Di Andrea Petta
Con il nome di Tavolette di Amarna o Lettere di Amarna vengono indicate 382 tavolette in legno di cedro ricoperte di argilla e incise a caratteri cuneiformi.
Di queste, circa 300 furono trovate nel 1887 – secondo la “tradizione” scoperte per caso da una contadina egiziana – nell’area dell’antica capitale del faraone Akhenaton – Akhetaton – ora chiamata Tell el-Amarna.

È invece storicamente vero che alcune tavolette furono mandate da tale Oppert in Francia, dove furono bollate come falsi. Anche al Cairo Grebaut, all’epoca capo del Dipartimento delle Antichità, le dichiarò di nessun valore. Furono quindi portate in sacchi di iuta a Luxor con splendidi risultati sulla conservazione di molte di esse. Ciò che era sopravvissuto al viaggio fu messo in vendita al Cairo l’anno successivo; al rifiuto da parte del British Museum di acquistarle, se non in minima parte, la maggior parte delle tavolette prese la strada per Berlino, mentre una serie ritrovata successivamente da Petrie quattro anni dopo rimase al Museo Egizio del Cairo.
Nota: curiosamente, Petrie si trovò ad Amarna quasi per caso. Non avendo un ruolo nel Servizio delle Antichità al Cairo doveva mettersi “in coda” per effettuare degli scavi. Chiese i permessi per Saqqara ed Abydos ma, vistosi rifiutare entrambe le richieste, ripiegò su Amarna dove iniziò la riscoperta della città utopica del Faraone Eretico.
Sono spesso sconosciuti sia il mittente che il destinatario delle missive: i loro nomi venivano impressi sui bordi delle tavolette che il tempo (ed il viaggio fino a Luxor…) ha sbriciolato. La datazione aiuta poco perché viene indicata come “Anno X del regno” come sempre nell’Antico Egitto.
La lingua usata è il cuneiforme accadico, lingua di provenienza assiro-babilonese utilizzata all’epoca come lingua franca nei rapporti diplomatici in tutto il Medio Oriente. È però adattata alle esigenze diplomatiche ed ai dialetti locali.
Dai personaggi coinvolti e citati si viene a sapere che il periodo in cui furono scritte abbraccia il regno di due faraoni: quelli di Amenhotep III e del figlio Amenhotep IV/Akhenaton, il che crea diversi grattacapi: se fosse stata la corrispondenza della famiglia reale ad Akhetaton vorrebbe dire che Amenhotep III era vivo all’epoca della sua costruzione, alimentando le ipotesi sulla co-reggenza dei due Faraoni (ipotesi apparentemente accettata da Petrie stesso).

Il tono delle lettere cambia nel tempo: sotto Amenhotep III sono lettere cordiali, richieste di doni (“Nel paese di mio Fratello (il Faraone) l’oro abbonda come la sabbia…”). Sotto Akhenaton diventano lamentele per l’abbandono dei piccoli regni a loro stessi, le richieste diventano di soldati e di armi. Re Ribaddi di Byblos è il più “pressante” essendo il più vicino al Regno dei Mitanni ed il primo a subire incursioni e razzie.
Rimane sconosciuto il motivo della loro conservazione ad Akhetaton: erano documenti di archivio dimenticati al tempo dell’abbandono della città, o vecchie missive già tradotte e divenute inutili? In ogni caso, rappresentano un’insostituibile testimonianza di quali fossero i rapporti politici e commerciali dell’epoca in quel territorio.
La loro importanza è fondamentale da un punto di vista storico per capire la politica estera egizia ed i rapporti con i sovrani locali, per lo più piccoli regni autonomi sotto il protettorato egiziano. I piccoli re siro-palestinesi erano legati al sovrano egizio da un semplice giuramento di fedeltà mentre un controllo più diretto avveniva attraverso tre “province”: Amurru (sulla costa fenicio-libanese), Ube (all’interno della Siria) e Canaan (ovvero la Palestina). Frequentissime le richieste di doni e ricchezze all’Egitto che viene considerato una sorta di Eldorado.

Doverosi i matrimoni politici: Amenhotep III accolse nel suo harem Gilukhipa, principessa di Mitanni giunta in Egitto con un seguito di 317 ancelle descritte come autentiche “meraviglie”. Venticinque anni più tardi, il re Tushratta inviò sua figlia Tadu-Kheba (Tadu’heba o Tadukhipa) con un seguito di 270 donne e 30 uomini, oltre a consistenti doni. Secondo diversi studiosi sarebbe lei Nefertiti, la “Bella che viene da lontano”.

Furono tutti però matrimoni “a senso unico”: mai una principessa di sangue reale egizia fu mandata in sposa in un Paese straniero: troppo forte la paura che fosse poi messa in discussione la successione.
Una delle tavolette amarniane (EA290) appare particolarmente interessante: Abdi-Heba di Gerusalemme (Ú-ru-sa-lim), infatti, chiede aiuto al sovrano egizio contro i “Khabiru” che stanno invadendo alcune città cananee.

Khabiru, o anche Habiru o Apiru, è un nome già comparso precedentemente nella storia egiziana: sotto Thutmose III sono indicati come “vignaioli” ed Amenofi II ne catturerà 3.600 durante una battaglia con i Mitanni. Nel caso della tavoletta amarniana, sembra si tratta di fuoriusciti egiziani che tentano di stanzializzarsi o di rientrare in Egitto.
Diversi studiosi vedono negli Apiru, o Khabiru, gli Ebrei. Altri ritengono di poter individuare con tale nome non un popolo, bensì una sorta di classe sociale, quella, appunto, degli immigrati o dei rifugiati, privi, cioè, di una connotazione etnica unica e di un proprio territorio, che si riunivano in bande armate per saccheggi locali.
Inutile dire che soprattutto sulle Tavolette che menzionano gli Habiru (o “Habiru Sagaz”) il confronto tra gli archeologi e gli storici è molto serrato…





































































