E' un male contro cui lotterò

PATOLOGIE DENTALI

Di Andrea Petta e Franca Napoli

ANTICHI DENTISTI

Come per gli oculisti, anche i dentisti costituivano una specializzazione molto antica, testimoniata già dall’Antico Regno. Il primo di cui abbiamo notizia è Hesy-Ra (https://laciviltaegizia.org/2022/11/10/hesy-ra/) della III Dinastia (2650 BCE circa), ed anche i dentisti avevano una loro gerarchia a testimoniarne l’importanza.

Il pannello in cui Hesy-Ra è definito “Capo dei dentisti e dei medici” (Museo del Cairo, JE 28504). Foto Carol Andrews

L’enorme estensione temporale della civiltà egizia, andando fino al periodo predinastico, è riuscita a dimostrare una riduzione delle dimensioni dei denti e della muscolatura per la masticazione (circa l’1% ogni 1,000 anni). L’evoluzione da cacciatori-raccoglitori a coltivatori-pastori con il conseguente aumento dei carboidrati nella dieta ha favorito lo sviluppo di denti più piccoli e maggiormente resistenti alle carie. L’arricchimento successivo della dieta peggiorò notevolmente la situazione.

Per una volta, la paleopatologia ci può aiutare, in quanto i denti sono tra i materiali che si deteriorano meno e ci possono raccontare tante storie antiche; vediamone alcune.

USURA DENTALE

La macinatura del grano, anche casalinga, lasciava un numero considerevole di detriti sabbiosi nella farina che intaccavano profondamente lo smalto. Museo di Manchester

La più comune di queste “storie” è il consumo da attrito del dente. L’utilizzo di macine in pietra relativamente tenera per macinare il grano (i cui frammenti finivano a contaminare la farina) e la sabbia onnipresente hanno provocato l’erosione dello smalto praticamente in tutte le mummie esaminate finora, con la tendenza a diminuire dopo il 1000 BCE, presumibilmente per l’uso di macine migliori. Il fenomeno era talmente diffuso che i moderni paleopatologi hanno dovuto “inventare” una scala di riferimento per descrivere il grado di usura dei denti ritrovati.

Esempio di arcata mascellare con i denti consumati fino all’esposizione della polpa su un teschio risalente alla XVII Dinastia
Un altro esempio di lesioni da attrito fino alla polpa del dente su una mummia nubiana
La stessa mummia presenta anche una lesione alla radice di un dente probabilmente dovuta ad un ascesso

CARIE

Al contrario, la percentuale di mummie ritrovate con dei denti cariati è abbastanza bassa. Il “merito” è presumibilmente della mancanza dello zucchero nella dieta egizia. L’unico dolcificante presente all’epoca era il miele, ma era estremamente raro e costoso, inarrivabile per le persone comuni. Da notare che anche la tetraciclina presente in alcuni alimenti (soprattutto nella birra) come contaminante da streptomiceti potrebbe aver avuto un ruolo in queste percentuali molto basse rispetto ad oggi.

Diverse carie ed una grande cavità associata alla solita usura dentale

Come per l’usura, anche la percentuale delle mummie con denti cariati varia nel tempo, da un 3% circa dell’Antico Regno al 9% dal Nuovo Regno in avanti, fino ad un 20% circa in Età Tolemaica (anche se le percentuali variano molto negli studi pubblicati)

ASCESSI

La mancanza di metodiche adeguate per trattare le carie e le infezioni del cavo orale hanno fatto sì che la presenza di ascessi fosse relativamente alta.

Una delle vittime illustri fu Amenhotep III, il padre di Akhenaton, che indulgendo ad uno stile di vita molto “ricco” divenne prematuramente obeso e la cui bocca è un atlante di patologie dentali. Si sa che i regni alleati, tra cui Mitanni, inviarono offerte ed amuleti per cercare di alleviare i suoi malanni e si dice che abbia costruito il famoso viale delle sfingi per invocare l’aiuto delle divinità…apparentemente senza un grande successo.

Le testa della mummia identificata come Amenhotep III, con evidenti problemi dentali

IL DENTE PIÙ FAMOSO

Sicuramente il dente egizio più famoso è quello che ha consentito il riconoscimento della mummia di Hatshepsut, un riconoscimento però ancora molto contestato. Un molare ritrovato in un cofanetto con il nome di Hatshepsut nella cachette DB320 risulterebbe combaciante con la mummia KV60A (si veda: https://laciviltaegizia.org/2020/12/24/hatshepsut/).

Il famoso dente che ha (forse) permesso l’identificazione di Hatshepsut e l’arcata dentaria da cui mancava un dente

CURE DENTALI

Come abbiamo visto, il maggior problema dei dentisti egizi, su cui potevano fare purtroppo ben poco, era costituito dall’usura dentale da attrito.

Se il dente consumato si scheggiava e feriva la lingua o l’interno della guancia, il Papiro Ebers consiglia di applicare una mistura di cumino, incenso e polpa di carruba macinata.

Lo stesso papiro consiglia anche per l’alitosi che ne derivava di utilizzare delle pastiglie formate da incenso, mirra e corteccia di cannella, bolliti con del miele.  

Da notare anche l’invenzione del collutorio, costituito da chicchi di orzo o di farro, birra dolce e l’estratto di una pianta chiamata “piuma di Nemti” con cui sciacquare la bocca prima di sputarlo.

I denti traballanti venivano fissati con un impasto di farina, ocra e miele, oppure con una sorta di cemento ottenuto tritando finemente la pietra di una macina, sempre impastata con ocra e miele. Da notare che l’ocra ha effetto astringente ed antisettico, tuttora utilizzata in alcune popolazioni come medicina alternativa.

Il rimedio contro gli ascessi indicato sempre nel Papiro Ebers consiste in una mistura di frutto di sicomoro, miele, resina di terebinto e due piante non ancora identificate a formare una sorta di gomma da masticare

TRATTAMENTO DELLE CARIE

Le evidenze di cura delle carie dentali con riempimenti costituiti da lino impregnato di resina risalgono solo all’Età Tolemaica. In realtà non si tratta di terapie “moderne”, ma in pratica si riempiva lo spazio della carie con del Lino (probabilmente) intriso di sostanze lenitive/protettive.

La mandibola di una mummia dell’Età Tolemaica mostra il riempimento di una cavità tra il secondo premolare ed il primo molare destro, probabilmente con del lino impregnato di una qualche resina per proteggere il nervo scoperto

Un riempimento simile, sempre in una mummia dell’Età Tolemaica. Tra le ipotesi, il fatto che questa “otturazione” fosse impregnata con qualche medicazione

ESTRAZIONE DEI DENTI

L’estrazione dei denti traballanti era facile da effettuare; per quelli doloranti ma fermi sarebbero stati necessari strumenti come pinze o forcipi che non ci sono pervenuti. L’esame delle mummie rinvenute però fa ritenere che tale pratica fosse conosciuta ed applicata.

Una delle prove di estrazione chirurgica di un dente: manca il primo molare su questa arcata mandibolare senza segni di altre patologie parodontali e con una ricrescita ossea nel punto di estrazione

TRATTAMENTO DEGLI ASCESSI

La presenza di piccoli fori sull’osso mascellare o mandibolare di alcune mummie ha fatto pensare a trapanature per drenare il pus dagli ascessi dentali. A parte l’estrema dolorosità di tale operazione, gli studiosi dibattono se siano effettivamente i segni di antiche trapanature o perdite naturali di materiale osseo

Due fori sull’osso mascellare di una mummia conservata a Cambridge – forse il segno di un trattamento per un ascesso dentale

PROTESI

Esistono almeno un paio di testimonianze di protesi (forse) effettuate in vita e (forse) non per motivi estetici sul defunto. Un secondo e terzo molare uniti da un filo d’oro risalenti al 2500 BCE sono stati ritrovati a Giza e costituivano forse il tentativo di bloccare il terzo molare, che aveva perso le radici per un’infiammazione, al secondo molare (“Ponte di Giza”).

Il cosiddetto “Ponte di Giza”, due molari uniti da un filo d’oro trovati a Giza e risalenti probabilmente alla IV Dinastia, un impianto forse effettuato in vita e non per motivi estetici sul cadavere

Un impianto simile, che legava un canino agli incisivi, di cui almeno uno mancante, è stato ritrovato invece ad el-Quatta tra i resti di un cranio distrutto. Un terzo impianto, sicuramente effettuato in vita e risalente all’epoca tolemaica, potrebbe essere stato effettuato in Egitto ma ci sono molti dubbi al riguardo. In tutti i casi, gli studiosi discutono (animatamente) se siano effettivamente protesi o amuleti.

Il “Ponte di El-Quatta”, destinato a fissare presumibilmente due o più incisivi ai canini (?)

Altri due ponti dentali, risalenti al V-IV secolo BCE, sono stati ritrovati intorno a Sidone ma in tombe contenenti oggetti egizi, per cui esiste la possibilità che fossero stati creati in Egitto o comunque da dentisti egizi.

UN (QUASI) FALSO

Molti di voi avranno visto la prima immagine qui sotto, descritta come una prova della perizia degli antichi dentisti egizi. Raffigura un ponte inferiore completo, con due incisivi legati agli altri denti da fili d’oro simili a quelli mostrati in questa rubrica giovedì scorso. Gira da anni sui social network ed è finita anche su pubblicazioni ufficiali, anche di un certo rilievo.

