo aveva lasciato claudicante. Così lontano da lui, un pittore senza istruzione abituato fin da ragazzino a campare con i frutti del suo lavoro. Almeno era inglese e sapeva gustarsi il suo tè come le persone civili.
Ma in quel pomeriggio del 1907 a Luxor non poteva più fare lo schizzinoso. AI margini ormai dell’archeologia “che conta”, aveva disperatamente bisogno di qualcuno che finanziasse il suo sogno, strappare alla Valle dei Re il segreto di un Faraone misterioso. E George Edward Stanhope Molyneux Herbert, 5° Conte di Carnarvon, sembrava la persona giusta per essere quel “qualcuno”.
Howard Carter aveva appena incontrato il suo destino.
Carter era nato il 9 maggio 1874, a Kensington. Suo padre era un pittore, specializzato nel ritrarre animali, e da lui ereditò una certa capacità artistica (come anche i suoi otto tra fratelli e sorelle che arrivarono all’età adulta, di cui ben tre esposero alla Royal Academy). Gracilino e sempre un po’ febbricitante, fu spedito a Swaffham, nel Norfolk (non ho idea come si potesse pensare che il Norfolk fosse più salubre per un ragazzino malaticcio, misteri britannici…) dove il suo bis-cugino Harry insegnava arte alla Grammar School locale. Qualche storico ipotizza un disturbo della personalità quale l’autismo o comunque una incapacità di reprimere la rabbia, anche sulla base degli eventi che caratterizzeranno la sua vita, ma nessuna certezza.
Samuel Carter, il padre di Howard. Ottimo pittore naturalistico, specializzato (ovviamente) in cavalli e cacciagione varia, cervi in primis
Vista la sua salute precaria, anche lui, come Petrie, non frequentò mai una scuola ma fu educato in casa. Con il cugino Harry e suo papà Samuel andava spesso a Didlington Hall, dove i baroni del luogo, coinvolti nella egittomania del XIX secolo, mostravano i ricordi dei loro viaggi sul Nilo.
Un caro amico della padrona di casa, la baronessa Mary Rothes, è Percy Newberry, già amministratore della Egypt Exploration Fund con cui Amelia Edwards aveva finanziato gli scavi di Flinders Petrie. La leggenda vuole che Carter abbia fatto un ritratto a Newberry e questi, d’accordo con la baronessa, lo abbia invitato a seguirlo in Egitto come “apprendista disegnatore”.
Mary Rothes Margaret Tyssen-Amherst 2a Baronessa Amherst di Hackney. Nobile, ricca di famiglia, appassionata di ornitologia (absit iniuria verbis, una specie di gru coronata porta il suo nome) e di Antico Egitto. Fu la prima “sponsor” di Carter e partecipò più tardi in prima persona a degli scavi a El-Hawa, vicino ad Assuan proprio sotto la supervisione di Howard. Suo padre aveva una collezione di oggetti egizi che esponeva in un’ala della tenuta di famiglia a Didlington, vicino a Swaffham, la “scintilla” che infiammò la fantasia del giovane Howard
Nell’ottobre 1891 il diciassettenne Carter arriva quindi in Egitto con Newberry e lavora come disegnatore a Beni Hasan sulle tombe del Medio regno. Tre mesi dopo l’Egypt Exploration Fund lo dirotta a lavorare con Flinders Petrie, dove Carter si trasforma da disegnatore ad archeologo (anche se Petrie a lungo penserà che “non sarà mai più che un disegnatore storico”). Petrie disprezza le origini umili di Carter e la mancanza di un’educazione formale (proprio lui!) e non vedrà mai di buon occhio colui che considera un parvenu dell’archeologia. Lo cede quindi volentieri a Édouard Naville per lavorare al Tempio di Hatshepsut a Deir-el-Bahari, dove disegna le iscrizioni del Djeser-Djeseru.
Percy Edward Newberry, il primo maestro” del giovane Carter. Lo introdusse alla sezione dedicata all’Antico Egitto del British Museum e lo condusse in Egitto con sé nel 1891.
Èdouard Naville. Svizzero, era curiosamente il contrario di Carter: interessato al disseppellimento delle grandi opere architettoniche, poco interessato ai dettagli. Sarebbe stato adattissimo per la Sfinge.
Carter è preciso e irremovibile con i predoni anche quando indossano una giacca elegante ed un cappello a cilindro. La sua carriera è veloce e apparentemente inarrestabile: nel 1901 è Capo Ispettore del Servizio Antichità per l’Alto Egitto e la Nubia, con base a Luxor. In questa vece fa un primo tentativo di “aggredire” la Valle dei Re con un americano, Theodore Davis, che per due anni finanzia degli scavi coordinati dallo stesso Carter.
Theodore Davis, la presunzione e la supponenza dei ricchi condita in salsa yankee. Tanto per capire la capacità archeologica scrisse un assurdo ed inopportuno rapporto degli scavi nel 1912 intitolato “Le tombe di Harmhabi e Touatânkhamanou” – sbagliando ovviamente l’attribuzione di un semplice nascondiglio come tomba di un Faraone – in cui affermò, come Belzoni prima di lui: “Temo che la Valle delle Tombe sia ora esaurita”. Possiamo senza dubbio ritenerci fortunati che Davies abbia “mancato” Tutankhamon; vista l’esperienza della KV55 di Smenkhare/Akhenaton non oso immaginare quanti danni avrebbe potuto fare
Nel 1904 ricopre la stessa carica per il Basso Egitto, al Cairo. Maspero lo stima molto; il 27enne Carter diventa in pratica il suo vice destinato presumibilmente a succedergli.
Ma l’8 gennaio 1905 la sua carriera al Servizio Antichità cessa per sempre. Una banale disputa con dei turisti francesi degenera, c’è una denuncia di Monsieur de la Boulinière, il console generale francese.
Maspero riceve pressioni dalla diplomazia francese. È un periodo critico, la gestione dell’Egitto è molto delicata tra Francia ed Inghilterra dopo che il Canale di Suez ha reso l’area un punto nevralgico dell’economia mondiale. Ai governanti di entrambi i Paesi dell’archeologia importa poco o nulla, importa mantenere una “pax” stabile.
Maspero non fa come Lacau e non difende il suo sottoposto: scarica Carter ufficialmente anche non lo licenzia. Lo destituisce da Capo Ispettore, nominando al suo posto Arthur Weigall (lo ricordate? Al fianco di Schiaparelli nell’esplorazione della tomba di Kha e Merit?), che con Carter non aveva un rapporto proprio amichevole e di cui scriverà pessime cose tacciandolo di incompetenza. Carter viene assegnato agli scavi di Tantah, nel Delta del Nilo. Per Carter è una cosa inaccettabile (oggi lo chiameremmo “mobbing”); si prende un periodo sabbatico poi ad ottobre lascia il Servizio e diventa una sorta di freelance nella compravendita di reperti, arrotondando con i suoi acquerelli e facendo da guida turistica per i templi di Luxor.
Un acquarello di Howard Carter della regina Ahmose, madre della regina Hatshepsut da un dipinto murale nel tempio funerario della regina Hatshepsut a Deir el-Bahari
I rilievi di Carter a Deir el-Bahari
Alcune tra le famose “Oche di Meydum” riprodotte da Carter. Qui emerge, come in altri rilievi, la dote di pittore naturalista di Howard
Arthur Weigall e consorte. Weigall si comportò sempre da servitore di Davis compromettendo la sua professionalità e screditandosi agli occhi dei colleghi
Il 1905, iniziato così male per Carter, gli regala però anche un sogno rinnovato: Theodore Davis scopre una coppa in faience con il nome di Tutankhamon. In realtà due anni dopo Davis troverà in un pozzo vicino alla tomba di Seti I parecchio materiale (vasi, collane floreali e stoffe) che spedirà negli USA considerandolo di nessun valore. Ci vorranno anni per capire che era materiale usato nella cerimonia funebre di Tutankhamon.
Nel 1906 riprende giocoforza a collaborare con Davis ed illustra gli oggetti trovati nella tomba di Yuya e Tuya. Un duro rospo da digerire per Carter: illustrare i reperti di una tomba della Valle dei Re pressoché intatta a cui per di più aveva lavorato l’odiato (ed ingrato) Weigall… Oltretutto Davis ha ottenuto la concessione per gli scavi nella Valle dei Re fino al 1914, sarà per tutti gli off-limits fino a quella data. Davis è onestamente, poco più di in dilettante. Farà disastri epocali e bloccherà ogni ulteriore attività nella Valle fino al termine della sua concessione, ma per fortuna non riuscirà a trovare tombe intatte.
Maspero però non ha dimenticato Carter. Un nobile inglese, che ha chiesto delle concessioni nel 1907, pur armato di buona volontà è completamente sprovveduto da un punto di vista archeologico e ha bisogno di un esperto disposto a lavorare sul campo per lui. Organizza un incontro che cambierà la storia dell’archeologia.
Carter e Lord Carnarvon, uniti indissolubilmente nella Storia
Lord Carnarvon e Howard Carter sono per la prima volta insieme.
Chi avrebbe mai detto che questo distinto signore sarebbe finito dritto in uno dei casi più controversi dell’archeologia?
Il pomeriggio del 20 gennaio 1913 sembra un giorno come gli altri ad Amarna. In una stanza sono riuniti i membri della Società Tedesca Orientale impegnati negli scavi e i funzionari della Sovrintendenza alle Antichità del Medio Egitto. Si sta decidendo il destino dei reperti estratti dalla spedizione tedesca ad Amarna dove sorgeva Akhetaton, la città del Faraone Eretico. In apparenza una procedura di routine, stabilita da Maspero per trattenere in Egitto i reperti più preziosi e compensare i finanziatori degli scavi con gli oggetti da mostrare nei loro musei e nelle loro collezioni.
Ma non è un giorno come gli altri. Il capo della spedizione tedesca assiste, in preda alla tensione. Forse si asciuga la fronte con un fazzoletto, forse fa un cenno di intesa a qualcuno. Alan Gardiner lo ha già definito “sconsiderato e grezzo”, mettendo in dubbio la sua professionalità. Forse ripensa al percorso un po’ strano che lo ha portato in quella stanza. In fondo era un architetto appassionato dell’architettura egizia. Era finito in Egitto a seguire i progetti per la prima diga di Assuan. Trovandosi davanti gli edifici di Philae, si era definitivamente innamorato di quella civiltà.
Ed ora, in quella stanza, sta per accadere uno degli episodi più controversi della storia dell’archeologia.
Ludwig Borchardt era nato a Berlino nel 1863. Sua mamma, Bertha Levin, era di origine ebrea, e questo lo costrinse all’esilio dopo l’avvento del nazismo in Germania. Ha studiato architettura, poi diventa allievo di Adolf Erman (che aveva dedicato decenni allo studio dei Testi delle Piramidi) alla sezione egizia del Museo di Berlino. Ma per un po’ alterna le sue mansioni, dirige dei lavori edili a Konigsberg per sette anni e nel 1895 si reca per la prima volta in Egitto, ad Assuan appunto.
Borchardt tra il 1895 ed il 1900, all’epoca del primo viaggio in Egitto
De Grand, Direttore della Sovrintendenza in quegli anni, ha un progetto grandioso: documentare fotograficamente e catalogare tutti i monumenti in Egitto e “arruola” Borchardt, che da architetto è affascinato da quelle strutture. Ma Maspero ridimensiona tutto il progetto e si limita al solo Museo Egizio; Borchardt porta a termine quel progetto poi parte per Abusir dove lavora per sei anni al complesso della Piramide di Sahure.
Il resoconto degli scavi ad Abusir, mappa originale del complesso piramidale del sito
In quel periodo gli capita una botta di c…, pardon, di fortuna: la moglie eredita dal nonno banchiere 150,000 marchi, pari più o meno a 2 milioni e mezzo di ero attuali. I due costruiscono una villa al Cairo da far invidia a Cleopatra e per 25 anni non si muoveranno dall’Egitto. Non solo: tramite la famiglia della moglie conosce James Simon, un commerciante di cotone ebreo, amico del Kaiser Guglielmo II e molto bene introdotto nell’alta società prussiana. Simon e Borchardt sono entrambi affascinati dall’architettura egizia e c’è una città in Egitto nata e morta in una generazione, un’occasione unica per studiarne lo sviluppo: la neo-scoperta Tell-el-Amarna, l’Akhetaton di Amenhotep IV/Akhenaton.
James Simon, il principale finanziatore della Società Orientale Tedesca ed il primo proprietario moderno del busto
James Simon è stato anche co-fondatore della Deutsche Orient-Gesellschaft – DOG, la Società Orientale Tedesca che dal 1898 promuove gli scavi nel Vicino Oriente. La DOG ha scavato a Babilonia e dal 1902 opera anche in Egitto. Aveva finanziato gli scavi ad Abusir, ma ora Borchardt può gestire direttamente dove scavare e chiede i permessi per Amarna, dove rimarrà per quattro anni.
Alla fine del 1912 però la situazione non è rosea: se l’interesse storico per il periodo di Akhetaton è enorme, i reperti, i “trofei” sono inferiori alle attese. Ma tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre, Borchardt fa il “botto”: trova la bottega dello scultore Thutmose, recupera una serie di sculture utilizzate come modelli e, il 6 dicembre, il busto più famoso del fondo.
