Statua in elettro e argento di Imhotep, Età Tolemaica, Sir Henry Wellcome’s Museum Collection
“Colui che viene in pace” fu probabilmente il primo personaggio di rilievo scientifico della storia umana, tanto da essere noto anche come “il Leonardo da Vinci egizio”.
Visse durante il regno di Djoser (III Dinastia, circa 2800 BCE), a cui sopravvisse spegnendosi sotto il regno di Huni, ma la sua città natale è incerta: la maggior parte degli studiosi credono sia nato ad Ankhtow, un sobborgo di Menfi, che all’epoca era la capitale. Altri collocano le sue origini nel villaggio di Gabelein, a sud dell’antica Tebe, anche se la diffusione del suo culto rende più probabile la prima ipotesi.
La piramide di Djoser con il cortile Heb-Sed
Era sicuramente di estrazione non nobile, a dimostrazione di quanto la società egizia premiasse anche il merito, oltre alla stirpe. Era figlio probabilmente di un modesto architetto di nome Kanofer, ma divenne il primo genio multidisciplinare ricordato.
Fu Visir del Faraone e ricordato come l’architetto della sua piramide a gradoni (all’epoca la più grande struttura umana e tuttora il più antico edificio in pietra sopravvissuto) e dei primi colonnati della storia nel cortile della piramide stessa, ma anche Primo Sacerdote di Ptah (“Figlio di Ptah”), poeta, scrittore, astronomo (risale a lui il calendario di 365 giorni con l’aggiunta di 5 giorni epagomeni), mago ed ovviamente medico. Il papiro Edwin Smith lo ricorda come “il fondatore della medicina”.
Il corridoio d’ingresso al complesso funerario di Djoser, con colonne di sei metri, ed uno dei colonnati interni, con tetto in travi di pietra (foto Amy Calvert). Inizialmente erano probabilmente dipinte in verde, a simboleggiare fasci di canne che emergono dalle paludi della Creazione. Questo elemento architettonico, così caro alla civiltà egizia, fu introdotto proprio da Imhotep.
In campo medico, sempre secondo il Papiro Smith fu autore di 90 testi di medicina dove descrisse ogni genere di malattia e ben 48 diverse ferite da trattare chirurgicamente.
Fu progressivamente mitizzato ed infine divinizzato come figlio di Ptah (Canone di Torino) ed inserito nella triade di Menfi insieme appunto a Ptah e Sekhmet, un onore straordinario considerate le sue umili origini. Durante il periodo tolemaico venne identificato come il dio della medicina Esculapio. Nonostante questo, la sua figura storica come medico non è stata accertata: la sua tomba non è stata (ancora) ritrovata (anche se alcuni studiosi la identificano nella mastaba 3518 a Saqqara, purtroppo priva di iscrizioni) e non sappiamo se tra i suoi titoli ci fosse ufficialmente quello di “swnw”. Un testo ermetico parla di un tempio vicino a Menfi “dove riposa il suo corpo, mentre il suo spirito ancora aiuta i bisognosi con la sua conoscenza della medicina”.
Quel che rimane della mastaba 3518. È stata associata ad Imhotep in quanto nei suoi pressi è stato ritrovato un sigillo di Djoser ed alcune offerte votive ad un “dio della medicina”. Probabilmente la sepoltura di Imhotep è ancora da scoprire
Viene normalmente raffigurato seduto, con un rotolo di papiro svolto sulle sue ginocchia ad indicarne il sapere, ma a partire dal Nuovo Regno venne anche rappresentato come un semidio, spesso recante la croce “ankh” simbolo di vita.
Imhotep deificato, Tempio di Hathor a Deir-el-Medina. Nella mano destra impugna la croce “ankh”, simbolo di vita, e nella sinistra lo scettro “uas”
A suo nome vennero edificati templi – il più importante a Philae – che avevano una sezione dedicata come ospedale e numerosi sanatori in tutto il Paese. Venne scritta una sua biografia, “La vita di Imhotep”, forse la prima della storia e di cui ci sono pervenuti solo dei frammenti – in uno dei quali Imhotep sfida a colpi di incantesimi una maga assira nell’impresa di recuperare il corpo di Osiride (se vi è venuto in mente Mago Merlino contro Maga Magò ne “La spada nella roccia” di Disney, ci ho pensato anch’io).
Statuetta in rame di Imhotep, Periodo Tolemaico. Met Museum di New York. Imhotep è quasi sempre raffigurato seduto, con indosso una cuffia aderente e con in grembo un papiro srotolato. In senso simbolico, il papiro (oltre ad avere inciso il suo nome) serve anche a sottolineare la sua saggezza ed erudizione ed il suo ruolo di patrono degli scribi.
La sua fama arrivò temporalmente all’Impero Romano, quando Adriano gli volle dedicare un monumento a Roma.
La storia di Imhotep è assolutamente straordinaria. Il figlio di un architetto che ha gettato le basi per la professione medica oltre 4500 anni fa e oltre 2000 anni prima della nascita di Ippocrate. La sua eredità ha enormemente influenzato la civiltà egizia (e non solo); senza di lui, la medicina antica non sarebbe stata la stessa – e forse anche quella moderna…
Un’altra raffigurazione di Imhotep, Brooklyn Museum
Il grande vaso in alabastro raffigurato qui sopra (H. 63.5 cm, diam. 19.1 cm), oggi al Museo del Cairo (JE 65423) mostra l’elevato livello di abilità raggiunto dagli artigiani della 3a dinastia nella lavorazione della pietra, pur con strumenti modesti; esso è decorato con un motivo geometrico che imita in modo molto realistico l’imbragatura di corda che veniva effettivamente utilizzata per trasportare oggetti pesanti.
Lo straordinario reperto è stato scoperto dagli archeologi James E. Quibell e Jean-Philippe Lauer in uno degli undici pozzi profondi più di trenta metri scavati lungo la facciata est della tomba, tra loro comunicanti tramite una galleria e forse destinati alle sepolture delle mogli e dei figli del re: in due di essi si trovavano circa quarantamila vasi di varie forme e materiali (soprattutto alabastro, diorite, calcare, ardesia e terracotta), molti dei quali infranti.
Essi erano ordinatamente riposti uno dentro l’altro e recavano i nomi di sovrani della prima e della seconda dinastia (Narmer, Djer, Den, Adjib, Semerkhet, Kaa, Hetepsekhemwy, Ninetjer, Sekhemib e Khasekhemwy), alcuni dei quali sepolti ad Abydos: ancora oggi non si sa perché si trovassero nella piramide a gradoni, in quanto le molteplici teorie elaborate in merito dagli studiosi sono rimaste a livello di ipotesi.
Lauer pensò che fossero gli arredi delle tombe di quei sovrani, distrutte dal re Peribsen negli sconvolgimenti che contrassegnarono la sua epoca, raccolti dal suo successore Khasekhemwy e che poi Djoser seppellì con onore nella sua piramide; Rainer Stadelmann pensava invece che Djoser avesse fatto restaurare quelle tombe, facendo scaricare i vasi rotti nel pozzo della sua piramide; il suo collega tedesco Hans Wolfgang Helck riteneva invece che i vasi provenissero dai magazzini del tempio, anche se non seppe spiegare per quale motivo Djoser li avrebbe accumulati nel suo complesso funerario.
Nelle altre immagini, una fotografia risalente all’epoca della scoperta ed alcuni tra i vasi ritrovati intatti.
Nella foto si vede uno dei trentasei frammenti recuperati nell’area del tempio di Ra.
Essi testimoniano la presenza di una cappella sulle cui pareti erano raffigurate, in rilievo, scene della festa del giubileo reale di Djoser, a cui presenziavano varie divinità.
Il dio della terra, Gheb, è qui raffigurato con una barba posticcio, con orecchini ad anello, un collare usekh e Indossa una stretta guaina.
Questa statua, proveniente con molta probabilità da Menfi, raffigura una principessa della terza Dinastia.
È un’eccezionale attestazione dei primordi della produzione scultore egizia, di cui si conoscono pochi esemplari.
Redit, il cui nome è la titolatura sono iscritti in geroglifici sulla base della statua, è rappresentata seduta su un piccolo seggio dallo schienale basso.
Il braccio destro è appoggiato sulla coscia mentre il sinistro è appoggiato sul petto al di sotto del seno, che traspare dal suo abito aderente, che la ricopre fino alle caviglie.