Il reperto spacciato come egizio

Si tratta invece di un FALSO clamoroso: è il lavoro di un dentista italiano di inizio ‘900, Vincenzo Guerini; il “modello” di Guerini è conservato al National Museum of Dentistry di Baltimora, da dove proviene la seconda foto.

Il lavoro di Guerini esposto a Baltimora

ATTENZIONE, PERÒ: il lavoro di Guerini era stato creato per dimostrare che i ponti ritrovati a Sidone, di cui abbiamo parlato qui sopra, erano fattibili con le tecnologie dell’epoca. Quindi, un…quasi falso, o un “falso d’autore”…

Questo, invece, è il ponte originale ritrovato a Sidone, conosciuto come “Reperto Ford” o “Reperto Torrey”. Risale al V secolo BCE e si ipotizza sia il lavoro di un dentista egizio. È stato sicuramente utilizzato in vita per bloccare i due incisivi centrali inferiori, forse persi per un trauma
Il reperto Torrey con i due incisivi inferiori tolti
Nuovo Regno, XVIII Dinastia

LE PLACCHE DELLA FAMIGLIA DI AMENHOTEP III

LA PLACCA DI HENUT TANEB

Di Luisa Bovitutti

In questa placca finemente incisa la principessa Henut Taneb è raffigurata accanto ai suoi genitori Tiye e Amenhotep III ed a sua sorella Isis; l’oggetto è realizzato in corniola, una pietra semipreziosa che gli Egizi chiamavano “sole al tramonto” e ritenevano capace di allontanare il malocchio e di garantire la pace.

Questo splendido reperto, probabilmente parte di un bracciale, è custodito al MET di New York.

La placca misura cm. 2,3 in altezza, cm. 4,1 in larghezza e cm. 0,2 in spessore e raffigura al centro Amenhotep III in trono, con la doppia corona, il flagello e lo scettro uncinato (sopra di lui il cartiglio con il suo nome di incoronazione Neb-maat-ra); davanti a lui, in piedi, le due figlie Henut Taneb e Iside (o Iset) sormontate dai cartigli dei loro nomi, che tengono in una mano il segno ankh e nell’altra un sistro.

Alle spalle del re, su di un trono più piccolo di quello del consorte, la grande sposa reale Tiye (identificabile dal cartiglio inciso sopra di lei), che indossa un abito lungo e stretto, collana e bracciali ed un copricapo ornato da due alte piume; dietro la regina si trova il portatore di flabello.

La circostanza che i nomi delle figlie di Amenhotep III siano iscritti in un cartiglio, privilegio riservato ai sovrani ed alle regine, inducono a ritenere che egli le sposò; il titolo di “Grande sposa reale” è tuttavia attestato solo per Sitamon e per Iside, le due sorelle maggiori di Henut Taneb.

FONTI

LE PLACCHE DEL GIUBILEO

Di Luisa Bovitutti

Howard Carter fu incaricato da Lord Carnarvon di cercare reperti egizi per la sua collezione, e nel 1912 acquistò altre tre placche simili a quella di Henut Taneb, anch’esse in origine probabilmente incastonate nell’oro a formare un bracciale; nel 1926, dopo la morte del Lord, essi furono comprati da Edward S. Harkness che li donò al Met di New York, ove si trovano tuttora.

Le squisite incisioni, realizzate con estrema maestria su di una pietra difficile da lavorare per la sua durezza, inducono a ritenere che le placche siano state prodotte dagli artigiani reali; due di esse, in corniola, commemorano forse uno degli heb sed del sovrano, che appare con l’abito tradizionale del giubileo con la sua regina e in un caso anche con due principesse, che gli porgono la “palma degli anni” come augurio di un regno lungo e prospero.

Nella seconda di esse Amenhotep III è rappresentato nel momento della cerimonia in cui, dopo aver rinnovato le sue forze vitali, viene incoronato nel doppio padiglione e compare sia come re del Basso Egitto indossando la corona rossa che come re dell’Alto Egitto indossando la corona bianca.

Sul padiglione splende il disco solare alato e ad entrambi i lati la regina Tiye è in piedi di fronte a lui.

Sul lato sinistro, un piccolo cartiglio lo designa “Nebmaatra, dotato di vita” e Tiye porta il segno Ankh verso il viso del marito e con la mano destra tiene una “palma degli anni”; sul lato destro, la regina presenta con la mano destra il cartiglio del marito e con la mano sinistra tiene un’altra “palma degli anni”.

La scena è incorniciata da due colonne di geroglifici. A sinistra: “Il buon dio, Signore delle Due Terre, Neb-maat-ra, dotato di vita eterna”; a destra: “Figlio di Re, dal suo corpo, Amenhotep, sovrano di Tebe, dotato di vita eternamente”.

FONTI:

LA PLACCA DI TIYE COME SFINGE

Di Patrizia Burlini

La terza placca intagliata in corniola, parte di un braccialetto, probabilmente raffigura la regina Tiye sotto forma di sfinge alata, che tiene tra le mani il cartiglio con il prenome di Amenhotep III, Neb-Maat-Re.

Da notare il copricapo indossato dalla regina sfinge: molto simile al tipico copricapo indossato da Nefertiti.

Le piante sulla sommità della corona forniscono un legame con gli aspetti di ringiovanimento dei membri femminili della famiglia reale di Amarna.”

Ali, copricapo e gioielli indicano stretti legami con terre straniere (Nubia, Asia).

1390-1352 a.C, XVIII Dinastia, corniola, conservato al MET di NY

Fonti:

  • Didascalie MET
  • Dorothea Arnold, The Royal Women of Amarna, MET
Storia egizia

CORNA DIVINE

Di Giuseppe Esposito

Tranquilli, non avete sbagliato sito, siamo pur sempre su Civiltà Egizia, ma l’argomento di cui oggi voglio parlarvi doveva avere un punto di partenza e allora perché non giocare su uno stereotipo che tutti crediamo vero? I Vichinghi indossavano elmi con le corna!

E chi l’ha detto? In realtà, ritrovamenti archeologici hanno dimostrato che gli elmi vichinghi erano semplici calotte in ferro con paranaso o una sorta di celata fissa, una specie di grandi occhialoni, che, più che a salvare gli occhi, serviva a far calzare meglio l’elmo per non perderlo combattimento durante. E gli elmi cornuti? Pare che gli elmi cornuti siano un’invenzione abbastanza recente risalente addirittura solo al 1600, idea poi ripresa con il romanticismo e, in particolare, con un’edizione della prima metà dell’800 della Saga di Frithiof[1] illustrata dal pittore svedese Gustaf Malmström[2] che pensò bene di ornare l’elmo dell’eroe principale, Frithiof appunto, di corna e, talvolta di ali di drago. E sono certo che vi stiate ancora chiedendo cosa c’entrino i vichinghi con l’antico Egitto… semplice: nulla!

Ma questa introduzione mi ha consentito di arrivare al centro dell’argomento che intendo trattare stavolta: le corna! Ma per non restare sul piano prosaico umano, qui tratteremo di corna, si, ma divine! Non sono pochi, infatti, nelle antiche civiltà, e forse non sempre molto lontane da noi, gli esempi di ierogamia, ovvero di unione tra un Dio e un essere umano per garantire la procreazione di profeti, veri eroi o “semplici” Re, in barba al legittimo consorte. Ovvio che l’argomento potrebbe espandersi a molte civiltà e religioni, come non citare, ad esempio, la ierogamia tra Zeus e Olimpiade da cui sarebbe nato il Grande Alessandro, in barba a Filippo II, legittimo consorte della Regina. In qualche modo già con questa ierogamia macedone siamo anche in ambito egittologico poiché Alessandro, come ricorderete, si fece a sua volta proclamare Faraone, ma il compito che mi sono assegnato è quello di viaggiare in ambito egittologico e perciò preparatevi a un excursus tra i più famosi “cornuti” della Terra di Kemi.

PERCHE’ “CORNUTO”?

Prima di entrare nel vivo della nostra narrazione, tentiamo però di capire perché un simbolo come quello delle corna abbia assunto, con l’andar del tempo, una valenza denigratoria e offensiva. Diciamo subito che non esiste UNA risposta, ma tante ipotesi. Una delle più antiche ci riporta alla Civiltà egea e all’enorme palazzo di Knossos costruito da Dedalo, costituito da così tante stanze, cortili, meandri da meritare il titolo di Palazzo delle Labrys (λάβρυς), o se preferite “labirinto”, con riferimento alle asce bipenni che rappresentavano il potere in quel contesto e di cui sono state trovati innumerevoli esempi negli scavi egei.

Ebbene, narra la leggenda che Minosse, era inviso alla popolazione cretese perché non direttamente discendente dal suo predecessore sul trono, ma figlio di quel furbacchione di Zeus che, trasformatosi in un toro bianco, aveva rapito Europa portandola a Creta ove avrebbe generato il Signore di Knossos. Poiché le cose si mettevano male, quest’ultimo pregò Poseidone, Dio del mare da cui la vita stessa di Creta dipendeva, di inviargli un segno della sua benevolenza così da dimostrare al suo popolo che godeva dell’amore degli Dei. Poseidone, memore anche dell’inizio del regno di Minosse[3], segnato dalla presenza di un toro bianco, inviò al Signore di Knossos proprio uno di tali animali, bellissimo e di grande candore, privo di macchie, perché gli fosse poi sacrificato.