Il sito di Tell-el-Amarna e la posizione della “Casa 47”, ossia della bottega dello scultore ThutmoseLa piantina della struttura dello scultore, con la parte abitativa e la sezione dedicata alla bottegaIl sito di Tell-el-Amarna e la posizione della “Casa 47.2”, ossia dell’atelier dello scultore Thutmose: la zona dove fu ritrovato il busto
E qui entriamo in un campo a metà strada tra la spy story e la leggenda.
Già la data è sospetta: proprio in quel giorno deve arrivare un membro della famiglia del Kaiser a visionare gli scavi, e fargli vedere un ritrovamento importante, alla Zahi hawass, sarebbe un bel colpo.
La pagina del diario di Borchardt con l’annotazione del ritrovamento del busto. Le note complete recitano: “Alle 12:30 furono inviati degli scout per informarci dell’arrivo dell'”Indiana” della linea Hamb [ur] g.-America, sulla quale il principe Joh [ann]-Georg di Sassonia con moglie e cognata, insieme alla principessa Mathilde di Sassonia arriverà.” [….] Borchardt si precipita ad incontrarli. Quando arriva alla nave apprende che i regali ospiti sono già diretti verso l’interno. Torna indietro e nel frattempo riceve un messaggio da Ranke, il supervisore agli scavi, che lo informa che “sta uscendo qualcosa di buono”. Nello stesso momento arriva la compagnia reale. Seguono brevi descrizioni dei singoli reperti, compresa la nota voce relativa al busto di Nefertiti “Durante questa scoperta i visitatori sono più eccitati che forse desiderabili. 4:15 via a casa. Senussi riferisce di aver individuato altre 3 teste di gesso e un piede di granito. 4 guardie poste sul sito. Tè in veranda. Al tramonto gli ospiti vanno al battello a vapore, che a questo punto ha quasi raggiunto Hagg Quandil. Alle 7:30 andiamo tutti a cena in cachi. 9:30 rientro a casa. 12:40 a letto dopo questa giornata vertiginosa.
Le norme fissate al tempo da Maspero prevedevano che metà dei reperti di ogni scavo rimanessero in Egitto, mentre l’altra metà sarebbe andata al Paese o comunque ai finanziatori degli scavi (“partage”), e che la Sovrintendenza avrebbe avuto la priorità della scelta. Maspero invia Gustave Lefébvre come rappresentante, ma Lefébvre non è un egittologo, è un filologo. Quel 20 di gennaio Lefébvre prende dalla sua valigetta un telegramma inviato da Maspero che gli ordina di eseguire la divisione “a moitié exacte” (in due metà esattamente uguali).Borchardt aveva avuto un primo incontro con un funzionario della Società Orientale Tedesca (verbalizzato anni dopo con teutonica precisione) in cui Borchardt affermava di “voler assolutamente il busto in Germania”. Fino alla “spartizione” del busto ha fatto pubblicare una sola foto, in cui si vede poco o nulla. Stranamente, il busto non è stato neppure pulito, per stessa ammissione di Borchardt.
E i fatti terminano qui.
Quel 20 gennaio 1913, con una fretta molto sospetta per una campagna di scavi tutt’altro che conclusa, viene effettuata la spartizione, ed iniziano invece i “si dice”.
“Si dice” che Borchardt abbia preparato le due parti per la spartizione inserendo il busto sotto una voce “falsa”, qualcosa come “busto di gesso dipinto di una principessa della famiglia reale, incompiuto”. Di seguito farà riferimento al busto come alla “regina colorata”, come se fosse una cosa da bambini.
“Si dice” che il team di Borchardt abbia creato il busto per ricostruire le tecniche dello scultore Thutmose, ma che la cosa sia loro scappata di mano quando il principe Johann Georg di Sassonia, parente del Kaiser ha visitato gli scavi e ha fotografato il busto, costringendoli ad inserirlo nei reperti catalogati.
“Si dice” che Borchardt abbia blandito Lefebvre, esaltando il valore di alcuni scritti e bassorilievi presenti nell’altro lotto.
“Si dice” che il busto sia stato messo sul fondo di una cassa, coperto da un telo in una stanza poco illuminata per ingannare Lefebvre.
“Si dice” che sia stato effettuato un sorteggio, e che Borchardt abbia pagato l’addetto al sorteggio per scegliere il lotto “giusto”.
“Si dice” che la suddivisione dei reperti non sia mai stata effettuata e che Borchardt abbia semplicemente scelto cosa portare fuori dall’Egitto.
Il segretario della Società Orientale Tedesca, Bruno Güterbock, che era presente all’evento, scrive un rapporto secondo cui Lefébvre è stato prima portato in un ufficio, dove ha guardato le foto di tutti i reperti. Gli è stata mostrata un’immagine di Nefertiti che “non era esattamente la fotografia più vantaggiosa“.
Borchardt in seguito menzionò di aver scelto con astuzia il dettaglio dell’immagine “in modo che non si possa riconoscere la piena bellezza del busto, sebbene sia sufficiente confutare, se necessario, ogni successivo discorso tra terzi sull’occultamento“.
Quindi consegna a Lefébvre l’elenco preliminare che divideva i reperti. Il busto di Nefertiti è in cima alla colonna di destra, seguito da circa 25 statue in gesso. Sono indicati 11 reperti in pietra nell’altra colonna, in testa c’è una stele di Akhenaton e Nefertiti molto “appetibile” (e casualmente a Berlino ce n’era già una…). Per colmo di ironia, pare che la stele stessa sia un falso.Di fatto, qualcosa di strano deve essere successo visto che dall’anno successivo fu cambiata la normativa, e tutti i pezzi valutati come “unici” non poterono più lasciare ufficialmente l’Egitto.
Gustave Lefébvre. Se il busto è a Berlino la colpa o il merito è tutto suo. Beneditelo o maleditelo a seconda dei casi. Lo ritroveremo nella seconda parte alle prese con il suo capo, che sarà costretto a prendere una posizione.
La lista del partage firmata da Lefébvre
E di fatto, qualcosa di anomalo nel percorso del busto c’è. Tutto il materiale proveniente da Amarna viene esposto a Berlino tra il 1913 ed il 1914. Il busto no. Viene esposto solo quando il kaiser Guglielmo II fa visita al museo, e subito dopo fatto sparire di nuovo. Un indizio che il busto sia un falso inserito nel catalogo solo perché il principe Johann Georg lo aveva visto e fotografato in Egitto?
Una delle prime foto “ufficiali” del busto al sicuro in Germania. Queste foto non furono mai mostrate in Egitto prima della partenza dei reperti e per molti mesi dopo
Dopo la “famigerata” spartizione, in quel gennaio del 1913 le casse vidimate da Lefébvre partono per il Cairo; se anche Maspero avesse delle perplessità, per legge non possono più essere aperte. Nel dubbio, però, il busto viaggia in una cassa separata e finisce direttamente a casa di Borchardt. Di lì riparte tutto per Berlino dove il materiale, tranne il busto, viene esposto al Neues Museum. La leggenda tramandata dalla famiglia Simon vuole che Heinrich, il figlio di James, abbia portato personalmente il busto nel suo baule fino a Berlino.
Immaginate l’espressione (e le parolacce…) di Lacau quando vide queste immagini della “regina colorata”
Di fatto, Simon si tiene il busto nella sua villa per una decina d’anni, tranne che per una fugace apparizione alla fine del 1913 per una visita al Museo da parte del Kaiser, a cui viene promessa una copia del busto. Borchardt sostenne che non dovesse essere esposto (senza una motivazione plausibile), alimentando le voci che fosse un falso, o comunque che fosse stato esportato illegalmente (in effetti Borchardt, “invidioso” di Schiaparelli, non pubblicò una riga sul busto fino al 1923). Nel 1924, dopo la donazione ufficiale di Simon allo Stato Prussiano, fu finalmente esposto all’ Ägyptisches Museum. La data è anch’essa sospetta, una sorta di concorrenza ai reperti di Tutankhamon degli eterni rivali inglesi che avevano infiammato il mondo con una nuova ondata di egittomania.
Il busto di Nefertiti nella villa di Simon, dove rimase per una decina d’anni.
Nel frattempo, una copia del busto viene fatta per il Kaiser dalla scultrice Tina Wentcher, il che creerà ulteriori dubbi sull’originalità del busto esposto. Una seconda copia viene fatta da Richard Jenner nel 1925; Jenner annota che il busto è in pietra ricoperto da uno strato sottile di gesso. Si sorprende perché a lui avevano detto che fosse solo in gesso (retaggio del “trucco” di Borchardt?)
Nel 1924, in coincidenza con l’esposizione a Berlino, arriva però anche la prima richiesta ufficiale di restituzione all’Egitto. La fa Pierre Lacau, il nuovo Direttore del Servizio Antichità, che non appena ha visto le foto del busto ha rischiato l’infarto. Lacau interroga anche Lefebvre, e Lefebvre cade in contraddizione. Ha ancora la lista “incriminata” ma non riesce a ricordare se avesse visto il busto o no. Ma allora, se non ha visto i reperti originali allora ha trascurato i suoi doveri. Se invece ha esaminato il busto, oltre alla colossale figura di m… Lacau non può rivendicare l’oggetto per il Cairo.
Nonostante questo, scriverà Lacau:
“Il signor Lefebvre, uomo di serietà e competenza indiscussa…dichiara che il suo protocollo è stato rispettato. Poiché ci ha rappresentati legalmente, la sua firma ci vincola“.
Lacau fa quello che ogni buon “capo” dovrebbe fare: protegge le persone del suo team. Lo fa anche se Lefébvre nel momento della spartizione dipendeva da Maspero, non da lui, e lo fa sapendo che probabilmente significa rinunciare a quel busto. Merita rispetto per questo. In compenso, blocca le spedizioni tedesche in Egitto come “rappresaglia” (anche se il blocco non diventerà mai effettivo).
La popolarità del busto già negli anni ’30: la baronessa Nadine Üxküll nel ruolo della regina Nefertiti a un ballo di Berlino (a destra), Berliner Illustrirte Zeitung del 20 aprile 1930. Nel mezzo, la statua di Ranofer, una di quelle “offerte” in scambio dal Cairo
Lo “scambio” proposto tra Berlino ed il Cairo presentato dalla stampa tedesca
Nel 1929 il paradosso: il Museo del Cairo nell’impossibilità di provare di essere nel giusto offre a Berlino dei reperti (la statua di Ranofer, sacerdote di Ptah e Sokar dell’Antico Regno, e la statua di Amenhotep figlio di Hapu del Nuovo Regno) in cambio del busto. Schäfer, Direttore del Museo di Berlino, accetta. Ma la stampa tedesca riceve una “soffiata” ed alza un polverone tremendo; viene pubblicata una vignetta (vagamente razzista) in cui Schäfer è ritratto come un asino che offre Nefertiti al re egiziano Fuad I ritratto come basso e furbescamente imbroglione.
E Schafer diventa l’asino che offre il busto di Nefertiti al re egiziano Fuad I, ben lieto di imbrogliare il tedesco in questa vignetta
Schäfer rinuncia, ma questa sorta di calciomercato andrà avanti a sorti alterne fino al 4 ottobre 1933, quando il primo ministro Göring insieme a Goebbels decide di donare direttamente il busto all’Egitto nel tentativo di spostarlo dall’influenza britannica. Lo fa però senza informare Hitler, e non è una buona idea. Il Fuhrer, che non ascolta le ragioni di una mossa propagandistica, fa un cazziatone a Göring e Nefertiti rimane a Berlino. Borchardt non esulta: le origini ebree della madre lo hanno convinto all’esilio a Parigi, dove morirà nel 1938 prima dell’arrivo dei nazisti.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, il busto finisce nei sotterranei dello Zoo di Berlino, poi segue molti dei beni artistici del Reich in Turingia, dove viene requisita dagli Alleati e portato a Wiesbaden, dove i famosi “Monuments Men” del Monuments, Fine Arts, and Archives Program (MFAA) allestiscono il cosiddetto Central Collecting Point.
Wiesbaden, Germania, 10 febbraio 1946: ritrovato nella miniera di sale di Merkers in Turingia dalla III armata del generale Patton, il busto è presentato dal capitano Walter Farmer, membro della commissione Monuments Fine Arts & Archives, incaricato della protezione dei beni culturali ritrovati nelle zone di combattimento. Il capitano Farmer giocò un ruolo fondamentale per la permanenza del busto in Germania.
Il capo dei Monuments Men, il capitano Walter Farmer, riceve l’ordine di spedire negli Stati Uniti 200 opere d’arte come bottino di guerra. La “Regina Colorata” è in quell’elenco. Farmer si oppone. “Se ora inviamo opere d’arte negli Stati Uniti come bottino non siamo migliori dei nazisti“, scrive seccamente. Farmer ed il suo collega Lindsay risalgono tutta la linea di comando e riescono ad averla parzialmente vinta. Gli oggetti già in Germania prima dell’avvento del nazismo rimangono in Germania. Negli USA vanno solo dipinti sequestrati da Goebbels & C. nelle loro razzie (e rientreranno piano piano nelle loro collocazioni originali). Il busto rimane in Germania e viene esposto a Wiesbaden.