Il volto tondeggiante, incorniciato da una pesante parrucca tripartita, sembra tradire una ricerca di realismo assente invece nel resto del corpo, dove prevale una composizione fatta di volumi massicci, geometrici e stilizzati che denotano un senso di razionalità e purezza tipico del pensiero egizio.
La statua di Redit, contemporanea al periodo in cui in Egitto venne costruito il primo complesso monumentale in pietra per il faraone Djoser a Saqqara, assomma in sé quelli che resteranno per millenni alcuni dei canoni della statutaria sia regale sia privata come la posizione delle braccia, la parrucca tripartita e il corpo ammantato , che proprio qui vedono una delle loro prime schematiche realizzazioni.
Statua di Redit
Basanite
Altezza 83 cm.
C. 3065
Collezione Drovetti
Museo Egizio di Torino
Fonte:
I grandi musei : Il Museo Egizio di Torino – Electa
Nelle opere della terza Dinastia l’arte egizia menfita ricerca il suo equilibrio e dà inizio ad una nuova tradizione.
Dalle radici della preistoria in poi la ricerca dei volumi non si separerà o non vorrà farlo, separarsi del tutto dalle regole della figura piana rimanendo dunque creata per frontalità: la statua egizia va vista di fronte o di profilo.
Non è nata affatto per la visione, al chiuso delle tombe o dei templi la statua, supporto materiale per anime immortali di divinità o di umani defunti , essa guarda, non è guardata.
Nella terza Dinastia si osserva la continuità dell’arte Thinita, ma con maggiore sicurezza : la ricerca dei canoni si avvicina al suo compimento.
La sperimentazione del passato inizia a porre dei punti fermi in alcuni tipi standardizzati, senza cessare la ricerca, che si può evidenziare nella statua di Djoser, qui raffigurata.
Il sovrano è rappresentato su un trono dall’alto schienale.
Ha il braccio destro riportato al petto con la mano chiusa a pugno e il sinistro appoggiato sulla gamba con la mano aperta a palmo in giù.
Indossa l’ampio mantello del giubileo che lo ricopre quasi completamente lasciando scoperte solo le mani.
La folta parrucca, tripartita, ricade ai due lati del volto in spesse bande ed è parzialmente coperta da una versione arcaica del nemes, che qui appare come un semplice drappo poggiato sul capo e fissato alla fronte.
Le orecchie scoperte incontrano, a angolo retto, il piano della testa una caratteristica che si trova spesso nella statutaria successiva, sopratutto nel corso del Medio Regno.
La posa rigida della figura è controbilanciata dalla plasticità del volto: gli occhi, , che dovevano essere intarsiati , vicini e profondi, coperti da spesse sopracciglia, gli zigomi alti, le guance scavate, la mascella lievemente sporgente e la bocca grande, sottolineata dalla barba rituale, danno impressione di potenza e di divino allo stesso tempo.
La parte anteriore della base reca incisi in bassorilievo i titoli e il nome del sovrano, che è Netjerket.
Il nome di Djoser si ritrova invece nei documenti posteriori e mai in quelli a lui contemporanei.
La Scultura, primo esempio di statua egizia a grandezza naturale, fu rinvenuta nel serdab del complesso funerario di Djoser a Saqqara.
Il piccolo locale, addossato al lato nord della piramide a gradoni, reca due fori nella parete, all’altezza degli occhi, che dovevano consentire alla statua del sovrano di guardare fuori e di partecipare alle celebrazioni e ai riti che avvenivano nel tempio attiguo.
Statua di Djoser
Calcare dipinto
Altezza cm 142
Saqqara, Serdab del complesso funeraria di Djoser
Scavi del Servizio delle Antichità 1924-192
III Dinastia, Regno di Djoser 2630 – 2611 a. C
Fonti:
Antico Egitto di Maurizio Damiano – Electa
Tesori Egizi del Museo del Cairo – Francesco Tiradritti, fotografie Arnaldo De Luca – Edizioni White Star
Con la III dinastia si va instaurando un periodo di sviluppo economico, politico e culturale dell’antico Egitto che gli storici moderni hanno denominato “Antico Regno”.
Come abbiamo detto nei precedenti articoli la maggior parte degli studiosi è del parere che nel faraone Netierikhet (Djoser) si debba individuare il capostipite della III dinastia.
L’architettura monumentale che troviamo sotto il regno di Djoser ci da un’idea dell’enorme balzo in avanti, compiuto dagli egizi, nell’economia, nello sviluppo della produttività agricola, in quella manifatturiera e, soprattutto, nell’edilizia. Notiamo anche uno sviluppo di numerose altre scienze quali: la letteratura, l’astronomia, la matematica, la topografia e l’amministrazione statale.
L’importanza che assunse il faraone Djoser fu tale che, come già accennato in precedenza, in epoca tolemaica i sacerdoti del dio Khnum ad Elefantina, fecero erigere la famosa “Stele della carestia”, retrodatandola al regno di Djoser, per conferire maggiore importanza al faraone che, in quella tragica situazione, fece restaurare il tempio del dio Khnum e decretò che si ricominciasse a fare regolari offerte al dio donando ai sacerdoti del tempio la regione compresa tra Assuan e Takompso con tutte le sue ricchezze.
Forte dei progressi che si verificarono durante il suo regno, con l’intento di dimostrare la sua grandezza, Djoser non si accontentò di una semplice mastaba come tomba ma volle qualcosa di molto più grandioso. Chiamò il suo fedele architetto affidandogli il compito di edificare un complesso che potesse incutere ammirazione e timore nel visitatore, straniero e non.
Forse Imhotep illustrò al suo signore le costruzioni che venivano create in Mesopotamia, le ziqqurat, veri e propri trampolini verso il cielo, le cui dimensioni gigantesche avevano lo scopo di essere osservate dal cielo e quindi dagli dei.
E’ parere di molti che Imhotep non pensasse ad una piramide vera, cioè ad un solido geometrico che forse lui non conosceva neppure, ma, come per le ziqqurat, pensò di costruire per il suo signore una salita verso il cielo, “Gradini verso l’eternità”.
I risultati della sua immensa opera sono ancora visibili oggi, poco meno di cinque mila anni dopo. E tali furono per i successivi faraoni della III dinastia; per assistere al primo tentativo di costruire una piramide vera, con le facce piane, dobbiamo arrivare alla “piramide romboidale” del faraone Snefru, primo re della IV dinastia, quasi due secoli dopo.
Ma come abbiamo detto dopo Djoser altre “piramidi” a gradoni vennero costruite, o almeno tentato di costruire. Tentato, certo, non tutti gli architetti erano al livello di Imhotep e soprattutto le costruzioni in pietra non erano ancora alla portata di tutti.
Lo stesso Imhotep che costruirà (o tenterà di costruire) la piramide del successore di Djoser Sekhemkhet, come vedremo in seguito, non giungerà alla fine. Seguono altre “piramidi” dalle quali si può dedurre che i tentativi di costruire opere in pietra, più duratura, non avevano ancora raggiunto un livello accettabile. Si scoprono costruzioni delle quali non si sa se vennero ultimate o meno dove la pietra tagliata è stata usata ma i resti del completamento, se mai è stata ultimata, sono stati eseguiti con mattoni di fango. Sarà poi Uni, ultimo faraone della III dinastia ad intraprendere la costruzione di quella che forse sarebbe diventata una vera piramide anche se il suo completamento, secondo gli egittologi, sarebbe da attribuire a Snefu..
A Maidun è possibile vedere una torre a gradoni, in tutto simile ad una ziqqurat, in pietra circondata da un ammasso di macerie, che forse costituivano il rivestimento. Per un’oscura ragione che non conosciamo, quello che pare fosse il rivestimento non ha resistito, o in fase di costruzione o successivamente ed è crollato. Passeremo ora ad esaminare, per quanto ci è possibile, tutte queste cosiddette “piramidi minori” prima di arrivare alla IV dinastia.
Fonti e Bibliografia:
Miroslav Verner, “Il mistero delle Piramidi”, Newton & Compton Ed., 2007
Pascal Bargent, “La stéle de la famine á Séhel”. Institut français d´archaéologie orientale, Cairo, 1953
Enrica Leospo, “Saqqara e Giza”, De Agostini, Novara, 1982
Corinna Rossi, “Piramidi”, Ed. Whitestar, 2005
Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Einaudi, Torino, 1961 Jaromir Màlek, “Egitto. 4000 anni di arte”, Phaidon, 2003
Come abbiamo visto negli articoli precedenti, la fine della II dinastia e l’inizio della III si perdono nelle nebbie del tempo. Si procede ancora per ipotesi che spesso cozzano con le scarse prove archeologiche, non solo ma, nell’intento di fare chiarezza, queste teorie abbondano e si contrastano tra di loro. Non scarseggiano certo quelli che alla scienza ci aggiungono la fantasia per fornirci un quadro spesso distorto e non veritiero. Le difficoltà ad interpretare gli scarsi dati in nostro possesso, relativi ad un periodo così lontano nel tempo come l’Antico Regno, sono molte ed è necessario procedere con cautela nel raccontare la storia senza dimenticare di segnalare sempre quella che è realtà dimostrabile da ciò che viene dedotto da interpretazioni personali di singoli studiosi.