Ma Minosse, colpito dalla magnificenza dell’animale, decise di trattenerlo nelle sue stalle e di sacrificarne al Dio del mare un altro. Gli Dei greci, si sa, sono soggetti alle passioni umane forse più di altre divinità; fu così che Poseidone, che ovviamente si era accorto della sostituzione, si vendicò facendo innamorare Pasifae, moglie di Minosse, proprio del toro bianco. Fu così che Dedalo[4], che già aveva costruito il Palazzo delle Labrys, costruì un altro suo marchingegno: una giovenca di legno in cui Pasifae poté entrare e congiungersi con il toro dando così vita a un essere mostruoso, per metà uomo e per metà toro: il Minotauro.

Inutile dire che il popolo, avuta conoscenza dell’accaduto, iniziò a sottolineare il tradimento mostrando al poco amato Minosse il gesto delle corna.

E questa, con la presenza di un toro, animale notoriamente cornuto, è la prima delle ipotesi per giustificare la terminologia usata per indicare un tradimento.

Un’altra, forse più storica e credibile, ci vede fare un salto di svariati millenni, fino al XII secolo d.C. L’area si sposta di poco: da Creta, infatti, eccoci a Costantinopoli e da Minosse al regno dell’Imperatore Andronico I Comneno (1118-1185), divenuto famoso anche per la sua crudeltà. Questi era solito far arrestare i suoi maggiori nemici e, quindi, non solo sedurne le mogli annoverandole tra le sue concubine, ma per massimo disprezzo e per far conoscere l’onta al popolo, far appendere sulla porta di casa del malcapitato la testa di un animale provvisto di corna, fosse esso un bue, piuttosto che un cervo. Sarebbe così nata l’espressione greca “cherata poiein”, cioè “mettere le corna”, poi giunta nell’area mediterranea a seguito della presa della città di Tessalonica (1185) da parte dei soldati siciliani di Guglielmo II di Sicilia “il Buono” (1153-1189).

“CORNA” DIVINE EGIZIE

Ma dopo questo excursus archeo-storico è ormai giunto il momento di tornare nel nostro Antico Egitto e chiarire il perché di questo titolo. Forse il concetto offensivo, come abbiamo sopra visto, non era ancora noto e forse non erano indicati come “cornuti” alcuni re che, per apparire ancor più legittimati ad assurgere al trono, non trovarono di meglio che far derivare la loro stessa nascita dall’unione tra la propria madre e una divinità. Abbiamo sopra accennato ad Alessandro Magno, figlio di Zeus e Olimpiade, ma ora dobbiamo tornare ancora più indietro nel tempo di circa 2500 anni…

IL PAPIRO WESTCAR E LA V DINASTIA

Il papiro di Berlino 3033, o papiro Westcar (Ägyptisches Museum di Berlino)

…nella sala del trono, Khufu[5] è circondato dai suoi figli Djedefra, suo diretto erede, Khafra, Baufra ed Herdjedef e si sta annoiando, nasce così la sua richiesta di narrargli storie[6], possibilmente di maghi e magie poiché lo appassionano molto.

Un primo racconto, andato perso, vede come narratore, verosimilmente, Djedefra[7] (immediato successore di Khufu), ma conosciamo solo il premio che il re offre alla memoria del predecessore Djoser[8]; è poi la volta di un secondo figlio, Khafra[9], che, rifacendosi al regno di uno dei predecessori di Khufu, il re Nebkha, narra del mago Ubanoer che, tradito dalla consorte, plasma un coccodrillo di cera che, magicamente, prenda vita e intrappoli il giovane amante della moglie; Baufra[10], terzo figlio, narra, a sua volta, una storia ambientata durante il regno del re Snefru[11], padre di Khufu, che annoiandosi a sua volta, chiamò il saggio mago Djadjaemankh che gli suggerì di fare un viaggio sul lago sacro, a bordo della barca reale condotta, ai remi, da venti splendide fanciulle nude. Una di queste, la capo-voga, avrebbe perso nel lago un amuleto e il mago Djadjaemankh, su richiesta del re, avrebbe sollevato le acque perché l’amuleto potesse essere ritrovato agevolmente.

È quindi la volta dell’ultimo figlio, Herdjedef[12]:   

«[Tu hai udito finora] degli esempi di ciò che hanno saputo [fare] coloro che oggi sono trapassati: e non si può riconoscere il vero dal falso. [Ma c’è, sotto] la Tua Maestà del tuo proprio tempo, [uno] che non è conosciuto da te, e che è un grande mago»

Così esordisce il principe Herdjedef stuzzicando la curiosità paterna giacché, come egli stesso precisa, quello che sta per narrare non è qualcosa che è accaduto chissà quando, ma è “cronaca”, giacché proprio durante il regno di Khufu, esiste un mago grandissimo, ha 110 anni e si chiama Djedi.

Costui è in grado di mangiare «…cinquecento pani, e come carne, mezzo bove…» e di bere «…cento brocche di birra ancora oggi…». Il suo potere è così grande che può riattaccare la testa di un uomo, sa farsi seguire da un leone senza tenerlo al guinzaglio e, cosa che intriga Khufu più di tutto «…conosce il numero delle stanze segrete del santuario di Thot…». Accade così che lo stesso Herdjedef venga incaricato di portare Djedi al cospetto del re che, come prima cosa, chiede di dimostrargli il suo potere riattaccando la testa a un prigioniero cui verrebbe tagliata, ma il mago rifiuta l’esperimento eseguendo però la magia prima su un’oca, e poi su un bue.

Ma Khufu è decisamente più incuriosito dal numero delle stanze del santuario di Thot e, posto il quesito al mago, ottiene per risposta un racconto che, finalmente, è quello che interessa l’argomento del nostro articolo: spiega infatti Djedi, che non conosce il numero segreto delle stanze, ma il luogo in cui tale numero è custodito, all’interno di un baule. Alla legittima curiosità di Khufu, Djedi precisa che non lui porterà al re il baule, ma «…Te lo porterà il primo dei tre figli che sono nel grembo di Redjedet».

Già, ma chi è Redjedet?

«…È la moglie di un sacerdote di Ra, signore di Sakhebu, che è incinta di tre figli di Ra, signore di Sakhebu. Egli ha detto che eserciteranno questa funzione benefica in questo intero paese, e il primo di essi sarà Grande dei Veggenti a Eliopoli…».

La profezia, perciò, indica che dopo Khufu, Djedefra e Khafra, tutti della IV dinastia, sorgerà una nuova dinastia, la V, e che i tre figli di Redjedet ne saranno i sovrani.

Il concepimento è perciò avvenuto ad opera del dio Ra e lo stesso racconto, riportato nel Papiro Westcar della XVI-XVII dinastia, risale invece verosimilmente proprio alla V per rafforzare la legittimità dei regnanti di quella dinastia e confermare il potere proprio del dio Ra. Accade così, proseguendo nel racconto di Herdjedef, che Ra ordini che alla nascita dei tre “gemelli” (non risulta archeo-storicamente, tuttavia, che un tale parto trigemellare di sovrani sia mai avvenuto) siano presenti le dee Iside, Nephtys, Meskhenet (protettrice delle partorienti); Heqet (dea della fertilità) e il dio Khnum (colui che plasmava, sul tornio del vasaio, il kha, una sorta di anima, del nuovo nato).

Fu così che

«… Iside si pose davanti a lei, Nephtys dietro a lei, e Heqet affrettò la nascita. Iside disse: “Non esser troppo possente nel tuo grembo, in questo tuo nome di User(kha)f[13]”…».

La dea Meskhenet, allora,

«…andò verso lui e disse: “Un re che eserciterà la regalità nel paese intero”, mentre Khnum dava la salute al suo corpo…».

Le nascite si susseguono seguendo il medesimo schema e nascono così Sahura[14] e Kheku[15]; a tutti e tre Meskhenet, quasi come una “madrina” delle nostre fiabe, dona la regalità sul Paese di Kemi, e per ognuno Khnum[16] plasma il giusto kha. Non si tratta, come ovvio, di tre nascite qualunque visto che tutti e tre diverranno re e saranno i primi di una nuova dinastia, la V.

È da tener presente, come peraltro già più sopra accennato, che l’episodio non trova riscontro nella realtà archeo-storica giacché non risulta alcuna nascita trigemellare né i tre futuri regnanti risultano figli di una medesima coppia. Il racconto, verosimilmente risalente proprio alla V dinastia, tendeva a glorificare i tre re della nuova dinastia facendoli discendere dal massimo dio, Ra, che proprio in tale periodo storico assurge al titolo di supremo tra gli dei. Questo in forza, ovviamente, di un antico clero, quello di Heliopolis, particolarmente aggressivo, politicamente parlando, che data la relativa recente unificazione delle Due Terre, tende alla ricerca di un dio che possa essere sovraordinato alle divinità delle due parti unificate. Nasce proprio nell’Antico Regno, e segnatamente nelle dinastie IV e V, specialmente, l’enunciazione della Grande Enneade[17] eliopolitana.

Il racconto del Papiro Westcar ci ha consentito di entrare nell’argomento di questo articolo giacché la presunta madre, Redjedet, sposa di un sacerdote proprio di Ra, viene, come abbiamo visto strumentalmente, resa gravida dei tre re dal massimo dio.