Alcuna tra le copie “ufficiali” del busto, a sinistra la prima di Tina Wentcher. Il fatto che a distanza di 3300 anni non siano riusciti ad avvicinarsi al busto di Thutmose la dice lunga sull’abilità dello scultore
Il busto in esposizione a Wiesbaden, dove vennero esposti i reperti del Central Collection Point fino al 1956
A Wiesbaden il busto divenne una sorta di simbolo della rinascita tedesca del dopoguerra da un punto di vista culturale. Giocò un ruolo importante la volontà di liberarsi del retaggio nazionalsocialista e, forse, anche una sorta di “redenzione” viste le origini ebraiche di Borchardt e Simon.
Il busto di Nefertiti nella mostra permanente dell’Ägyptisches Museum nella Stülerbau orientale. Sekhmet veglia su di lei.
Dopo la fine della guerra, una nuova battaglia tra le neonate Germania Est e Ovest per il busto vede vincitori gli occidentali. Nefertiti viene esposta al Museo di Dahlem e trasferita nel 1967 alla mostra permanente dell’Ägyptisches Museum nella Stülerbau Orientale di fronte al castello di Charlottenburg. Dopo l’unificazione delle due Germanie, l’afflusso di visitatori cresce. Il busto viene portato all’Altes Museum, dove viene allestita una stanza praticamente tutta per lui ed infine nella sua collocazione attuale al Neues Museum.
Negli anni il busto viene soprannominato dai tedeschi “Nofri”, anche se nasce negli anni ’80 un movimento spontaneo per restituirlo all’Egitto, magari organizzando un’esposizione alternata Cairo/Berlino.
Berlino risponde che il busto è “troppo fragile” per viaggiare. Peccato che nel 2003 il busto stesso venga estratto dalla sua teca e posizionato su una statua in bronzo: è l’opera di due artisti ungheresi (Andras Galik and Balint Havas) intitolata “Il corpo di Nefertiti”. Statua e video dell’evento verranno esposti alla Biennale di Venezia, facendo discretamente arrabbiare gli egiziani.
“Il corpo di Nefertiti”, l’opera di Galik e Havas per la Biennale di Venezia del 2003 che fece gridare allo scandalo gli archeologi di tutto il pianeta per aver messo a rischio il busto e fece incazz…arrabbiare non poco gli egiziani per quello che venne considerato sia un affronto alle richieste di restituzione del busto che una profanazione della figura di Nefertiti. Il corpo in bronzo è ora esposto a Varsavia
Nel 2005 l’Egitto si appella formalmente all’UNESCO, che altrettanto formalmente se ne lava le mani.
Nel 2007 non può mancare all’appello Zahi Hawass, che inserisce il busto tra i “furti subiti dall’Egitto” e ne chiede almeno l’esposizione temporanea al Cairo scrivendo:
“Dato l’incommensurabile piacere e orgoglio che questo oggetto potrebbe portare agli egiziani che non hanno mai avuto l’opportunità di vederlo, sembra che sia necessaria una valutazione approfondita e imparziale da parte di un comitato scientifico per essere sicuri che ogni possibile scenario per la sua sicura esposizione in Egitto sia esaminato prima che la nostra richiesta del suo prestito venga rifiutata. Non metteremmo mai in pericolo nessuno dei nostri tesori insistendo sul fatto che viaggino contro il parere di una commissione imparziale di esperti. Tuttavia, sosteniamo che la valutazione di questi oggetti dovrebbe essere effettuata da un comitato internazionale equilibrato e diversificato, inclusi esperti dall’Egitto e da altre nazioni non occidentali”.
Wildung, all’epoca Direttore del Museo di Berlino, risponde seccamente che il busto è legalmente a Berlino e lì rimarrà.
Fine della storia?
Il busto di Nefertiti al piano superiore dell’Altes Museum. Si delinea l’idea dell’esposizione isolata, separata dagli altri reperti
Nefertiti nella sua collocazione attuale al Neues Museum, nella North Dome.
Una curiosità: nel museo è possibile fotografare ovunque tranne che in questa sala. I visitatori possono fotografare il, busto solo dalle stanze adiacenti. Il divieto è stato imposto (nella stanza è anche proibito conversare) per permettere ai visitatori di contemplare l’opera senza essere disturbati dai flash spesso dimenticati accesi.
Grazie alla creatività degli allestitori, nella North Dome lo sguardo di Nefertiti si estende per tutta la lunghezza dell’edificio fino alla monumentale figura del dio del sole Helios, che si erge nella South Dome. Helios è un dio greco, ma questa statua è stata trovata nel Medio Egitto. Anche se i due oggetti siano stati creati a circa 1500 anni di distanza uno dall’altro, possiamo dire che Aton continua a legarli indissolubilmente.
La perfezione consiste nell’imperfezione
RIFERIMENTI:
Helaine Silverman, Contested Cultural Heritage – Religion, Nationalism, Erasure, and Exclusion in a Global World. Springer 2010
Friederike Seyfried, In the light of Amarna. Ägyptisches Museum Und Papyrussammlung Staatliche Museen Zu Berlin 2013
Re-Examining Nefertiti’s Likeness and Life, Der Spiegel 2013
A Sua Eccellenza Il Ministro della Pubblica Istruzione – Roma
Eccellenza, mi è sommessamente grato il comunicare a V.E. che, dopo alcune settimane di permanente lavoro nella parte della necropoli tebana che è designata sotto il nome di Deir-el-Medina, questa missione scoperse una scala scavata nella montagna e che scendeva profondamente nella medesima e dava accesso a una tomba intatta.”
Così scriveva, nel suo consueto stile, Ernesto Schiaparelli per comunicare al finanziatore della Missione Archeologica Italiana ciò che era avvenuto cinque giorni prima. Sempre nel suo consueto stile, ci penserà 21 anni prima di pubblicare qualcosa sulla tomba – fino al 1927, quando gli ori di Tutankhamon avevano ormai fatto sparire in un gorgo luccicante tutte le altre scoperte contemporanee.
Le pagine del diario di Francesco Ballerini, archeologo della M.A.I. che descrivono l’esplorazione del corridoio: “Tomba intatta. Il corridoio non conteneva niente. La porta era chiusa con buone pietre, oltre le quali si trovarono a sinistra entrando, successivamente: – Due paia di sandali – Due coffe ben lavorate colla fune colle quali erano sospese ad un palo che però vi fu lasciato. Vicino sta un supporto di lampada a forma di loto. Appoggiati alla muraglia e stesi al suolo vicino e intorno alle coffe rami di perse e di sedano selvatico, eccetera – Di fronte sull’altra parete un mucchio di pietre avanzate nella costruzione della porta – Un sedile quadrato – Un letto grande sopra cui è avvoltolata una bella stuoia – Un sedile rotondo a tre gambe ricurve sopra il quale è una paniera con un buco rotondo sul fondo – Altro sedile a quattro gambe (di leone) su cui è steso un pezzo di tela a pennacchi. Dinanzi è posato uno sgabello. Il sedile è di paglia intrecciata. Sul sedile quadrato è dipinta l’iscrizione che è pure ripetuta sullo sgabello.”
“All’imboccatura della tomba si accedeva scendendo una rampa di gradini scoscesi, ancora parzialmente coperti dai detriti. In fondo a questa scalinata, l’ingresso di un passaggio che correva nel fianco della collina era bloccato da un muro di pietre grezze. Dopo averlo fotografato e rimosso, ci siamo trovati in una galleria lunga e bassa, bloccata da un secondo muro pochi metri più avanti. Entrambi questi muri erano intatti, e ci siamo resi conto che stavamo per vedere quello che probabilmente nessun uomo vivente aveva mai visto prima… Rimosso il secondo muro, un corridoio scavato grossolanamente di un paio di metri di altezza. Allineati contro il muro a sinistra c’erano mobili funerari, diverse ceste, un paio di anfore, un letto, uno sgabello e un palo per il trasporto. In fondo al corridoio c’era una semplice porta il cui legno conservava il colore chiaro dell’abete fresco e sembrava che tutto fosse stato installato solo ieri. Una pesante serratura di legno chiudeva saldamente la porta, la cui maniglia di bronzo era pulita e fissata ad un pomolo murato nello stipite con una corda sigillata con una piccola quantità di argilla. L’intero congegno sembrava così moderno che il professor Schiaparelli chiamò il suo servo per chiedergli la chiave, ed il servo serio e compunto rispose: “Io non so dove sia, signore…”
Arthur Weigall. Inglese, aveva lavorato con Petrie e con un giovane Howard Carter (con cui entrerà in feroce polemica alla scoperta della tomba di Tutankhamon per questioni legate ai diritti di cronaca) prima di essere nominato Capo Ispettore per le Antichità nell’Alto Egitto, carica ereditata dallo stesso Carter
Così scriverà invece Arthur Weigall, ispettore del servizio antichità del Cairo per l’Alto Egitto, descrivendo la scoperta in modo più coinvolgente e vagamente ironico.
Adesso è nota come TT8, Tomba Tebana n° 8. All’epoca, il salvagente della Missione Archeologica Italiana.
Il pyramidion della cappella funeraria di Kha, involontario specchietto per le allodole che deviò l’attenzione dei tombaroli. Attualmente al Louvre, inventario E 13988
È la tomba di un funzionario, Kha, vissuto sotto almeno tre Faraoni (Amenofi II, Thutmosis IV e Amenofi III. Il nome di Amon è stato scalpellato dalla sua cappella funeraria, per cui potrebbe aver visto l’inizio del regno di Amenofi IV/Akhenaton.La tomba è sfuggita ai predoni perché la cappella funeraria correlata non è nelle immediate vicinanze, bensì sul versante opposto, a circa 25 metri in linea d’aria. Drovetti ne aveva recuperato il pyramidion (ora esposto al Louvre) e la stele esposta a Torino.
La posizione della necropoli di Deir-el-Medina a Tebe e quella della TT8 di Kha e Merit
La posizione della tomba ricostruita in 3D rispetto alla cappella funeraria. Probabilmente l’ingresso fu coperto dagli scavi delle numerosissime tombe di funzionari scavate nella zona.
Sezione della tomba in 3D, con lo sviluppo pressoché lineare
Kha era “Capo della Grande Casa” e sovrintendente dei lavori alla Necropoli Reale. Lo sappiamo anche dalla stele riportata da Drovetti. Lui e la moglie Merit avevano almeno due figli, Nekhteftaneb e Amenemopet, e una figlia, Merit (come la madre), Cantatrice di Amon.
Kha era di conseguenza un personaggio di rilievo nella preparazione delle ultime dimore dei faraoni. SI fece quindi costruire una tomba con le stesse tecniche e, fortunosamente, rimasta intatta fino a noi.
L’ingresso della tomba come appariva agli scopritori e Il secondo corridoio che conduceva alla camera sepolcrale come apparve a Schiaparelli ed a Weigall
La porta in legno che conduceva alla camera sepolcrale, ora al Museo Egizio di Torino. Ha “solo” quasi 3500 anni…
Senza chiave per aprire la porta in legno, Schiaparelli fece tagliare sigillo e serratura, e la porta si aprì per la prima volta in più di tremila anni per entrare nella camera funeraria.
E queste furono le prime “cose meravigliose” che apparvero a Schiaparelli e Weigall. Coperto da un telo di lino, il sarcofago di Merit; addossato al muro sullo sfondo il sarcofago di Kha, anch’esso coperto da un telo. Sul pavimento, gli oggetti della coppia.
Gli oggetti principali erano ancora ricoperti da teli per la polvere, ben visibili nelle fotografie dell’epoca. Ciò che colpì maggiormente Weigall fu un portalampada in legno a foggia di colonna di papiro il cui piattino in lega di rame conteneva ancora le ceneri prodotte dalla sua antica fiamma.
“Ci chiedemmo sbalorditi se le ceneri qui, apparentemente non fredde, avevano davvero smesso di brillare in un momento in cui Roma e la Grecia erano inimmaginabili, quando l’Assiria non esisteva e quando l’esodo dei figli di Israele era ancora incompiuto”
è il suo riverente commento.
Qui si vede bene, in primo piano, il portalampada in legno che tanto colpì gli scopritori
La tomba ritrovata rifletteva la ricchezza personale dei proprietari, la loro particolare posizione all’interno della società e la loro storia di vita. È come se una casa di lusso della XVIII dinastia fosse stata imballata in preparazione per il riutilizzo nell’aldilà. Un trasloco nell’oltretomba, letteralmente.
C’erano tavoli pieni di offerte di cibo: verdure (tritate e condite, Kha era quasi sdentato quando morì), purea di carruba, uva, datteri, sale, cumino, trecce di aglio e bacche di ginepro.
l nome di Kha è inciso sugli oggetti che gli appartenevano in virtù del suo mestiere e del suo rango, una fiera attestazione di proprietà. Ma c’è anche la vita personale di Kha e di sua moglie Merit attraverso i suoi vestiti, i gioielli, i mobili, gli articoli da toeletta, i passatempi preferiti.
La tomba di Kha, nella sua ricchezza, forse non ha lo sfavillio della maschera di Tutankhamon ma ha molto di più. Kha è uno di noi. Non è divino, non siede su troni d’oro, non massacra nemici in nome della Terra di Khemet. È un artigiano (seppur di altissimo livello, non dimentichiamolo) e la sua tomba illustra la vita di tutti i giorni di una persona, non di un Faraone. Forse questo lo rende più ”reale”, più vicino a noi. E non è poco.