Mi scuso per questa introduzione ma stiamo per addentrarci in uno dei più importanti periodi della storia antico egizia, quello che è stato definito “L’Età dell’oro”, dove i reperti in genere abbondano ma parimenti abbondano anche le teorie, più o meno valide, come pure quelle fantascientifiche.
L’inizio della III dinastia egizia coincide con l’inizio del cosiddetto Antico Regno, un periodo di oltre 5 secoli di stabilità, che comprende un arco di tempo che va dal 2686 a.C. al 2181 a.C. circa, durante il quale si succedettero quattro dinastie, (dalla III alla VI).
E’ questa l’età dei grandi faraoni, costruttori delle più famose ed imponenti opere della civiltà egizia, le Piramidi.
Come abbiamo detto negli articoli precedenti, grazie all’azione di un grande sovrano qual era Kasekhemwy l’Egitto è ora riunificato ed i sovrani possono indossare a pieno titolo le corone delle Due Terre.
Con certezza non si sa chi fu il primo faraone della III dinastia, secondo le più recenti catalogazioni, proposte da alcuni studiosi, l’ipotesi più probabile è che, ad aprire la III dinastia, sia stato il faraone Sanakht o Nebkha del quale abbiamo parlato ampiamente nel precedente articolo. Come detto però, di lui non esiste traccia nelle liste reali, troviamo il suo nome affiancato a quello di Djoser su alcune iscrizioni che ricordano le spedizioni nel Sinai alla ricerca di turchesi e rame.
Ma colui che viene considerato il fondatore della III dinastia è Djoser, Horo Netjerykhet, ellenizzato da Manetone in Tosorthros e Sesorthos da Eusebio da Cesarea.
Sicuramente il più importante, tanto che nel Canone Regio di Torino il suo nome è eccezionalmente scritto in inchiostro rosso.
Figlio di Kasekhemwy e della regina Nimaathap, in tutte le iscrizioni coeve compare sempre col nome di Netjerykhet (Divino nel corpo), da fonti successive sappiamo che il nome Djoser cominciò a essere scritto solo durante la XII dinastia, circa sette secoli dopo.
Sposa reale di Djoser è identificata nella regina Hetephernebti (o Hotephirnebty) in quanto il suo nome compare su alcune stele di confine nel recinto del complesso funerario della piramide a gradoni (oggi non più presenti poiché dislocate in vari musei del mondo) oltre che su alcune parti di rilievi trovati a Ermopoli (custoditi al Museo Egizio di Torino).
Come figli si conosce per certa Inetkauses (o Intkaes) sua unica figlia nota, in quanto al suo successore Sekhemkhet non è del tutto chiaro il rapporto di parentela.
Djoser regnò 29 anni, secondo Manetone, mentre il Canone Regio di Torino gliene attribuisce 19. In questo caso, anche alla luce delle sue numerose imprese architettoniche, primo fra tutti il suo Complesso funerario con la Piramide a gradoni di Saqqara, per gli egittologi Djoser deve aver regnato per almeno tre decenni, dando così più credito a Manetone. Toby Wilkinson, riferendosi ai dati contenuti nel quinto registro della Pietra di Palermo ed a quelli del frammento n°1 degli Annali Reali, dove sono citate le conte del bestiame, concorda nell’attribuirgli 28-30 anni di regno.
Djoser intraprese diverse spedizioni militari nel Sinai sottomettendo le popolazioni locali, successivamente tornò nel Sinai dove popolazioni nomadi minacciavano le miniere di rame e turchese, nel deserto sono state rinvenute diverse incisioni che raffigurano l’esilio del dio Seth accanto al simbolo di Horus. Oltre che per le miniere il Sinai era importante per gli egizi in quanto costituiva il punto di collegamento tra l’Egitto e l’Asia.
Djoser volle per se un complesso funerario che dimostrasse appieno la sua grandezza e per costruirlo chiamò il suo più fidato architetto, Imhotep. Il complesso funerario di Djoser sorge a Saqqara e si presenta come una struttura articolata di difficile interpretazione. E’ così ricco di spunti, di richiami simbolici, di novità tecniche e decorative, che nascono da una tradizione espressiva e ideologica ben consolidata.
Il suo complesso resiste in parte ancora oggi in quanto, come già il suo predecessore Kasekhemwy, ed in parte anche Peribsen, avevano iniziato, questo è costruito non già con mattoni di fango ma utilizzando pietre tagliate. Manetone, nominandolo due millenni dopo esaltò il progresso raggiunto dal faraone Tosorthron nell’architettura con l’utilizzo della pietra, non solo ma lo paragonò al dio greco della medicina Asclepio affermando che Djoser avesse apportato anche alcune innovazioni nel campo della scrittura.
Secondo alcuni egittologi Manetone si sarebbe riferito a Imhotep, il famoso sacerdote, architetto e ingegnere, ministro di Djoser che progettò ed edificò la piramide a gradoni. e che in seguito venne deificato come il dio greco Asclepio.
La famosa “Stele della carestia” che viene fatta risalire all’epoca di Djoser, ma probabilmente eretta in epoca tolemaica sotto Tolomeo V (205-180 a.C.), descrive che Djoser fece ricostruire il tempio del dio Knum, sull’isola di Elefantina, ponendo così fine ad una carestia che durava ormai da 7 anni. Secondo gli studiosi si tratterebbe solo della trascrizione di un’antica leggenda.
Come abbiamo accennato in precedenza, Djoser doveva aver capito qual era la sua importanza come primo faraone effettivo sull’intero Egitto, ora lui poteva indossare a pieno titolo le due corone unite del Basso e dell’Alto Egitto. Questo lo esortò a dimostrare a tutto il paese, ed ai paesi vicini, la sua grandezza e scelse di dimostrarlo facendosi costruire un complesso funerario mai visto in tempi precedenti.
Come località scelse Saqqara ed affidò i lavori al suo più fidato architetto, Imhotep, proveniente da Mendes era figlio dell’architetto di Menfi Kanofer e della giovane Khreduonkh. Si distinse fin dalla giovane età per le sue notevoli capacità intellettuali in quasi tutti i campi cosa che gli valse la nomina a visir sotto il faraone Djoser. Chi meglio di lui avrebbe potuto soddisfare le manie di grandezza del faraone.
In effetti Imhotep costruì un enorme complesso facendo largo uso della pietra tagliata.
Al centro del complesso s’innalza la cosiddetta Piramide a Gradoni. Partiamo dunque da quella che viene definita la piramide egizia più antica pur non avendo le caratteristiche essenziali della piramide.
Per pura pignoleria specifichiamo che con il termine “piramide” in geometria si intende un poliedro con una faccia poligonale definita “base” che, nel caso sia quadrata, possiede quattro facce laterali triangolari che hanno come vertice il suo apice. Questa è la “piramide perfetta”, che non è il caso di quella di Djoser. Mi adeguo però alle considerazioni accademiche le quali tendono a spiegare che la piramide a gradoni consisterebbe nel primo tentativo di costruire una piramide perfetta (personalmente non concordo poiché ritengo che le costruzioni a gradoni siano state eseguite in tal modo di proposito senza alcun riferimento ad eventuali piramidi perfette che magari a quei tempi non erano neppure concepite).
Osservandola attentamente si è portati a confrontarla piuttosto con gli ziggurat, strutture religiose formate da piattaforme cultuali sovrapposte, diffuse lungo tutta la Mesopotamia e gli altopiani iranici e turkmeni.
Secondo gli studiosi Djoser iniziò col farsi costruire una grande mastaba secondo le usanze dell’epoca, quindi, o per manie di grandezza o semplicemente per voler dimostrare la sua potenza Djoser pretese qualcosa di più grande ed appariscente. Così, per una serie di successivi ingrandimenti della base e sovrapposizioni di più mastabe, (sei in totale), nacque quella che noi ammiriamo oggi.