HATSHEPSUT E LA XVIII DINASTIA

Planimetria del “djeser djeseru”, “Sublime dei Sublimi”, il tempio di Hatshepsut a Deir el-Bahari

Lasciamo l’Antico Regno per spostarci avanti di quasi mille anni. Anche in questo caso, di fondo, assistiamo a una crisi politica: da poco il paese è stato riunito dopo la parentesi di quasi due secoli di dominazione degli Haqau-khasut, gli Hyksos[18]. Dal sud i principi tebani, con Seqenenra Ta’o “il Valoroso”, prima, e Khamose poi, hanno iniziato la loro campagna di riunificazione delle Due Terre scontrandosi con gli stranieri che, sconfitti, si sono attestati nella loro capitale, Avaris, sul Delta nilotico.

Con la XVIII dinastia nasce, così, il Nuovo Regno (~1540-1180 a.C., dinastie XVIII-XIX-XX). Primo sovrano della dinastia del paese unificato sarà Ahmose I, forse fratello di Khamose, ma gli Hyksos tenteranno di riprendere il potere e la guerra proseguirà fino, verosimilmente, all’anno quindicesimo o sedicesimo del regno di Ahmose quando, allontanati gli Hyksos e stroncati anche altri tentativi di rivolta dei nubiani, già alleati dei primi, le Due Terre possono finalmente dirsi riunificate.

Dopo circa venticinque anni di regno, il trono passa al successore Amenhotep I e da questi, dopo ulteriori vent’anni, a Thutmosi I. Non si è a conoscenza se quest’ultimo fosse un diretto discendente di Amenhotep I, ma di certo legittimò il suo diritto al trono sposando una sorella di Amenhotep, Ahmose[19], con la quale generò Hatshepsut.

Alla morte di Thutmosi I, pur essendo Hatshepsut in posizione di preminenza per la successione (essendo figlia di un re e sorella di un altro re), il trono venne assunto da Thutmosi II, fratellastro di Hatshepsut, che però la sposò conferendole il titolo di Grande Sposa Reale.

Da tale unione nacque una figlia femmina, Neferura, mentre da una regina minore, Iset, nacque Menkheper-Ra Thutmosi, erede al trono, che però, alla morte del padre, aveva forse tre o quattro anni. Fu così che, in luogo del III dei Thutmosi, assunse la reggenza, in nome del figliastro/nipote, proprio Hatshepsut. Tra il terzo e il settimo anno di reggenza, però, pur lasciando nominalmente sul trono Thutmosi, Hatshepsut compì un vero e proprio colpo di mano nominandosi Re (non regina) a tutti gli effetti e assumendo, per questo, la titolatura completa di cinque nomi[20].

Come ovvio, una tal forzatura, di certo fortemente appoggiata dai sacerdoti di Amon[21]. non poteva che suscitare, quanto meno, disappunto tra i dignitari e la stessa popolazione, rendendo necessario il ricorso a qualcosa che potesse costituire una valida base di conferma: cosa di meglio, come peraltro nel caso che abbiamo sopra visto della V dinastia, che non una forte giustificazione teologica?

Il racconto di quel che accadde ci è stato tramandato su un enorme registro di pietra: il “Djeser Djeseru”, Sublime dei Sublimi è Amon, cioè il tempio funerario di Hatshepsut a Deir el-Bahari[22]. Qui, nel lato nord del secondo portico, sono riportati i rilievi relativi al concepimento e alla nascita di Hatshepsut. Il racconto si sviluppa organicamente, su più registri sovrapposti. Nel primo riquadro il Dio Amon comunica a dodici divinità[23] la sua intenzione di procreare un Re avendo prescelto, quale madre, la Regina Ahmose (o Ahmasi), sposa del Re Thutmosi I (effettivo padre di Hatshepsut):

«[24]Desidero la compagna [Ahmasi] che egli [Thutmosi I] ama, colei che sarà la madre autentica del re dell’Alto e Basso Egitto Maatkara, che viva, Hatshepsut Unita ad Amon. Io sarò la protezione delle membra fintanto che ella non si leverà […] Io le darò tutte le pianure e tutte le montagne […] Ella guiderà tutti i viventi […] Io farò cadere la pioggia dal cielo durante il suo tempo, farò che siano dati dei grandissimi Nili alla sua epoca […] e colui che bestemmierà impiegando il nome di Sua Maestà, farò che muoia sul campo.»

Amon, accompagnato dal Dio Thot quale paraninfo, assume perciò le sembianze dello sposo, il re Thutmosi I; l’amplesso tra i due è, molto romanticamente, simboleggiato dal segno della vita, l’ankh, che il Dio poggia sul viso della regina Ahmasi che, a sua volta, gli accarezza una mano:

«Allora Amon, il dio eccellente signore del Trono delle Due Terre, si trasformò e prese l’aspetto di Sua Maestà [Thutmosi I], lo sposo della regina. La trovò che dormiva nella bellezza del suo palazzo. L’odore del dio la svegliò e la fece sorridere alla Sua Maestà. Appena egli si avvicinò a lei arse il cuore, e fece in modo che lei potesse vederlo sotto il suo aspetto divino. Dopo che l’ebbe avvicinata strettamente e che lei si fu estasiata a contemplare la sua virilità, l’amore di Amon penetrò il suo corpo. Il palazzo era inondato del profumo del dio, tutti gli aromi del quale venivano da Punt.»

L’avvenuto concepimento viene così narrato:

«Disse Amon, Signore di Karnak: Henemetamon-Hatshepsut è il nome di questa mia figlia. […] Ella eserciterà una regalità benevola nell’intero Paese. A lei il mio ba15, a lei la mia potenza, a lei la mia venerazione, a lei la mia corona bianca! Certamente ella regnerà sui Due Paesi e guiderà tutti i viventi […] fino al cielo. Io unisco per lei i Due Paesi nei suoi nomi, sul seggio di Horus dei viventi, e assicurerò la sua protezione ogni giorno, con il dio che presiede a quel giorno.»

È quindi la volta del Dio Khnum, il vasaio che modellava l’uomo sul suo tornio, cui Amon dà incarico di plasmare la futura figlia:

«Va’! Per modellarla, lei e il suo kha15, a partire dalle membra che sono mie. Va’! Per formarla meglio di ogni dio. Forma per me questa mia figlia che ho procreato […]

[Risponde Khnum] Darò forma a tua figlia […] Le sue forme saranno più esaltanti di quelle degli dei, nel suo splendore di re dell’Alto e Basso Egitto.»

Trascorsi i nove mesi di gravidanza, tocca nuovamente a Thot, accompagnato dalla Dea Heket, protettrice delle nascite e delle partorienti, portare alla Regina l’annunciazione della paternità divina e dell’imminente nascita. Le due divinità accompagnano quindi, tenendola per mano, Ahmasi verso la sala ove avrà luogo il parto. Qui Khnum profetizza l’immensa grandezza della nascitura, addirittura indicandola come superiore ad ogni altro re precedente:

«Io avvolgo tua figlia nella mia protezione. Tu sei grande, ma colei che aprirà il tuo grembo sarà più grande di tutti i Re esistiti fino a oggi.»

È quindi la volta del padre divino, Amon, che riconosce la figlia come sua, la presenta al consesso degli Dei mentre Atum le porge la corona e la titolatura regale:

«Salute a te, figlia mia, nata dalla mia carne, Maatkhara, immagine brillante uscita da me. Tu sei il re che regge i Due Paesi, sul trono di Horus, come Ra. […] baciarla, abbracciarla, cullarla, perché io l’amo più di ogni cosa.»

«La sua figura era quella di un dio, lei faceva ogni cosa come un dio; il suo splendore era quello di un dio. Sua Maestà diventò una bella giovinetta fiorente come la nuova stagione.»

Poco distante, quattordici “geni”, che rappresentano il destino dei Re[25], tendono la mano a proteggere la bimba e il suo kha.

E, in tutto questo, l’amato padre Thutmosi I?

Non volendo, a causa della sua dichiarata nascita divina, disconoscere tuttavia la paternità “terrena”, Hatshepsut chiarisce che il diritto terreno di regnare le viene conferito dal padre Thutmosi I, ma che la legittimità divina non può che provenire dal padre divino Amon, così, in una scena quasi identica, in un’altra parte del tempio, Thutmosi I presenta il Re Hatshepsut alla Corte così come aveva fatto Amon con il consesso degli Dei; anche in questo caso la doppia corona viene offerta da due divinità, Horus e Seth.

AMENHOTEP III

Se con Hatshepsut abbiamo dovuto fare un salto di quasi mille anni, dalla V alla XVIII dinastia, per trovare un altro esempio di ierogamia, stavolta il passo è davvero molto più breve giacché resteremo nella XVIII dinastia. Meno di ottanta anni, infatti, separano la fine del regno di Hatshepsut (~1458 a.C.) dall’inizio di quello di Amenhotep III (~1388 a.C.).

Quello che appare strano, però, nella vicenda di questo Re è che il ricorso a una ierogamia per legittimare il diritto al trono non sarebbe stato per nulla necessario. Nel caso di Hathsepsut, infatti, abbiamo visto che l’appoggio del clero di Amon le consentiva di legittimare un’ascesa totale al trono che, di fatto, spettava al suo figliastro/nipote Thutmosi III in nome del quale, data la giovanissima età, di fatto regnava.

Ma in questo caso? Amenhotep III era figlio di un Re, Thutmosi IV, e di una Regina, sia pure non principale, Mutemwia, e nulla sembrerebbe necessitare il ricorso a una ierogamia a meno che… forse una giustificazione nella scelta del III Amenhotep può essere cercata quasi a voler confermare il diritto nell’assunzione del trono di suo padre e, conseguentemente, il suo.