Ricostruzione della disposizione degli oggetti
La “processione” degli oggetti estratti dalla tomba. Lo stato di conservazione era talmente buono che non ci fu praticamente bisogno di un lavoro preliminare di consolidamento e protezione in loco.
Però – e c’è un però – se possiamo essere felici che tutto il corredo funerario di Kha sia a Torino, non è chiaro perché sia a Torino. Il sistema in vigore con Maspero era la divisione al 50% dei reperti, con diritto di prelazione per l’Egitto; come mai i reperti sono tutti in Italia? Un sotterfugio della Missione Italiana non è ipotizzabile, come abbiamo visto il rappresentante delle Antichità era presente al momento dell’apertura. Una concessione da parte di Maspero al suo ex allievo, che dalla Valle delle Regine aveva riportato poco o niente? È questo il motivo per cui gli scavi della M.A.I. non furono citati nei resoconti annuali delle autorità egiziane, per evitare imbarazzanti confronti? Probabilmente non lo sapremo mai.
I SARCOFAGI E LE MUMMIE
Kha, come abbiamo visto, era un uomo facoltoso. Decise quindi di essere sepolto in una serie di sarcofagi come d’uso nella XVIII Dinastia, uno esterno squadrato e due bare antropomorfe interne. Probabilmente lo stesso corredo era stato pensato per Merit, ma evidentemente la donna morì prematuramente e fu necessario usare in fretta e furia una delle bare di Kha per contenerla. La bara antropomorfa di Kha risultò troppo grande per la minuta Merit, quindi lo spazio in eccesso è stato riempito da lenzuola ripiegate. La “mancanza” della seconda bara interna fu compensata con una splendida maschera funeraria.
Entrambi furono sepolti con i gioielli che testimoniavano il loro status sociale ed il compiacimento dei Faraoni sotto cui Kha aveva prestato la sua opera.
Le mummie non sono mai state sbendate; la mummificazione sarebbe avvenuta per semplice immersione in bagno di natron (non ci sono segni di eviscerazione, quindi non ci sono vasi canopi per la conservazione degli organi interni).Le mummie furono esaminate ai raggi X negli anni ’60, e la conclusione fu che, nonostante lo status di Kha e Merit, la mummificazione fosse stata fatta in maniera frettolosa e “povera”. Si ipotizzò addirittura che fossero stati semplicemente bendati e sepolti.
Le indagini successive con la TAC hanno mostrato che i corpi sono molto ben conservati (soprattutto quello di Kha). La scelta di non sbendare le mummie è ovviamente comprensibile, ma su cui si può discutere; è un peccato non poter ammirare i gioielli di Kha e Merit “dal vivo”, ma in fondo sono rimasti dove dovevano essere. Credo che sia un eterno dilemma in questo campo.
Così apparve il sarcofago di Kha agli scopritori
Il sarcofago intermedio di Kha riproduce l’immagine della mummia rivitalizzata e, al momento della scoperta, vi erano appoggiate due grandi ghirlande di loto e un papiro contenente il Libro dei Morti. La superficie è caratterizzata da elementi in rilievo ricoperti da gesso e foglia d’oro che evocano la luce solare ed evidenziano i simboli del risveglio a nuova vita di Kha. Tra questi si notano la maschera funeraria, l’ampio collare chiamato “Usekh” e le bande (ad imitazione delle fasce che stringono il lenzuolo funerario intorno al defunto) che recano formule e preghiere a Nut, Thot, Anubi e i figli di Horus, divinità tradizionalmente associate con l’Aldilà e chiamate a proteggere l’integrità del corpo del defunto. Nekhbet in forma di avvoltoio dorato in rilievo protegge il petto della bara
Nel dettaglio possiamo ammirare l’opera di rivestimento in foglia d’oro dei rilievi
La bara antropomorfa interna di Kha è completamente dorata; la foglia d’oro è stesa su un finissimo strato di gesso su cui sono modellati a rilievo le figure e le iscrizioni, che riprendono i testi già osservati sul sarcofago intermedio. Il viso è impreziosito da occhi in pasta di vetro intarsiato. Nekhbet protegge nuovamente il petto appena sotto le braccia incrociate
I dettagli anche in questo caso sono estremamente ben curati
La parte superiore del sarcofago interno
Kha ha riposato qui per più di 33 secoli prima della scoperta della Missione Archeologica Italiana
L’espressione che è stata conferita al volto di Kha nella bara interna è di serenità estrema
La mummia di Kha ci mostra che era alto circa 170 cm (168 all’ultimo esame nel 2014). Fu mummificato con le braccia distese lungo i fianchi e le mani sul pube. Era anziano per l’epoca, intorno ai 60 anni, quasi completamente sdentato (curiosamente aveva perso premolari e molari ma aveva mantenuto gli incisivi) e con segni di aterosclerosi e di artrite. Mostra la frattura di una vertebra, probabilmente un infortunio sul lavoro
La mummia di Kha porta una particolare collana formata da numerosi dischi chiamata “shebyu”, che il re donava come “Oro dell’Onore” ai suoi funzionari più capaci. Kha porta inoltre una catenella con appeso uno scarabeo del cuore, un paio di larghi orecchini, due bracciali e due cavigliere, cinque anelli e due amuleti a forma di cobra e di nodo di Iside, rispettivamente collocati sul petto e sulla testa
Nella proiezione laterale si capiscono bene le dimensioni dei gioielli indossati da Kha nella sepoltura
Il cervello di Kha non è stato estratto, come è evidenziato dalle frecce
La mummia di Kha indossa due grandi orecchini in oro, una collana in dischi d’oro e sei anelli. Kha è uno dei primi esempi di un personaggio egizio di sesso maschile che indossava grandi orecchini ad anello, molto spessi. Si pensa che questa “moda” sia stata importata dalla Nubia alla fine della XVII Dinastia. La collana invece è l’Oro dell’Onore, la massima onorificenza donata dal Faraone a chi si distingueva particolarmente nei suoi compiti. Si calcola che pesi tra un chilo ed un chilo e mezzo. La ricostruzione fa vedere molto bene anche lo scarabeo del cuore, probabilmente con inciso sul retro una delle formule magiche del Libro dei Morti. Sulla fronte, in posizione inusuale, una testa di serpente (ureo) normalmente posizionata sul collo del defunto. La posizione sulla fronte (come per l’ureo dei Faraoni) ha lasciato supporre un particolare onore reso dagli addetti alla mummificazione. Sotto l’Oro dell’Onore, un Nodo di Iside (“tiet”) probabilmente in pietra rossa. Due ornamenti in foglia d’oro avvolgono entrambe le braccia
Il sarcofago esterno di Merit è un po’ più semplice, senza la struttura a forma di slitta sottostante e conteneva una sola bara antropomorfa, le cui iscrizioni erano per Kha. La qualità del legno è inferiore rispetto al sarcofago di Kha, con la presenza di alcune “giunte”. Questi elementi hanno portato all’ipotesi che Merit sia morta prematuramente, quando il suo corredo funerario non era ancora completo
Al momento della scoperta, il sarcofago interno di Merit era avvolto in un telo e racchiudeva, proteggendole, la mummia della donna e la preziosa maschera funeraria posta sul capo. Il fatto che i testi funerari siano a nome di Kha e che le dimensioni generali del sarcofago eccedano quelle del corpo minuto di Merit suggeriscono che la cassa possa essere stata preparata originariamente per Kha e poi successivamente utilizzata invece per la sepoltura di Merit
Il sarcofago è finora unico nel suo genere, perché fonde in sé i due diversi modelli decorativi osservabili. rispettivamente, sul sarcofago mediano e quello interno di Kha: la cassa è coperta infatti da resina nera con figure ed iscrizioni in foglia d’oro, mentre il coperchio è completamente dorato. È stato ipotizzato che ciò abbia forse permesso di integrare in un solo sarcofago antropoide la funzione simbolica dei due normalmente previsti all’epoca. Il fatto però che i testi funerari siano a nome di Kha rende dubbia questa opinione, in quanto non sarebbe stato concepito per questa funzione
Si notano bene nelle fotografie originali le lenzuola usate come imbottitura per riempire lo spazio derivante dalla “taglia” sbagliata e la maschera funeraria
Si notano bene nelle fotografie originali le lenzuola usate come imbottitura per riempire lo spazio derivante dalla “taglia” sbagliata e la maschera funeraria
Il particolare della maschera funeraria ancora sul corpo di Merit
Senza la maschera è resa evidente la differenza tra la bara ed il corpo di Merit
La mummia di Merit al Museo Egizio di Torino
La maschera funeraria di Merit è anch’essa in legno ricoperto di gesso e da una foglia d’ oro intarsiata con pietre dure e vetro colorato
Il vetro imita pietre più preziose quali lapislazzuli, turchese e corniola. La maschera fu trovata leggermente schiacciata, forzata all’interno dalla bara, l’occhio sinistro è stato restaurato mentre la maschera è stata rimodellata e consolidata
Merit ci osserva nel suo sguardo senza tempo
I danni alla maschera dovuti all’incastro in una bara che non era nata per contenerla si vedono molto bene dal lato
Merit mostra un’età apparente alla morte di circa 25 anni ed era alta circa 149 cm, anche se la sua mummia è un paio di centimetri più bassa anche per i danni alla colonna vertebrale. Anche nel suo caso il cervello non è stato estratto. Anche Merit non era messa molto bene con i denti, aveva perso un canino ed altri tre denti; un ascesso minacciava di fargliene perdere un altro. Un anello si è spostato durante la mummificazione o il trasporto ed è finito dietro la nuca (punta di freccia a destra).
Merit indossa due paia di orecchini a nastro (il doppio foro all’orecchio era una “novità” della XVIII Dinastia tra le classi abbienti) e un ampio pettorale “Usekh” in oro e pietre dure, probabilmente lapislazzuli, corniolo, turchese o pasta di vetro. Stranamente, Merit non indossa amuleti funerari (scarabeo del cuore o Nodo di Iside)
Una ricostruzione 3D dei gioielli di Merit
Curiosamente, il torace di Merit è stato “massacrato”, con vertebre e costole fratturate e dislocate. Al braccio Merit porta un fine bracciale in oro (radiografia in basso a sinistra) ed indossava 4 anelli in oro, di cui come abbiamo visto uno dislocato dietro la nuca. Intorno alla vita una cintura con perline in pietre dure intervallate da elementi in metallo
Le immagini di uno degli ultimi esami radiografici effettuati. La mummia di Merit sembra ancora più minuta in queste foto
Il sarcofago esterno di Kha, originariamente protetto da un grande lenzuolo di lino, è in legno di sicomoro ricoperto da una sostanza di colore scuro. Contrariamente a quanto si pensava inizialmente, non è bitume ma pece riscaldata e mescolata con olio di cedro e carbone. La cassa è composta da cinque parti smontabili e da un coperchio di forma arcuata che gli conferisce l’aspetto di un santuario. La base è lavorata in modo da imitare la forma della slitta usata per trasportare il catafalco alla tomba durante il funerale.
GLI OGGETTI DI TUTTI I GIORNI
Sono più di 500 gli oggetti trovati da Schiaparelli e dalla sua squadra nella tomba di Kha e Merit. Alcuni sono arredi funerari, ma la maggior parte è costituita dagli oggetti di uso quotidiano della coppia. È un’occasione unica per “guardare” la vita di questa coppia, per capire chi fossero come persone.
Entriamo quindi nella loro “casa”, con il dovuto rispetto di chi è ospite. Non sono oggetti, sono i loro oggetti, le loro cose.
Gli oggetti personali di Kha ci parlano della professionalità del loro proprietario. Kha ha voluto con sé gli strumenti del suo lavoro, quello che lo avevano reso così fiero per l’approvazione dei Faraoni sotto cui aveva lavorato e che avevano dato un futuro ad almeno uno dei figli.
Merit ci mostrerà con orgoglio la sua splendida parrucca ed i suoi vestiti che la identificavano come Padrona della Casa di un alto funzionario, e tutti gli oggetti della loro casa che testimoniano la loro agiatezza ed il prestigio di cui entrambi godevano.
Ma naturalmente vedremo anche gli oggetti di tutti i giorni, quelli per l’igiene personale, l’abbigliamento ed una considerevole scorta di derrate alimentari per il lungo viaggio della coppia: pagnotte, datteri, frutta secca, carne di volatili, di pesce.
Impossibile descriverli tutti: un’occasione in più per andare – o tornare – al Museo Egizio di Torino a vederli dal vivo.
Io posso solo fare una carrellata di quelli più significativi, per chi vorrà accompagnarmi a casa di Kha e Merit.