Presenta una pianta non perfettamente quadrata e si eleva per 60 m. L’inclinazione delle facciate verso l’interno è data dal posizionamento inclinato dei blocchi squadrati di calcare. L’uso della pietra in luogo dei mattoni di fango, si era già riscontrato nel pavimento della tomba di Peribsen e nel tempio di Khasekhemwy, ma qui assistiamo ad un uso più ampio e raffinato.
Come detto sopra, l’intero complesso funerario di Djoser presenta molti aspetti oscuri e implicazioni simboliche, tradotto per la prima volta in una struttura completamente in pietra che mette in evidenza la straordinaria capacità tecnica nella lavorazione della stessa acquisita dagli scalpellini egizi.
Il tutto fu opera dell’architetto Imhotep. Gli egittologi affermano che fu lui ad ideare e realizzare tutto lo straordinario complesso funerario destinato a divenire la sepoltura del Faraone Djoser. Come accennato in precedenza la costruzione di un’opera così innovativa e grandiosa, dovette essere considerata prodigiosa dagli egiziani dell’epoca. Va detto che l’intero complesso rappresenta un unicum nello sviluppo dell’architettura in pietra sia per l’Egitto che per il mondo intero. Non è possibile stabilirlo con certezza ma sicuramente rappresenta il primo esempio di struttura monumentale, realizzata per un sovrano, con una forma che riportava all’idea dell’ascesa al cielo per il suo Ka.
In una iscrizione risalente alla XIX dinastia, rinvenuta a Saqqara, Djoser viene definito come “Colui che apre la pietra” ovvero “l’inventore dell’architettura in pietra”.
Ovviamente la costruzione dell’intero complesso evidenzia in modo molto marcato il fatto che i costruttori risentivano ancora i forti influssi dell’architettura arcaica fatta con materiali meno nobili della pietra, mattoni crudi, legno, canne, paglia e stuoie. Il risultato è quella meraviglia che possiamo ammirare dove l’architettura arcaica si unisce a quella nuova in pietra creando un effetto di irripetibile armonia. Le soluzioni adottate dai costruttori per far armonizzare lo stile arcaico con la pietra si riscontrano negli elementi che caratterizzano il complesso, le pareti di calcare che imitano le pareti in pali di legno, unite con imitazioni di funi e stuoie che pendono, colonne dalla forma di enormi fasci di giunchi o arbusti di papiro che ornano il grande portale di pietra. L’egittologo Jacques Vandier ebbe a dire: “…….ogni cosa qui è morta, tutto qui è fatto per la morte………”.
Il complesso piramidale di Djoser non fu innovativo solo dal punto di vista architettonico, fu l’emanazione di una nuova visione del mondo, l’espressione di una nuova era di stabilità politica che segnava il distacco da un’epoca precedente e l’inizio dell’Antico Regno. Tutto questo fu opera dell’ingegno di un grande architetto al quale Djoser aveva affidato la realizzazione, Imhotep. Fu lui il primo a fare un largo uso della pietra tagliata e lisciata.
Circa il ruolo svolto dal visir Imhotep alla corte del faraone Djoser non si conosce molto ma i titoli attribuitigli sono molto indicativi della sua posizione. Riporto da Earl Baldwin Smith, (“Egyptian architecture as cultural expression, Londra”), “…..Imhotep….. i cui titoli erano:
“Cancelliere del faraone d’Egitto a lui solo secondo, di nobiltà ereditaria, dottore, amministratore del Gran Palazzo, sommo sacerdote di Eliopoli, architetto, capo carpentiere, capo scultore e capo vasaio”.
Per le sue doti geniali, gli fu addirittura attribuita un’origine divina, che ne aumentò ulteriormente il mito, tanto che dopo la sua morte fu venerato in tutto l’Egitto come un dio e lo fu anche nei secoli successivi.
E probabilmente lo era davvero, o per lo meno fu sicuramente un mago, visto che riuscì, in soli 19 anni a realizzare non solo la piramide, ma l’intero complesso funerario del suo faraone.
Questo è circondato da un colossale muro di cinta che imita una struttura di stuoie intrecciate ed abbellita da un susseguirsi di nicchie e da quindici porte, quattordici delle quali sono fittizie mentre quella vera si apre sulla facciata est.
Secondo l’egittologo tedesco Hermann Kees le quindici porte starebbero ad indicare la metà del mese lunare, ovvero l’arco di tempo in cui si sarebbe dovuta svolgere la festa Sed. Secondo alcuni il motivo della decorazione del muro di cinta andrebbe ricercato in altre costruzioni simili presenti in Mesopotamia, cosa che supporterebbe l’ipotesi che la piramide a gradoni volesse imitare in un certo senso gli ziggurat e non una vera piramide.
Dalla porta d’ingresso si transita attraverso un ampio corridoio con il soffitto in pietra calcarea lavorata in modo che si presenta come fosse fatta in tronchi di legno. Il corridoio sfocia in una lunga sala costeggiata da venti coppie di enormi colonne, in origine erano alte 6 metri dalla forma di un fascio di giunchi. Questa parte del complesso fu interamente ricostruita ed i lavori durarono dal 1946 al 1956.
All’interno del complesso si trovano numerosi edifici fra cui l’insieme di cappelle della festa Sed. Si trovano inoltre il Tempio a “T” ed un intricato e complesso insieme di corridoi e camere sotterranee, molte delle quali riccamente decorate con mattonelle di ceramica azzurra (il tutto lo tratteremo in seguito). Il sito fu visitato già fin dal XVII secolo da viaggiatori e esploratori europei che però non riuscirono a penetrare all’interno della piramide (per fortuna!).
Fu solo in seguito alla spedizione di Napoleone in Egitto, che nel 1821 venne scoperto l’ingresso alla piramide ad opera del generale prussiano Johann Heinrich barone di Minutoli che però non proseguì nell’esplorazione.
Occorre arrivare al 1837 con l’archeologo Perring il quale penetrò all’interno della piramide ed esplorò le numerose gallerie sotterranee dove vennero rinvenute una trentina di mummie risalenti al periodo tardo. Perring fu seguito poco dopo da un altro grande archeologo, Lepsius, che guidava una spedizione prussiana. Ma le più importanti scoperte eseguite sistematicamente ebbero inizio solo nei primi anni del novecento grazie ai numerosi scavi effettuati dall’archeologo inglese Cecil Firth, al quale si unì presto anche il giovane archeologo francese Lauer. Fu solo grazie al loro lavoro che si iniziò a conoscere meglio il complesso e quindi la piramide a gradoni. Da quel momento gli scavi nel complesso divennero decisamente una missione per coloro che vi si dedicarono, e che continua ancora ai giorni nostri. L’egittologia deve a costoro il merito per i risultati raggiunti circa la conoscenza storico-architettonica del complesso e della piramide.
Una riconoscenza particolare va riservata all’architetto francese Lauer che dedicò numerosi anni della sua vita allo studio ma anche alla parziale ricostruzione di alcune parti del complesso funerario di Djoser. Visiteremo ora tutte la varie componenti del grande complesso funerario ma per stare in tema di piramidi voglio partire dalla piramide stessa.
Secondo molti studiosi questo fu il primo tentativo di costruire una vera piramide ma, forse, come ho scritto all’inizio, Imhotep non pensò mai ad una costruzione a forma di piramide perfetta della quale non ne aveva la minima idea. Forse, condizionato da quanto aveva visto in un suo possibile viaggio in Mesopotamia, cercò solo di offrire al faraone una “scala per raggiungere il cielo” e lo fece interpretando le probabili manie di grandezza di Djoser.
Il modello costruttivo a gradoni che si innalzano verso il cielo lo troviamo in molte culture ed ha prodotto anche in contesti storico-geografici indipendenti risultati molto simili. Oltre all’Egitto e alla Mesopotamia basta pensare alle numerose costruzioni simili riscontrate presso civiltà anche molto lontane tra di loro, un esempio sono le famose piramidi precolombiane sparse nelle Americhe. Come queste ultime, secondo gli studiosi, la piramide di Djoser non si presentava con una punta, non possedeva un pyramidion ma sulla cima vi era una terrazza, dove il Ka del sovrano, dopo aver percorso la “scala sacra” avrebbe trovato posto per un attimo di pausa. (forse è fantasia ma non guasta mai).
Adesso apprestiamoci ad entrare all’interno della piramide dove ci attendono numerose sorprese.
L’ingresso si apre sul lato nord e presenta una lunga galleria discendente che circa a metà percorso si restringe; proseguendo si giunge in fondo ad un grande pozzo che sbuca nella camera sepolcrale.
La camera, cosiddetta “Camera di granito”, si trova in fondo al pozzo ad una profondità di circa 28 metri. Interamente costruita in granito rosa misura 4 x 2,56 metri ed è alta 4 metri, sopra la stessa insiste un altro vano che Lauer chiamò “camera di manovra” perché a suo parere qui veniva sistemata la mummia per poi essere calata nella camera funeraria attraverso un pozzo rotondo sul pavimento, questo veniva successivamente chiuso con un masso di granito del peso di 3 tonnellate.
Parlando di camera sepolcrale va però detto che il primo a penetrare al suo interno non fu Lauer ma l’egittologo italiano Gerolamo Segato nel 1821, quando entrò nella camera riscontrò che era già stata violata probabilmente fin dall’antichità. All’interno trovò un sarcofago in granito rosso completamente vuoto. Non trovò altro se non alcuni resti scheletrici.
Più tardi durante una sua visita, l’archeologo svizzero Heinrich Menu von Minutoli rinvenne i resti di un paio di sandali dorati, un teschio. una maschera funeraria, frammentati di vasi ed un contenitore con ancora i sigilli originali contenente un liquido denso ed oleoso. Minutoli accumulò una notevole collezione di reperti che cedette al re di Prussia per 22.000 talleri; ma durante il trasporto in Germania una gran parte andò perduta per il naufragio della nave che li trasportava. Tra i reperti perduti vi erano appunto quelli ritrovati nella piramide a gradoni. Quelli che si salvarono furono riuniti nella fondazione del Museo Egizio di Berlino.
Fu poi Lauer, nel 1826, a trovare la pianta di un piede sinistro e la parte superiore di un braccio oltre ad altre parti molto frammentate. Queste si trovano oggi presso l’Istituto di Medicina del Cairo.
In un piccolo passaggio a nord-ovest della camera funeraria venne rinvenuta una cassetta di legno dove era riportato un nome, Netierikhet, appunto il nome di Djoser, la cassetta si trova ora nel Museo Egizio del Cairo.
Torniamo ora al grande pozzo verticale, da esso partono quattro corridoi orientati verso i punti cardinali, questi si diramano in un complesso di gallerie estremamente articolato con numerose stanze ipogee distribuite intorno alla camera sepolcrale.
Tra queste si trovano le ormai famose “Stanze blu” così chiamate in quanto si presentano rivestite con piastrelle di faience turchese incastonate nel calcare giallo delle pareti a forma di fasci di giunchi con modanature che imitano le corde che li legano, sono inoltre presenti alcuni pilastri Djed.
A questo proposito va detto che per gli antichi egizi il turchese era il colore della rinascita, della vita e della prosperità, forse l’intento era proprio quello di simboleggiante la rinascita o, come suggerisce l’egittologa americana Florence Friedman, volevano rappresentare le acque dell’oceano celeste e di quello sotterraneo.
In altre due camere sono presenti tre “false porte” nella cui cornice compare il serekht con l’antica titolatura reale in geroglifici oltre a bassorilievi dove il sovrano è rappresentato mentre officia riti sacri.
Ora ci troviamo nel bel mezzo di un intricato complesso di gallerie e corridoi che si diramano in ogni direzione tutt’intorno alla camera sepolcrale, pare di essere capitati in un labirinto sotterraneo. Sono talmente tanti questi passaggi, di cui alcuni non ultimati, che diventa arduo stabilire quali di questi siano opera dei costruttori della piramide e quali siano invece opera dei saccheggiatori di tombe in cerca di tesori.
Dopo le prime esplorazioni passarono alcuni anni durante i quali la piramide cadde nell’oblio finché nel 1837, durante una sua visita ai sotterranei, Vyse scoprì un deposito dove trovò numerose mummie prive però di ogni tipo di arredo funerario, percorse i numerosi corridoi e scoprì altre gallerie.
Passò ancora del tempo durante il quale il sito venne un poco trascurato finché arrivò Lepsius che visitò la piramide nel 1842 e, per non andarsene a mani vuote, smontò le architravi delle false porte delle “stanze blu” sulle quali erano presenti numerose iscrizioni, oltre ad alcuni serekht che riportavano sicuramente il nome del proprietario della tomba, Netierikhet, allora sconosciuto nelle liste reali.
Fino ad allora non era possibile stabilire con certezza chi fosse questo Netierikhet. La cosa si risolse anni dopo quando nel 1889, nei pressi di Assuan, sull’isola di Sehel su una parete di roccia, venne rinvenuta una stele rupestre, scritta in geroglifico risalente all’epoca tolemaica (330-31 a-C.), la cosiddetta Stele di Sehel (Stele della carestia). In essa si narrava che in un passato remoto ci fu un periodo di carestia e siccità durato sette anni, il periodo era riferito al tempo del regno del faraone Djoser. La stele racconta che la siccità ebbe termine grazie alle preghiere ed alle donazioni di beni fatte al dio Khnum dal II sovrano della III dinastia di nome Netierikhet. A questo punto fu chiaro che Netierikhet era Djoser il faraone che fece costruire la piramide a gradoni.
Passiamo ora nella galleria orientale nella quale sono state rinvenute tre false porte dove il sovrano viene rappresentato due volte nell’atto di camminare con la doppia corona Pschent (bianca e rossa) ed una volta in posizione stante con la corona Hedjet (solo bianca).
I nomi del sovrano sono accompagnati da quelli di Anubis, Horo e Behedet. Una di queste false porte e diverse mattonelle di faience vennero fatta smontare da Lepsius nel 1843 e trasferite presso presso il Museo di Berlino dove si trovano tutt’oggi.
Alla base della piramide, lungo la facciata occidentale, si trovano 11 pozzi profondi 30 metri circa dal cui fondo partono ulteriori gallerie collegate fra di loro, si pensa che queste dovessero servire come luoghi di sepoltura delle donne e dei bambini della corte reale. L’imbocco dei pozzi venne successivamente inglobato nella struttura della piramide nella fase in cui fu ampliata.
Nella galleria che parte dal quinto pozzo vennero rinvenuti frammenti di legno dorato, vasi finemente cesellati ed un sarcofago di alabastro vuoto. Sul fondo della galleria si trovava un piccolo sarcofago di legno con pochi resti di un fanciullo di 8-12 anni.
Nel primo e nel secondo pozzo si trovavano frammenti di alabastro, probabilmente sarcofagi, mentre nel terzo compariva l’impronta di un sigillo recante il nome di Netierikhet (Djoser).
Ma la sorpresa più grande fu quella che riservarono il sesto ed il settimo pozzo dove erano contenuti numerosi piatti, tazze e circa 40.000 vasi dalle forme e dimensioni più disparate ricavati da vari materiali, alabastro, onice, scisto, porfido, quarzo, serpentino e breccia. Fra essi numerosi vasi identici a quelli trovati da Flinders Petrie nel villaggio di Naqada, ancora nessuno, oggi è in grado di dare spiegazioni.
Alcuni di questi vasi erano levigati, sfaccettati e ricoperti di decorazioni, molti di essi riportavano i serekht con i nomi di antichi sovrani protodinastici ai quali, secondo alcuni, Djoser li aveva dedicati. Molti di essi appartenevano a sovrani della I e II dinastia quali: Narmer, Ger, Den, Agib, Semerkht, Ka, Ninetger, Sekhemib, Hotepsekhemwy e Khasekhemwy, ma il nome di Netierikhet non compariva su nessuno. Il tutto era sparso intorno nella più completa confusione, il soffitto delle gallerie era crollato per cui i reperti integri furono solo qualche centinaio su tutti quelli rinvenuti e catalogati da Lauer.
Molte sono le ipotesi avanzate, secondo Lauer sarebbero il corredo delle tombe dei sovrani arcaici distrutte dal faraone Peribsen. In un secondo tempo, Khasekhemwy, che gli succedette li avrebbe raccolti e custoditi in un magazzino dal quale Djoser li avrebbe pietosamente fatti prelevare per custodirli nella sua tomba. A questo punto ci si domanda, perché prendere solo i vasi, sicuramente, nonostante saccheggiate le tombe custodivano ancora parte del corredo funebre non asportato dai saccheggiatori. Con lui concorda anche l’egittologo Stadelmann mentre di parere nettamente contrario Donald B. Redford che ritiene che le tombe precedenti furono distrutte dallo stesso Djoser per recuperare i materiali necessari ad erigere il suo complesso. Conservò però il loro corredo che fece sistemare nella sua tomba per rispetto e per mantenere la continuità del potere. Teoria ritenuta dai più assurda in quanto la distruzione delle tombe dei predecessori non costituiva certo un segno di rispetto ne di potere.
Il significato della conservazione del corredo usurpato ai predecessori nella propria tomba rimane avvolto nel mistero alla soluzione del quale ancora oggi molti egittologi vi si dedicano. Dagli inizi del XX secolo iniziò un’esplorazione sistematica della piramide, si procedette inoltre alla ricostruzione di parte del complesso funerario di Djoser, entrambe effettuate dall’architetto francese Lauer che vi si dedicò per numerosi anni. I restauri sono continuati fino ai giorni nostri. Di sicuro è che una eventuale visita ai sotterranei della piramide, ora riaperta al pubblico, non può che essere estremamente interessante.
Usciamo dalla piramide e ci troviamo nell’area del Tempio funerario, rivolti a nord, sulla nostra destra, addossato all’estremo angolo ovest della parete della piramide, nello spazio che si trova tra il Tempio e la “Casa del Nord” (che vedremo in seguito) si trova il cosiddetto “Cortile del Serdab”.
Il Serdab era una struttura presente nelle tombe dell’Antico Egitto costituita da una camera destinata alla statua raffigurante il Ka o “spirito vitale”, del defunto. Si trova accanto all’ingresso del tempio, addossata alla parete della piramide e risulta inclinata perché avrebbe dovuto seguire la forma del primo gradone a cui si appoggia.
Il Ka era la forza che permetteva al sovrano di sopravvivere dopo la morte e di riprendere un’esistenza nell’aldilà simile a quella che aveva condotto sulla terra. Per conservare la sua efficacia il Ka doveva essere continuamente alimentato, per questo le statue racchiuse nel serdab ricevevano cibo, bevande e fumigazioni con tanto di rito nel quale si recitavano formule d’offerta ad esse indirizzate.
La statua di Netierikhet Djoser assiso, con una lunga parrucca ed il copricapo nemes, è stata rinvenuta parzialmente danneggiata e priva degli occhi, oggi è custodita al Museo del Cairo, al suo posto è stata collocata una copia a grandezza naturale, vestita con gli abiti giubilari compreso il candido manto che nell’insieme davano l’impressione della dignità regale.
La parete nord del serdab presenta due fori nel muro all’altezza degli occhi della statua, questi avevano la funzione di permettere al Ka di Djoser di osservare la parte anteriore del complesso e le stelle imperiture del cielo settentrionale che non tramontano mai ed il mondo esterno dei vivi nonché di controllare (non si sa mai) che gli venissero sempre presentate le offerte.
Va detto che quasi un terzo dell’area nord del complesso non è ancora stata esplorata in modo approfondito.
Ovviamente trovandoci sul lato nord non possiamo non dare un’occhiata al Tempio funerario, detto anche “Tempio settentrionale” o nord, per il culto del faraone che si trova proprio alla base della piramide un poco più alto rispetto agli edifici vicini. Orientato in senso est-ovest permetteva l’ingresso attraverso un portico a doppio colonnato al cui interno si trovava la statua del sovrano ed alcune false porte. Allo stato attuale non è ancora stata avanzata un’ipotesi certa del significato delle varie componenti del tempio e la cosa è ritenuta di difficile interpretazione a causa della confusione degli ambienti, corridoi e cortili, che non è riscontrata in costruzioni simili di epoca precedente ne successiva, e con camere doppie chiamate da Lauer “Sale delle abluzioni” per la presenza di un lavacro rotondo sistemato tra le sale.
All’interno del recinto si trovano cortili con quattro colonne scanalate unite da un muro, da uno di questi cortili si accede ad una rampa che conduce al complesso ipogeo della piramide e da qui alla cripta funeraria. Il ritrovamento più significativo in questa zona è costituito da alcune impronte sull’argilla di sigilli apposti da un sacerdote della dea Neith che riportano il nome del faraone Sanakht.
Degno di nota, al nord della corte si trova un terrazzo che si congiunge con il muro di cinta del complesso ed è raggiungibile attraverso una scalinata, nella parte superiore piatta presenta una sezione leggermente incavata delle dimensioni di 8 x 8 metri. Questa costruzione viene comunemente chiamata “altare”.
Su questa costruzione non si conosce nulla ed ancora oggi è oggetto di una disputa fra egittologi non ancora conclusa. Secondo Stadelmann si tratterebbe di un tempio solare basando la sua ipotesi su una iscrizione incisa su di un ostrakon trovato poco lontano che riporta in corsivo la dicitura “seketre” (tramonto di Ra). Altenmuller ritiene invece che l’avvallamento rappresenti la base su cui si trovava eretto un obelisco con la funzione di imitare la pietra Benben di Eliopoli.
Per contro va detto che non è stata ritrovata alcuna traccia dell’obelisco o parti di esso mentre un più attento esame della scritta pare rivelare che non fosse riferita ad un tempio solare bensì ad un edificio della festa Sed. Attualmente sono in atto analisi sistematiche dalle quali ci si aspettano ulteriori ritrovamenti interessanti ed anche inaspettati.
Adesso facciamo due passi sotto il caldo sole del deserto, lasciamo il settentrione per dirigerci verso il lato sud del complesso. Torneremo a nord per visitare le cosiddette “Casa del nord” e “Casa del sud”, mi scuso se salto qua e la ma preferisco dare la precedenza agli ambienti che ritengo meritino maggiore attenzione.
Avanziamo ora in quello che è il cortile sud, più pomposamente chiamato “Cortile dell’Apparizione reale”.
Questo misura 180 x 100 metri e lo si trova appena entrati nel complesso in quanto si estende dalla piramide fino al muro di cinta meridionale. In origine insistevano in questo spazio due fabbricati, nell’angolo nord-est erano presenti un piccolo tempio con tre nicchie mentre un basso altare quadrato poggiava sul lato meridionale della piramide e possedeva un piccolo ipogeo situato proprio davanti ad una rampa attraverso la quale si accedeva all’altare. In questo ipogeo fu rinvenuta una testa di toro.
L’uso a cui erano destinati questi edifici ci è del tutto sconosciuto.
Al centro della corte si trovano i resti di due piccoli edifici la cui forma ricorda una B, sicuramente sono da mettere in relazione con la festa sed anche se nessuno per ora si è espresso con certezza.
Durante gli scavi, nei pressi, sono state ritrovate 40 stele sulle quali comparivano i nomi della moglie di Djoser Hetephernebti e della figlia Inetkaus, anche su queste, per il momento, non sono state avanzate ipotesi circa il loro significato.
Quello che viene ritenuto il più interessante reperto rinvenuto nella corte sud è la cosiddetta “Iscrizione del restauro” ad opera di un figlio di Ramesse II Khaemuaset. Di lui sappiamo che era sacerdote di Ptah a Menfi e, grazie al grande interesse che provava verso gli antenati, fece effettuare numerosi restauri ai monumenti danneggiati. Un suo monumento eretto nei pressi della piramide a gradoni è stato recentemente rinvenuto poco ad ovest del Serapeum da una missione giapponese.
Prima di proseguire la nostra visita al complesso del faraone Djoser, in funzione di ciò che troveremo adesso, viene da chiedersi, la piramide a gradoni va considerata la vera tomba del faraone Djoser? La sua mummia fu effettivamente collocata nella camera funeraria sottostante la piramide?
Può darsi, allora sorge spontanea un’altra domanda, che ci fa un’altra tomba all’interno del complesso?
Si, un’altra tomba situata nell’angolo sud-ovest della corte, qui sorge il più misterioso fabbricato di tutto il complesso, la cosiddetta “Tomba Sud”, un secondo monumento funerario edificato proprio ai limiti del muro meridionale.
Non è chiara la sua funzione, Djoser fu sepolto sotto la piramide a gradoni o in questa tomba? Secondo alcuni la tomba rappresenterebbe un cenotafio come quelli che si trovano ad Abydos, secondo altri potrebbe essere una strategia diplomatica di Djoser per sottolineare la sua funzione di re dell’Alto e Basso Egitto. Oppure bisognerà trovare un’altra spiegazione, nell’attesa di maggiori informazioni noi apprestiamoci a visitarla per quanto è possibile.
Arrivando da nord uno stretto passaggio ci conduce in una piccola sala dove, secondo Lauer vi era una statua del re, secondo Ricke era il luogo dove si conservavano le due corone del Basso e Alto Egitto. La tomba, ovviamente ipogea, presenta una sovrastruttura a mastaba rettangolare con orientamento est-ovest, al limite orientale si apre un enorme pozzo profondo circa 30 metri nel quale una scala in pietra scende in profondità.
Alla base del pozzo la camera funeraria, in granito rosa, si presenta quasi uguale a quella sotto la piramide e anch’essa possiede la “camera di manovra”, il tutto di dimensioni leggermente ridotte.
Nella camera in granito si trova un sarcofago, il che conferma l’uso prettamente funerario della stessa. Una delle tante ipotesi suggerisce che potrebbe aver contenuto i vasi canopi o una statua reale del Ka di Djoser.
Il passaggio scende ancora in profondità dove si trovano alcuni appartamenti con diversi corridoi simili a quelli della piramide a gradoni, solo di dimensioni più ridotte, avanzando ancora incontriamo una galleria le cui pareti sono rivestite di piastrelle blu-verdi in faience come nelle gallerie della piramide. Le decorazione rappresenta Djoser una volta nell’atto di incedere indossando la corona bianca e due volte in posizione stante con la corona rossa o bianca (non è distinguibile). Le decorazioni presenti in questa tomba, nel loro insieme, colpiscono in modo sorprendente per la loro compiutezza e precisione nei dettagli, il grado raggiunto è molto elevato decisamente superiore a quello delle camere sotterranee della piramide; è stata avanzata l’ipotesi che siano state predisposte prima della piramide nel caso di una morte prematura del sovrano. Alcuni egittologi hanno ipotizzato che questa sia la vera tomba dove giaceva la mummia del faraone. Secondo altri insorgerebbero principi religiosi che rendono poco credibile che il sovrano si facesse costruire una piramide per poi farsi seppellire in una tomba minore.
Vi racconto un piccolo aneddoto che forse non tutti conoscono, quando venne scoperta da Firth e Lauer quest’ultimo, essendo più snello si calò per primo nella camera funeraria passando dalla camera di manovra. La sorpresa nel vedere che anche qui c’erano le piastrelle di faience lo entusiasmò nonostante la maggior parte di esse erano cadute dalle pareti finendo in minuscoli pezzi. I due raccolsero i ciottoli e li portarono nell’abitazione di Firth. Ad un certo punto Lauer si diresse nuovamente al lavoro ma appena uscito di casa udì un forte sibilo che persisteva in continuazione. Spaventato corse all’interno della casa dove Firth gli spiegò il tutto. Nell’intento di lavare i pezzi Firth aveva immerso i ciottoli in un secchio con acqua e una sostanza detergente. Dopo millenni in cui le piastrelle si erano seccate, a contatto con l’acqua si era innescata una reazione chimica che aveva prodotto il fischio.
In conclusione riporto la combinazione di due teorie, quella di Jéquier con quella di Lauer, che fin’ora paiono le più plausibili, Djoser sarebbe stato sepolto sotto la piramide, la tomba sud sarebbe un sostituto simbolico, un cenotafio.
Per arrivare alla Tomba sud dalla Piramide abbiamo percorso il grande “Cortile dell’Apparizione Reale” dove si celebravano le cerimonie cultuali ed il rito della corsa sed che avveniva tra i due piccoli edifici dalla forma che ricorda una B, di cui abbiamo già parlato, e che simboleggiavano i confini dell’Egitto.
Circa a metà del Grande cortile, sul lato est, si trova il cosiddetto “Tempio T”, un edificio rettangolare il cui nome è dovuto alla classificazione fissata da Lauer.
Il Tempio “T” è tra le più affascinanti e misteriose strutture nel complesso. La facciata esterna dell’edificio è semplice e non ostenta particolari ornamenti, mentre l’interno è interamente costruito con pilastri Djed (che rappresenta stabilità).
All’interno si trovano sculture complicate dal significato oscuro, tra esse spicca una falsa porta semiaperta, potrebbe rappresentare un passaggio simbolico verso l’aldilà. Il Tempio viene anche comunemente chiamato “Tempio della Heb-Sed” (la Festa Sed), trovandosi in prossimità della corte giubilare, potrebbe essere servito come struttura di culto sacerdotale dove si sarebbero tenuti i riti preparatori alla festa Sed. Anche qui, come nell’intero complesso, la struttura arcaica che si presentava in mattoni crudi la troviamo costruita in pietra.
Il tempio e formato da un colonnato d’accesso composto da tre colonne scanalate unite da un muro di sostegno, un’anticamera, tre cortili interni ed una sala quadrata con una nicchia nella parete nord che presenta un fregio con il geroglifico “djed” (durare, essere saldi).
Il significato del tempio è tutt’ora oggetto di discussione tra gli studiosi, secondo Ricke e Firth avrebbe svolto la funzione simbolica di spogliatoio dove il sovrano cambiava i suoi vestiti con quelli rituali della festa Sed. Al momento del suo ritrovamento il tempio era in completa rovina, fu Lauer che procedette alla sua ricostruzione usando circa 2000 frammenti e restaurandoli tramite la tecnica dell’anastilosi. (in architettura, particolarmente adottata in archeologia, per anastilosi si intende la tecnica di restauro che consiste nel rimettere insieme ciascun elemento dei pezzi originali di una costruzione distrutta).
Andiamo ora a visitare il “Cortile del Giubileo” anche detto “Cortile della Festa Sed”.
Mi scuso con i più esperti ma vorrei fare una piccola parentesi per coloro che si trovano ad affrontare per le prime volte la storia egizia con la sua terminologia. La “Festa Sed” o “Festa Giubilare” consisteva in una cerimonia che tutti i faraoni celebravano al compimento del loro trentesimo anno di regno. Secondo l’ipotesi avanzata da Petrie la Festa Sed deriverebbe dall’antichissima usanza, risalente al periodo protodinastico (ma forse assai prima), secondo la quale avanzando con l’età era bene che il re dimostrasse di essere ancora in grado di difendere il proprio popolo, per far questo doveva sottomettersi a delle prove che ne avrebbero sancito tale diritto. Se il sovrano non avesse superato le prove veniva messo a morte e quindi sostituito con uno più giovane. Secondo le ipotesi più accreditate il significato della festa “Heb-Sed” per gli egizi era puramente simbolico, queste suggeriscono che si trattasse di una prova fittizia al punto che molti faraoni la celebrarono prima del loro trentesimo anno di regno, anzi, alcuni ne celebrarono più di una. Ramesse II celebrò la prima festa in occasione del suo trentesimo anniversario di regno, da lì in poi ne celebrò una ogni tre anni per un totale di ben quattordici. Secondo l’egittologo Petrie, il re doveva bere una pozione di fiori di loto che lo avrebbero portato ad una sorta di catalessi, raggiunto questo stato sarebbe stato deposto in un sarcofago dove rimaneva per alcuni giorni. Questo faceva si che il sovrano si sarebbe rigenerato, riacquistando il proprio vigore per poterlo dimostrare nel rito Sed.
Torniamo al cortile della Festa Sed, esso consiste in un ampio spazio rettangolare di 198 x 187 metri che si trova sempre ad est del complesso. Sul lato orientale si trovavano dodici cappelle con coronamento arcuato incorniciate da un astragalo liscio (modanatura detta anche tondino).
Questo elemento architettonico derivava dal modello di cappella “per nu”, diffuso nel Basso Egitto e costruito con mattoni crudi, legno, canne e paglia. Ciascuna cappella conteneva, all’interno di una nicchia, pregevoli statue di divinità distrettuali, una di queste statuette di un nomo si trova oggi al Brooklin Museum (cat. 58.192). Oggi rimangono i resti di tre statue incompiute del re in forma osiriaca.
Sul lato occidentale del cortile si trovavano tredici cappelle di due diversi tipi. Un tipo detto “sekh netjer” (sala del dio) con facciata e astragali laterali, il secondo tipo detto “per uer” (grande casa) che rappresentava il santuario dell’Alto Egitto anch’esso anticamente costruito in legno e stuoie.
In realtà è improprio chiamarle cappelle in quanto si trattava di “falsi edifici” che non presentavano alcuno spazio interno ma semplicemente formate da un blocco solido con rivestimento esterno. Di dimensioni rilevanti, alcune di queste erano contornate sulla facciata da tre sottili colonne incassate nella muratura, scanalate per simboleggiare fusti di alberi, il capitello detto “abaco cubico” recava i simboli divini e reali. Il loro scopo era quello di rappresentare gli dei dell’Alto e Basso Egitto che avrebbero rinnovato il consenso al faraone che sarebbe stato nuovamente incoronato. Inutile dire che si trovavano in uno stato di completa rovina, fu l’egittologo Lauer, che dedicò quasi tutta la sua vita alla loro ricostruzione con il metodo, già descritto sopra, dell’anastilosi.
Sul fondo della fila occidentale di cappelle si trovava un gruppo statuario composto dalle statue di Djoser, di sua madre Nimaathap, della moglie Hetephernebti e della figlia Inetkaus, oggi rimangono solo più i resti dei piedi. Dopo che il faraone aveva effettuato alcune prove di cui la più importante era la corsa nel grande “Cortile dell’Apparizione Reale”, la cerimonia si spostava nel cortile della Festa Sed dove, alla presenza dei nobili del regno, si celebravano i riti giubilari della rigenerazione che culminavano nella cerimonia dell’incoronazione come riconferma della supremazia e del potere del sovrano. Questa avveniva su un podio situato a sud del cortile dove ancora si trova un basamento con due rampe laterali sul quale veniva posto il trono, questo era sormontato da un baldacchino per riparare il sovrano dai cocenti raggi solari.
Tutto questo però Djoser non lo usò mai, infatti morì prima del compimento del trentesimo anno del suo regno. Ma forse a questo Djoser ci aveva anche pensato, la sua Heb-Sed l’avrebbe celebrata comunque nell’Aldilà. La costruzione di tutti questi edifici fu voluta forse per dare maggior risalto scenografico al suo monumentale complesso funerario la cui funzione, puramente simbolica lo rendeva degno di un dio che muore ma che si rigenera.
Bene, ora dal cortile Hed-Sed, costeggiando la piramide, ci dirigiamo nuovamente a nord dove incontriamo un ampio cortile sulla destra, questo è accessibile sia dal complesso della festa Sed che dal passaggio sul lato orientale della piramide.
Entriamo nel cortile e ci troviamo di fronte la cosiddetta “Casa del Sud”. Quando Lepsius la scoprì le sue rovine erano così imponenti che la scambiò per una piramide satellite e gli assegnò il numero XXIV.
Nell’angolo sud-est si trova un basamento che ricorda vagamente la lettera D sul quale sono stati trovati i resti di un altare. Sui lati est e sud del cortile si trovavano delle nicchie mentre nella parte nord-est si trova un pozzo profondo 25 metri.
Nei pressi del pozzo, l’archeologo Firrth rinvenne numerosi fogli di papiro carbonizzati cosa che portò a credere che in quel luogo, forse in epoca più tarda, avesse sede l’amministrazione non solo del complesso di Djoser ma dell’intera necropoli di Saqqara.
La Casa del Sud, che presentava una serie di capitelli dalla forma di fiore di loto (oggi scomparsi), molto probabilmente simboleggiava la sala del trono dell’Alto Egitto. Con il solito metodo dell’anastilosi, Lauer fece ricostruire la facciata rivolta a sud che risultò ornata da quattro colonne simili a quelle delle cappelle Heb-Sed.
L’ingresso si presenta spostato rispetto al centro di due colonne che ornano la facciata, al di sopra di esso compare un fregio continuo con il geroglifico “Khekeru” ad imitazione dei tetti di stuoie intrecciate che ornavano gli edifici di epoca predinastica adibiti al culto della dea avvoltoio Nekhbet di Ieracompoli.
Da qui si accede attraverso un breve corridoio ad una camera con nicchie dove, secondo alcuni, venivano deposte le offerte funerarie. Ironia del destino, allora come oggi, i visitatori avevano la pessima idea di lasciare graffiti sulle pareti, all’interno della cappella ne compaiono numerosi in scrittura ieratica che risalgono alla XVIII e XIX dinastia, si trova una scritta dello scriba della camera del tesoro Hednakht ed una dello scriba del Visir, Panakht. Il loro significato storico è oggi molto importante in quanto conferma la veridicità del fatto che Djoser fosse realmente il detentore del complesso e che gli edifici a quell’epoca fossero ancora abbastanza in buono stato.
Poco oltre si trova la “Casa del Nord”, pressappoco ricalca quella del sud ad eccezione del cortile che è più piccolo, la sua funzione simbolica era quella di rappresentare la sala del trono del Basso Egitto, il Delta; forse era dedicata alla dea serpente Uto.
Al suo interno non compaiono nicchie ma un pozzo profondo circa 20 metri che sbuca in una serie di gallerie sotterranee non ancora completamente esplorate. Nel cortile sono inoltre presenti tre semicolonne a forma di papiro.
Circa il significato simbolico di queste due “Case” le molte ipotesi avanzate sono controverse discostandosi in modo significativo tra di loro. Lepsius rimase fermo sulla sua idea che si trattasse di due piramidi satelliti della Piramide a Gradoni tanto che le elencò con i numeri XXXIII e XXXIV. Secondo Firth erano semplicemente le tombe delle principesse Hetephernebti e Inetkaus. Per l’egittologo Ricke, invece, simboleggiavano le residenze reali Dell’Alto e Basso Egitto. L’ipotesi più condivisa è quella di Lauer secondo il quale le due case rappresenterebbero simbolicamente le “Due Terre” unificate dove, conclusa la Heb-Sed, dopo l’incoronazione e l’ascesa al trono simbolica del faraone, il suo Ka andava li a ricevere l’omaggio dei sudditi dell’Alto e Basso Egitto.
Ora passiamo al lato occidentale del complesso dove si estendono tre lunghi edifici affiancati di lunghezze diverse allineati nord-sud, il più occidentale era lungo circa 400 metri, largo 25 e alto 5 metri. Gli altri due sono via via più bassi ed il terzo addirittura si appoggia per qualche metro direttamente sulla piramide.
Le indagini effettuate, che a tutt’oggi sono ancora scarse, portano però ad escludere che la massicciata più occidentale contenga al suo interno camere o corridoi in quanto è stata costruita con frammenti di pietra e materiale di risulta. La massicciata centrale presenta le pareti laterali lievemente inclinate ed arricchite da nicchie, cinque pozzi con scale conducevano alla sottostruttura che presentava lunghi corridoi e camere parzialmente distrutti. Nella parte già esplorata curiosamente sono stati rinvenuti cocci di vasi in pietra e semi di orzo, frumento oltre a frutta secca.
Lauer ritiene che nelle massicciate siano stati sepolti i servitori di Djoser mentre per Stadelmann si tratterebbe di costruzioni antecedenti la II dinastia successivamente incorporati nel complesso. Affermazione ritenuta assurda da molti in quanto il fatto che la terza massicciata sia appoggiata alla piramide dimostra che sicuramente è stata costruita in epoca successiva. Essendo ancora in corso uno studio approfondito le notizie di cui si dispone sono troppo esigue per permettere di avanzare ipotesi certe.
Bene, ora che abbiamo visitato tutto il visitabile dirigiamoci all’uscita senza però dimenticare, dopo alcuni passi, di voltarci indietro per un ultimo sguardo a questo meraviglioso monumento dell’Antico Egitto. Tutto quello che abbiamo visitato si completa con il maestoso muro che circonda interamente il complesso.
Esternamente si presenta con una struttura che imita un insieme di stuoie intrecciate e viene messo in evidenza da bellissime nicchie e da quindici porte distribuite in modo irregolare lungo tutta la sua estensione. Quattordici di queste sono false porte, solo una è vera, quella situata sulla facciata est, nell’angolo sud-est, dalla quale siamo appena usciti.
Secondo alcuni egittologi l’intera struttura imiterebbe il motivo decorativo di un fabbricato con intelaiatura in legno coperta di stuoie, secondo altri il motivo sarebbe di derivazione Mesopotamica. Lauer sostiene che in origine il muro fosse di colore bianco come il palazzo dove regnava il faraone. Il motivo del muro di Djoser potrebbe aver ispirato altri monumenti, infatti lo troviamo nel muro di cinta del complesso piramidale di Senusret III a Dashur e sul suo sarcofago.
Abbiamo così completato la visita alla più antica piramide del mondo costruita oltre 4700 anni fa. Accessibile agli studiosi fino agli anni 30 del novecento venne successivamente chiusa per problemi di sicurezza in quanto rischiava di collassare su se stessa. Nel 2006 ha inizio un grandioso progetto di salvataggio che, salvo una breve interruzione dal 2011 al 2013 a causa della rivoluzione che ha portato alla caduta di Hosni Mubarak, è proseguito per 14 anni fino alla completa apertura al pubblico nel 2020. Oggi è interamente visitabile.
Fonti e Bibliografia:
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