Facciamo, perciò, un passo indietro per narrare la vicenda di Thutmosi IV (regno ~1398/1388 a.C.): questi non era, verosimilmente, designato quale erede al trono paterno di Amenhotep II[26], legittimazione che egli tuttavia ottenne, anche in questo caso, appoggiandosi al clero. Narra infatti la “Stele del Sogno”, che ancora si erge tra le zampe dell’immensa sfinge di Giza (l’antica Kher-Neter), che il giovane principe, amante della caccia, si sdraiò per riposare all’ombra dell’enorme volto, giacché tutto il resto del corpo era completamente insabbiato. Al sonno seguì il sogno e lo stesso Harmaki-Khepri-Atum, Dio del sole nascente rappresentato dalla sfinge, a lui così si rivolse:

«[27][…] questo dio parlava con la sua stessa bocca, come un padre parla al proprio figlio, dicendo: “guardami, volgi gli occhi su di me, o figlio mio Thutmosi!  Io sono tuo padre Harmaki-Khepri-Atum.”

Io ti concedo la mia regalità sulla terra, a capo dei viventi. Tu porterai alta la corona bianca e la corona rossa sul trono di Geb, il dio principe ereditario; a te apparterrà tutto il paese quanto è lungo e quanto è largo, e tutto ciò che illumina l’occhio del Signore Universale […]»

Ma il Dio è sofferente proprio per tutta la sabbia che lo opprime e così:

«[…] Vedi lo stato in cui sono e come il mio corpo è dolorante, io che sono il signore dell’altopiano di Giza. Avanza sopra di me la sabbia del deserto, quella su cui io sono: devo affrettarmi a fare che tu realizzi ciò che è nel mio cuore, perché io so che tu sei mio figlio, il mio protettore. […]»

Sarà perciò proprio in cambio del lavoro di ripulitura del corpo del Dio, circondando peraltro l’enorme monumento con un muro per limitare l’insabbiamento, che il giovane Principe Thutmosi otterrà la corona delle Due Terre. A ulteriore conferma del favore degli Dei, durante una cerimonia nel tempio di Amon, la barca sacra, recata sulle spalle dai sacerdoti del Dio deviò improvvisamente dal suo percorso, “trascinando” i preti che la sorreggevano proprio dinanzi al Principe Thutmosi e lì, addirittura, il simulacro del Dio s’inchinò per far comprendere che proprio quell’oscuro Principe era, in realtà, il suo prescelto per il trono.

Dal sogno premonitore e dal “miracolo” della barca, sembra potersi ipotizzare che quell’assunzione del trono, forse, non fu proprio lineare, da parte di Thutmosi IV, il cui regno sarà relativamente breve (~1398/1388 a.C.). Si potrebbe perciò ipotizzare che tale situazione ancora si riverberasse ai tempi del figlio Amenhotep III rendendo, in qualche modo, quanto meno, preferibile la conferma del diritto al trono da parte di una divinità importante come Amon. Fu così che nel tempio di Luxor, in una camera conosciuta come “Stanza della Nascita”, riprendendo quasi completamente l’iconografia del Tempio di Hatshepsut, il Dio Amon si sostituisce al Faraone Thutmosi IV per giacere con la regina Mutemwia e generare il sovrano. Anche in questo caso, il Dio si manifesta con un forte e inebriante profumo che pervade tutto il Palazzo. Il rilievo della stanza, come già per Hatshepsut, sintetizza la vicenda confermando, anche in questo caso, la legittimità divina a regnare di Amenhotep III.

Il “mito” della nascita di Amenhotep III, dal tempio di Luxor, “Sala della Nascita”.
Da sinistra: Thot annuncia a Mutemwia il concepimento; Iside e Khnum accompagnano Mutemwia nella stanza della nascita; la Regina, sulla sedia del parto, accudita da divinità e geni, partorisce il futuro Re.

Può apparire paradossale che proprio Amenhotep III, nonostante la “benevolenza” del padre divino, sarà il Re che, con il trasferimento del Palazzo a Malqata, inizierà, di fatto,  l’allontanamento della Corte dal potere dei preti di Amon che culminerà, con il figlio Amenhotep IV/Akhenaton, nell’ “Eresia Amarniana”.

RAMSES II

«Il suo aroma era quello della terra degli dei e il suo profumo quello di Punt.»

…ancora la presenza del Dio, Amon, è caratterizzata dal profumo che emana il suo corpo… e, ancora, il concepimento sacro è romanticamente rappresentato con il Dio che, seduto sul letto della Regina Tuya, le porge il segno della vita, l’Ankh mentre questa gli sfiora la mano.  

Siamo in una Cappella del Ramesseum, che si erge a pochi chilometri dal Nilo a Luxor, dedicata alla Grande Sposa Reale, Nefertari, e alla proprio madre, la Regina Tuya. Ci siamo spostati, anche stavolta, di soli ottanta anni circa, ma siamo entrati in quella che viene indicata come XIX dinastia e, più specificamente, nel regno di quello che è, forse, il Faraone più noto della storia egizia (fatto salvo, s’intende, Tutankhamon): Ramses II, il Grande.

Anche questo grande Re ricorre, infatti, a una ierogamia per confermare la sua legittimità al trono, ma perché?

Anche in questo caso, dobbiamo forse fare un passo indietro per cercare di comprendere il bisogno di una conferma che poteva solo essere offerta da una nascita divina. È appena il caso di rammentare che la XVIII Dinastia si conclude, dopo il regno di Tutankhamon, senza eredi legittimi discendenti diretti del Re; tra la documentazione rinvenuta, nel 1907, nel sito dell’antica Hattusha (l’odierna Bogazkhoi), capitale dell’Impero Hittita, una in particolare deve, in questo caso, attirare la nostra attenzione: si tratta della tavoletta VII (cat. KBO2003).

Una “Regina vedova[28] egizia dichiara che, alla morte del marito, non esiste un erede al trono del Paese e chiede pertanto al Re degli Hittiti, Shuppiluliumash, un suo figlio da sposare e rendere a sua volta Re di Kemi. Sappiamo che un principe Hittita, Zannanzash, partirà per l’Egitto, ma del suo viaggio si perdono le tracce e sul trono delle Due Terre salirà l’anziano Kheperkheperura Ay, già alto funzionario alla Corte di Akhenaton prima, di Smenkhara e Tutankhamon poi. Verosimilmente non di ascendenza regale[29], Ay otterrà la legittimità sposando, verosimilmente, proprio la regina, vedova, di Tutankhamon: Ankhesenamon.

Alla morte di Ay, dopo un brevissimo regno di soli due o tre anni, l’asse ereditario interrottosi con Tutankhamon e l’assenza di eredi legittimi al trono, vede l’ascesa di un Generale, Horemhab, che, a sua volta, verosimilmente sancirà il suo diritto al trono sposando Mutnodjimet, sorella di Nefertiti. Può essere interessante rammentare che Horemhab regnerà per ventotto anni ma dalle liste reali, con un’incisiva damnatio memoriae, il suo regno risulterà di quasi cinquantanove poiché si “approprierà” dei periodi di Ay, suo immediato predecessore, di Tutankhamon, dell’effimero e “misterioso” Smenkhara e dello stesso Akhenaton dicendosi, perciò, diretto discendente da Amenhotep III[30].

Già sotto Horemhab inizierà l’opera di “cancellazione” del periodo amarniano, opera che proseguirà anche nella Dinastia successiva, la XIX, per giungere, sotto Ramses II, alla completa e sistematica demolizione della città di Akhetaton.

Siamo così giunti alla nascita della nuova Dinastia, la XIX, e anche in questo caso Horemhab non lascerà eredi e passerà il trono a un altro, sconosciuto, Generale, già suo Visir[31]: Pramesse (Menhepetira Ramses ~1291-1289 a.C.), discendente da una famiglia del Delta nilotico e, forse, più esattamente, dell’antica Capitale Hyksos di Avaris.

Non destinato per discendenza diretta, come abbiamo visto, al momento dell’assunzione del potere Ramses I aveva oltre cinquanta anni, età considerevole per l’epoca, ed era già padre e nonno di due futuri Faraoni: Sethy I e Ramses II. Eccoci finalmente giunti, perciò, alle motivazioni che potrebbero aver spinto il secondo Ramses a ricorrere alla ierogamia come già i suoi predecessori, Hatshesput e Amenhotep III. In tutti e tre i casi, infatti, ci troviamo dinanzi a periodi d’incertezza politica in cui si rendeva necessario confermare il diritto a regnare per consolidare un potere altrimenti incerto.

Ma, non a caso, Ramses II è noto come “il grande”: poteva perciò accontentarsi di una nascita normale (o quasi)? Ecco, perciò che mentre nella cappella del Ramesseum, di cui abbiamo già accennato, dedicata alla madre Tuya e all’amata sposa Nefertari, il padre divino è Amon, un’altra ierogamia, per quanto non rappresentata, si ricava da rilievi del tempio di Karnak e dal tempio funerario del padre Sethy I, ad Abydos. Benché risalente al trentacinquesimo anno di regno (vi rammento che Ramses II regnò per quasi settant’anni), sulle pagine di pietra dei templi il Dio Khnum plasma il kha del Faraone che viene benedetto da un altro Dio che si dichiara suo padre divino:

«[…] Parole pronunciate da Ptah-Tatenen[32], quello delle lunghe piume e dalle corna aguzze, che generò gli dei: “Io sono tuo padre, che ti generai come un dio per agire come Re dell’Alto e Basso Egitto sul mio seggio. Io decreto per te le terre che ho creato, i loro signori ti tributeranno le loro entrate.[…]»

Insomma, “grande” anche nella nascita se è vero che ben due, se non tre, divinità, ne vorranno assumere la paternità.