Questo è in assoluto l’oggetto che rappresenta Kha, secondo il mio modesto parere. È ciò che ci avrebbe mostrato per primo nella nostra visita a casa loro, con la giusta fierezza di farcelo vedere. È un “cubito reale”, ossia la lunghezza di un avambraccio e di un palmo pari a circa 52 centimetri, l’unità di misura nell’Antico Egitto. Lo strumento di lavoro dei costruttori. Kha ne aveva uno pieghevole, per l’uso quotidiano, ma questo è placcato in oro e porta i cartigli di Amenhotep II, il primo Faraone sotto cui Kha aveva servito. Probabilmente il dono per un compito eseguito eccezionalmente bene, forse il suo primo successo esaltante. Questo oggetto grida che il suo proprietario era competente, e che il suo talento brillava come l’oro
Il dettaglio delle estremità del cubito con i cartigli di Amenhotep II (Aakheperure) permette di apprezzare la fine lavorazione ed il valore di questo reperto. Possiamo solo immaginare l’emozione di quest’uomo quando lo ha ricevuto dalle mani del Faraone, di cui stava magari preparando la sua Dimora dell’Eternità. E quante volte lo avrà riguardato, lucidato, mostrato ai figli ed agli amici raccontandone la storia…
Per l’attività giornaliera, Kha usava invece questo cubito in legno di acacia, pieghevole per comodità e contenuto in un astuccio in cuoio. Questo cubito è stato usato moltissimo, ci sono graffi e segni di riparazioni ovunque; il meccanismo di chiusura, a doppio fermaglio, è stato riparato e sostituito almeno una volta da Kha
L’astuccio per il cubito pieghevole di Kha, con tanto di fettuccia per il trasporto
Il dettaglio ci evidenzia la suddivisione del cubito (“meh”) in 7 palmi (“shesep”), ognuno dei quali formato da 4 dita (“djeb’a”, a sinistra in basso). Ogni cubito era quindi lungo 28 “dita”. Si pensa che il profilo pentagonale sia stato concepito per vedere meglio dall’alto dove marcare i riferimenti durante le misurazioni.
Un oggetto su cui si è molto dibattuto è questa piccola asse di legno con un cerchio sotto, un reperto unico nel suo genere. Si pensava fosse una sorta di bilancia (poco attinente al lavoro di un costruttore edile, in realtà) prima di accorgersi che il cerchio ha inscritto una sorta di rosa dei venti con 16 petali circondata da una linea a zig-zag con 36 vertici, ognuno dei quali suddivide la circonferenza in angoli di 10 gradi. Dovrebbe quindi trattarsi di un goniometro ad uso prettamente edile
Utilizzando un filo a piombo come mostrato, era possibile con questo strumento calcolare l’inclinazione degli angoli con notevole precisione
Non possono mancare ovviamente gli strumenti dello scriba, una tavolozza da scriba con le cannucce ed i pigmenti colorati. Nella tomba c’erano anche diversi strumenti per lisciare i fogli di papiro e le tavolette su cui appoggiarli per scrivere.
Il letto di Kha, di dimensioni maggiori rispetto a quello della moglie, non entrava nella camera sepolcrale della tomba; venne quindi trovato da Schiaparelli nel secondo corridoio (si vede bene nella foto originale ai tempi della scoperta). È composto da un’armatura in legno di sicomoro formata da due listelli longitudinali leggermente arcuati e sostenuti da quattro piedi in forma di zampa di leone. La parte rialzata, ottenuta accostando tre pannelli di legno uniti tra loro da due giunture, costituisce il lato dei piedi e non, come saremmo portati a immaginare, la “testiera”. Il poggiatesta in legno, collocato all’estremità opposta, era usato al posto del cuscino.
I piedi sagomati a forma di zampa di leone avevano tradizionalmente un valore protettivo; il sonno e il sogno erano d’altronde considerati nell’Antico Egitto una zona di confine tra il mondo reale e quello soprannaturale, nella quale l’uomo si trova in una condizione di profonda vulnerabilità
Il letto di Kha a sinistra nel corridoio di accesso alla camera sepolcrale
Nella bara di Kha c’era una delle prime copie del Libro dei Morti su papiro. È lungo ben 13,8 metri ed è decorato con raffigurazioni di ottima qualità che illustrano 33 capitoli. Schiaparelli lo trovò piegato sul secondo sarcofago.
Anche Merit ovviamente è “coinvolta” nel Papiro dei Morti; qui la coppia in adorazione di Osiride
Proprio davanti al suo sarcofago esterno, in una posizione di rilievo al centro della camera funeraria, era stata collocata una splendida sedia con spalliera, decorata con immagini floreali e con iscrizioni volte ad assicurare all’anima del defunto “ogni cosa buona e pura”. Sopra un telo decorato, adagiato sulla sedia, erano posizionati vari oggetti: al centro si trova una statuetta in legno del defunto, ornata da due ghirlande miniaturistiche poste intorno alle sue spalle e ai suoi piedi; un ushabti era appoggiato alla spalliera, mentre un sarcofago in miniatura, del tutto simile ai sarcofagi esterni quadrangolari di Kha e Merit, conteneva un altro ushabti e i modelli di alcuni strumenti di lavoro.
Il portalampada a destra nella foto precedente, che colpì così tanto gli scopritori, è praticamente l’unico oggetto della tomba rimasto al Cairo; a Torino è rimasta una copia
La tavola da senet, una tavola da gioco completa di cassettino per pedine e astragali (ossicini usati come dadi) che abbiamo visto anche nelle decorazioni della tomba di Nefertari, è un oggetto di lusso che raramente si trova in tombe private. Su alcuni riquadri sono scritte indicazioni come “aprire”, “gli spiriti ba”, “l’acqua”, “perfetto”, che per noi, che non conosciamo le regole esatte del gioco, risultano ancora oggi davvero enigmatiche. L’oggetto è un dono di Benermeret, figlio di un collega di Kha di nome Neferhebef, che è raffigurato anche nella cappella funeraria di Kha
È straordinariamente moderno questo contenitore allungato a tubo in vetro blu per il kohl (l’impasto nero a base di nero carbone e antimonio da applicare sulle palpebre e sulle ciglia come filtro contro i raggi solari e come disinfettante) a forma di palma, decorato con motivi a festone bianchi, gialli e arancioni e dotato di bastoncino applicatore in legno. Il motivo della palma è anche simbolico, perché la chioma di quest’albero è anche il geroglifico che indica l’essere giovani
Il contenitore per il kohl, insieme ad altri oggetti per la cosmesi era contenuto in questo cofanetto con doppio coperchio piano è suddiviso in scomparti interni che conteneva alcuni vasetti in alabastro e in vetro colorato. Nei recipienti vi sono tracce di unguenti e di creme a base di grasso. Purtroppo finora non sono stati fatti studi sistematici sulle sostanze e sui cibi lasciati nella tomba
Un altro eccezionale reperto appartenuto a Merit è la parrucca realizzata con ciocche di capelli veri, cucite e intrecciate. La capigliatura è divisa da una scriminatura centrale e le chiome sono arricciate in boccoli terminanti con trecce, ai lati del viso e sulla nuca. Si tratta di un’acconciatura spesso ornata di fiori e diademi, molto di moda a metà della XVIII dinastia, come si nota nelle raffigurazioni pittoriche e statuarie dell’epoca.
Il fatto che la scatola in legno in cui era conservata non abbia la decorazione e le iscrizioni completate è un altro indizio della morte prematura ed inaspettata di Merit. Il contenitore in legno è comunque il più alto ritrovato finora per la conservazione delle parrucche di tutto il periodo faraonico.
“Alla casa di Cha appartennero pure amendue i letti, rinvenuti nella sua tomba; uno, il maggiore, il suo, che si trovò nell’anticamera, e il minore, della moglie Mirit, nell’interno della tomba; quest’ultimo parato con lenzuola e coperte, asciugamani e due poggiatesta: uno dei quali, quello di Mirit, interamente fasciato con doppia tela per renderne meno sensibili gli spigoli” Così scriveva Schiaparelli dei due letti trovati nella tomba.
La vita nel mondo dell’Aldilà prevede per tutte le persone agiate i medesimi lussi di cui avevano goduto in vita. Il letto, indispensabile nella vita quotidiana, diventa elemento irrinunciabile nell’ottica di una vita eterna. A questo scopo il letto di Merit è stato deposto nella tomba accuratamente preparato e completo di biancheria e di poggiatesta imbottito, utilizzato in Egitto al posto del cuscino.
La rete, ottenuta intrecciando corda vegetale, era accompagnata da uno o più lenzuoli di lino e da una coperta con le frange che ci restutuiva in modo straordinariamente attuale e vivo l’aspetto di un letto privato del Nuovo Regno. L’esposizione delle lenzuola ha però pregiudicato in parte la loro conservazione ed è stato deciso di rimuoverle
Due cofanetti in legno decorato praticamente gemelli dedicati dai figli, insieme ad un terzo in cui viene raffigurata anche la figlia Merit contenevano un’infinità di perizomi e di abiti di Kha e Merit, insieme ad un piccolo tappeto. Sulla parete di ciascuna cassa, Kha e Merit ricevono offerte dal figlio
Sul sito del Museo Egizio vengono riportati i nomi dei figli come “Nakhttaneb” e “Nekhetef”, mentre a me risultano “Imenemipet” o “Amenemipet”, che lavorò anch’egli alla necropoli reale, e “Nakhteftaneb”, di cui si perdono le tracce.
La tomba conteneva 26 tuniche di lino estive, 17 invernali e una cinquantina di perizomi. Gli abiti erano siglati, come abbiamo visto in altri post, per permetterne il riconoscimento quando mandati a lavare.
La firma di Kha sui suoi oggetti
Riferimenti:
Gabellone, Francesco & Ferrari, Ivan & Giuri, Francesco & Chiffi, Maria. (2017). Image-Based techniques for the virtualization of Egyptian contexts.
Bianucci, Raffaella, et al. “Shedding New light on the 18th dynasty mummies of the royal architect Kha and his spouse Merit.” PloS one 10.7 (2015): e0131916.
Mostra “Archeologia Invisibile” – Museo Egizio di Torino
Sparavigna, Amelia Carolina. “The architect Kha’s protractor.” ARCHAEOGATE, July 28 (2011).
Trapani, Marcella. “Egipcio de Turín.” Boletín del Museo Arqueológico Nacional 27.10 (2009): 5-20.
Trapani, Marcella – Kha’s Funerary Equipment At The Egyptian Museum In Turin: Resumption Of The Archaeological Study. Proceedings of the Tenth International Congress of Egyptologists, University of the Aegean, Rhodes, 22-29 May 2008
Chiara Zanforlini – Merit e Nefertari: due volti delle Valli
“Nefertari Meritenmut”, la “Bella Compagna, Amata da Mut” (la dea madre raffigurata come un avvoltoio) è stata Grande Sposa Reale di Ramses II, il terzo Faraone della XIX Dinastia. Non si conoscono le sue origini, anche se si suppone discendesse da Ay, il penultimo sovrano della XVIII Dinastia.
Nefertari offre due vasi “nemset” a Hathor, Selkis e Maat; una delle immagini più note della tomba ed il suo cartiglio: nfrt iry mryt n mwt (La Bella Compagna, Amata da Mut). Foto: kairoinfo4u
Nacque intorno al 1295 BCE probabilmente ad Akhmin, l’antica Ipu, capitale del IX Nomo dell’Alto Egitto e città natale anche di Yuia, il papà della regina Tiye. Andò sposa molto giovane a Ramses II a cui diede almeno sei figli, nessuno sopravvissuto al padre.
Morì intorno ai 40 anni nel 25° anno di regno di Ramses, forse ad Abu Simbel. Di lei e della sua importanza ha parlato diffusamente Grazia Musso nella sua rubrica “Donne di Potere sulle rive del Nilo”.
UBICAZIONE E STRUTTURA
La tomba di Nefertari è ubicata nella cosiddetta “Valle delle Regine” (Queens Valley – QV) nella regione occidentale di Tebe ed identificata con il numero 66. È scavata nel versante settentrionale della valle tra le tombe QV 80 di Tuya, la mamma di Ramses II, e la QV68 di Merytamon, figlia e sposa reale dello stesso Ramses.La tomba ha una struttura su due livelli sotterranei, con due scalinate con un piano inclinato al centro per il trasporto del sarcofago. È disposta su un asse sud-sudest/nord-nordovest ma durante la costruzione lo sviluppo è stato “deviato” verso nord, probabilmente per la vicinanza della tomba QV 80 onde evitare crolli. Rispetto alla QV80 di Tuya, estremamente simile come sviluppo, ha un annesso in meno sempre per problemi di vicinanza alla stessa.
L’ubicazione della tomba nella Valle delle Regine
0682 ALa planimetria originale di Schiaparelli e una rappresentazione 3D della tomba
Lo sviluppo delle decorazioni segue il viaggio dell’anima della Regina secondo il Libro dei Morti, con tutte le prove da superare prima di incontrare Osiride e successivamente la sua “resurrezione” entrando nel ciclo eterno del divenire. Il “viaggio” di Nefertari si svolge in senso orario dall’ingresso alla camera sepolcrale fino all’incontro con Osiride, e poi risalendo nel cammino verso la rinascita.
La planimetria con la nomenclatura “moderna” dei locali: A: Ingresso B: Prima scalinata C: Anticamera con mensola scavata nella roccia lungo le pareti occidentali e settentrionali D: Passaggio laterale E: Vestibolo (alcova) F: Porta G: Primo Annesso Est H: Ingresso al corridoio I: Seconda scalinata J: Ingresso alla sala del sarcofago K: Camera funeraria con quattro pilastri (I-IV) e nicchia canopica L: Ingresso all’Annesso Ovest M: Annesso Ovest N: Ingresso al Secondo Annesso Est O: Secondo Annesso Est P: ingresso stanza Nord Q: stanza Nord
Dalla prima scalinata si accede ad una Anticamera, collegata ad est con un vestibolo ad un annesso laterale dedicato ad Osiride ed Atum. Dall’Anticamera una seconda scalinata porta alla Sala del Sarcofago, dotata di 4 pilastri che sorreggono il soffitto e di tre salette laterali, probabilmente con funzioni liturgiche. Una rientranza sulla parete occidentale conteneva probabilmente i vasi canopi. Qui Nefertari raggiunge la meta del suo viaggio, l’incontro con Osiride e la sua eterna rinascita.
L’ingresso della tomba e la prima scalinata nelle tavole originali di Schiaparelli
Il soffitto dell’architrave di ingresso è decorato con una rappresentazione del sole dietro una collina di sabbia, fiancheggiato da Iside (il cui simbolo è ancora visibile) e Neftis in forma di uccelli.
Il decoro rappresenta il sole al tramonto e l’ingresso nel regno dei morti, ma anche il sole nascente e l’eterna rinascita di Nefertari con il disco solare di Ra.
L’ANTICAMERA
L’Anticamera è decorata con i testi del capitolo 17 del Libro dei Morti, l’inizio del cammino nell’Aldilà. Nefertari viene inizialmente rappresentata mentre gioca a senet, liberando il suo “ba” in forma di uccello ed adorando Akeru, il sole sopra l’orizzonte composto da due leoni. I vasi canopici vengono protetti dai figli di Horus prima di scendere nella sala del sarcofago.
L’inizio del viaggio della Regina: Nefertari raffigurata mentre gioca al gioco senet, funzione allegorica del “pensiero” molto usata nella XIX Dinastia. Nella mano destra, Nefertari tiene in mano uno scettro sekhem , mentre con la sinistra si allunga per spostare uno dei pezzi. Nella seconda immagine, è rappresentata come un uccello dalla testa umana appollaiato su un sacrario, la rappresentazione della sua anima ba . Nella terza immagine, è inginocchiata con le braccia alzate in adorazione, rappresentando la sua anima ka di fronte ai cosiddetti “leoni dell’orizzonte” di Akeru ( Akr.w ) Queste immagini sono le uniche in cui Nefertari viene raffigurata mentre indossa dei sandali; nelle altre sarà a piedi nudi. Foto: kairoinfo4u
I due leoni “Sef” (Ieri) e “Duau” (Domani) sono seduti schiena contro schiena con il sole tra di loro formando il segno “Akhet” (“orizzonte”) con il segno “pet” per il cielo sopra di loro. I due leoni sono a volte identificati come Shu e Tefnut. In questa forma, i due leoni sorvegliano la porta dell’alba e della sera e sono chiamati Akeru. L’uccello “benu” (l’anima di Ra descritta da Francesco Alba qui https://laciviltaegizia.wordpress.com/2021/02/02/il-benu/), osserva il corpo mummificato di Nefertari protetto da Iside e Neftis in forma di falchi. Foto: kairoinfo4u
La vacca celestiale origina il mondo, mentre i quattro figli di Horus (Amseti per il fegato, Hapi i polmoni, Duamutef milza e stomaco, Qebehsenuef – testa di falco – l’intestino) proteggono i vasi canopi. Dietro di loro, seduti, Ra e Shu. I corpi appaiono già mummificati, l’anima sta scendendo verso Osiride
Horus ed i figli sovrastano la porta che conduce con la seconda scalinata alla camera sepolcrale e sono raffigurati mummificati, da sinistra: Horus, Duamutef (testa canina), Qebehsenuef (testa di falco, come Horus), Hapi (testa di babbuino) and Amseti (testa umana). I nomi di Duamutef e Qebehsenuef sono stati invertiti dallo scriba. Foto: kairoinfo4u
Osiride con la corona “atef” con davanti e dietro due simboli imuit a lui collegati. Davanti a lui: “Ti ho donato l’eternità come tuo padre, Ra”. Dietro di lui: Protezione, Vita, Stabilità, Potere la accompagnano come Ra per l’eternità., Foto: kairoinfo4u
VESTIBOLO ED ANNESSO ORIENTALE
Sulla parete opposta, che si apre sul vestibolo e sul primo annesso orientale, Nefertari viene accolta da Osiride e da Anubi. Selket e Neith conducono al vestibolo, dove Iside ed Horus prendono per mano Nefertari e la conducono in un “luogo sacro”, dove la Regina offre delle stoffe a Ptah mentre Thot le dona uno spazio nella terra sacra. Dopo le offerte rituali a Osiride ed Atum, la fusione con Ra-Osiride completa il percorso di eterna rinascita della Regina.
Osiride ed Anubi accolgono Nefertari seduti in un santuario sulla parete est; Osiride indossa la corona Atef e su un piccolo piedistallo di fronte a lui ci sono i quattro figli di Horus come figure mummiformi. Piccoli urei con dischi solari adornano la sommità del santuario. Anubi porta la croce Ankh simbolo di vita.Foto: kairoinfo4u
Neith e Selket conducono al vestibolo. Ognuna di esse pronuncia una benedizione “Ti accompagno, Grande Sposa Reale, Signora delle Due Terre, Signora dell’Alto e del Basso Egitto, Nefertari Meritenmut, giusta di voce, alla presenza di Osiride, che risiede ad Abydos; ti dono un luogo nella terra sacra, in modo che tu possa apparire gloriosamente in Cielo come Ra”. Foto: kairoinfo4u
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“Parole pronunciate da Iside: Per mano mia, vieni, Grande Sposa Reale, Nefertari Meritenmut, giusta di voce alla voce, in un luogo nella terra sacra.” Ai lati si intravede Osiride in forma di pilastro “djed”. Iside indossa la corona di Hathor, Nefertari quella a forma di avvoltoio con la doppia piuma ed orecchini a forma di cobra. Sul lato opposto, Nefertari viene condotta da Horus. Foto: kairoinfo4u
Sulla parete est del vestibolo, a sinistra Khepri, simboleggiante il sole nascente con la testa a forma di scarabeo, uno scettro “era” nella mano destra e un “ankh” nella sinistra. Sopra la porta, con i simboli dello shen tra gli artigli, c’è Nekhbet in forma di avvoltoio con i simboli “shen” tra glia rtigli. A destra Hathor seduta dietro Ra-Harakte, con la testa di falco ed il disco solare circondato da un ureo. Attraverso la porta, vediamo gli dei Osiride ed Atum . Foto: kairoinfo4u
Nell’Annesso Est, Nefertari offre delle stoffe, tessute da Iside e Neftis, a Ptah. La biancheria che offre è a forma di geroglifico per l’abbigliamento, “Menkhet”. Ptah è in piedi all’interno di un sacrario dorato dal tetto ricurvo, sorretto da due pali. Quello posteriore è semplice, ma quello anteriore è sormontato da un pilastro djed; un grande pilastro djed si trova anche dietro il sacrario. È ritratto in forma umana, ma con la pelle verde e avvolto come una mummia. Le sue mani sporgono dalla parte anteriore delle bende che tengono un bastone che combina uno scettro, un altro pilastro djed e un segno shen (potere). Foto: kairoinfo4u
Nefertari incontra Thot, il Dio della sapienza e della scrittura. Tra Nefertari e Thoth c’è un alto supporto, in cima al quale c’è un vaso che contiene la tavolozza per la scrittura tipica degli scribi e un oggetto magico a forma di rana. La simbologia fa riferimento al capitolo 94 del Libro dei Morti, raffigurato dietro la Regina, con l’invocazione per gli strumenti di scrittura per glorificare Osiride. Thot, che indossa la fascia bianca tipica degli scribi, dona a Nefertari il potere di sorgere in gloria di Ra e le dona uno spazio nella terra sacra. Thot sovrintende anche alla cerimonia di pesatura del cuore, che però non viene mostrata in questa tomba . Foto: kairoinfo4u
Nefertari presenta le sue offerte ad Osiride (a sinistra) ed Atum (a destra) tendendo la mano destra nella quale tiene uno scettro sekhem, il suo simbolo di potere e autorità. Osiride promette l’apparizione eterna di Ra nel cielo con infinita gioia. Foto: kairoinfo4u, unione di più foto
La parete sud dell’annesso è una rappresentazione simbolica del capitolo 148 del Libro dei Morti. Qui non viene mostrato il testo effettivo del capitolo, solo i nomi dei “protagonisti”. Nei due registri superiori della parete sud ci sono sette mucche (diverse manifestazioni di Hathor) e un toro (in basso a sinistra), ciascuna in piedi dietro un piccolo tavolo per le offerte, non destinato agli animali ma al nutrimento simbolico di Nefertari per la vita eterna. Tutti gli animali sono denominati (da destra a sinistra, prima fila in alto): “Dimora dei ka, padrona di tutto”, “La silenziosa, che vive nel suo posto”, “Quella of Chemmis (Akhbit), che il dio ha reso nobile” , “Tempesta nel cielo, che aleggia con gli dei in alto”, “Padrona della vita, la variopinta”, “L’amatissima, rossa di capelli” e “Lei il cui nome ha potere nel suo mestiere”. Il toro è chiamato come: “Il toro, maschio dell’udito, che dimora nel castello rosso”. In basso i remi di governo (le quattro direzioni del mondo) che aiutano Nefertari a manovrare tra le stelle . Foto: kairoinfo4u
Nell’ultima scena dell’Annesso, a sinistra Nefertari in adorazione delle sette vacche sacre della parete sud; separata con una linea dorata, l’unione di Ra ed Osiride rappresentata dalla figura mummiforme di un ariete (Ra) con il colore verde di Osiride, affiancato da Iside e Neftis. Fusa con Ra, l’anima della sovrana entra a far parte dell’eterno ciclo cosmico nel quale l’universo si rinnova continuamente, la tappa finale del percorso compiuto dallo spirito di Nefertari prima di risorgere in eterno. La duplice funzione della figura al centro è sottolineata dalle parole delle due Dee. Iside: “E’ Ra che riposa in Osiride”; Neftis: “E’ Osiride che riposa in Ra”. Foto: kairoinfo4u
LA SECONDA SCALINATA
La seconda scalinata porta dall’Anticamera alla Sala del Sarcofago. È lunga 7.5 metri, con 18 gradini ed uno scivolo centrale per il trasporto del sarcofago. Le pareti sono decorate con alcuni tra i più famosi dipinti della tomba e sono divise in due settori per parte da un ripiano laterale le cui funzioni sono ignote: la parte superiore in qualche modo “appartiene” all’Anticamera, con la raffigurazione di Nefertari con le Dee protettrici, mentre la parte inferiore richiama decisamente la liturgia dell’oltretomba con Anubi. Le immagini sono praticamente speculari, ma con figure diverse.
La figura alata di Ma’at protegge l’ingresso alla sala sepolcrale
Nefertari, con la corona di Mut completa, porge due vasi nemset rotondi sopra un altare colmo di frutta, verdura, tagli di carne e delle pagnotte a Iside, Nefti e Ma’at. Iside ha la corona con il disco solare tra due corna di vacca, Mentre Nefti ha una corona con il geroglifico del suo nome, che significa “padrona della casa”. Dietro di loro c’è Ma’at con il suo simbolo, una piuma di struzzo, infilata sulla fascia che ha sul capo. Ma’at protegge con le sue ali il cartiglio di Nefertari con il simbolo “shen” di potere. A sinistra si intravede Selket che accoglie la Regina. Iside: “ti ho donato eternità come Ra”. Foto: kairoinfo4u, unione di più foto
Sul lato opposto, Nefertari fa la stessa offerta ad Hathor e Selket, mentre Ma’at è rappresentata nella stessa posa protettiva del cartiglio. A destra si intravede Neith che accoglie la Regina di fronte a Selket nell’immagine precedente. Hathor: ti ho donato l’apparizione di Ra nel cielo, ti ho donato eternità come Ra”. Foto: kairoinfo4u
Le tre Dee mentre ricevono l’offerta della Regina. Foto: kairoinfo4u
Avvicinandosi alla Sala del Sarcofago il tema delle decorazioni cambia. Questo è ora il regno dei morti. Nella parte inferiore del corridoio, un serpente alato protegge a sua volta il cartiglio della Regina con un simbolo “shen” di potere. Foto: kairoinfo4u
Al di sotto del serpente alato è raffigurato Anubi con il flagello tra le zampe. “Parole di Anubi: Sono venuto prima di te, la Grande Sposa Reale, signora delle due terre, signora dell’Alto e del Basso Egitto, Osiride, Nefertari, amata di Mut, giustificata di fronte ad Osiride, il grande Dio, che risiede in Occidente. Sono venuto prima di te e ti ho donato un posto nella terra sacra, in modo che tu possa apparire gloriosamente in cielo come tuo padre Ra. Accetta gli ornamenti sulla tua testa. Iside e Nefti li hanno preparati per te e hanno creato la tua bellezza come quella di tuo padre, affinché tu possa apparire gloriosamente in cielo come Ra”. Foto: kairoinfo4u
Al di sotto di Anubi, Iside e Nefti (sui due diversi lati) si inginocchiano su una versione molto grande e dettagliata del geroglifico per l’oro, il segno “nbw” e pongono le mani su un altro grande segno “shen” pronunciando parole molto simili a quelle di Anubi. Il discorso di Iside finisce con: “Il regno dei morti è illuminato dalla tua radiosità”. Quello di Nefti finisce con: “Possa il tuo cuore essere sempre pieno di gioia”. In bianco e nero le immagini originali di Schiaparelli
Sull’architrave di ingresso alla camera del sarcofago Ma’at spiega le sue ali a protezione della defunta: “Proteggo mia figlia, la Grande Sposa Reale, Nefertari Meritenmut, giusta di voce”. Foto: kairoinfo4u. Sugli stipiti Nefertari viene indicata come “Osiride”: “L’Osiride, la Grande Sposa Reale, padrona delle due terre, Nefertari, amata di Mut, giustificata davanti a Osiride”. Sugli stipiti si intravede nuovamente Ma’at che accoglie la Regina
LA CAMERA DEL SARCOFAGO
La stanza sepolcrale misura grosso modo 10 x 8 metri, con 4 pilastri che sorreggono il soffitto. Lo spazio tra i pilastri è scavato per circa 60 cm e conteneva originariamente il sarcofago. A partire dalla scalinata, a sinistra (parete ovest) viene raffigurato il capitolo 144 del Libro dei Morti, con 5 dei 7 cancelli tradizionali (ognuno dei quali ha un “Addetto”, un “Guardiano” ed un “Araldo”) che Nefertari deve varcare per il ricongiungimento ad Osiride (raffigurato sulla parete nord).
Vista panoramica della Sala del Sarcofago dando le spalle alla parete nord (lato est). Foto: kairoinfo4u
Vista panoramica della Sala del Sarcofago dando le spalle alla parete nord (lato ovest). Foto: kairoinfo4u
L’Addetto (o Inserviente o Portiere a seconda delle traduzioni) ha sempre la testa o le corna di ariete, il Guardiano ha testa di animale e può essere maschile o femminile (se maschile con la pelle rosso-ocra scuro, se femminile con la pelle chiara o verde) mentre l’Araldo ha sempre forma umana e porta due simboli “ankh” nelle mani.
Nefertari sulla parete sud e ovest inizia il percorso dei “Sette Cancelli” (anche se ne sono raffigurati solo 5 nella tomba) che la porterà al tradizionale “Occidente”, il luogo dove si ricongiungerà ad Osiride, seguendo il capitolo 144 del Libro dei Morti. Nefertari deve pronunciare il nome di ogni cancello e il nome di ogni divinità che lo protegge per poter passare attraverso. La Regina è vestita con un abito bianco semitrasparente a figura intera, annodato al centro dalla lunga fascia rossa. In cima alla sua parrucca tripartita, indossa la corona Nekhbet d’oro con le due piume d’oro e un piccolo disco solare.Foto: kairoinfo4u
Il primo Cancello sull’angolo sud/ovest ha come Addetto una divinità indicata come “Faccia in basso, dalle molteplici forme”, il Guardiano dalle sembianze di un ippopotamo è “Orecchie che bruciano” e l’Araldo è “Potente di Voce”. Foto: kairoinfo4u
Il Secondo Cancello, quello meglio conservato. Il nome dell’Addetto dalla testa di ariete è ‘Colui che apre la fronte’; il nome del Guardiano (femminile, con la testa di leonessa e due serpenti che spuntano dalla sommità della sua testa) è ‘Virtuosa di aspetto’, Il nome dell’Araldo è “Colui che brucia” e tiene un ankh in ciascuna mano. Foto: kairoinfo4u
Una rientranza a metà della parete ovest probabilmente conteneva i vasi canopi, andati perduti.
Sulla parete orientale è invece raffigurato il capitolo 146 del Libro dei Morti, con 10 dei 14 portali illustrati (ciascuno con un solo “Guardiano”). Ciascuno dei portali è rappresentato allo stesso modo, un semplice telaio di porta sormontato da un fregio aureo. Dentro ogni Portale c’è il Guardiano, seduto su una pedana verde con un coltello sulle ginocchia.
Molti decori sono andati perduti o completamente rovinati (compresi quelli dei due annessi est e ovest) a causa delle infiltrazioni d’acqua; lo vedremo meglio nel prossimo post.
La nicchia canopica ha un decoro molto diverso e quasi monocromo, chiaramente dipinto da una mano diversa. Si pensa sia stato realizzato in tempi diversi, per motivi ignoti (una sorta di restauro? Un completamento del decoro alla morte di Nefertari? Una trasposizione simil-papiro sulla parete?). Vi è rappresentata Nut in forma alata; ai lati (non visibili qui) nuovamente i quattro figli di Horus protettori degli organi interni del defunto. Foto: Onceinawhile
Particolare del quinto cancello, l’ultimo rappresentato: per mancanza di spazio l’artista ha raffigurato solo l’addetto, che è come al solito con la testa di ariete. Sono comunque riportati i nomi: l’Addetto, “Colui che mangia i serpenti”; il Guardiano, “Colui che brucia” e l’Araldo, “Muso di ippopotamo, furioso di potere”.Foto: kairoinfo4u
Sulla parete nord Nefertari ha raggiunto il rituale “Occidente” e rende omaggio a Osiride, Hathor e Anubi che siedono su troni cuboidi. Osiride è mostrato mummificato, mentre Hathor ha sul capo il simbolo per l’Occidente, sottolineando il suo legame con la necropoli. Foto: kairoinfo4u
Purtroppo l’immagine di Nefertari che raggiunge Osiride è molto deteriorata, ed il deterioramento è notevolmente peggiorato negli anni dopo la scoperta. Qui la foto di Burton nel 1920. Nefertari è preceduta dalle figure mummiformi dei figli di Horus a testimoniare che il corpo è stato preservato per l’eternità. A destra: La squadra dei restauratori alla parete nord durante i lavori effettuati negli anni ’90Sulla parete sud ed est è invece raffigurato il capitolo 146 del Libro dei Morti, con raffigurati 10 dei 14 Portali. II Guardiani dei primi due Portali sulla parete orientale sono molto rovinati. A sinistra il terzo, il nome della porta è “Signora degli altari, grande nelle offerte, amata da ogni dio, quella che naviga a monte di Abydos”. Il nome del guardiano è “Il luminoso, amico del grande dio che naviga verso Abydos”. A destra il Quarto Portale si chiama “Possente di coltelli, signora delle due terre, distruttrice di nemici degli stanchi di cuore, saggia e libera dal male”. Il nome del Guardiano è “Il toro dalle lunghe corna”. Foto: kairoinfo4u
Il Guardiano del quinto portale è una strana figura di un bambino nudo con la testa deforme. A differenza degli altri custodi, non tiene un coltello sulle sue ginocchia, ma ne tiene due (uno per mano) sul petto. Foto: kairoinfo4u
Tra i pochi decori conservati degli Annessi, Nefti, Hapi e Qebehsenuef accolgono Nefertari nell’Annesso Ovest. Sulla parete opposta erano rappresentati Iside, Amseti e Duamutef. Nello stesso Annesso Ovest, il Pilastro Djed di Osiride è rappresentato con due scettri “was”, simboli di potere, e due croci “ankh” (vita) alle braccia. Foto: kairoinfo4u
I QUATTRO PILASTRI
Tutti e quattro i pilastri mostrano Osiride all’interno sull’asse est/ovest, ed un simbolo “djed” sull’asse nord/sud, rivolti alla posizione del sarcofago. Osiride è sempre voltato verso la scalinata di discesa, come se accogliesse Nefertari.
La disposizione dei quattro pilastri nella Sala del Sarcofago
Sui lati esterni i pilastri mostrano a sud due figli di Osiride, sugli altri Nefertari con le dee protettrici e con Anubi.
Foto: kairoinfo4u
I lati dei pilastri che si affacciano sull’asse est/ovest, perpendicolare alla scala d’ingresso, sono tutti decorati con immagini mummiformi di Osiride. In ogni caso Osiride si affaccia verso l’ingresso della camera, come per dare il benvenuto a Nefertari. Osiride si trova in un santuario con un alto tetto ad arco, sostenuto da due pali colorati. La superficie interna del santuario è di un colore giallo-ocra, in netto contrasto con il resto della camera. Osiride tiene in mano il pastorale e il flagello, simboli della sua autorità. La sua pelle è, come al solito, dipinta di verde, a significare la resurrezione. Indossa un semplice sudario bianco legato in vita con una lunga fascia rossa. Sulla sua testa è la corona “atef”, formata dalla corona bianca dell’Alto Egitto e due piume di struzzo. Ai suoi lati, ci sono due simboli “imuit”, composti da un vaso con un palo piantato al quale è legata una pelle di animale
Foto: kairoinfo4u
Allo stesso modo, i lati dei pilastri che si affacciano sull’asse nord/sud, longitudinale alla scala d’ingresso, sono tutti decorati con simboli “djed” il pilastro della stabilità collegato ad Osiride. Contengono tutti invocazioni al “L’Osiride, la Grande Sposa Reale, padrona delle due terre, Nefertari, amata di Mut, giusta di voce”
Foto: kairoinfo4u
Parete sud del pilastro 1. Il dio Horus-Iunmutef, identificato come “Horus, Pilastro di sua Madre” è vestito con un gonnellino bianco e una splendida pelle di leopardo, la cui testa è appoggiata sul petto a forma di pendente. Il testo è indirizzato a Osiride situato sulla faccia est dello stesso pilastro. Dice: “Parole di Horus, il ‘pilastro di sua madre’ (Iunmutef). Sono il tuo amato figlio, mio padre Osiride, sono venuto a salutarti. Quattro volte ho sconfitto i tuoi nemici per te. Che tu possa giustificare la tua amata figlia, la Grande Sposa Reale, signora delle due terre, Nefertari, amata da Mut, affinché possa riposare nell’assemblea dei grandi Dèi che sono nel circolo di Osiride, quelli a cui si uniscono tutti i signori delle terre sacre “
Foto: kairoinfo4u
Pilastro 2. Simile al pilastro 1, il dio Iunmutef Harendotes, identificato come “il vendicatore di suo padre” è vestito con un gonnellino bianco sopra il quale è appoggiata splendida pelle di leopardo, questa volta mostrata sul retro. Il testo è indirizzato a Osiride situato sul lato ovest di questo pilastro. “Parole di Harendotes. Sono il tuo amato figlio, che generato dai tuoi lombi. Sono venuto a guarire le tue membra e ti ho portato il mio cuore, mio padre Osiride, che risiede in Occidente. Che tu permetta alla Grande Sposa Reale, signora delle due terre, Nefertari, amata da Mut, di unirsi alla grande assemblea divina della Necropoli “
A sinistra, primo pilastro: Nefertari indossa la corona Nekhbet dorata di fronte a Hathor che indossa un abito rosso semplice e aderente con due spalline e il grande disco solare all’interno delle corna di vacca con un ureo dorato. A destra, pilastro 3: Nefertari di fronte a Hathor che porta sulla testa gli emblemi geroglifici dell’Occidente. Foto: kairoinfo4u
Le immagini di tutti i post sulla tomba QV66 da:
Ernesto Schiaparelli (1904), “La Tomba di Nofretari Mirinmut,” Relazione sui lavori della missione archeologica italiana in Egitto, Volume 1 (Torino, G. Chiantore, 1923)
Quando Gaston Maspero, appena diventato curatore del Museo Egizio di Boulaq, riceve una lettera dall’Italia all’inizio del 1881, è perplesso. Un perito gli scrive che ha appena esaminato un papiro di pregevole fattura portatogli da un turista americano, che il papiro è sicuramente autentico e che proviene dal corredo funerario di un Faraone della XXI Dinastia.
Un altro?
Da sei anni ormai circolano sul mercato nero pezzi di incredibile fattura, soprattutto papiri, di cui si ignora la provenienza. Il Libro dei Morti di Pinedjem II (Sommo Sacerdote di Amon della XXI Dinastia) era stato comprato qualche anno prima per 400 sterline. Mariette stesso aveva comprato altri papiri della moglie di Pinedjem I. Una statuetta era finita al Louvre. Maspero, uomo pragmatico, da quando è in Egitto ha avuto una posizione molto chiara: i pezzi migliori vanno al Museo Egizio; gli altri, dopo attento esame ed un “lasciapassare” possono andare ad altre collezioni, private o museali, di chi ha sponsorizzato degli scavi. Quei reperti però, non fanno sicuramente parte di quest’ultima categoria.
Il Libro dei Morti di Pinedjem, noto anche come Papiro Campbell dal nome del suo acquirente – donato successivamente al British Museum
Il Papiro Greenfield, anch’esso al British Museum, è un altro papiro proveniente dalla DB 320. È la più lunga versione del Libro dei Morti (ben 37 metri) ed apparteneva al corredo funerario della principessa Nesitanebtashru, figlia di Pinedjem II e sacerdotessa di Amon-Ra a Tebe
La polizia egiziana ha già fatto capire che se ne lava pilatescamente le mani; Maspero decide di investigare in prima persona. O meglio, visto che lui è troppo conosciuto, tramite un giovane assistente, Maxence de Rochemonteix, che spedisce a Luxor insieme a Charles Wilbour, un collezionista americano che interpreta la parte del ricco appassionato in cerca di pezzi pregiati. La parte gli riesce bene perché effettivamente lui ha già comprato pezzi originali di dubbia provenienza, e tutti i faccendieri locali lo sanno. Ricco, ma non tonto: con l’aiuto di Maxence rifiuta tutti i falsi e paga molto bene i reperti originali. Ed un giorno si trova tra le mani una statuetta di nuovo appartenente ad una tomba della XXI Dinastia.