Ad inizio di quest’articolo abbiamo chiarito che il ricorso alla ierogamia non è certo appannaggio della sola storia egizia e non pochi sono gli esempi, magari anche non molto lontani da noi, per giustificare la nascita di un semplice eroe, di un profeta o di un dio. Ma qui ci eravamo prefissi di parlare di Antico Egitto e, a meno di ulteriori scoperte, quelle sin qui narrate sono le ierogamie più importanti.

Ce ne sarebbe ancora una da narrare, il cui esito fu però semplicemente uno scandalo di proporzioni gigantesche che portò esiti disastrosi ai sacerdoti di una delle Dee più antiche e longeve del pantheon egizio, Iside in persona. Ma per parlare anche di questo dovremmo fare un salto temporale e geografico non indifferente: circa 1300 anni dopo il regno di Ramses II e da Tebe dovremmo spostarci a Roma… chissà, potrebbe essere l’argomento di un altro articolo…  

 Roma, 07/05/2022


[1]    “Friðþjófs saga hins frækna”, “Saga di Frithiof”, è una saga islandese risalente, nella sua versione oggi nota, al XIII secolo, ma ambientata nel secolo VIII, ed è il seguito della “Þorsteins saga Víkingssonar”, “Saga di Thorstein, figlio di Vichingo”, ambientata nel VI-VII secolo.

[2]    Gustaf Malmström (1829-1901) pittore e illustratore svedese, dal 1887 al 1893 Direttore dell’Accademia di Belle Arti Svedesi. Appartenente alla corrente romantica, fu particolarmente attivo nell’illustrazione di testi derivanti dalla mitologia norrena, ovvero dei miti delle popolazioni germano-scandinave precristiane. Tra le altre la Saga di Frithiof (1825), una serie di romanzi scritti da Esaias Tegnèr (1782-1846), ambientati nell’antico mondo nordico.

[3]    Il termine Minosse, normalmente indicato come nome proprio, in realtà era un titolo giacché “minos”, in realtà, indicava il re, il signore, di un dato luogo.

[4]     Il personaggio di Dedalo, e di suo figlio Icaro, potrebbe sembrare mitico, ma in una tavoletta rinvenuta nel Palazzo di Knossos (B KN Fp1) si fa riferimento ad offerte di olio d’oliva a divinità e personaggi famosi dell’isola. Una decina di litri alla sacerdotessa dei Venti, ad esempio, ma al terzo rigo viene riportata un’offerta di 24 litri di olio di oliva al santuario di Dedalo. La struttura dei Palazzi cretesi, pressoché simili, in tutta l’isola, sembrano indicare una progettazione architettonica unica e s’ipotizza che proprio Dedalo, venerato peraltro in un suo tempio, ne fosse l’autore.

[5]    Khufu (~2589-2566 a.C.), meglio noto come Keope, IV dinastia.

[6]    Il testo (Museo Egizio di Berlino, cat. P-berlin-3033), è meglio noto come “Papiro Westcar”, dal nome del suo “scopritore”. E’ bene tuttavia tener presente che Henry Westcar non precisò mai dove, o come, avrebbe rinvenuto il documento, né l’anno esatto (1823 o 1824) del ritrovamento, di fatto alimentando il dubbio che l’avesse verosimilmente acquistato sul mercato nero dei reperti egizi. Il testo prevedeva cinque racconti di cui se ne sono “salvati” tre. Scritto su 20 colonne in ieratico, il papiro risalirebbe alla XVI o XVII dinastia, ma i racconti in esso trascritti, all’analisi testuale, sembrano risalire al Medio Regno (~2055-1790 a.C.) e, dati gli argomenti trattati, si ritiene che fossero, a loro volta, trascrizioni di racconti risalenti a tempi ancora precedenti.  

[7]    Djedefra (~2566-2558 a.C.), IV dinastia, successore diretto di Khufu. È stato ipotizzato che il primo racconto fosse narrato da costui poiché nei pochi brani leggibili si fa riferimento alla memoria del re Djioser, della III dinastia e al suo “architetto” Imhotep.

[8]    Ognuno dei racconti si conclude con un premio che il re Khufu elargisce alla memoria del/dei protagonista/i. La formula è sempre la stessa e varia solo la quantità di doni. A titolo di esempio, queste le offerte concesse dopo il racconto di Khafra: «…Si offrano mille pani, cento brocche di birra, un bove, e due misure di incenso al re Nebkha, e si diano un dolce, una brocca di birra, una porzione di carne e una misura d’incenso al capo ritualista Ubanoer, perché ho visto un esempio del suo potere…».

[9]    Khafra (~2558-2532 a.C.), IV dinastia, successore diretto di Djedefra.

[10] Salvo questo accenno nel Papiro Westcar, e in un altro documento, nulla si sa di questo principe. Nello Wadi Hammamat un’iscrizione parietale riporta il suo nome iscritto in un cartiglio reale; si ritiene, tuttavia, che tale titolatura non faccia riferimento ad un reale potere, ma piuttosto ad una sorta di individuazione del principe quale “protettore” delle cave.

[11] Snefru (~2630-2609 a.C.), padre di Khufu, IV dinastia.

[12] Come per Baufra, anche di Herdjedef, Supervisore di tutti i lavoratori del re, dei pescatori e degli uccellatori, Protettore di Hierakompolis, Figlio del re, del suo corpo (il titolo “figlio del re” era onorifico e solo per gli effettivi figli veniva precisato “del suo corpo”) e suo Unico Compagno, si ha un’iscrizione nelle cave di Wadi Hammamat in cui, analogamente al fratello, il nome compare iscritto in un cartiglio. Non è tuttavia noto che questo principe sia mai assurto al trono. Di lui è rimasto un testo sapienziale indirizzato al figlio, il principe Awib-Ra. Le sue sepolture si trovavano nelle mastabe G7210/7220 nell’area est del complesso piramidale di Giza; il suo sarcofago è, oggi, al Museo Egizio del Cairo.

[13] Userkhaf Hor Irmaat (~2510-2500 a.C.), fu il primo re della V dinastia. Suoi genitori, aldilà del racconto del Papiro Westcar, sarebbero stati Neferhetepes, figlio di Khufu, e Khentkaues, figlia di Menkhaura (Micerino) ultimo, o penultimo, re della IV dinastia.

[14] Sahura Hor-Nebkhau (~2500-2490 a.C.), secondo re della V dinastia. Come per Userkhaf, suoi effettivi genitori sarebbero da individuarsi in Userkhaf e Khentaus. 

[15] Kheku, Neferirkhara Kakai (~2490-2480 a.C.), terzo re della V dinastia, probabilmente fratello di Sahura e figlio di Userkhaf. A lui si deve l’introduzione del secondo cartiglio nella titolatura regale: Neferirkhara = Ciò che il Kha di Ra ha fatto è meraviglioso.  

[16] Tre erano gli elementi spirituali dell’uomo, diremmo oggi l’anima: il ba, il kha e l’akh. Khnum il vasaio, divinità locale di Aswan, plasmava il corpo con l’argilla e lo deponeva nel ventre materno creando il kha, un “doppio” identico alla persona che era la forza guida del corpo. Alla morte dell’individuo, il kha permaneva nella tomba poiché aveva bisogno di un corpo in cui continuare a “vivere” e di cibi; per questo le tombe avevano sempre una parte “pubblica” in cui depositare le offerte a lui destinate. Con il passare del tempo il kha dimenticava, però, l’essenza terrena e non avendo più bisogno di cibi effettivi, si accontentava delle relative immagini e delle preghiere.

[17] Grande Enneade: gruppo di nove divinità di cui erano parte Atum, “Toro dell’Enneade”, i suoi figli Shu (l’aria) e Tefnut (l’umidità), i figli di questi Geb (la terra) e Nut (il cielo), e i figli anche di questi: Iside, Osiride, Nephtys e Seth. A questi venne associato, durante la V dinastia, un decimo dio, Horus il Vecchio proprio quale divinità super-partes che, nelle intenzioni dei sacerdoti di Ra, avrebbe potuto costituire un dio unificante cosa che, in effetti, non avvenne del tutto se si considera, ad esempio, che in quel periodo i sacerdoti di Menfi preferirono Ptah ad Horus.

[18] Non esiste prova archeo-storica che gli Hyksos abbiano militarmente invaso l’Egitto e si ritiene che il potere sia stato raggiunto attraverso una normale scalata della gerarchia egizia (prova ne sarebbero la scelta di continuare a usare nomi e titolature egizie, e l’accettazione pressoché totale delle divinità locali). In quello che viene indicato come Secondo Periodo Intermedio (~1790-1540), decisamente caotico, si accavallano più dinastie contemporaneamente: la XIII e la XIV, la XV e la XVI, nonché la XVII, tebana, che inizierà la guerra di riconquista.

[19] Presso gli antichi egizi non esisteva differenza tra nomi maschili e femminili, è quindi possibile, come in questo caso, che un maschio e una femmina abbiano lo stesso nome. Per differenziarla si usa, perciò, indicarla come Ahmasi.

[20] Nome di Horus: Userhetkhau (ricolma di Kha); titolo le Due Signore: Uadjetreneput (Fiorente di Anni); nome di Horus d’oro: Netjeretkhau (divina nell’apparizione); Nesu-Bity: Maatkhara (la Verità è l’anima di Ra); Sa-Ra: Henemetamon-Hatshepsut (Amata da Amon, Prima tra le Nobili Dame).

[21] Si ritiene che l’ascesa al trono, quale re, di Hatshepsut sia stata appoggiata fortemente dal clero amoniano e, in particolare da Hapuseneb (tomba TT67 di Sheikh Abd el-Qurna), che ricoprì la carica di Primo Profeta di Amon dal 2° al 16° anno del suo regno. Tale fu il suo potere che assunse le cariche di Supervisore di tutti i lavori del Re, di Supervisore di tutti i preti dell’Alto e Basso Egitto, Tesoriere del Re, Visir e, addirittura, Principe ereditario, carica che, sebbene spesso solo nominale, dimostra tuttavia una altissima considerazione. Hapuseneb era, inoltre, Supervisore alla costruzione della tomba reale, ma non è noto se possa trattarsi della KV20 o di altro sepolcro rupestre, pure collegato ad Hatshepsut e scoperto da Howard Carter nel 1916, nel Wadi Sikket Taqa el-Zaide (oggi noto come WA D). Il sarcofago di questa tomba reca l’indicazione: “La principessa ereditaria, grande di favori e di grazia, Signora di tutte le terre, figlia del re, sorella del re, la Grande Sposa e Signora delle Due Terre Hatshesput”   

[22] Altro personaggio, peraltro strettamente legato al culto di Amon, che si ritiene abbia avuto concreto merito nell’assunzione del trono da parte di Hatshespsut fu l’architetto Senenmut (progettista e Supervisore dei lavori del Sublime dei Sublimi) che valutazioni, tuttavia prive di fondamento e di dati concreti, ipotizzano essere stato l’amante della regina. È un dato di fatto, tuttavia, che lo stesso conseguì in breve tempo, dopo l’ascesa al trono di Hatshepsut, svariati titoli tra cui  Responsabile della duplice casa dell’oro,  dei campi e del giardino di Amon, Sacerdote della Userhat (la barca) di Amon, Intendente di Amon, Responsabile delle greggi di Amon e, a rafforzare l’ipotesi di uno stretto legame affettivo con Hatshepsut, Intendente della figlia reale Neferura di cui è stato ipotizzato fosse il padre naturale.

[23] Geb e Nut, Shu e Tefnut, Osiride e Iside, Nephtys e Seth, Horus, Hathor, Monthu, Atum.

[24] Tutti i brani sono tratti da “La regina misteriosa”, di Christiane Desroches Noblecourt, Sperling & Kupfer, Milano, 2003, pp. 117-133.

[25] Forza, potenza, onore, prosperità, nutrimento, gloria, volontà creatrice, vista, udito, conoscenza, lunga vita, magia, splendore, prestigio.

[26] A conferma di una situazione di minor chiarezza nel diritto al trono, nel testo della “Stele del Sogno” si legge, tra l’altro: «Thutmosi era ancora un giovanotto, simile al piccolo Horo delle paludi di Khemmi […]». È evidente il richiamo al mito di Iside che, per proteggere il figlio avuto da Osiride, Horus, dalla vendetta del Dio Seth, lo nascose, appunto, nelle paludi del Delta nilotico.

[27] Tutti i brani tradotti della Stele sono tratti da “Letteratura e poesia dell’antico Egitto”, Edda Bresciani, ed. Einaudi, p. 272.

[28] Si è a lungo dibattuto, e ancora si dibatte, se questa “Regina vedova” fosse Nefertiti (alla morte di Akhenaton) o Ankehsenamon alla morte di Tutankhamon anche se, quest’ultima, è la assegnazione più accreditata. La richiesta, che poteva incriminare addirittura la Regina di alto tradimento giacché era rivolta a un nemico del Paese, doveva apparire “folle” anche per gli Hittiti, tanto che Shuppiluliumash ritenne necessario inviare in Egitto un suo ambasciatore, Hattusha-Zittish, per accertarsi della verità. Anche di tale situazione si ha contezza; l’ambasciatore hittita, infatti, torna in Patria, accompagnato stavolta da un emissario egizio, Hani, con una seconda lettera in cui ancora la “Regina vedova” si lamenta della scarsa fiducia del Re: “Ti avrei scritto se avessi avuto un figlio da sposare?”.    

[29] Anche in questo caso, il dibattito è costantemente aperto giacché si hanno più versioni sulla condizione di Ay: alcuni, anche per giustificare il gran numero di titoli e di incarichi rivestiti, lo vedono come sposo di Teye e padre di Nefertiti e Mutnodjimet (sposa di Horemhab), ma tale ipotesi cozzerebbe con il titolo di “nutrice della Regina” (Nefertiti) rivestito da Teye. Altri lo vogliono, invece, fratello di Tye, sposa di Amenhotep III. Resta che fu “Portatore di flabello alla destra del Re”, “Primo tra gli Scribi”, “Sovrintendente ai cavalli del Re” e, addirittura, “Padre del Dio” (titolo onorifico di altissimo livello), durante il regno di Akhenaton, e facente parte del consiglio di reggenza durante il periodo inziale del regno di Tutankhamon. Quanto al matrimonio con la vedova di Tutankhamon, unico indizio nel senso, è un anello il cui castone riporta, affiancati, i nomi di Ay e di Ankhesenamon.

[30] Sarà anche per tale motivo che, di tali sovrani, si perderà la memoria storica e, in ultima analisi, tale condizione renderà possibile la scoperta della tomba, quasi intatta, di Tutankhamon.

[31] “Comandante delle truppe”, “Capo degli arcieri”, “Capo dei carri di Sua Maestà”, “Sovrintendente ai cavalli del Re”, “Capo delle fortezze di Sua Maestà”, “Sovrintendente del Delta nilotico”, “Scudiero di Sua Maestà”, “Scriba reale”, “Capo dei giudici”, “Luogotenente del Re dell’Alto e Basso Egitto”, “Messaggero del Re per tutti i Paesi stranieri”.

[32] Tatenen era una divinità primordiale rappresentante la terra emersa dal Nun, l’oceano che tutto ricopriva. Originario di Menfi, era rappresentato mummiforme recante sul capo alte piume, corna ritorte e disco solare; venne poi associato al Dio demiurgo Ptah, protettore degli artigiani e degli architetti, signore della conoscenza, così da costituire il simbolo della creazione dell’origine della vita.

Nuovo Regno, Palazzi

IL PALAZZO DELLA GIOIA

Di Patrizia Burlini

Ricostruzione del palazzo

A Malqata, a Sud di Medinet Hebu e vicino a Deir El Medina, sono ancora visibili i resti di uno straordinario e lussuoso palazzo reale, dove ancora oggi sono in corso degli scavi: si tratta della “Casa dell’Aton splendente” o Per-Hay “Casa della Gioia”, fatto costruire dal grande faraone Amenhotep III. A differenza dei templi, costruiti in pietra, i palazzi reali venivano costruiti con mattoni di fango, motivo per cui sono arrivati a noi solo pochi resti.

Ricostruzione degli interni (Franck Monnier)
Ricostruzione de corridoio che portava al trono
Altra ricostruzione dello stresso ambiente: si notano i colori vivaci

Il palazzo occupava la stupefacente superficie di 30 ettari e fu fondato a partire dall’ottavo o undicesimo anno di regno del faraone, per essere terminato in prossimità del terzo hed-seb, giubileo di Amenhotep III. Era il più grande palazzo reale esistente in Egitto.

Si divideva in 5 aree principali: il palazzo del faraone, la dimora della regina Tiy, appartamenti dei funzionari, cappella di Amon, alloggi dei funzionari.

Ricostruzione del baldacchino con il trono (Franck Monnier)

Il palazzo del re, a Sud Est, presentava varie sale per le udienze, sale per le feste, giardini, uffici amministrativi, una biblioteca, cucine e magazzini.

La dimora della regina si trovava a Sud, mentre a Nord si trovavano gli appartamenti della principessa Sitamon.

Oltre agli alloggi dei funzionari, si trovava qui l’harem del faraone dove vivevano centinaia di donne (ricordiamo che quando Amenhotep sposò la principessa di Mitanni Gilukhipa, arrivarono con lei ben 317 donne) e i loro attendenti.

Decorazione parietale nell’harem

All’interno del palazzo il faraone fece costruire un grande lago a forma di T, oggi noto come Birket Habu, che collegava il palazzo al Nilo ( e quindi metaforicamente all’Egitto) e che si trovava all’ingresso del palazzo. Su questo lago si trovava la barca reale dorata del faraone, chiamata l’“Aton splendente” che veniva utilizzata nelle festività religiose e di stato.

Il lago a T

Una strada rialzata collegava il palazzo al tempio di Milioni di Anni di Amenhotep III (il tempio con i colossi di Memnone).

Come già scritto in precedenza, il palazzo era costruito in mattoni rivestiti di gesso e stucco, bianco all’esterno e ricchissimo di colori all’interno, come potrete vedere nelle varie immagini che accompagnano il post. I mattoni rinvenuti portano il cartiglio di Amenhotep III, mentre I mattoni usati per gli appartamenti della regina presentavano il cartiglio di Tiye. Sono state rinvenute molte piastrelle smaltate decorate con motivi geometrici e rappresentazioni di pesci, uccelli e soggetti naturali.

Decorazione parietale in stucco con motivi naturalistici

I muri dell’harem presentavano motivi floreali con uccelli e vitelli bianchi e rossi.