Tombola.
Wilbour la compra, ma fa capire che vuole qualcosa di meglio, che è disposto a pagare molto per quel “meglio”. E il venditore gli presenta Ahmed Abd-el-Rasul, il capo di una famiglia di Abd-el-Qurna, un paesino poco lontano da Luxor. Contrattano per giorni, Abd-el-Rasul gli mostra altri oggetti. Quando spunta un cofanetto della XVIII Dinastia, Maxence lo fa arrestare con tutta la famiglia.
A sinistra: Gaston Maspero, Direttore del Servizio di Conservazione delle Antichità Egiziane e del Museo di Bulaq dal 1881 al 1886 e dal 1899 al 1914. Al centro: Maxence de Rochemonteix. Proveniente da una famiglia nobile (marchese) aveva compiuto importanti scavi al Tempio di Edfu. Purtroppo la sua salute pregiudicherà la sua opera in Egitto. A destra: Charles Wilbour sul frontespizio del suo resoconto dei viaggi in Egitto
Maxence de Rochemonteix (a sinistra) Wilbour e Maspero (a destra) a Luxor nel 1886
Abd-el-Rasul però non parla, tutti testimoniano che sia un bravissimo ragazzo e vengono tutti rilasciati; solo il tradimento di un “pentito”, il fratello maggiore Mohammed Ahmed, spaventato dal giudice che gode di brutta fama, riesce a far riaprire il processo. Si parla anche di torture, ma senza prove effettive. E finalmente Ahmed confessa: racconta che una delle sue capre è caduta in un crepaccio sei anni prima e cercando di recuperarla ha trovato una tomba scavata nella roccia. Da allora, quando la famiglia aveva bisogno di soldi prelevava qualche reperto dalla tomba e lo rivendeva. Il suo ricettatore era nientemeno che Mustapha Aga Ayad, vice-console di Inghilterra, Russia e Belgio, che spacciava poi gli oggetti facendoli viaggiare anche con la valigia diplomatica. Un signore. Abd-el-Rasul acconsente quindi a far vedere da dove prende quegli oggetti; Aga Ayad, protetto dall’immunità diplomatica, svanisce nelle sabbie del tempo.
Ironia della sorte: Maspero sta per partire per le vacanze in Europa (verrà aspramente criticato per questo) e Maxence de Rochemonteix si ammala proprio in quei giorni. Maxence manca così l’appello con la storia per la sua salute, già minata dal soggiorno in Egitto e che lo porterà ad una morte prematura dieci anni dopo. A sostituirlo arriva un altro assistente del Museo di Boulaq, quell’Emile Brugsch autore del primo set di foto del Museo. Brugsch è praticamente l’ultimo arrivato dei collaboratori di Maspero, e questo sarà un problema.
Emil Brugsch, quasi un eroe per caso. Le sue scelte saranno successivamente oggetto di aspre critiche
A sinistra: il “bancomat” ormai scoperto e, a destra, un Ahmed Abd-el-Rasul in età avanzata posa per dei turisti all’ingresso della cachette
Il 5 luglio 1881 Emile Brugsch, arrivato sul posto con una “delegazione” di autorità locali, si cala nel pozzo indicato dal ladrone; scende per 11 metri con una corda, segue alla luce di una fiaccola una prima svolta della galleria che trova e nel suo racconto picchia dentro ad un enorme sarcofago. Alza la fiaccola, legge i cartigli e narra di aver rischiato di svenire: ha trovato Sethi I, la cui tomba scoperta da Belzoni 64 anni prima aveva infiammato l’Europa. Gli gira la testa, cerca un posto dove sedersi e voltandosi trova una marea di altri sarcofagi, alcuni aperti e saccheggiati, altri ancora chiusi. C’è Ahmose, che ha sconfitto gli Hyksos e fondato la XVIII Dinastia, c’è Tuthmosis III, che ha creato l’Impero Egizio.
La posizione della tomba DB320 rispetto ai templi di Deir El Bahari di Montuhotep ed Hatshepsut
Vista isometrica della DB320. L’ingresso scoperto casualmente da Ahmed Abd-el-Rasul è indicato a sinistra
Quando trova il sarcofago di Ramses II, non ce la fa più. Si siede sul suo sarcofago, la fiaccola in mano, e rimane lì per diversi minuti a cercare di rallentare il battito cardiaco.
La domanda successiva che gli si pone nella mente è: cosa fare? Ormai tutti sanno che lui è lì, e che la tomba (che sarà denominata DB320 e poi TT320) che è stata il “bancomat” della famiglia el-Rasul è stata scoperta.
PREDONI O SCIENZIATI?
Emile Brugsch conta alla fine quaranta mummie reali in quella che verrà poi rinominata DB320 ed infine TT320. È letteralmente terrorizzato all’idea che la tomba venga ulteriormente depredata in sua assenza. Per un motivo che non sappiamo, non gli viene neanche in mente di chiudere l’unico accesso con un’inferriata e piantonare l’ingresso come farà invece Carter con la tomba di Tutankhamon. Decide invece per una misura drastica: si rivolge proprio al villaggio di Kurna e assolda 300 persone per svuotare la tomba in 2 giorni sotto il controllo di alcuni soldati.
La paura dei saccheggi è talmente elevata che gli operai che scendono nella tomba vengono costretti a lavorare completamente nudi. Brugsch e due soldati ricevono i reperti man mano che emergono dalla tomba. Nessuno prende nota di alcunché, nessun disegno, nessun inventario. Ancora oggi non sappiamo come fossero disposti i sarcofagi nella tomba se non per i ricordi di Brugsch. I reperti vengono poi portati a valle e accatastati fianco a fianco sotto continua sorveglianza armata, ma senza uno straccio di annotazione sui pezzi. Il primo inventario verrà fatto solo a destinazione, al Cairo. Molti sarcofagi e diverse mummie vengono danneggiate durante il trasporto.
Il resoconto illustrato dell’epoca delle “nuove scoperte nell’Alto Egitto”
Da un punto di vista archeologico è un disastro totale. Molte informazioni, anche sulla ricostruzione delle peregrinazioni dei defunti Faraoni, vengono perse per sempre. Grazie al pessimo lavoro di Brugsch, per più di un secolo non si è saputo molto del “proprietario” originale della tomba. Alcune iscrizioni riportate da Maspero sono andate anch’esse perse.
Dopo una revisione attenta delle iscrizioni superstiti sulle pareti alla fine del ‘900 si è potuto stabilire che appartenesse in origine alla famiglia del Sommo Sacerdote di Amon Pinedjem II durante la XXI Dinastia. Lui e la moglie Neskhons sarebbero stati sepolti qui sotto il regno del Faraone Siamon a cinque anni di distanza uno dall’altra. Ma non è così semplice: alcuni sarcofagi (Ramses I, Seti I e Ramses II) riportano che furono trasferiti nella “ḳȝy” (“luogo in alto”) della Regina Inhapi, moglie di Seqenenre Tao II, facendo supporre che la TT320 fosse a lei dedicata. In realtà la maggior parte degli studiosi ipotizza una doppia (almeno) traslazione delle salme con quelle del “gruppo Inhapi” traslate solo per ultime nella TT320 come dimostra la loro vicinanza all’ingresso. La tomba di Inhapi sarebbe quindi ancora da scoprire, probabilmente nelle vicinanze della TT320.
Comunque sia, l’8 luglio la tomba è vuota ed i pezzi allineati per l’imbarco a Luxor; il vaporetto però è in ritardo e il viaggio delle mummie reali inizia solo il 14 luglio; Brugsch si imbarca con loro
.E di colpo, l’Egitto torna magicamente indietro di tremila anni. La notizia del “carico” del vaporetto si sparge come l’acqua del Nilo durante la piena e la Terra di Khemet rivolge un commovente saluto ai suoi antichi sovrani.
Brugsch, in piedi sul ponte, vede migliaia e migliaia di persone che fanno da ali al viaggio dei Faraoni defunti. Gli uomini scaricano i loro fucili in aria, le donne si spogliano e si cospargono il viso e il corpo di polvere, strofinandosi i seni con la sabbia. Il viaggio della nave viene accompagnato dall’eco dei lamenti funebri, trasformandosi in una commovente processione spontaneamente organizzata. Brugsch è a disagio. Si sente un profanatore, un predone come Abd-el-Rasul. SI chiede se la motivazione scientifica ed archeologica sia sufficiente a legittimare ciò che sta facendo. Un pensiero sorprendentemente moderno.
Gli risponderà indirettamente Victor Loret anni dopo quando, trovata la tomba di Amenophis II (la KV35) spogliata di ogni oggetto, decise di richiudere la tomba per permettere alle salme racchiuse di riposare in pace. Uno o due anni più tardi ladri moderni entrarono nella tomba e strapparono Amenophis dalla sua bara, danneggiando gravemente la mummia. Ebbe anche a scrivere al riguardo Howard Carter, che lavorò anche alla KV35:
“Possiamo trarre da questa circostanza un ammonimento, che additiamo a coloro che ci criticano chiamandoci vandali perché priviamo le tombe dei loro oggetti. Trasportando le antichità nei musei, noi ne curiamo la conservazione; lasciate al loro posto, esse diverrebbero prima o poi preda dei ladri, e ciò equivarrebbe alla loro distruzione”
Maspero viene aspramente criticato per non aver presieduto personalmente all’apertura della tomba. Anche il clamore suscitato dal viaggio sul Nilo delle mummie reali e le accuse di profanazione diventano un problema diplomatico. Maspero viene invitato a riferire direttamente al Governo francese. Lo farà con un resoconto ufficiale nell’ottobre 1881, con (finalmente!) una prima descrizione dei reperti ritrovati (foto ovviamente di Brugsch). Maspero ne approfitta per piangere miseria (“ho dovuto smantellare un’intera sala del Museo per accogliere le mummie reali ed ora non c’è abbastanza spazio per gli altri reperti!”). Per ora rimarrà inascoltato.
Ma finalmente siamo faccia a faccia con alcuni tra i personaggi più famosi della storia d’Egitto. Quasi tutte le immagini provengono dalla pubblicazione originale di Maspero.
Nota: la mummia di Seti I affascinò talmente tanto un ragazzino di dieci anni che ancora oggi quel “diversamente giovane” cerca di imparare qualcosa di quella civiltà e si diverte a scriverne qui, sperando di creare curiosità ed interesse in altri “ragazzini”
Il sarcofago e la mummia di Seti I, il papà di Ramses II. Probabilmente la mummia meglio conservata, sicuramente la più “viva” nella sua dignità regale a distanza di più di tremila anni
Il semplice sarcofago di legno che racchiudeva le spoglie di Ramses II il Grande. Certo colpisce come il sarcofago “finale” di un Faraone così significativo nella storia egizia sia così normale rispetto a quelli di un Faraone molto meno importante – per età, durata del regno, contesto storico – come Tutankhamon. Possiamo solo immaginare come fossero i sarcofagi originali di Ramses e quali ricchezze fossero state sepolte con lui nella sua tomba originaria
Il sarcofago di Ramses possiede comunque una delicatezza dei tratti simili ad alcuni ushabti trovato nella tomba di Tutankhamon. È possibile che provenga dalla stessa mano e sia stato riciclato per contenere le spoglie di Ramses dopo i saccheggi della sua tomba?
Il sarcofago di Seqenenre-Tao
Ahmose, il fondatore della XVIII Dinastia sconfiggendo gli Hyksos, i Popoli del Mare
I sarcofagi di Ahhotep ed Ahmose-Nefertari ai lati di una statua di Ramses II (che non ci azzecca molto, essendo di un’altra Dinastia, ma evidentemente faceva “scena”) a Bulaq
Il sarcofago di Amenofi I. La mummia non è mai stata sbendata per non rovinarla. Elliot Smith annota nel suo libro: “il bendaggio era in tali perfette condizioni, con le ghirlande ancora al loro posto, che Maspero ha deciso di non toccarla”
Tra gli “oggetti vari” descritti da Maspero c’è anche sullo sfondo il cofanetto appartenuto alla “regina Hattasou”, ossia Hatshepsut, in cui fu ritrovato molto tempo dopo il dente protagonista della contestata identificazione di Hatshepsut nella mummia KV60A
Il volto del sarcofago di Seti I
Uno dei reperti più curiosi: il paniere della principessa Isetemkheb, contenente un cosciotto di gazzella, uno di montone, due oche ed una testa di vitello, tutte accuratamente fasciate. Le provviste per il lungo viaggio nell’aldilà. So che è blasfemo, ma è il primo Happy Meal che io ricordi
L’ultima parte del papiro funerario della Moglie del Dio Amon Maatkara, probabilmente uno dei “prelievi” della famiglia al-Rasul sventati da Maspero & C.
Riferimenti:
G. Elliot Smith, The Royal Mummies, Catalogue Général du Musée du Caire, Cairo 1912
Edoard Naville, L’égyptologie française pendant un siècle. 1822-1922.
G. Maspero, La Trouvaille de Deir-el-Bahari. Cairo 1881
Federico A. Arborio Mella, L’Egitto dei Faraoni. Storia , civiltà, cultura, Milano, Mursia, 1976
DA Aston, TT 320 and the ḳȝy of Queen Inhapi: A reconsideration based on ceramic evidence- Göttinger Miszellen, 2013