I pavimenti erano dipinti in modo da rappresentare il Nilo brulicante di pesci e uccelli. Alcune stanze erano decorate con piastrelle a colori vivaci con fiori, vigneti e grappoli, uccelli e pesci, geroglifici che offrivano protezione, salute e buona sorte.

Straordinaria decorazione di una parete in faience (ricomposto al MET , NY)

Il nome “Nebmaatre” (nome del trono di Amenhotep III) era scritto ovunque con l’epiteto “Horus, toro possente di Tebe, Dio perfetto, signore della gioia, signore delle corone”.

Il magnifico palazzo fu abitato da Amenhotep III fino al trasferimento a Akhetaten, nel ventinovesimo anno di regno, quando il palazzo divenne una dimora secondaria, per essere successivamente abitato probabilmente da Tutankhamon e Ay. Con Ramses II e la costruzione di Pi-Ramses, il palazzo fu progressivamente abbandonato.

Bellissimo motivo sul soffitto di una stanza adiacente alla camera da letto di Amenhotep III, MET, NY

Decorazione parietale della stanza da letto di Amenhotep III

Sempre dal sito di Malqata (luogo in cui le cose vengono trovate), ecco gli splendidi vasi conservati al MET di New York.

Purtroppo nessuno è in esposizione …

Fonti:

Harem Faraonico

MALQATA

I QUARTIERI FEMMINILI NEL PALAZZO REALE

Di Luisa Bovitutti

L’area palaziale di Malqata sorgeva sulla riva occidentale del Nilo nei pressi di Medinet Habu, e venne edificata da Amenhotep III perché fosse la sua residenza principale ed il centro amministrativo del regno.

L’area palaziale di Malqata; a fianco del Palazzo Nord (non visibili nella piantina) sorgevano il tempio di Amon ed una piattaforma recentemente riportata alla luce che probabilmente serviva per scopi cerimoniali

Oggi ne restano poche vestigia ma il palazzo doveva essere veramente sontuoso; esso si estendeva su di un’area di 30.000 metri quadrati e comprendeva, oltre agli appartamenti del sovrano, anche dei quartieri per il visir ed i funzionari più importanti, per le donne reali e per il personale di servizio, nonché cucine e magazzini per le scorte di generi alimentari; un’ampia area inoltre era occupata da vasti edifici amministrativi noti come “Ville occidentali” e vi era altresì un grande tempio dedicato ad Amon.

La pianta del Palazzo Reale principale. La sala dei banchetti è individuata dalla lettera H; sui lati lunghi si affacciano gli appartamenti tutti uguali destinati alle donne reali più vicine al Faraone, la cui camera da letto è contrassegnata dalla lettera R3.

Amenhotep III aveva inoltre fatto realizzare per la sua Grande Sposa Reale un enorme lago artificiale navigabile, che misurava circa 2 chilometri x 1, sul quale si svolgevano anche cerimonie religiose.

Gli appartamenti privati del faraone si trovavano nell’angolo sud-est della struttura; ad essi si accedeva tramite un ingresso collocato sul lato opposto, percorrendo un lungo corridoio che portava all’ambiente più importante del palazzo, il cosiddetto Salone dei banchetti (contrassegnato dalla lettera H nella piantina) e poi alla sala del trono principale.

Sui due lati lunghi del salone dei banchetti si affacciavano quattro porte che davano accesso ad appartamenti tutti uguali (stanze N, K, L e P).

Le stanze N sono considerate bagni, e una vasca di pietra era ancora in situ in una di esse. La stanza centrale (K) aveva una coppia di colonne che fiancheggiavano una pedana rialzata che probabilmente ospitava un trono; dietro di essa si trovavano una camera da letto (L) ed un’anticamera riccamente decorate (P). La stanza M aveva una serie di colonne ed una mensola di legno sostenuta da pilastri di mattoni che correva lungo entrambe le pareti lunghe ad un’altezza di 80 cm dal pavimento; questa, ed almeno altre nove stanze simili trovate alla periferia della struttura potevano essere stati magazzini di stoccaggio.

Per la loro vicinanza alle stanze del re e per il fatto che erano simili, in scala ridotta, alla camera da letto del sovrano ed ai locali ad essa associati nell’angolo sud-ovest del palazzo (gli ambienti contrassegnati dalle lettere I, O e J), si ritiene che fossero destinati in via permanente ad ospitare le regine principali e le principesse; la particolare decorazione del soffitto, inoltre, comprendeva immagini di piccioni, uccelli canori e farfalle, che erano generalmente associate ad ambienti femminili.

 L’HAREM, OVVERO IL PALAZZO NORD

Lo studioso americano Peter Lacovara, sulla base di analisi condotte a Malqata, Amarna e Ghurob, sostiene che probabilmente i palazzi degli harem del Nuovo Regno (e forse anche Tell’el-Dab’a, risalente al Medio Regno) erano costruiti secondo criteri architettonici standard che prevedevano una coppia di edifici adiacenti, uno più grande dell’altro, ciascuno diviso in due da un muro.

Un tappo per una giara recante i cartigli di Amenhotep III

L’affermazione è certamente fondata per quanto riguarda la struttura che ospitava l’harem reale di Amenhotep III, identificata nel cosiddetto “palazzo nord” che sorgeva a nord-est della struttura palatina di Malqata e che presentava un impianto molto simile a quello di Ghurob.

Un motivo decorativo in pasta vitrea (notate l’incredibile lavorazione): Malqata era uno dei centri più rinomati dell’Egitto per la produzione di manufatti in vetro, che venivano anche esportati all’estero.

Per una serie di post sul vetro e sulla sua lavorazione, guardate sul nostro sito ai seguenti link:

https://laciviltaegizia.org/…/27/la-lavorazione-del-vetro/

Una collana menat, composta da un pesante contrappeso (il menat in senso stretto) e molti fili di perline. Essa veniva talvolta indossata, ma era più spesso utilizzata nel corso di cerimonie religiose dalle “Cantatrici di Amon” che l’agitavano per creare un suono destinato a placare un dio o una dea.

Il Palazzo Nord venne portato alla luce dall’archeologo inglese Hugh Evelyn-White nel corso della campagna di scavi 1914 – 1915.

Esso si estendeva su di un’area rettangolare che misurava 232 m. x 59 m. circa, presentava una doppia struttura ed era dotato di una serie di magazzini e aree di stoccaggio per diverse tipologie di beni di consumo, esattamente come a Ghurob.

La pianta del palazzo nord

L’edificio più ampio era suddiviso in quattro settori ben definiti ed indipendenti: il palazzo vero e proprio, la cui suddivisione interna induce a ritenere che venisse utilizzato dal sovrano come residenza privata e sede di rappresentanza, la zona a est, la zona a sud e le ville; il palazzo era costituito da due annessi, uno ad ovest ed uno ad est, divisi da una larga corte; ognuno di essi comprendeva 35 stanze, la più grande delle quali era la n. 19, che portava alla suite delle camere da letto.

Secondo Aikaterini Koltsida, una studiosa che ha scritto svariati articoli sul sito, la stanza più interessante del palazzo è quella contrassegnata dal n. 13, una vera e propria piscina coperta: sebbene non sia rimasto molto, le poche vestigia superstiti permettono di avere un’idea del suo aspetto originario.

Essa misurava m. 10,70 x 11,20, ed era quindi larga quanto la sala del trono alla quale era collegata attraverso una porta gigantesca posta al centro del muro divisorio; il tetto era sorretto da quattro colonne, ognuna del diametro di m. 1,10 ciascuna.

Un frammento di piatto in vetro: guardate la maestria della lavorazione!

La vasca misurava m. 7,34 x 4,35, era delimitata da un basso parapetto di pietra ed occupava tutta la parte sud della stanza; essa era foderata di lastre di arenaria dipinte con stucco bianco stese su di un letto di sottile sabbia del deserto.

Ad essa si accedeva attraverso due passaggi costruiti in mattoni stuccati di bianco posti sui lati est ed ovest, accessibili grazie a due gradini alti circa 20 cm sui quali, forse, si ponevano i servi incaricati di versare acqua sui bagnanti.

Un frammento di un oggetto in faience ed un piatto

L’angolo nord est della sala era occupato da una bassa piattaforma ricoperta da uno strato sottile di stucco, che probabilmente serviva come lounge per i bagnanti; i muri in quest’angolo erano ricoperti di calce e decorate con una sequenza di pannelli di colori diversi.

Un vaso in vetro: gli Egizi non erano ancora in grado di produrre vetro trasparente, ma sapevano combinare i colori in modo incredibile.

Accanto al palazzo reale ed al palazzo nord sorgevano inoltre svariate unità immobiliari ed altri due edifici, uno dei quali, definito il “palazzo sud”, potrebbe essere stato la residenza della Regina Tiye e della sua corte in quanto comprendeva una sala colonnata con un palco del trono circondato da alloggi.

Frammenti della decorazione parietale

Nella tomba tebana di Neferhotep (TT49) si trova un interessante rilievo parietale che raffigura un palazzo-harem a due piani, la cui facciata è decorata con colonne dal capitello papiriforme; esso è circondato da un giardino nel quale passeggiano nobili dame e bambini mentre i servi sono intenti alle ordinarie attività; dalla finestra delle apparizioni si affaccia la regina che sta consegnando un’onorificenza alla moglie del notabile.

La tomba di Neferhotep

FONTI SPECIFICHE SU MALQATA: