Filosofia

CONCEZIONI ETICO-RELIGIOSE A CONFRONTO

Di Ivo Prezioso

MA’AT

Come spesso ho rimarcato, il concetto di Ma’at è il pensiero fondante che ha caratterizzato la Civiltà Egizia per tutta la sua lunghissima storia e le cui influenze e reminiscenze avrebbero riverberato anche oltre. Su un pensiero così sofisticato, e probabilmente ancora ben lungi dall’essere pienamente chiarito ed esaurito, vorrei (in punta di piedi e con la massima umiltà, vista la complessità dell’argomento e dell’enorme mole di implicazioni etiche e sociali che sottintende) proporvi qualche mia considerazione nell’intento di stimolare qualche spunto di riflessione sull’impatto determinante che ha avuto sul modo di agire e sentire degli Antichi Egizi. Pertanto, questo post, a differenza di altri che ho pubblicato, non sarà particolarmente “rigoroso”, nel senso che è sviluppato non riferendosi esclusivamente alle fonti. Esporrò, come in un classico tema di scolastica memoria, anche valutazioni del tutto personali, scaturite durante la non facile (almeno per me) – e ancora in fase di approfondimento – lettura del testo di Jan Assmann “L’Égypte pharaonique et l’idée de Justice sociale”. Ovviamente, le conclusioni a cui sono giunto, possono ampiamente essere dibattute (anzi, sarebbe auspicabile) sia per la delicatezza dell’argomento, sia (e a maggior ragione) perché frutto di quanto assimilato alla luce della mia pressoché assoluta ignoranza in materia di filosofia. Inoltre sarà l’occasione per esprimere, nel corso dell’esposizione, alcune personali considerazioni sul confronto tra l’etica religiosa egizia e quella occidentale moderna.

Sappiamo che gli egizi erano considerati ancora in epoca ellenistica il popolo più pio della terra. Tralasciando ogni discorso su cosmogonie, divinità miti e credenze, ciò che si evidenzia con estrema chiarezza è che avevano elaborato un sistema religioso che, a parte la brevissima parentesi amarniana, si mantenne, ovviamente con evoluzioni, sincretismi e assimilazioni, stabile per tutta la durata della loro civiltà. Caratteristica fondamentale della loro visione fu la fiducia incrollabile in un’esistenza ultraterrena che, inizialmente riservata ai sovrani e ad una ristretta élite, divenne universale a partire dalla caduta dell’Antico Regno grazie a quel processo conosciuto come “democratizzazione dell’aldilà” (Assmann preferisce il termine “demotizzazione”) che ritroviamo ormai perfettamente compiuto nel Medio Regno*. Chiaramente l’accesso a questo “paradiso” (che ricordiamolo per gli egizi, così innamorati della vita, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, ne era una esistenza migliorata e beata nei “Campi di Ialu”o “Campi Hotep”) era subordinato ad un giudizio che il defunto (più precisamente il suo cuore, sede della coscienza) doveva sostenere di fronte a 42 giudici**. Qui entrano prepotentemente in gioco alcuni degli aspetti di Ma’at: equilibrio, verità, giustizia. Sui due piatti della bilancia venivano posti rispettivamente il cuore e una piuma, emblema della divinità. In pratica il defunto affermava di non aver compiuto azioni che ne trasgredivano i precetti. L’equilibrio dei piatti avrebbe sancito la veridicità delle affermazioni, la proclamazione del defunto come mꜣꜥ ḫrw (lett. “giusto di voce”)e l’accesso all’aldilà.

Sono aspetti di Ma’at che incidono profondamente sui comportamenti morali. E’ fatto obbligo, infatti, di “fare la Ma’at”“dire la Ma’at”; in altre parole, di porre in essere tutta una serie di comportamenti che fossero in perfetta armonia con l’ordine cosmico sancito dal demiurgo all’atto della creazione (che è, tra l’altro, anche il preciso istante in cui nasce Ma’at) e che, sulla terra, sono alla base dell’ordine sociale, politico e persino, del buon funzionamento dell’apparato statale. Vi ritroviamo una serie di norme che hanno punti in comune non solo con i molto posteriori Comandamenti Biblici (non ho rubato, non ho ucciso, ecc.), ma perfino con precetti a noi molto familiari. Infatti, già nelle antiche biografie scolpite sulle pareti delle tombe, o nei testi incisi nei sarcofagi del Medio Regno ritroviamo espressioni come “ho vestito gli ignudi”“ho dato pane a chi aveva fame”“ho dato acqua (i più generosi birra) a chi aveva sete”, che dimostrano come certi concetti legati all’idea di misericordia fossero già ben presenti nella mentalità egizia oltre duemila anni prima che andassero a costituire alcuni degli elementi distintivi del Cristianesimo.

* L’affermazione che a godere della vita ultramondana durante l’Antico Regno fossero solo i re ed una ristretta schiera lascia adito a diversi dubbi e, a mio avviso, è forse troppo limitativa. Altrimenti non si spiegherebbero le cure talvolta davvero impressionanti con cui si eseguivano le inumazioni già in epoca predinastica. Forse, ma è solo una mia considerazione, ai sovrani era garantito un aldilà celeste, “tra le stelle che non tramontano mai” e agli altri, o perlomeno a chi si poteva permettere una tomba, comunque una sopravvivenza in una dimensione decisamente più delimitata ai pressi della tomba, un persistenza “mortale” che possiamo considerare in qualche simile all’Ade greco o allo Sheol dell’Antico Testamento .

** Per una dettagliata descrizione di questo giudizio che va sotto il nome di “psicostasia” (pesatura dell’anima) si veda in proposito https://laciviltaegizia.org/2021/05/15/ib-il-cuore/

INCONOSCIBILE

Verrebbe a questo punto quasi spontaneo andare alla ricerca di affinità tra queste religioni. In realtà i punti in comune si esauriscono praticamente qui.

A parte l’ovvia e banale considerazione che siamo di fronte ad un politeismo in opposizione a dei monoteismi, sono proprio le premesse ideologiche ad essere completamente diverse.

Consideriamo, innanzitutto, che quella egizia non è una religione “rivelata”, vale a dire fatta conoscere da Dio stesso e sancita da un patto di assoluta fedeltà tra l’ Essere Supremo e il suo popolo cui era fatto obbligo assoluto di osservarne i Comandamenti (“ordini”).

Per gli Egizi (che non erano stati così fortunati a fare di persona la conoscenza con Dio), il divino è stato (ed è rimasto) semplicemente inconoscibile, ma non per questo meno percepibile. Attenti osservatori della natura e delle sue infinite manifestazioni, è attraverso queste che hanno letteralmente costruito la loro devozione.

La testimonianza del lungo percorso religioso, che va fatto risalire a molti secoli prima dell’unificazione del paese, ci è senz’altro fornita dalle consuetudini funerarie (seppellire i morti in determinate posizioni e accompagnati da ricchi corredi) e anche dall’iconografia. Divinità femminili dall’aspetto bovino, per esempio, erano collegate alla monarchia come testimonia la Tavolozza di Narmer o anche, al cielo, come dimostra un’altra Tavolozza rinvenuta a el-Gerza nella tomba 59, risalente al periodo Naqada II, che potrebbe essere la più antica rappresentazione nota della dea Hathor (o meglio della sua antesignana Bat).

Inoltre, le rappresentazioni di imbarcazioni, di grandi figure femminili con le braccia sollevate, piante, animali del deserto e segni indicanti l’acqua, appaiono collegate a credenze sull’esistenza di un mondo oltremondano e sulla fiducia in una rinascita. Sempre durante questo periodo, le rappresentazioni di santuari dimostrano che già esistevano centri cultuali e finanche una sorta di specialisti della religione che più tardi sarebbero andati a formare una vera e propria casta sacerdotale***.

Ad unificazione avvenuta si sviluppano, nei più importanti centri di culto, ed assumono caratteristiche ben definite, svariate “teogonie” nelle quali, per lo più, un demiurgo (un’entità divina generatrice) crea il cosmo e origina tutta la pressoché infinita serie di divinità****.

A sostanziale differenza con l’enunciato biblico, però, il mondo del divino egizio non è mai relegato esclusivamente alla sfera del trascendente. Tutt’altro: esso occupa indifferentemente e contemporaneamente il piano cosmico e sovrannaturale, e quello terrestre, umano, naturale nel quale rimane sempre immanente. Il piano terrestre, secondo la visione negativa arcaica, però, corre naturalmente, verso Isefet (il caos, il disordine, l’ingiustizia, la violenza; in definitiva, la legge del più forte).

“Il corso naturale delle cose è la rovina, la decomposizione, la disintegrazione” (Jan Assmann, Maât, L’Égypte pharaonique et l’idèe de justice sociale, pag.123).

La solidarietà, dunque, non è connaturata al cuore degli umani, che tende “istintivamente” all’egoismo e all’avidità*****.

E’ per questo motivo che nel piano cosmico, già all’atto della creazione, fa la sua comparsa Ma’at, l’entità che si oppone alla “gravitazione naturale verso il caos” per garantire giustizia, verità, solidarietà: in definitiva, il bene. Partendo dall’imprescindibile considerazione che nell’Antico Egitto non v’era alcuna distinzione tra Religione, Stato, politica e etica sociale, si comprende bene come l’applicazione e il compimento di Ma’at dovesse essere delegato, affinché fosse trasferita al mondo, ad un tramite, un garante intermediario tra la sfera cosmica degli dei e quella terrestre umana.

Questo tramite è il sovrano (più tardi designato come “faraone”) che assume caratteristiche divine proprio nell’esercizio di questa funzione. A lui gli dei danno il potere necessario affinché trionfi Ma’at e si scacci Isefet, che si compiano il buon funzionamento dello Stato e il benessere dei suoi sudditi; in cambio assicurerà che essi vengano onorati attraverso le offerte. E durante tutto il corso della storia egizia (ce lo dicono chiaramente i testi che sono giunti sino a noi) lo scopo rimane sempre quello: Ma’at deve essere compiuta affinché il mondo possa essere reso abitabile (lo stesso deve accadere anche, a livello cosmico, per permettere, ad esempio, che il sole sorga ogni mattina, rinascendo vittorioso dal suo pericoloso viaggio notturno)******. Con queste premesse appare chiaro che lo Stato faraonico non può affatto inteso come un’istituzione di forza, violenza e assoggettamento così come è dipinto nell’Esodo, ma piuttosto come un’istituzione di liberazione dell’uomo attraverso la mano dell’uomo. L’oppressione, secondo la visione egizia, non è un fatto politico, ma naturale e bisogna contrastarlo proprio attraverso la politica e grazie alla presenza dello Stato. In definitiva, lo Stato esiste per garantire Ma’at e non accada che homo homini lupus******* (Jan Assmann, Maât, L’Égypte pharaonique et l’idèe de justice sociale, pag.124)

*** Per approfondire l’argomento potete consultare I paragrafi relativi a “ L’ EGITTO: NASCITA DI UNO STATO UNITARIO al seguente link https://laciviltaegizia.org/kemet-lalba-delleternita/ “

**** Illustrare in questa sede le numerose cosmogonie che sono state elaborate nei vari centri di culto sarebbe troppo lungo e, tutto sommato, neanche necessario allo scopo di questo post. Basti ricordarne qualcuna per sottolineare come la diversità, per gli Egizi, avesse valore inclusivo (nel senso che una possibile ”verità” non ne escludeva un’altra). Così ad Heliopolis fu elaborata una cosmogonia che pone al centro della creazione Atum, Menfi vede come creatore Ptah, Hermopolis ricorre a un ogdoade (otto divinità), mentre l’antichissima Sais pone al centro del mito la dea Neith.

*****Un passo tratto dai “Testi dei Sarcofagi” e rinvenuto su sei sarcofagi del Medio Regno provenienti da El Berscheh, illustra perfettamente la naturale tendenza umana all’ineguaglianza e all’ingiustizia: (è il dio creatore che parla) << Ho compiuto quattro buone azioni dentro il portico dell’orizzonte: ho creato i quattro venti affinché ogni uomo possa riempirsene i polmoni, così come ognuno dei suoi contemporanei: è il mio primo beneficio. Ho fatto la grande inondazione perché il povero abbia diritto (ai suoi benefici) così come il ricco: è la mia seconda azione. Ho fatto ogni uomo simile al suo compagno; mai ho ordinato loro di fare il male, ma sono i loro cuori che hanno infranto i miei precetti: è la mia terza azione. Ho fatto che i loro cuori cessino di obliare l’Occidente, affinché le offerte divine siano date da essi agli dei nòmi (le provincie dell’Egitto). Trad. Edda Bresciani in “Letteratura e Poesia dell’Antico Egitto, pagg.60-61)

****** anche la brevissima, e per molti aspetti, infelice parentesi amarniana, spesso indicata come primo esempio di monoteismo, non può essere considerata come tale, ma piuttosto, come “enoteismo”. Si tratta in pratica di un atteggiamento religioso che tributa il culto ad una sola divinità, pur non escludendo l’esistenza delle altre.

******* Lett. “l’uomo è lupo per l’uomo”

DIFFERENZE E SOMIGLIANZE

Dopo aver dato una fugace descrizione di alcuni aspetti di Ma’at, e dei principi etici che sottintende, ritorno a un discorso più squisitamente di tipo spirituale.

Come dicevo in precedenza, è forte la tentazione di accostare aspetti della religione egizia ad altre a noi sicuramente più familiari. Le differenze, a mio avviso, sono così macroscopiche che i vaghi punti di contatto non possono assolutamente autorizzare una siffatta seduzione.

Partiamo dal più noto dei comandamenti: Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di Me”. E’ la più esplicita ed inequivocabile dichiarazione di monoteismo******** che, ovviamente, è del tutto estraneo alla mentalità degli egizi. Le implicazioni, di conseguenza, sono completamente diverse. Nell’Antico Egitto, ad esempio, concetti come integralismo e fondamentalismo, con i conseguenti dolorosi atteggiamenti di fanatismo religioso che avrebbero generato, erano del tutto inconcepibili dal momento che ogni divinità era una possibile e diversa emanazione del dio (o degli dei) creatore. Nelle Due Terre, pertanto, potevano trovare accoglienza, senza alcun ostilità di sorta, anche numi provenienti da paesi stranieri. E’ illuminante in tal senso, la richiesta da parte di Amenhotep III, di una statua della dea Ishtar al re di Mitanni Tushratta.

Stesso discorso possiamo farlo per i seguenti comandamenti:

“Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra.”

Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano,
ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.”

Una simile perentoria (e, diciamolo pure, intimidatoria) imposizione di prescrizioni, non mi sembra di averla mai incontrata nei testi egizi che mi è capitato di consultare. Permane, fondamentalmente, il rapporto di scambio, un “do ut des”, per dirle in breve, ma nella mentalità egizia si risolve molto più semplicemente nell’obbligo di onorare con le offerte (e con il comportamento etico, ovviamente) la divinità qualunque essa sia. Nessun egiziano,di conseguenza, doveva temere di essere maledetto fino alla terza generazione per aver venerato un nume piuttosto che un altro. In realtà, il popolo, che ben poco poteva comprendere delle sofisticate speculazioni teologiche che avvenivano nei Templi, praticava una religiosità molto più semplice e spontanea, limitandosi per lo più a seguire le tradizioni locali della città o regione in cui dimorava e ad attenersi, ovviamente, ai precetti di Ma’at che erano uguali per tutti.

Altri comandamenti, invece, come:

“Onora tuo padre e tua madre, affinché si prolunghino i tuoi giorni sulla terra che il Signore Dio tuo ti dà”

“Non uccidere”

“Non commettere adulterio”

“Non rubare”

“Non fare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.”

“Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie di lui, né il suo schiavo e la sua schiava, né il suo bue né il suo asino né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”

sembrano essere di chiara ispirazione egizia, e di gran lunga antecedenti, oltre che perfettamente rispondenti alle regole etiche e morali di Ma’at. É presumibile che ciò sia dovuto all’influenza esercitata dalla cultura faraonica. Ma non solo da quella, ovviamente, dal momento che le varie tribù nomadi del Vicino Oriente che molto più tardi sarebbero divenute Israele, assimilarono elementi culturali e cultuali dei paesi in cui di volta in volta stanziavano. Un’etica del soccorso e della protezione, infatti, la ritroviamo nella Bibbia, nei Vangeli e più tardi, nel Corano.

Guardando nello specifico alla tradizione Cristiana (o, per essere più precisi, paolina) si potrebbe pensare che i parallelismi siano più stringenti. In particolare, il celeberrimo “ama il tuo prossimo come te stesso” sembrerebbe in perfetta sintonia con i precetti di Ma’at. Ma anche qui la differenza è netta e sostanziale. Il Cristianesimo richiede un amore senza riserve: finanche verso il proprio nemico. Un egiziano non era affatto tenuto ad amare incondizionatamente, ma, invece, a porre in atto tutta una serie di comportamenti virtuosi affinché fosse amato: in pratica l’intento è letteralmente capovolto. A mio avviso, a dispetto di quanto possa essere (o sembrare) sublime il precetto cristiano, la concezione egizia, almeno dal punto di vista pratico sembra essere molto più efficace. Provate infatti a pensare ad un individuo che venga esortato ad amare anche chi gli arreca del male. A parte l’istintiva propensione a considerare ingiusta una simile richiesta, si può ben comprendere quanto sia difficile non arrivare al punto di reagire alle vessazioni, al sopruso e alla violenza. La storia, del resto, ben ci documenta, come il distorto ricorso a una simile idea abbia generato potere (nella peggiore accezione del termine) e oppressione soprattutto nei confronti dei più deboli. Comportarsi in modo da farsi amare, viceversa, responsabilizza, anzi obbliga, ogni essere umano che aspiri a guadagnarsi l’immortalità a muoversi in quella direzione. Questa unità di intento, almeno in teoria (ma in buona misura anche in pratica, a giudicare dalla lunghissima durata della civiltà egizia) ha garantito equilibrio e stabilità. Gli egizi erano ben consapevoli della naturale inclinazione umana alla sopraffazione, pertanto si può ben comprendere perché un altro celeberrimo versetto del Vangelo “porgi l’altra guancia”, non poteva trovare cittadinanza nella loro concezione etica, in quanto, a rigor di logica, del tutto contrario a quell’ideale di giustizia incarnato da Ma’at.

******** (da Enciclopedia Treccani) La credenza in un dio solo, propria delle religioni che si chiamano appunto monoteistiche. Queste sono, nell’ordine cronologico della loro formazione: il Giudaismo, il Cristianesimo e l’Islamismo, tra cui esiste anche un evidente nesso genetico, in quanto il secondo è sorto dal primo, mentre il terzo presuppone entrambi. Monoteistico è anche lo zoroastrismo (mazdeismo, parsismo) che si è formato in seno e in contrapposizione all’antico politeismo iranico, degradando le divinità di questo – a eccezione di Ōrmazd, proclamato dio unico – al rango di demoni. Oltre a queste grandi religioni, il monoteismo appare nella storia soltanto in dottrine o professioni di fede individuali (per es., in Grecia presso alcuni filosofi, tra cui Senofane nel 6° sec. a.C.) o in tentativi di riforma religiosa (per es., nell’Egitto antico sotto il faraone Amenhotep IV, meglio noto come Akhenaton, 14° sec. a.C.), senza arrivare a costituirsi in religione collettiva e duratura. Caratteristica del monoteismo è l’aspetto dottrinale che è sempre polemico nei riguardi del politeismo.

CONCLUSIONI

Un altro aspetto che mi ha dato molto da pensare è la funzione che aveva la religione nell’Antico Egitto. Come già rimarcato in precedenza, gli antichi sacerdoti svilupparono una serie di sofisticate cosmogonie intese a spiegare il funzionamento sia del mondo che del cosmo. Per la nostra mentalità sistematica una siffatta molteplicità è particolarmente difficile da comprendere. In realtà, per poterci immergere nella visione egizia è necessario calarci nel loro modo di pensare. Avevano un approccio di tipo cumulativo affiancato da un irriducibile conservatorismo. Sicché via via che si elaboravano nuove dottrine, queste non soppiantavano quelle precedenti, bensì le affiancavano, magari cercando di fonderle in un incessante lavoro di sintesi o di sincretismo. E questo ha fatto sì che, lungi dall’apparire loro in contrasto, andavano a costituire un complesso che, a dispetto della diversità, era sempre omogeneo e ben definito. Faccio un esempio, per chiarire meglio il concetto, riferendomi in questo caso a quella che impropriamente (secondo la mentalità egizia) chiamiamo arte. Una volta definiti i caratteri distintivi del loro modo di rappresentare (possiamo prendere come riferimento la celeberrima tavolozza di Narmer, ma già da molto prima certi elementi erano ben riconoscibili), questi si mantennero per tutti gli oltre tre millenni di storia di questa straordinaria civiltà. Trovandoci di fronte ad un opera egizia, ne riconosciamo immediatamente lo stile, il simbolismo, le caratteristiche. Anche l’osservatore più sprovveduto affermerà, con assoluta convinzione, di trovarsi al cospetto di un reperto della Terra dei Faraoni. E questo indipendentemente dal fatto che esso risalga all’Antico Regno, al Medio, al Nuovo, alla Bassa Epoca o perfino a quella ellenistica o romana. Eppure, le differenze ci sono, eccome: un occhio appena più esperto le coglie con immediatezza, ma tutto resta pur sempre rigorosamente, inequivocabilmente egizio. Anche questa commovente “stabilità” è da ricondursi a quel meraviglioso concetto di Ma’at che regolava ogni aspetto sia dell’esistenza terrena, sia di quella oltremondana.

Al riguardo, osserviamo, innanzitutto, che gli egizi furono i primi ad immaginarsi un aldilà. L’idea di un “altro mondo” nel quale i defunti si trasfigurano in spiriti e condividono l’esistenza degli dei e degli immortali è assolutamente unica tra le religioni dell’antichità, come quelle della Mesopotamia, dell’antica Grecia e di Roma ed anche della teologia dell’Antico Testamento. Lo Sheol ebraico, l’Ade greco, l’ Orco Romano, il Paese Senza Ritorno dei babilonesi sono tutti “regni dei morti popolati da morti”. Solo l’Egitto ha prodotto, oltre questo universo di morti, che pure gli è noto*********, una terza sfera dell’esistenza umana: un paradiso che non è altro che il mondo divino. Pure la mitologia greca (e anche quella romana) perverrà all’identificazione di un regione di beatitudine noto come Campi Elisi (denominazione che sembra derivare direttamente dall’ egiziano antico) che ha notevole somiglianza, soprattutto ambientale, con i Campi Ialu (o Iaru), ma resta pur sempre un luogo privo della presenza della divinità. Inoltre, l’accesso non è vincolato ad un giusto comportamento sulla terra, ma può avvenire per un atto di eroismo, ad esempio, o per motivi che possono apparire del tutto estemporanei come nel caso di Menelao, per aver subito il rapimento della moglie da parte di Paride.

La devozione egizia è, invece, profondamente e tenacemente ancorata ad un’ idea di redenzione dalla morte che è del tutto assente nelle altre antiche religioni (fatto salvo qualche esclusivo culto misterico greco e orientale) e che diventerà comune, solo molto più tardi, presso i nuovi monoteismi come Cristianesimo, Giudaismo Rabbinico e Islam.

Ciò che è sorprendente e rimarchevole è la funzione svolta da questa rivoluzionaria idea, viste le ripercussioni che ha avuto sull’esistenza quotidiana dell’egiziano Antico.

Pur essendo il “popolo più pio della terra”, così come fu definito dai greci, gli egizi erano al contempo estremamente pratici e razionali; anche la religione, perciò, doveva assolvere ad un suo scopo “utilitaristico” (mi si passi l’orribile termine). In buona sostanza, il fine era quello di generare ottimismo, una coesione di intenti che fosse perfettamente funzionale al buon andamento dello Stato e, di conseguenza, al benessere dei sudditi. La tanto strombazzata definizione di Erodoto (“L’Egitto è un dono del Nilo”) è vera solo in parte. Le piene fertilizzanti del lungo fiume andavano irreggimentate per massimizzarne l’effetto e questo richiedeva unione delle forze e una perfetta organizzazione delle masse lavorative; un’organizzazione, che sarà una caratteristica imprescindibile in qualsiasi campo di attività (costruzione di tombe, monumenti, ecc.). In quest’ottica, appare evidente che la fiducia nei confronti del sovrano (il garante di Ma’at) e quella nel premio di un’esistenza oltremondana nei paradisiaci Campi di Giunco, costituivano un deterrente decisamente importante. Inoltre, non avendo l’egizio dogmi da seguire, una divinità esclusiva e “gelosa” a cui obbedire e a cui eventualmente offrire la sua stessa vita, né alcuna esortazione al misticismo (anzi l’isolamento era proprio ritenuto contrario a Ma’at), ci si spiega bene come l’antica società faraonica non abbia lasciato tracce di martiri, eremiti, predicatori e via discorrendo (almeno a me non è mai capitato di incontrare personaggi simili nelle mie, seppur non numerose, consultazioni di testi pervenutici). Ma quest’ottimismo non era solo relegato alla sfera oltremondana e cioè all’attesa di un premio nell’aldilà; esso ha generato un atteggiamento nei confronti della vita lontanissimo da certi convincimenti tipici, ad esempio, del Cristianesimo. Per l’egizio, migliorare la propria esistenza, “passare un giorno felice senza stancarsene”, aspirare ad una crescita sociale, godere dei piaceri della vita (compresi quelli legati alla sessualità, vivaddio, dal momento che la mortificazione della carne non era ancora considerata una virtù, ma piuttosto un comportamento contro natura) era del tutto lecito e auspicabile, a patto che tutto ciò avvenisse in maniera onesta e non arrecando nocumento ad altri (ritorniamo sempre al rispetto delle regole di Ma’at). Tutto ciò contrasta in maniera lacerante con l’ insegnamento Evangelico. Esortazioni ed ammonimenti del tipo:

“Beati voi che ora avete fame, perché un giorno sarete saziati”

“Beati voi quando gli uomini vi odieranno, vi metteranno al bando, vi insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato a causa del Figlio dell’uomo”

“Guai a voi ricchi perché avete già la vostra consolazione”

“Guai a voi che ora siete sazi perché un giorno avrete fame”

“Guai a voi che ridete perché sarete afflitti e piangerete”

avrebbero senza dubbio terrorizzato i poveri egizi, cui simili sacrifici non erano affatto richiesti, ma che anzi si auguravano di vivere l’esistenza terrena nel miglior modo possibile.

Tutto ciò, paradossalmente, avveniva in un Stato che più autocratico non si può e per di più teocratico. Ma il tutto, come abbiamo visto, era governato dalle leggi di Ma’at cui ognuno era tenuto al rispetto, dal faraone al più umile dei servi e quindi quanto di più lontano si possa immaginare da certe aberrazioni ancor oggi riscontrabili in Paesi che adottano questa forma di governo.

Per contro, a partire dal momento in cui il Cristianesimo divenne religione di Stato, sappiamo bene quanto potere la sua Chiesa abbia acquisito e quanto questo potere sia stato fatto pesare. Si passò dalle persecuzioni subite (soprattutto per motivi politici, piuttosto che religiosi, ché i romani lasciavano solitamente ampia libertà di culto a patto che non minacciasse le loro Istituzioni), ad un’accanita e feroce lotta al paganesimo e all’acquisizione di un potere temporale ecclesiastico che schiaccia, opprime, oscura e diventa sempre più invadente e capillare. Ben diverso, mi appare, il concetto di “potere” che intendevano gli egizi. Quello faraonico era auspicato, lo apprendiamo dalle Lamentazioni successive al crollo del Antico Regno, quando la frantumazione politica dell’Egitto aveva gettato nel caos (Isefet) il paese per la prima volta, e si deplorava la mancanza di sovrani energici che avessero la forza e il “potere” per riportare Ma’at nella Terra degli Dei. A noi questo termine, provoca più che qualche malessere; per gli egizi era una garanzia di benessere e stabilità.

Concludo questa necessariamente breve disamina (l’argomento trattato avrebbe richiesto ben alto approfondimento), con un passo dell’Asclepius (un’opera che ci è giunta solo in traduzione latina) straordinario in quanto illustra perfettamente la drammatica consapevolezza che il tardo paganesimo egizio ha sia della sua altissima valenza etica, sia della sua fine imminente.

“ o forse non sai, o Asclepio, che l’Egitto è un’immagine del cielo, o – il che è più vero – un trasferimento e una discesa di tutto quel che è governato ed è esercitato nel cielo? E se bisogna dire con più verità il nostro Paese è il tempio del mondo intero.

Eppure, poiché bisogna che il savio tutto preveda, non vi è lecito ignorare questo: tempo verrà in cui apparirà che invano l’Egitto abbia con instancabile religiosità onorato piamente la divinità; e tutta la santa venerazione degli dei cadrà vanificata. Dalla Terra, infatti la divinità si ritirerà nel cielo ed abbandonerà l’Egitto: e quella terra che era stata la sede della religione perderà la sua gloria, vedovata dalla presenza dei numi…

Allora questa terra santissima sede di sacrari e di templi sarà pienissima di sepolcri e di morti. O Egitto, Egitto! Della tua religione solo sopravvivranno le favole ed anche quelle incredibili ai tuoi posteri e, solo, avanzeranno le parole incise sulle pietre che narreranno le tue pie imprese.”

(Testi religiosi egizi a cura di Sergio Donadoni, pag. 412)

********* ricordo che l’estensione dell’immortalità celeste a tutti gli uomini meritevoli, la cosiddetta “democratizzazione dell’aldilà”, si definisce compiutamente a partire dal Medio Regno.

Filosofia

SCONFIGGERE LA MORTE

Riti funerari egizi

Di Livio Secco

Nel corso di quest’anno didattico 2022-2023 ho svolto una conferenza il cui titolo riporto come intestazione del post.
L’argomento, com’è facile immaginare, è vastissimo e, per evitare di essere superficiali, comprende due conferenze delle quali, quest’anno, abbiamo svolto la prima.

Non potendo riportare qui per intero una lezione di due ore, mi permetto di riepilogare alcuni degli aspetti più interessanti.

Sconfiggere la morte

Gli antichi Egizi, amando moltissimo la vita, cercarono di continuarla anche dopo la morte. Per esaudire questa speranza sfruttarono i concetti della religione e della magia che erano fondamentalmente basati sulla morte e rinascita di Osiride uniti al sole, considerato giustamente principio di luce e vita sia in terra che nell’Aldilà.

La religione e la magia scaturirono dall’attenta osservazione della natura e della forza dei suoi fenomeni anche se non sempre queste forze erano visibili ma perfettamente intuibili da parte degli Egizi attenti e ricettivi.

Le culture preistoriche della Valle del Nilo posero le basi per una credenza nella prosecuzione della vita dopo il decesso creando un’eredità che fu sviluppata e modellata da nuove esigenze culturali durante il periodo storico.

I testi guida per il defunto

Per superare i moltissimi pericoli presenti nell’Aldilà si dotava il defunto di un insieme di formule magiche scritte sulle pareti della camera funeraria nell’Antico Regno (Testi delle Piramidi); sui fianchi dei sarcofagi e delle bare nel Medio Regno (Testi dei Sarcofagi) oppure su un rotolo di papiro nel Nuovo Regno (Libro dei Morti).

Tre modalità epigrafiche per i testi sacri: grafia parietale, su sarcofago, su papiro

Uno dei momenti importanti: il funerale

La conferenza, per esemplificare il concetto e la modalità di un funerale, prende come paradigma la tomba TT255, situata a Dra Abu el Naga, del funzionario Roy. Su una parete è raffigurato il suo funerale.

Sconfiggere la morte segue passo passo lo sviluppo del corteo funebre descrivendone i partecipanti identificati traducendo in diretta la didascalie apposte sulle figure.

La scelta è fatta appositamente perché la rappresentazione non è eccessivamente lunga ma è completa delle sue componenti principali.

Esemplificazione di un funerale. Curiosamente la didascalia evidenziata riporta lo stesso verbo scritto in modo errato per tre volte.

Tekenu e muu

La lezione ci mostra che, sebbene le nostre conoscenze egittologiche siano avanzate, non tutto della Civiltà Egizia ci è perfettamente chiaro.

Sconfiggere la morte ci esemplifica questo aspetto presentandoci il TEKENU, un concetto o aspetto funerario decisamente importante ma del quale gli egittologi sanno pochissimo o nulla.

Lo stesso discorso vale anche per i danzatori muu, sebbene in quest’ultimo caso alcune ipotesi avanzate sembrano verosimili.

Due raffigurazioni di tekenu nella tomba TT100 di Rekhmira, visir di Thutmose III e Amenhotep II, XVIII dinastia, Nuovo Regno, Sheik Abd el Gurna.

La mummificazione

La lezione si conclude con un rapido cenno sulla mummificazione. Poiché si tratta di un argomento abbastanza conosciuto, la conferenza analizza alcuni aspetti peculiari.

Fino all’epoca di Thutmose III l’incisione era verticale. In seguito l’incisione seguiva la divergenza del bacino sempre sul lato sinistro in relazione all’Occidente che era il Regno dei Morti. Tutankhamon ha un’incisione contraria senza causalità se non quella di un errore di chi mummificò il corpo del re.

Ad esempio il commercio che si faceva delle mummie nel XIX e nei primi anni del XX secolo destinate ad un mercato occidentale che non solo le musealizzava, ma che le usava anche per scopi ludici e commerciali. Conosciute sono le occasioni per le quali si sbendava una mummia in pubblico sia per sorprendere i propri ospiti che per soddisfare la morbosa curiosità di un pubblico pagante.

Il titolo egizio, dal papiro Edwin Smith, sembra essere ṯȜw n ir n wt [ʧau en ir en wt] “Libro di (ciò) che è relativo al mummificatore”

Conclusa l’esibizione la mummia veniva riciclata per motivi sanitari e rivenduta alle farmacie che ne commercializzavano le parti opportunamente macinate.

La conferenza è diventata uno dei testi appartenenti alla collana dei Quaderni di Egittologia (QdE43), SCONFIGGERE LA MORTE – Riti funerari (prima parte). Per coloro che volessero approfondire l’argomento il testo si trova qui: https://ilmiolibro.kataweb.it/…/sconfiggere-la-morte/

Filosofia

IL CULTO DEGLI ANTENATI NELL’ANTICO EGITTO

Di Raffaele Biancolillo

Sappiamo quanto sia importante il culto dei morti nell’antico Egitto, ma, visto il periodo, mi piacerebbe fare alcune considerazioni in particolare sul culto degli antenati.

Per gli Egizi ricordare i morti ha diversi significati.

Innanzitutto, come intuibile, il primo obiettivo è sottrarre gli esseri all’oblio, e la memoria è senz’altro il modo per mantenere viva la loro esistenza.

Le scene dei banchetti spesso raffigurate nelle tombe egizie vogliono indicare la vicinanza tra vivi e morti in un luogo ideale, probabilmente proprio quello del culto, che riunisce i trapassati ai viventi.

È così, infatti, che si può scongiurare uno dei peggiori pericoli individuati dagli Egizi nella morte: l’ISOLAMENTO.

Ma partiamo, come sempre, dal mito originario della morte. che vede il dio Osiride assassinato, fatto a pezzi e disperso in tutto l’Egitto dal fratello Seth.

Questa morte crea una frammentazione del corpo psicofisico, occorre, pertanto, ripristinare l’unità, riunire i frammenti, ovvero le membra isolate, affinché si possa porre rimedio all’evento fatale.

Il punto decisivo è in questa saldatura che non riguarda solo il corpo fisico, ma anche la sfera spirituale e sociale.

Se Iside, infatti, ritrova le parti di Osiride e lo fa rinascere grazie ai riti funerari, il figlio Horus restituisce al padre il suo ruolo sociale.

Egli vendica Osiride, vittima di un delitto, e, dopo un lunghissimo processo, ottiene il legittimo ruolo di sovrano.

Il culto funerario, allora, che ha origine da questi antefatti, mediante l’amore dei congiunti, ha come funzione primaria quella di restituire l’integrità fisica, sociale e spirituale del defunto, così da farlo rinascere, se pure sotto altra forma.

C’è però un altro aspetto da considerare, rilevante per i vivi.

I riti funerari egizi intendono procurare una trasfigurazione del defunto che, grazie ad essi, e a prove specifiche, diventa un AKH, una creatura divinizzata, un fratello degli dei.

In alcune circostanze, dunque, in modo naturale o indotto, l’orizzonte, immagine cara al popolo del Nilo, che rappresenta il confine tra cielo, terra e mondo sotterraneo, si riduce, e, tramite l’avvicinamento ai defunti, i viventi hanno l’opportunità di affacciarsi a uno spazio condiviso dai propri cari con gli dei.

Sarà per questo che in prossimità della nota ricorrenza legata ai morti è possibile avvertire un singolare fremito, una trepidazione inspiegabile.

Forse accade esattamente quello che i testi del rituale quotidiano enunciano:

“Le due porte del cielo sono aperte,

le due porte della terra sono dischiuse”.

Peccato, allora, che, ai giorni nostri, questa fenditura nell’Aldilà sia un’eccezione legata a festività particolari, quasi una ferita, direi, che rievoca la separazione, mentre nei templi egizi ogni giorno le porte dell’eternità venivano spalancate per aprire il cammino verso gli dei.

Filosofia

LA VITA NELL’ ALDILÀ

A cura di Ivo Prezioso

Papiro di Any, Nuovo Regno, XIX Dinastia ca. 1275 a.C. Provenienza Tebe. Londra, British Museum

Le scene nella parte sinistra di questa sezione accompagnano il Capitolo 110 ed illustrano il mondo in cui Any è entrato dopo aver superato con successo la prova del Giudizio.

Nell’aldilà, il defunto doveva svolgere lavori agricoli nei “Campi Hotep” e nei “Campi dei Giunchi”. Sono schematicamente rappresentate superfici terriere circondate da acqua.

Nel registro superiore Any vi è raffigurato mentre compie offerte a tre divinità dell’Enneade e poi mentre rema con la sua barca attraverso il “Lago delle Offerte”.

Viene anche mostrato in adorazione del Falco Occidentale e dell’Airone dell’Abbondanza. Nella seconda e terza cornice è raffigurato mentre miete, ventila e ara.

Nell’ultimo riquadro in basso, ormeggiata sulla riva è visibile la barca di Wunnefer (un appellativo di Osiride), adorna di teste di serpente.La sezione a destra illustra parte del Capitolo 148 che provvede allo spirito nel Regno dei Morti.

Any è in adorazione del dio sole Ra, raffigurato mummiforme con la testa di falco che sorregge il disco solare.

Nelle versioni più complete del testo, il defunto avanza la sua richiesta di provvigioni forte della conoscenza dei nomi delle sette vacche celesti e del loro toro (visibili nella colonna più a destra).

La parte finale del papiro di Ani (foglio n. 37) ci mostra a sinistra un santuario in cui alberga la divinità mummiforme dalla testa di falco Sokar-Osiride, che in realtà chiarisce il testo dell’incantesimo 185 illustrato nel foglio precedente. Il resto dell’immagine mostra un’offerta fatta alla divinità ippopotamo Opet, che regge i simboli della vita e della fiamma per i defunti. A destra Hathor emerge dalla montagna dell’Ovest nelle paludi della valle. Accanto, una piccola rappresentazione della tomba di Any. Queste figure simboleggiano il ritorno dall’Occidente (la morte) alla vita: lo scopo del papiro e della tomba stessa.

Filosofia, Prof. Damiano

RIFLESSIONI SULLA CULTURA, PARTENDO DALLA PIRAMIDE DI KHUFU

TESTO DEL PROF. MAURIZIO DAMIANO

© testi, piante, disegni e foto: Archivio CRE/Maurizio Damiano.

NUMERI SPAVENTOSI

1. La piramide di Khufu aveva 2.300.000 blocchi

1a) Numeri spaventosi.

Vero: numeri spaventosi. Tuttavia l’informazione va un po’ sfumata e calibrata. Essa non è del tutto recente: proviene infatti dal… generale Bonaparte! Egli faceva infatti parte della massoneria francese come affiliato “geometra”, ed amava i calcoli matematici. Gli ideali della massoneria lo portarono a creare il famoso staff di Savants che portò con sé nell’avventura d’Egitto e da cui poi scaturì infine l’Egittomania e l’Egittologia.

Comunque, mentre il generale attendeva che i giovani ufficiali dal suo stato maggiore tornassero dalla tradizionale scalata alla cima della più grande (Khufu; 137 metri di altezza e 186 di parete) calcolò che il materiale impiegato nelle tre piramidi avrebbe consentito di costruire un muro alto tre metri e largo un piede tutt’intorno alla Francia. Il matematico Monge, che faceva parte degli scienziati della spedizione, confermò l’esattezza del conto. E che per la singola piramide di Khufu siano stati usati (come giustamente diceva Alice) 2.300.000 blocchi di pietra del peso tra le due e mezzo e le quindici tonnellate.

Calcoli esatti, idea sbagliata.

L’asserzione dei “2.300.000 blocchi” della piramide oggi ha poco senso, dal momento che sappiamo che quando era possibile gli Egizi non si sognavano di spianare della buona, solida roccia, per poi edificarvi una piramide: spianavano e livellavano un’area quadrata tutt’intorno e modellavano il nucleo, ma lasciavano più roccia possibile, che avrebbe risparmiato anni di lavoro inutile. Ora, ovviamente non conosciamo l’estensione del nucleo roccioso che fu lasciato intatto (per esempio, si vede bene sul lato sud-ovest della piramide di Khafre, in cui quello allo scoperto è il nucleo, non i blocchi riportati), né lo sapremo finché non si inventeranno mezzi in grado di “vedere” attraverso la pietra senza danni, ma anche di distinguere le forme, perché il nucleo è dello stesso calcare dei blocchi, e quindi non si distinguerebbe comunque; non ne conosciamo dunque l’estensione, ma sappiamo che c’è.

Quindi: 2.300.000 blocchi… se fossero tutti blocchi.

Qui mostro un esempio ancora più eclatante: la piramide di Redjedef (o Djedefra, della 4a dinastia, successore di Khufu) ad Abu Rawash. Questo monumento molto rovinato si trova 8 Km a nord di Giza. La pianta quadrata della piramide misurava circa 104 m. di lato. Il fatto che sia molto rovinata ha fatto pensare che fosse incompiuta, ma di certo si sa (dai diari dei viaggiatori ottocenteschi) che fu ampiamente saccheggiata per la costruzione del villaggio. Fatto sta che il suo stato attuale è un’occasione unica per studiare le fasi di lavorazione delle piramidi: una sorta di meravigliosa “radiografia” del passato.

Ovviamente, tutto ciò non toglie nulla né alla meraviglia né comunque, ai numeri spaventosi, qualunque sia la loro cifra esatta.

I MATERIALI

  • R.B. La cosa che mi fa sorridere è che nessuno di voi, che ne scrivete, sa, di quale piramide stiamo vedendo in foto….????
  • B.M. Cheope direi
  • R.B. Risposta esatta perché è l’unica che conserva sulla sommità la struttura calcarea. Promosse …. ha ha ha

Gentile R.B., a parte lo scherzo del “nessuno sa”, che non può che farci sorridere, torniamo sul serio. “Perché è l’unica che conserva sulla sommità la struttura calcarea”. Evidentemente c’è un po’ di confusione.

Facciamo dunque chiarezza. Innanzi tutto mi par di comprendere che si confonda la piramide di Khufu (nella foto in alto) con quella di Khafre (nelle foto in basso), che è l’unica a conservare il rivestimento calcareo (se per “struttura” si intende erroneamente tale rivestimento). Tuttavia, anche così la risposta sarebbe errata, poiché … tutte le strutture sono calcaree: più precisamente, le piramidi di Giza erano costruite sull’altipiano calcareo; nella fattispecie, gli strati ovviamente cambiano a seconda della zona e profondità, ma sono in gran parte di calcare nummulitico; le piramidi dunque consistono in varie parti (o piuttosto “strati”):

  1. Un nucleo roccioso in situ di cui veniva lasciata la maggior parte possibile (calcare; calcare nummulitico).
  2. La maggior parte della costruzione, in grandi blocchi di calcare locale (quello che si vede, anche nella foto aerea), che ricoprivano il nucleo roccioso. Sono note le cave di tutte e tre le piramidi, e visibili.
  3. Il rivestimento esterno, sempre in calcare, ma questa volta il calcare di Tura, molto fine, cristallino, compatto. Totalmente svanito nella piramide di Khufu, salvo alcuni corsi inferiori sepolti nel tempo dall’accumulo di materiali che ne hanno permesso la conservazione sino ai nostri giorni, quando gli scavi e la pulizia dell’area sino al suolo roccioso li hanno riportati alla luce.
  4. Nel caso della piramide di Khafre nel rivestimento c’erano un paio di corsi, i più bassi, in granito rosso di Assuan (il resto sempre calcare di Tura); e in quella di Menkaure circa due terzi in granito e il resto calcare di Tura (parliamo sempre dei rivestimenti).

gli uomini, i mezzi, la mentalità

A. J.: Immenso !! Ditemi se è possibile che sia stata costruita da esseri umani ??

G. S.: Splendida la foto, degna di un’opera straordinaria! Come avranno fatto con i mezzi dell’epoca, resta un mistero!

Lo ripeto da anni ai miei allievi di Egittologia: attenti alla proiezione! Ovviamente, nulla di grave. Si tratta del più comune fenomeno umano: poiché ognuno di noi è per forza al centro del proprio universo (unico punto d’osservazione fisico possibile) ci si trova anche mentalmente e culturalmente nella stessa posizione. Ma, se fisicamente non possiamo fare nulla, mentalmente, se vogliamo comprendere la storia, dobbiamo abbandonare la nostra visione e comprendere davvero che esistono e sono sempre esistite società diverse dalla nostra in tutti i sensi, e quindi ciò che a noi sembra incredibile o impossibile non lo era per altri.

Immagine 21: le piramidi viste da sudovest, dopo il tramonto, con la luce del sole che riesce ancora a illuminarne la cima (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Nel caso in oggetto, si, ovviamente erano costruite da esseri umani normali. E i mezzi dell’epoca erano superiori ai nostri. Alt! Lo so, pensate subito alla tecnologia. No, anche se ci piace pensarlo, la tecnologia non è l’apice dell’umanità bensì… di sé stessa, della tecnologia, che non va confusa né con “civiltà”, né con “umanità”. È solo una sua ottima espressione che però ha reso l’umanità più pigra mentalmente. Intendo dire che, se una volta ci si ingegnava a creare grandezza con i propri mezzi umani, oggi appare inconcepibile, impossibile.

Immagine 2: cave di arenaria nubiana a Gebel Silsila (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Vediamo cosa avevano come “mezzi superiori”, che a noi mancano:

  1. Una società etica. L’Ego ipertrofico era scoraggiato a favore della visione sociale. I Cinesi dicevano: “un bambù si può spezzare, un fascio di bambù, no”. Questo era un pensiero banale anche per i bambini, in Egitto. Lavorare per la comunità era avanzare, avere e mantenere una società ricca e forte, la Maat.
  2. Ciò portava alla società faraonica, che aveva la struttura dell’alveare o del formicaio. “Dovere”, lungi dall’essere una parolaccia in odor di fascismo o dittatura qualsiasi, come da noi, era il normale agire e vivere per mantenere la macchina sociale. Dovere, lavoro comune (le corvée), solidarietà erano la norma. E attenzione! Non pensiamo (da occidentali) che la struttura ad alveare avesse dei privilegiati scansafatiche. “Società etica” vuol dire che il faraone ha più doveri che privilegi. Potere assoluto, ma vita durissima sin da principe. E, in combattimento, è sempre in prima linea, non come gli odierni generali. L’etica vissuta sulla pelle.
  3. Su queste basi, la corvée era una parte della tassazione. Si prestava la propria opera non solo per le piramidi, ma per tutti i lavori statali (sociali), tipo pulire i canali (andava fatto ogni anno: l’Egitto si basa su una magnifica rete idraulica di canali e dighe), gli edifici pubblici, quelli statali/religiosi, fra cui templi e tombe reali come le piramidi. Ricordiamo che le piramidi (o meglio l’intero complesso funerario, che comprende tempio in Valle, rampa monumentale, tempi funerario, muro di cinta piramidi satelliti e piramide) lungi dall’essere monumenti alla megalomania di un uomo, erano delle complesse “macchine” di magia religiosa, che divinizzavano il faraone in morte perché, fra gli dèi, continuasse a svolgere il suo compito: mantenere la Maat e assicurare la creazione tutti i giorni, per l’umanità. Lo spirito dei lavoratori era quello dei costruttori di cattedrali nel medioevo.
  4. Altra cosa che loro avevano, e a noi manca: la visione del futuro, ossia la programmazione a lungo termine. La cosa è dovuta alla psicologia sociale; come ho detto, gli Egizi avevano una società etica; noi no. Ciò, nella psicologia di massa, si traduce (generalizzando e semplificando, ovvio) in società a sub personalità ossessiva (la più sana ed efficiente, con ego personale in secondo piano a favore della mentalità sociale); una tale società vede oltre le azioni del momento, e cerca di prevedere le conseguenze della azioni, e le conseguenze delle conseguenze; gli Egizi pianificavano anche su 20 anni, per esempio, per la costruzione di una grande piramide. Non esistendo la moneta, gli operai andavano pagati in derrate alimentari, vestiti, sandali, ecc.; ciò voleva dire prevedere enormi estensioni da coltivare per anni ed anni, con tutta la filiera connessa. Gli italiani hanno una sub personalità di tipo isterico: come i bambini, mancanza di visione del futuro (tutto e subito), di previsione delle conseguenze, di pianificazione, ecc.; è il riflesso della cultura egoica, in cui il singolo conta più della collettività; culto dell’Ego, Ego-centrismo, Ego-ismo. Società non etica.
  5. Quanto detto sopra porta all’ovvia presenza, in Egitto, di ciò che oggi manca totalmente in società a sub personalità isterica: la capacità organizzativa. Essa implica innanzi tutto etica e senso del dovere (che sono interconnessi). Gli Egizi, pianificando su scale di decenni o più, sapevano proiettare la visione organizzativa. La struttura era semplice e basata su ciò che essi sapevano funzionare. Per esempio, vedendo che il coordinamento e l’affiatamento delle navi funzionava in situazioni diverse, lo applicarono anche al lavoro; così, le squadre che scavavano o rifinivano una tomba reale erano di “babordo” e “tribordo”, con i “capitani”. Ciò permetteva di avere cantieri con migliaia di persone, cosa impensabile nella maggioranza delle situazioni occidentali odierne.
  6. Infine, ma di importanza basilare, i mezzi che loro avevano e che a noi mancano sono sabbia, limo, tempo e personale. Su questi elementi si basavano le costruzioni. I blocchi cavati venivano trascinate su slitte, le quali scivolavano, trainate, su rulli che a loro volta ruotavano su vie di fango finissimo (limo del Nilo), permettendo alle slitte di scivolarvi sopra. Ciò richiedeva molti uomini, fatica, tempo e ottimo coordinamento.

I MORTI E I FERITI

F.P.Z.: Incredibile! Ma quanti morti ha fatto una costruzione simile

Non più di un cantiere medioevale. Gli Egizi avevano un altissimo concetto della vita umana; e non parlo di ipotesi o idee preconcette, ma delle parole degli stessi Egizi in testi quali i racconti del papiro Westcar. Ricordiamo che, in un mondo antico in cui la schiavitù era normale ovunque, gli Egizi non ebbero mai schiavi. Esistevano servi (ma con qualcosa che noi oggi chiameremmo “diritti umani”), esistevano prigionieri (di guerra o criminali), ma non schiavi. Esisteva la pena di morte, ma solo in casi gravissimi di infrazioni a quelle leggi che erano dello Stato ma soprattutto degli dèi, leggi che infrangevano le regole della Maat in forma gravissima, rappresentando una minaccia all’ordine cosmico. Tutto questo perché (sempre secondo i testi) l’umanità era il “gregge del Signore”, e il custode ne era il faraone.

Immagine 27: la piramide di Khufu vista dal villaggio verso il Cairo (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Per questa ragione nei cantieri si mettevano in atto le misure più opportune (nei limiti dell’epoca) per la sicurezza dei lavoratori. Ovviamente gli incidenti c’erano e dunque morti e feriti, ma non più di altri cantieri del nostro mondo sino all’epoca moderna.

Nel villaggio dei costruttori delle piramidi a Giza, che ha anche la sua necropoli (privilegio speciale concesso dal faraone) sono stati trovati scheletri con segni di fratture da incidenti quali traumi e schiacciamenti, con i segni della guarigione, ciò che ci informa della cura che si aveva degli operai. A corollario, ricordiamo gli Insegnamenti (per il re, per il faraone, per il visir) che sottolineano sempre la cura che bisogna avere per tutti, sino ai più umili.

Società etica.

Immagine 28: il villaggio dei costruttori delle piramidi di Giza. Rinvenuto da Lehner e Hawass negli anni ‘90, ha messo la parola fine alle illazioni sui costruttori delle piramidi; il villaggio ha infatti restituito le abitazioni, gli oggetti, i nomi, le tombe e persino i corpi dei costruttori; chi davvero vuol conoscere la verità ha avuto risposta alle proprie domande. Chi invece preferisce sognare nel mistero ignorando dati di fatto, continui a sognare. Ma qui, in questo luogo incredibile, gli Egizi stessi ci parlano di quel popolo incredibile, in cui costruzioni inimmaginabili per le nostre piccole menti miopi sono state erette da genio, pazienza, sudore, e una fede immensa in sé stessi e negli dèi (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

LA FINE DI UNA CULTURA

A.M.: Mi domando : quel popolo che fine ha fatto?

Quella di tutti i popoli, di tutte le cose, comprese le stelle. Si ha una nascita, una vita, una fine. Gli Egizi hanno superato tutti gli standard, tutti i “record” di durata. In un’avventura umana e culturale iniziata in realtà nella preistoria, e che all’alba della storia appare già pronta agli ulteriori sviluppi nelle sue linee principali, un’avventura durata almeno 5000 anni (che non ha paralleli sul pianeta Terra), alla fine, come tutte le cose, compì la sua parabola. Nello specifico, la cultura egizia sopravvisse sotto i Tolomei, sotto i Romani (ricordiamo che queste due culture, all’opposto di quella egizia, ne furono però affascinate che in Egitto ne proseguirono il cammino: i più completi templi egizi pervenutici sono di epoca ellenistico-romana).

La cultura venne spazzata via con la violenza dalla politica religiosa autocratica monoteista. Il primo fu l’Editto di Tessalonica, del 380; Graziano, Teodosio I e Valentiniano II imposero il monoteismo. In Egitto in particolare verso il 384 Teodosio inviò Materno Cinegio, un prefetto cristiano, incaricato di cancellare il paganesimo; il prefetto si distinse per il suo fanatismo violento, pienamente appoggiato da Teodosio. L’unica eccezione furono i templi dell’isola di File, lasciati aperti per la rivolta dei fedeli nubiani. Ma alla fine, anche questi templi, ultima frontiera del paganesimo in Egitto, furono chiusi quando Giustiniano inviò le sue truppe, nel 531 d.C., che con le armi imposero la chiusura dei templi pagani e li trasformarono in chiese cristiane.

La violenza monoteistica aveva vinto, spazzando via l’ultima traccia della grande cultura egizia. Nel VII secolo ci fu l’invasione islamica.

Gli Egiziani di oggi sono per la maggioranza musulmani, con una minoranza cristiana (i Copti e gli Ortodossi).

Filosofia, Prof. Damiano

REN, IL NOME

TESTO DEL PROF. MAURIZIO DAMIANO

© testi, piante, disegni e foto: Archivio CRE/Maurizio Damiano.

INTRODUZIONE

Ren. Una parola che nell’antica lingua del popolo dei faraoni indica il nome proprio della persona; il potere magico della parola, che per gli Egizi era di per sé immenso, è nel caso del nome ancora più duraturo, poiché conservato spesso su supporti “eterni”, ossia sulla pietra di tombe, stele o, nel caso di dei e faraoni, sulla pietra dei templi. Un nome conteneva tutto l’essere del suo proprietario. Tanto le persone quanto gli oggetti in realtà esistevano solo dal momento in cui portavano un nome, di conseguenza il nome fu più che un normale mezzo di identificazione, poiché significava la manifestazione di un’entità la realizzazione di una qualità, da cui il fatto che si dicesse di Osiris: “Egli purifica le terre nel suo nome di Sokar; la paura di lui è grande nel suo nome di Osiris, egli esiste sino alla fine dell’eternità nel suo nome di Wennefer”.

Immagine 1: le grafie di “ren” (© lezioni Maurizio Damiano)

Immagine 2: i significati e varianti di “ren” (© lezioni Maurizio Damiano)

Immagine 3: il dio Osiris nel suo naos (tempio di Sethy I, Abydos, sala di Osiris) (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Si noti che le credenze egizie erano fortissime in quegli Egizi divenuti cristiani: per il valore magico-religioso della parola, e dell’immagine, i monaci che occuparono il tempio scalpellarono i volti, per togliere l’identità dell’oltretomba; le mani, per togliere potere, e i piedi, perché non uscissero dall’immagine venendo nel mondo dei viventi.

Immagine 4: il dio Sokar (tempio di Sethy I, Abydos, sala di Ptah-Sokar-Osiris) (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

IL REN NEI TESTI

Nel Libro dei Morti, cap. 142, Osiris ha un centinaio di nomi, che nel suo caso, come per altre divinità, sono simbolo della profondità della natura divina; del resto tutti quei nomi nascondevano il solo e unico “vero nome” del dio, che l’essere umano non può pronunciare né conoscere, così vengono creati pseudonimi come, per esempio, “colui che è sotto il suo albero di moringa”.

Nei Testi delle Piramidi (n. 276 e 394) è menzionato un dio “il cui nome è sconosciuto” e un’altra divinità il cui nome “non era noto nemmeno a sua madre”.

Il tema stesso della Litania Solare tratta della rigenerazione del sole, con le sue 75 trasformazioni, e quindi 75 nomi, che permetteranno al sole (e dunque al defunto che vi si identifica) di conseguire nell’aldilà la natura solare.

D’altronde, anche in testi funerari come il Libro dei Morti o il Libro delle Porte la sola persona che poteva maledire o anche distruggere i poteri demoniaci era chi ne conosceva i nomi, che erano il fondamento su cui si basavano questi libri, sorta di guide per il percorso oltremondano. Infatti gli spiriti dell’oltretomba si supponeva si potessero neutralizzare con le parole: “Io ti conosco e conosco il tuo nome”.

Immagine 5: Libro dei Morti, capitolo 125 (© lezioni Maurizio Damiano)

Immagine 6: Libro dei Morti, capitolo 143 (© lezioni Maurizio Damiano)

Immagine 7: Testi delle Piramidi (© lezioni Maurizio Damiano)

Immagine 8: Litania Solare, o Litania di Ra (© lezioni Maurizio Damiano)

Immagine 9: Libro delle Porte (© lezioni Maurizio Damiano)

Immagine 10: Libro dei Morti, capitolo 144 (© lezioni Maurizio Damiano)

IL POTERE DEL REN

La vita di una persona era sostenuta dal potere segreto del suo nome.

Un proverbio egizio dice: “Il nome di chiunque sia completo, allora egli vive”; per questa ragione i nomi di re e dignitari erano ripetuti sui monumenti e in iscrizioni per assicurare dopo la morte la sopravvivenza degli interessati.

E, a corollario, la peggior punizione era quella di obliterare il nome sia per esecrazione sia per altri motivi, scalpellandolo via dai monumenti. È il caso, per esempio, di Hatshepsut: per ragioni molto varie (dalle sue visioni teologiche troppo avanzate per i suoi tempi, a visioni di sequenza dinastica, ecc.), alla fine del regno di Tuthmosis III i suoi nomi vennero cancellati; ma ciò fu spesso fatto con un tale rispetto, una tale attenzione, e i geroglifici furono scalpellati così bene da lasciarne intatta e riconoscibile la forma, al punto che il nome si legge perfettamente; ergo, l’intenzione non era quella di cancellarne la memoria o maledirla, bensì di annullare la magia religiosa nella dimensione della sola regalità divina.

Altro caso è quello di Akhenaton, il cui nome è stato cancellato ovunque nell’intento sia di cancellarne la memoria, che di privarlo della sopravvivenza nell’aldilà.

Immagine 11: i defunti, sempre accompagnati dal proprio nome; tombe tebane di Menna (TT69, a sinistra) e di Sennefer (TT 96) (© Archivio CRE/Maurizio Damiano)

Immagine 12: l’immagine e il nome di Hatshepsut scalpellati; Karnak, “Palazzo della Maat” (© Archivio CRE/Maurizio Damiano)

Immagine 13: il nome di Hatshepsut scalpellato; si noti la cura della scalpellatura, che permette perfettamente di leggere il prenome: “Maat-ka-Ra”; Karnak, “Palazzo della Maat” (© Archivio CRE/Maurizio Damiano)

Immagine 14: contrariamente a quanto si pensa, sono errate le vecchie ipotesi romanzesche degli anni 50 (che spesso si trascinano ancora oggi nell’immaginario non specialistico) con la falsa immagine di “usurpazione”, di lotte fra Tuthmosis III e Hatshepsut; al contrario, lo studio dei monumenti ha rivelato che la cancellazione del nome di Hatshepsut da parte di Tuthmosis III iniziò in effetti 20 anni dopo l’inizio del regno indipendente di quest’ultimo, ciò che mal si accorda con la furia iconoclasta dettata dalla vendetta; più realisticamente, nell’anno 22 (quando Tuthmosis III iniziò a regnare da solo) la regina aveva minimo 50 anni (forse di più) e Tuthmosis era nel pieno degli anni; la regina deve avergli confidato i pieni poteri rimanendo nell’ombra. Solo dopo la sua morte il nipote dovette cancellarne il nome dai monumenti, più per rispettare la tradizione, che vede un maschio al potere con una regina accanto, o una femmina al potere con un “principe consorte” accanto (che non ci fu) che per una supposta vendetta. Nella foto vediamo in effetti che la regina (a sinistra) associò sempre, nelle immagini, Tuthmosis III (a destra); e possiamo anche notare che tanto le figure quanto il nome di Hatshepsut non sono stati toccati; dalla Cappella Rossa di Hatshepsut a Karnak, che fu smontata e i blocchi (che erano sacri) reimpiegati quando l’area centrale fu ristrutturata da Tuthmosis III (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Immagine 15: le figure e i cartigli di Akhenaton e Nefertiti scalpellati nella loro totalità, in modo da renderne illeggibili i nomi, mentre il cartiglio con il nome “Amenhotep” fu lasciato intatto; tomba di Ramose (TT69) (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

IL KA

Altri indizi sulla complessità delle sfumature e diramazioni del pensiero sul nome, ren, ci vengono da casi come quello del “ka” regale.

Il ka, semplicisticamente descritto come “doppio spirituale”, era in realtà un concetto molto più complesso; semplificando comunque, diciamo che in questo caso era l’essenza divina, la scintilla che sfugge alla dimensione della natura terrestre poiché proviene dalla dimensione oltremondana, è la “scintilla divina” donata all’uomo dagli dèi. Il Ka regale è ancora più specifico: è l’anima divina cosmica ed eterna dei faraoni; non dei singoli, ma di tutti: una sorta di legame divino che unisce le anime dei faraoni passati, presenti e futuri.

Così vediamo che, quando un faraone ignoto (ma forse Horemheb) fece scalpellare nella tomba di Ay i nomi del faraone, quelli che si trovano connessi al Ka regale sono intatti; questo perché scalpellarli avrebbe voluto dire danneggiare l’essenza dei sovrani passati, presenti (dunque anche di colui che aveva comandato la cancellazione) e futuri.

Immagine 16: Libro dei Morti, capitolo 105: “Formula per rendere favorevole a N. il suo ka nel regno dei morti” (Louvre). (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Immagine 17: statua del ka reale di Auibra Hor, 12° re della 13a dinastia; Museo del Cairo (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Immagine 18: il ka reale a Luxor, nella theogamia di Amenhotep III (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Immagine 19: il ka reale di Ramses III a Medinet Habu (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Immagine 20: i cartigli di Ay cancellati, come le figure reali (frecce blu) e le figure e il nome del ka reale lasciati intatti (frecce rosse); tomba della Valle Occidentale WV23, di Ay (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

IL VERO NOME DI RA

Nel caso dei privati ricordiamo gli individui che si erano macchiati di crimini: gli atti dei processi contengono il nome del colpevole in una forma storpiata (del tipo “Ra lo ama” trasformato in “Ra lo odia”).

Uno dei migliori esempi dell’importanza del nome possiamo trovarlo nel mito di Ra divenuto vecchio e della dea Isis, che ci viene raccontato da un papiro conservato al Museo Egizio di Torino (n. 1993).In breve, vi si narra del dio sole, Ra, ormai divenuto vecchio, e della grande maga degli dèi, Isis; quest’ultima, ancora una maga umana, voleva ottenere il potere magico donato dalla conoscenza del nome misterioso di Ra, che le avrebbe consentito di divenire una dea. Per far ciò escogitò un sistema basato sulla magia che si serviva di figurine (spesso di argilla o cera) e del fluido del corpo dello stesso Ra: questi, infatti, ormai vecchissimo, si trascinava e sbavava. Così la maga Isis plasmò un serpente con del fango intriso della saliva del dio; Isis usò quindi il rettile perché mordesse Ra che, impazzendo dal dolore, non sapeva cosa fare; Isis si presentò dicendo che poteva liberarlo dalla sofferenza, ma che per farlo era indispensabile conoscere il vero nome di Ra. Il dio cerca di evitarlo con vari mezzi, ma alla fine sarà costretto a rivelarglielo, in gran segreto. Così Isis divenne dea fra gli dèi e la loro Grande di Magia; nel papiro, questo mito è in realtà utilizzato proprio per scopi magico-religiosi: scritto sopra un papiro, messo in una soluzione e poi bevuto, lo scritto ha il potere di neutralizzare il veleno di serpente.

Immagine 21: papiro giudiziario della congiura contro Ramses III (Museo di Torino) (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Immagine 22: a sinistra, Hathor dell’Occidente e Ra-Harakhty, dalla QV 66, Tomba di Nefertary. A destra, Isis, dal tempio di Sethy I ad Abydos (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

LE STATUE GUARITRICI

Lo stesso concetto valeva con le statue guaritrici: coperte di formule magiche guaritrici, vi si versava l’acqua che si raccoglieva nel bacino, e che, ormai ricca della magia, una volta bevuta doveva dare la guarigione.

Ancora oggi nella Nubia Sudanese e nelle campagne d’Egitto si fa la stessa cosa con testi coranici: i versetti vengono scritti con inchiostro solubile in acqua, si versa quest’ultima e si beve il tutto.

Immagine 23: statua guaritrice, coperta di formule magiche su cui doveva scorrere l’acqua che, raccolta in un bacino, andava bevuta. Museo del Cairo (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Dobbiamo pensare che queste pratiche religiose (o magico-religiose, se vogliamo; ma la differenza è solo nostra) venivano e vengono associate sempre e solo ai veri rimedi. Quindi il rimedio efficace sembra passare in secondo piano (ma il bassir nubiano o il medico sacerdote egizio sanno benissimo la verità) e il “merito” va a Dio/Dèi, e, di riflesso, all’uomo così saggio che conosce questi santi rimedi. In realtà il medicamento c’era e c’è, e la formula da bere è certo un placebo, ma ancor più la pace dell’anima, la fiducia che gli dèi ti stanno guarendo. 

IL SIGNIFICATO ESOTERICO

Tornando specificamente al nome, ren, affrontiamo adesso uno degli aspetti più affascinanti dell’antico Egitto: quello esoterico, che nella magia religiosa e creatrice del linguaggio lascia fluire i concetti e le forze cosmiche.

Attenzione! Non parliamo di concetti modernamente esoterici (nei sensi dati dal Medioevo alle odierne correnti New Age), bensì dell’esoterismo egizio, come appare dai loro testi.

Sappiamo che tutti i concetti del simbolismo esoterico egizio sono basati sulle funzioni della Natura; l’occhio e la bocca sono entrambi in rapporto con i due astri celesti, sole e luna: i due occhi sono il loro simbolo. Ora, il nome dell’occhio è “ir.t”, connesso anche a “fare”, “creare” (iri). Proseguendo secondo il filo logico dei simbolisti/teologi/esoteristi egizi, il nome del creatore, Ra, si scrive con la bocca “r”; così la connessione fra astro celeste e bocca passa pienamente al simbolismo scrittorio. Il cielo (pet) fu il modello dei simbolisti e Ra ne era il signore.

E la logica creativa degli scribi/sacerdoti egizi prosegue: il Verbo di Ra si manifesta tramite l’ombra, ossia: ogni cosa è ombra di Ra, che aumenta o diminuisce, monta o discende, “diviene” o “ritorna”; il geroglifico “r” è il simbolo di questa realtà, poiché dall’incrociarsi di due cerci l’ombra (la sovrapposizione) dà la bocca ro, la lettera “r”.

Immagine 24: i dischi e la “lente” delle eclissi e dei cicli lunari: da “r” ai numeri, alle frazioni, nuovamente a “r” e “ren”. Nel disco parzialmente occultato, la “lente” (o “bocca nera”) è la parte complementare della falce visibile. Questa deformazione graduale dà delle frazioni di grandezza differente che rappresentano le parti del disco occultato. Questo carattere di frazionamento ha dato il nome di “ra” a una parte del tutto (frazioni numeriche, capitoli, ecc.). Allo stesso modo l’aumento della “lente” per diminuzione della falce giustifica la scelta della stessa lettera “r” per esprimere l’aumento: “più che”= “r” (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

La lettera “r” è dunque di natura solare; vi si connettono le idee di attività, di movimento circolare, di rivoluzione (degli astri e degli esseri) in orbita ciclica.

Facciamo un altro “salto quantico mentale”, per analogia col pensiero moderno: quanto detto sulla “r” è in rapporto con il segno “shen”: il geroglifico di shen è una corda piegata a divenire doppia e poi arrotolata su sé stessa a dare un cerchio con le estremità che fuoriescono; un cerchio perfetto che ingloba spazio e tempo.

Immagine 25: shen: come la corda senza fine, ad anello diviene doppia corda e infine shen (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Tutto ciò per gli egizi era solo l’inizio perché adesso, dopo quanto visto sopra, sostituiamo a “shen” la “s” con la “r”: la parola “shen” si trasforma in “ren”, il nome; e quando il segno shen si allunga per contenere il nome del sovrano, “ren”, diviene il cartiglio regale. Così il nome regale diviene ed è il simbolo di un ciclo, un circolo chiuso sulla corda infinita dell’anima e questo circolo delimita un’esistenza sotto questo nome ren che è il suo destino attuale ed eterno; ma è molto di più, è il sovrano divino il cui nome ingloba spazio e tempo.

Immagine 26: da shen a ren (© Archivio CRE/Maurizio Damiano)

Concludiamo la carrellata sul nome e sul nome del faraone ricordando che il serekh, che contiene il primo nome del faraone, rappresenta nella parte inferiore del rettangolo la facciata “anche” del Palazzo reale, vista in prospetto, mentre lo spazio posteriore, in cui era iscritto il nome, ne era la veduta in pianta. Quindi, nella magia religiosa dei geroglifici e della figurazione egizia, il nome (“ren”), che era l’essenza del faraone, era realmente protetto dalle mura del Palazzo.

Immagine 27: i 5 nomi del re, dal serekh ai cartigli (shen divenuto ren) (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Filosofia, Testi

IL PICCOLO INNO AD ATON

A cura di Nico Pollone

E’ detto piccolo inno per non confonderlo con il “Grande inno” ben più famoso e conosciuto.

Questo testo è rappresentato in 8 esemplari praticamente simili ma non identici tutti provenienti dalle tombe di Amarna. Piccole varianti li caratterizzano.

Ne propongo qui uno in solo testo, proveniente dalla tomba di Mahu TA9. Il mio intento è prendere in esame tutti i testi, confrontarli e evidenziare le differenze, con trascrizione geroglifica, traduzione e traslitterazione, nonché qualche informazione sul contesto di provenienza. Naturalmente è un lavoro lungo e dai tempi non quantificabili.

Il testo:

Adorazione: viva Ra-HarAkhty-che-esulta-nell’-orizzonte in-suo-nome-di-Shu-che-è-in-Aton Viva per sempre e per l’eternità , da parte del re, che vive nella verità, signore delle due terre Nefer Kheperura Waenre, figlio di Ra che vive nella verità, signore delle corone, ( Akhenaton) , grande nella (durata della) sua vita (affinché) possa dare per sempre vita eterna. Il tuo sorgere è bello (oh) Aton vivente signore dell’eternità. Tu sei brillante, bello/perfetto e forte. Il tuo amore è grande e immensa è la luce che tu irradi che accarezza ? ciascuno (ogni persona). La tua carnagione risplende, fa vivere i cuori e fa in modo che le due terre siano colme del tuo amore. Dio augusto che si è formato da solo (lett. – da lui stesso), che ha fatto ogni terra, e creato ciò che è sopra di lei: come l’umanità, tutte le mandrie e le greggi e tutti gli alberi che crescono sulla terra. Essi vivono quando tu sorgi su di loro. Sei tu madre e padre di tutto quello che hai creato (per) i loro occhi e per il Ka del capo delle guardie Medjay di Akhenaton Mahu, che possa vivere nuovamente (Risorgere?)

Foto di Andrea Vitussi che ringrazio, e disegno di N.G. Davies.

Filosofia

CANTO DELL’ARPISTA NELLA TOMBA DI ANTEF

A cura di Luisa Bovitutti

Sulla stessa linea del “Dialogo di un disperato con il suo ba” si pone questo componimento del Primo Periodo Intermedio (~2200-2000 a.C.), il cui testo si trova nella sua forma più completa nel papiro Harris 500, nel quale lo scriba lo segnala come la trascrizione di un testo inciso sulla parete della tomba del re Antef (si pensa Antef I dell’XI dinastia), accanto alla figura di un arpista.

Esso ebbe notevole diffusione con la XVIII dinastia (alcuni studiosi ritengono che sia stato scritto in quel periodo e retrodatato per conferirgli una maggiore autorevolezza) e compare, notevolmente frammentato, anche nella tomba di Pa-Atum-em-heb a Saqqara, ora al Museo di Leida, ed in quella di Neferthotep a Tebe, entrambe risalenti all’epoca amarniana, e poi in altri testi il più recente del quali risale alla XX Dinastia.

Tema centrale sono la caducità che accomuna umili e potenti e l’incertezza dell’Aldilà; gli stessi dei sono impotenti di fronte alla morte e le lamentazioni e i riti funerari non giovano al defunto: nessuno è mai tornato dall’aldilà per raccontare, per cui è inutile continuare a illudersi che esista una sopravvivenza ultraterrena.

Cullarsi nella prospettiva di una improbabile felicità dopo la morte è fallace e rischia di farci perdere di vista il presente; l’unica cosa che l’uomo possa fare per trovare conforto in questa triste situazione è godere appieno la vita e cogliere le occasioni di gioia che essa gli offre

.https://www.ereticamente.net/…/legitto-e-il-destino…

Tratto da Letteratura e Poesia dell’Antico Egitto, traduzione di Edda Bresciani.

Periscono le generazioni e passano, altre stanno al loro posto, dal tempo degli antenati: i re che esistettero un tempo riposano nelle loro piramidi, sono seppelliti nelle loro tombe i nobili e i glorificati egualmente.

Quelli che han costruito edifici, di cui le sedi più non esistono, cosa è avvenuto di loro? Ho udito le parole di Imhotep e di Hergedef, che moltissimi sono citati nei loro detti: che sono divenute le loro sedi? I muri son caduti, le loro sedi non ci sono più, come se mai fossero esistite.

Nessuno viene di là, che ci dica la loro condizione, che riferisca i loro bisogni, che tranquillizzi il nostro cuore, finché giungiamo anche noi a quel luogo dove essi sono andati.

Rallegra il tuo cuore: ti è salutare l’oblio.

Segui il tuo cuore fintanto che vivi!

Metti mirra sul tuo capo, vestiti di lino fine, profumato di vere meraviglie che fan parte dell’offerta divina.

Aumenta la tua felicità, che non languisca il tuo cuore.

Segui il tuo cuore e la tua felicità, compi il tuo destino sulla terra.

Non affannare il tuo cuore, finché venga per te il giorno della lamentazione funebre. Ma non ode la loro lamentazione colui che è morto: i loro pianti non salvano nessuno dalla tomba.

Pensaci, passa un giorno felice e non te ne stancare.

Vedi, non c’è chi porta con sé i propri beni, vedi, non torna chi se n’è andato.

Nelle immagini, raffigurazioni di arpisti: a sinistra in alto dalla tomba di Nakht a Tebe ovest (TT52); a sinistra in basso: stele di Djied Khonsu Iouefankh – Terzo periodo intermedio – al Louvre;; a destra dalla tomba di Inerkhau (TT359)

Filosofia

“IB” – IL CUORE

A cura di Ivo Prezioso

Per gli antichi egizi il cuore era la sede del pensiero e della forza vitale. Si usavano due termini per designarlo: “ib” che lo connota come sede dei sentimenti e della coscienza e “haty”, che era utilizzato prevalentemente nei testi di medicina. Considerato come essenza stessa della persona, era l’unico organo a non essere rimosso nel processo di mummificazione. Apro qui una breve parentesi per una mia considerazione su come quella antica concezione condizioni ancor oggi la nostra quotidianità. Oggi sappiamo che, in realtà, tutto ciò che riguarda il pensiero, le emozioni, i sentimenti, la coscienza ecc. origina dall’attività cerebrale. Eppure, quell’antichissima idea riverbera ancora. Se, ad esempio intendiamo sottolineare la bontà di una persona diremo “è buono di cuore” viceversa, per rimarcarne la malvagità, diremo “ha un cuore di pietra”. La stessa parola “ricordo” ci giunge attraverso il latino (il prefisso “re” seguito da cor, cordis) che significa letteralmente riportare, richiamare, al cuore.

Nelle raffigurazioni del “Libro dei morti” (o meglio “r3w nw prt m hrw”, – approssimativamente, rou nu peret em heru – Capitoli per uscire al/nel giorno), durante la “psicostasia” (dal greco psykhè, anima e stasis, pesatura), il giudizio del defunto di fronte al tribunale di Osiride, il cuore veniva posto sul piatto di una bilancia, mentre sull’altro era posta una piuma simbolo di Maat: se il cuore risultava più pesante, veniva divorato da Ammut. Per assicurarsi che il cuore non testimoniasse contro il defunto, si poneva tra le bende di mummificazione, all’altezza del petto, uno scarabeo (detto appunto “scarabeo del cuore”, il cui lato inferiore riportava il capitolo 30 del Libro dei morti.

Fonte: Grande Enciclopedia illustrata dell’Antico Egitto, a cura di Edda Bresciani.

Il simbolo geroglifico “ib

Ideogramma in “ib” (cuore), determinativo nel sinonimo “h3ty”. A prima vista, questo simbolo, sembrerebbe evocare un vaso con collo ed anse. In realtà è la riproduzione piuttosto fedele del cuore di un ovino, visto in sezione, come si può riconoscere dagli esempi più arcaici, in cui “collo” ed “anse” corrispondono all’innesto dei vasi arteriosi e venosi. Talvolta la parte superiore è rappresentata di colore più chiaro rispetto al marrone rossiccio di quella restante, forse ad indicare lo strato grasso che riveste l’organo. Il papiro Ebers (inizi della XVIII Dinastia), ci ha tramandato un vero e proprio trattato di anatomia relativo al sistema circolatorio. Nonostante le inevitabili imprecisioni in alcune delle teorie enunciate, vi si ravvisa un serio tentativo di comprensione della realtà, assolutamente razionale e, pertanto, da considerare come un vero e proprio trattato scientifico. Nei testi medici il termine usato più di frequente è “h3ty”, mentre “ib” è riservato di solito ai testi liturgici e letterari. I medici egiziani conoscevano bene il valore della pulsazione come elemento di diagnosi. Il primo capitolo del trattato recita, infatti: “il cuore parla nei vasi di tutte le membra”.

Nella concezione “filosofica”, il cuore era considerato l’organo supremo. Nel Testo di teologia menfita si legge: “L’azione del braccio, il moto delle gambe, il movimento di ogni altro membro è fatto seguendo l’ordine che il cuore ha concepito”. E, più avanti, lo stesso testo subordina al cuore i cinque sensi e la parola: “E’ lui che dai sensi trae ogni giudizio e la lingua annuncia ciò che il cuore ha pensato”. Centro della vita sia fisica che emotiva ed intellettuale, il cuore entra in tutte le locuzioni della lingua che esprimono stati d’animo, spiritualità, peculiarità caratteriali. Ad esempio: felicità, gioia viene espressa con la locuzione “larghezza di cuore”; appagare un desiderio con “lavare il cuore”; celare il proprio pensiero, “immergere il cuore”; essere amico di qualcuno, “entrare nel cuore (di qualcuno); morire (fra le altre perifrasi) , “avere il cuore stanco”.

Fonte: Maria Carmela Betro’ Geroglifici, 580 Segni per capire l’Antico Egitto

Amuleto del cuore, associato con l’uccello “benu”. (a chi volesse saperne di più su questo mitologico uccello consiglio vivamente la lettura dell’interessante post di Francesco Alba QUI).

Proviene dai reperti rinvenuti nell’Annesso della tomba di Tutankhamon ed è realizzato in legno ricoperto da foglia d’oro. Un lato è inscritto con il prenome del re (Nebkheperura) con il cartiglio fiancheggiato dagli scettri Heqa del potere regale e dalla piuma di Maat.

Il lato che si vede nell’illustrazione è intarsiato con faience colorata che riproduce la figura del benu.

Il Cairo, museo egizio.

Fonte: Tutankhamun, T.G.H. James

Sarcofago di Ashait, XI Dinastia, con a destra il particolare del cuore di un animale sacrificato deposto tra le vivande funerarie. Il Cairo, Museo Egizio.

LO SCARABEO DEL CUORE

Un grande scarabeo, chiamato “scarabeo del cuore” veniva posto sulla mummia all’altezza del cuore. Questo grande amuleto, legato al simbolismo derivante dall’associazione con Khepri (il sole nascente) e con il significato come verbo di “rinascere”, “divenire” e come sostantivo di “forma”, “apparizione”, “manifestazione”, comincia a diffondersi all’inizio della XVIII Dinastia, ma amuleti a forma di scarabeo, sebbene con altre funzioni (prevalentemente commemorative o di sigillo), sono attestati già dalla VI Dinastia. Riportava nella parte inferiore la formula di “non permettere che il cuore dell’Osiride N (N sta per il nome del defunto) sia tenuto lontano dalla Necropoli” (cap. XXX del Libro dei Morti). Di questa formula se ne conoscono due versioni aventi lo scopo di impedire che il cuore del defunto possa testimoniare contro di lui durante il giudizio. Nonostante il Libro dei Morti risalga al Nuovo Regno, la formula è da ritenersi senz’altro più antica, risalente al Primo Periodo Intermedio, quando nei Testi dei Sarcofagi si ha la prima menzione della valutazione degli eccessi che precede la pesatura del cuore.

Il Capitolo XXX del “Libro per uscire al giorno” (Libro dei morti)

Questa formula fu trovata a Ermopoli, ai piedi della maestà di questo dio venerabile (Thot), su un blocco di pietra “bia” del Sud, essendo uno scritto del dio in persona, al tempo del re Menkaure (Micerino), da parte del figlio reale Hergedef4. Egli l’ha trovato mentre passava per fare l’inventario nei templi.

Fonte: Edda Bresciani, Letteratura e poesia dell’Antico Egitto

Note:

  1. Anubi, che ha questo compito durante la psicostasia. E’ anche detto “colui che solleva il braccio”(per fermare la bilancia)
  2. Il dio vasaio che ha creato gli uomini con il suo tornio.
  3. Il Tribunale Divino, cioè la Grande Enneade di Eliopoli che giudica nella sala di Maaty (Le due Maat)
  4. Il figlio di Khufu (Cheope),autore dell’omonimo Insegnamento.
Scarabeo del cuore proveniente dalla necropoli di Soleb (Sudan). (Nuovo Regno) Collezione Egittologica dell’Ateneo di Pisa.

LO SCARABEO DEL CUORE DEL GENERALE DJEHUTY

A cura di Luisa Bovitutti

Questo scarabeo del cuore è appartenuto a Djehuty (noto anche come Thuti e Thutii), un generale al servizio di Tuthmosis III che portava i titoli di scriba del re di sorvegliante dei paesi stranieri del nord; il suo re lo stimava molto e per i servizi resi gli fece dono di oggetti in oro di squisita fattura, rinvenuti nel 1824 da Bernardino Drovetti nella sua tomba di Saqqara insieme ad altri beni personali oggi esposti in vari musei del mondo.

Questo scarabeo, attualmente al museo di Leida, fu trovato sulla mummia di Djehuty, della quale si sono perse le tracce, così come il sarcofago; esso è alto 8,3 cm e largo 5,4 cm, circondato da una montatura in oro dotata di un anello allungato nella parte superiore nella quale è infilata la catena lunga 133 cm.

E’ scolpito in diaspro verde ed è ornato da due bande d’oro (una quasi orizzontale e l’altra verticale), che delimitano la corazza e le elitre. La parte piatta di questo scarabeo reca la formula abituale, composta da undici linee orizzontali geroglifiche, mentre sulla corazza, da destra a sinistra si legge il nome del defunto: “Il governatore dei paesi settentrionali, Teti”.

Informazioni e fotografie tratte da una serie di articoli di Marie Grillot.

LO SCARABEO DEL CUORE DI SOBEKEMSAF

Secondo Periodo Intermedio, XVII Dinastia 1575-1560 a.C. circa. Provenienza: Tebe. Oro e diaspro verde Lunghezza: 3,8 cm. Larghezza: 2,5 cm. British Museum, Londra.

Questo scarabeo in diaspro verde montato su oro, è il più antico scarabeo del cuore reale conosciuto. Invero, il primo oggetto di questo tipo, fino ad ora ritrovato, apparteneva a un funzionario privato ed è di circa un secolo precedente a questo esempio.

Presenta tratti umani vagamente accennati ed è incastonato nell’incavo di una tavoletta d’oro dal bordo posteriore arrotondato. Ciascuna delle zampe dell’insetto è costituita da una striscia di lamina d’oro con delle incisioni che ne rappresentano la peluria. I geroglifici incisi intorno al bordo ed in cinque righe orizzontali nella parte inferiore riportano il nome del re seguito da frammenti del capitolo 30B del “Libro dei morti” che già abbiamo incontrato in precedenza.(La preghiera affinché il cuore non si levasse a testimonio contro il suo proprietario nel momento del giudizio). Nell’iscrizione su questo scarabeo, le figure a forma di uccello sono private delle zampe: una caratteristica comunemente definita “geroglifici mutilati”. Questo accorgimento era impiegato nei contesti funerari e magici a partire dal tardo Antico Regno per impedire che le figure prendessero vita prodigiosamente ed attaccassero il defunto. Così come nei rilievi e nei dipinti, si riteneva che i geroglifici avessero la capacità di trasformarsi in realtà tridimensionali e si rendeva, pertanto necessario, neutralizzare quelli potenzialmente pericolosi.

Sono noti due re della XVII Dinastia con il nome Sobekemsaf, appartenenti al tardo Secondo Periodo Intermedio. In particolare, la tomba di Sekhemreshedtawy Sobekemsaf ci è nota attraverso i papiri. E’ menzionata nel Papiro Abbott, come l’unica tomba trovata derubata durante il regno di Ramesses IX. Analogamente il Papiro Leopold-Amherst, conservato in parte a Bruxelles e in parte a New York, riporta un resoconto del furto e del processo intentato ai profanatori. Questo scarabeo potrebbe provenire da quella tomba, ma anche da quella dell’altro Sobekemsaf. Il sito di sepoltura di questi due faraoni non è stato ancora individuato, ma un recente lavoro del German Archaeological Institut ha rivelato la tomba del re Nubkheperra Inyotef della XVII Dinastia, che si ritiene sia nelle vicinanze di quella di Sekhemreshedtawy Sobekemsaf.

LA PESATURA DELL’ANIMA

E veniamo al culmine del percorso “esistenziale” del cuore che si conclude con la sua pesatura nella sala di Maaty.

Riassumo brevemente la descrizione di questo fondamentale evento che si tiene nel tribunale dell’aldilà. Il cuore del defunto veniva posto su uno dei piatti della bilancia, davanti alla quale erano presenti il dio Thot, lo scriba divino che annotava le azioni della persona sottoposta al giudizio, Anubi, preposto alle operazioni di imbalsamazione e Ammut (la Grande Divoratrice, per metà leone e per metà coccodrillo). L’altro piatto della bilancia era occupato dalla piuma deposta dalla dea Maat, che rappresentava la giustizia.

E’ in questa sala che si compie il destino del defunto, chiarito dal capitolo CXXV del Libro dei morti

(“Parole da dire quando si accede alla sala di Maaty; separare N dai suoi peccati e vedere il volto di tutti gli dei”)

la cosiddetta “confessione negativa”, in cui, attraverso il suo cuore, che ricordiamolo per gli egizi era la sede della coscienza, il defunto dichiarava di non aver commesso una serie di “peccati” contro la Maat. Se l’ago della bilancia pendeva a sfavore, ne conseguiva che il defunto non meritava di vivere nell’aldilà e veniva dato in pasto alla Grande Divoratrice. Viceversa se la bilancia rimaneva in perfetto equilibrio (il cuore era leggero, altrettanto che la piuma di Maat), veniva dichiarato “m3’ hrw”, letteralmente “giusto di voce”, e acquisiva il diritto alla vita eterna.

Il tribunale degli Dei

Con il processo di democratizzazione dell’aldilà, cominciato a partire dal Primo Periodo Intermedio, la religione egizia offriva a tutti la possibilità di godere una vita eterna dopo la morte. A conferire questo privilegio era preposto un tribunale composto da quarantadue dei. Alla testa di questa giuria presiedeva Osiride, il re buono che, assassinato dal fratello Seth, resuscitò, grazie alle arti magiche della sorella e sposa Iside, divenendo il sovrano dei defunti. Il ruolo fondamentale era svolto dalla dea Maat personificazione della Giustizia e Verità sia degli uomini, sia degli dei e che, durante la XVIII dinastia, fu assimilata come figlia di Ra incarnando anche il principio di ordine universale. Tra le altre divinità, un altro ruolo preminente lo svolgeva Thot, scriba, mago e dio inventore dei geroglifici, la scrittura sacra. Era lui che annotava le azioni compiute dal defunto durante la pesatura dell’anima, attraverso la quale si valutava il comportamento terreno del defunto. Al suo fianco Anubi, responsabile della mummificazione e guardiano della necropoli.

Nell’immagine: Scena del Giudizio tratta dal “Libro dei Morti” dello scriba reale Hunefer (ca, 1285 a.C.).

Da sinistra: Anubi accompagna Hunefer nella Sala di Maaty; il suo cuore viene posto sulla bilancia con il contrappeso di Maat, mentre Anubi e Ammut presiedono la pesatura; Thot annota il risultato favorevole; Horus accompagna Hunefer “giustificato” al cospetto di Osiride.

Dipinto su papiro, Londra, British Museum

Fonti: 

  • Maurizio Damiano, Egitto, Volume primo: L’età dell’oro.
  • Grande Enciclopedia illustrata dell’Antico Egitto, a cura di Edda Bresciani.

m3’ hrw (lett. “giusto di voce”): la giustificazione.

E veniamo al momento “fatidico” del Giudizio che ci viene illustrato in maniera straordinaria nel capitolo CXXV di quello che oggi chiamiamo “Libro dei morti”, ma che gli Egizi, come ho già esposto, indicavano come “Le formule dell’uscire al giorno”.

Innanzitutto, darei qualche breve cenno su questa raccolta di formule ad uso funerario.

Testi delle Piramidi. Piramide di Teti, VI Dinastia. Saqqara

I testi che nell’ Antico Regno erano scritti nelle camere sepolcrali dei re menfiti a partire dalla V dinastia, noti come “Testi delle Piramidi”, riservati al sovrano e ad un esiguo numero di altissimi funzionari e parenti, nella successiva età feudale divennero di assai più largo dominio: comincia la cosiddetta “democratizzazione dell’aldilà” o, come Jan Assmann preferisce definire, “demotizzazione dell’aldilà”. Subentra l’uso di corredare di iscrizioni religiose la cassa funeraria con una serie di testi che fornissero al defunto uno strumento per affrontare vittoriosamente le prove nell’aldilà. Nascono i cosiddetti “Testi dei Sarcofagi” . Quest’uso di fornire formule magiche al trapassato, si perpetua in età tebana. A partire dalla XVIII Dinastia sono raccolte su rotoli papiro che vengono deposti nella tomba, spesso nel sarcofago stesso. Testi delle Piramidi, Testi dei Sarcofagi, e Libro dei Morti sono dunque tutti apparentati, in un certo qual modo. Non si tratta di una raccolta di contenuto fisso, ma piuttosto di vari manoscritti che si diversificano fra di loro per la scelta delle formule e per la lunghezza. A partire dalla XXVI Dinastia si osserva, però, una notevole costanza nell’omogeneità dei testi.

Testi dei Sarcofagi. Interno del sarcofago di Gua, XII Dinastia. Londra, British Museum

Si è fissato, in maniera fittizia, un corpus di centonovanta capitoli (stabilito da Lepsius). Infatti nessun manoscritto, a noi giunto, li contiene tutti. Solo un papiro molto tardo, di età tolemaica, li riporta nella “quasi” totalità.

La maggior parte delle formule è derivata dai Testi dei Sarcofagi (a loro volta derivati da Testi delle Piramidi), ma vi si trova anche del materiale nuovo. Lo scopo rimane quello di assicurare l’aldilà al defunto.

Raffigurazione della psicostasia, tratta dal Papiro di Ani (XIX Dinastia), Conservato presso il British Museum di Londra.

IL capitolo CXXV: PAROLE DA DIRE QUANDO SI ACCEDE ALLA SALA DI MAATY; SEPARARE N (il nome del defunto) DAI SUOI PECCATI E VEDERE IL VOLTO DI TUTTI GLI DEI.

E’ davvero con estrema umiltà che vi propongo questo straordinario testo che ci presenta, in un certo senso, un concentrato del pensiero etico e morale di questo straordinario popolo, la sua incrollabile fede nel praticare la Maat, intesa anche in senso sociale, al fine di garantirsi l’immortalità e, al contempo, assicurare quell’armonia e quell’ordine cosmico, generato con l’atto stesso della creazione (e pertanto nato perfetto) e al quale l’uomo non può e non deve apportare alcun cambiamento, pena lo stravolgimento sia sul piano reale che su quello trascendente di ciò che il creatore ha dato in custodia al suo gregge. Il risultato, di un allontanamento da questi principi, devastante, non potrebbe che essere Isefet: il caos. La delicatezza dell’argomento, l’alta sofisticazione del pensiero egizio, che ammette un’ infinità di possibili realtà, e del quale posso, a mala pena, cogliere gli aspetti “apparentemente” più evidenti, mi impone di affrontarlo e porgerlo ben consapevole di tutte le limitazioni, semplificazioni e finanche banalizzazioni a cui mi costringe la mancanza di una sia pur minima preparazione specifica.

La formula è suddivisa in due sezioni. Vi sono contenute due dichiarazioni di innocenza (le cosiddette confessioni negative): la prima rivolta direttamente ad Osiride, il grande dio. La seconda ad ognuno dei quarantadue dei che formavano il tribunale della sala delle due Maat. Il defunto è introdotto al cospetto di Osiride, il suo cuore essendo stato posto sulla bilancia che ha per contrappeso la piuma deposta da Maat, e pronuncia queste parole:

  1. Wnfr, l’essere perfetto, appellativo di Osiride. Una piccola divagazione: da questo termine sarebbe derivato il nome Onofrio).
  2. Le Due Maat, secondo l’ipotesi di Jean Yoyotte in “Les jugement des mortes” sarebbero i due occhi cioè il sole e la luna, dell’antico dio celeste di Letopoli, qui assimilato ad Osiri come giudice universale. (confr. la frase “Colui le cui figlie sono i suoi due occhi…”)

A questo punto comincia la confessione negativa

E’ ravvisabile un aggiustamento estremamente importante nella storia della religione egizia: la sopravvivenza sarà determinata non più da un mero procedimento ritualistico, dalla semplice e determinante efficacia delle formule, ma vi si innesta l’indispensabile necessità di aver condotto una vita terrena all’insegna di una morale indissolubilmente legata alla virtù ed alla giustizia. L’elenco delle colpe che il defunto dichiara di non aver commesso ne mostra chiaramente il carattere sociale ed etico: i diritti del prossimo diventano assolutamente predominanti rispetto alla forza “magica” del rituale.

Qui inizia la “Seconda dichiarazione di innocenza”, rivolta a quarantadue divinità, che sarà oggetto della prossima puntata. Da notare che il numero quarantadue, non ha rapporto con i “nomoi” dell’Egitto, in quanto questo numero di provincie è stato fissato in epoca tarda. Si tratta di divinità locali che hanno il compito di denunciare e punire una determinata colpa. E’ plausibile che questa lista di dei sia stata stabilita, almeno in parte, sulla base dei tabù della città di cui era origine ogni singola divinità.

  1. Si intende ciò che non ci dovrebbe essere, vale a dire il male.
  2. Il Capitano della Barca è Ra: significa che nessuno ha chiesto giustizia contro di lui a Ra
  3. Le offerte dei defunti
  4. L’arura era una misura di superficie
  5. Non ho catturatogli uccelli ecc. sembrano essere dei divieti sacri
  6. Allude al fatto che ha partecipato ai misteri rituali di Eliopoli.

Fonti:

  • Sergio Donadoni, Testi Religiosi Egizi, (a cura di)
  • Edda Bresciani, Letteratura e poesia dell’Antico Egitto

La seconda dichiarazione di innocenza

Segue un dialogo esoterico in cui il defunto deve dimostrare di conoscere determinati misteri e dare la risposta giusta. Controbatterà alle domande che la Porta della Sala e le sue varie parti, il portinaio e Thot gli porranno: il defunto dimostrerà di conoscere il loro nome misterioso e finalmente potrà passare oltre.

  • 1 Kheraha era una località a sud di Menfi
  • 2 Thot, con chiaro riferimento al suo lungo becco di ibis
  • 3 Sono Shu e Tefnut
  • 4 Mekhenty-irty (irty, duale di ir. lett. I due occhi), dio di Letopoli.
  • 5 Il dio coccodrillo Sobek e il Paese del Lago è il Fayum.
  • 6 Secondo Donadoni in Testi Religiosi egizi, uno dei Tribunali Civili.
  • 7 (si intende) per imbrogliare qualcuno.
  • 8 Potrebbe significare non sono stato ipocrita (?)
  • 9 Non sono stato precipitoso (?)
  • 10 Non sono stato avventato (?)

Fonti: Sergio Donadoni, Testi Religiosi Egizi, (a cura di) Edda Bresciani, Letteratura e poesia dell’Antico Egitto

Nelle immagini: due illustrazioni tratte dal libro dei morti di Kha conservato presso il Museo Egizio di Torino. Si tratta di un testo policromo splendidamente illustrato, risalente alla XVIII Dinastia, scritto in caratteri geroglifici corsivi, lungo circa 14 metri che il Museo espone in tutta la sua lunghezza.

Nell’immagine superiore sono visibili Kha, seguito dalla moglie Merit di fronte ad un tavolo di offerte. Segue, in una cappella sorretta da colonne papiriformi, Osiride assiso in trono: indossa la corona Atef ed è rappresentato di colore verde, simbolo di fertilità. Il trono su cui siede presenta il classico simbolo Sma-Tawy (unione delle Due Terre) e poggia su uno zoccolo che non è altro che il geroglifico che si legge ma’at. La simbologia è molto chiara: Osiride, sovrano dell’Oltretomba è garante della Giustizia. L’immagine seguente ci mostra la scena in cui una barca con un catafalco viene trainata per mezzo di una slitta. Il sarcofago viene quindi posto in posizione eretta di fronte all’ingresso della tomba pronto a ricevere il rituale dell’apertura della bocca. Lo si intuisce dalla presenza dello strumento pesheskef, che viene utilizzato dal sacerdote Sem per portare a compimento questa fondamentale azione simbolica, attraverso la quale il defunto potrà tornare a respirare e a fruire delle offerte deposte per lui all’interno del sepolcro. Nella prima colonna a sinistra scritta con inchiostro rosso si legge la frase Kherw keres, letteralmente “giorno del funerale”. Nella seconda colonna abbiamo imy er kaut Kha maat kherw senet.f nebet per, Merit seguita, non visibile nell’immagine, dall’epiteto maat kherw (il responsabile dei lavori, Kha, giustificato – lett. giusto, veritiero di voce – Sua moglie, signora della casa Merit, giustificata). Da notare che in questa colonna gli spazi in cui sono scritti i nomi dei due personaggi è più ampio rispetto a quello degli altri geroglifici. Il che lascia supporre che questi papiri fossero già preconfezionati, con degli spazi vuoti in cui inserire il nome del defunto.

Fonte: Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino


Scena della psicostasia tratta dal “Libro dei morti” di Iuefankh

Questo papiro lungo circa 19 metri, completamente preservato, contiene – da destra a sinistra – 165 capitoli del cosiddetto “Libro dei Morti”, la raccolta di formule per la guida, la protezione e la resurrezione del defunto nell’Aldilà. Per raggiungere tali obiettivi, dopo l’imbalsamazione e la processione alla tomba, determinate condizioni erano indispensabili: la conservazione e il sostentamento del corpo, la capacità di trasformazione, la giustificazione e la protezione del defunto e il possesso della conoscenza. Sono questi i temi dei 165 capitoli scritti in geroglifico corsivo per Iuefankh, figlio di Tasheretemenu. Di epoca Tolemaica è conservato presso il Museo Egizio di Torino, acquisito da Bernardino Drovetti nel 1824.

La definizione “Libro dei morti” è moderna: per gli Egizi, coma già evidenziato in precedenza, era molto più significativamente “rou nu peret em heru” (Capitoli per uscire al/nel giorno). Il primo a comprendere che si trattava di una serie di formule che servivano al defunto per superare una serie di ostacoli, affinché potesse raggiungere i “Campi di Yarw” e quindi proseguire nella sua vita oltremondana, fu il tedesco Karl Richard Lepsius. Fu avviato agli studi egittologici dal pisano Ippolito Rosellini che a sua volta era stato prima allievo poi collega di Jean-François Champollion e con il quale partecipò alla spedizione franco-toscana in Egitto. Il Rosellini, nel 1826 occuperà la prima Cattedra di Egittologia al mondo presso l’Università di Pisa. Quando Lepsius, a Torino, fa il suo incontro con questo papiro, comprende che si tratta di un vero e proprio formulario, una sorta di “vademecum” per l’Aldilà gli dà il nome di “Libro dei Morti” e ne ricava una suddivisione in 165 capitoli. Tale suddivisione è quella ancor oggi in uso con l’aggiunta di ulteriori 25 capitoli, identificati successivamente in altri reperti. E’ necessario chiarire, a questo punto, che la raccolta con tutti i 190 capitoli non si trova in nessun papiro e che, essendo questo il più completo, è stato assunto come raccolta campione (in modo non storicamente corretto, proprio per la sua posteriorità, di un millennio e anche più, rispetto ai primi esemplari).

Le formule sono finalizzate al momento in cui il defunto si troverà di fronte al Giudizio presieduto da Osiride. La scena è delimitata da uno spazio architettonico ben definito da due colonne che sorreggono la parte superiore, come ad evocare un ambiente templare. Il defunto, sulla destra, vi entra e porge il suo saluto alla dea Maat. Al centro vi è la fatidica bilancia con il suo cuore posto sul piatto di destra; sulla sinistra come contrappeso una rappresentazione miniaturizzata di Maat con la sua piuma distintiva. Gli spazi tra i bracci della bilancia sono occupati da Anubi e da Horus, mentre in cima vi è una raffigurazione cinocefala di Thot in veste di “colui che presiede al braccio della bilancia”. Proseguendo verso sinistra, è riconoscibile Thot, questa volta rappresentato con testa di ibis, in veste di scriba nell’atto di registrare sulla sua tavoletta ciò che accade. Segue il mostro Ammit (la Grande Divoratrice) una divinità con muso di coccodrillo, parte anteriore di leone e posteriore di ippopotamo (simbolicamente la commistione di tre fra le più feroci belve dell’Antico Egitto), pronto a divorare il cuore del defunto ove mai dovesse risultare più pesante della piuma di Maat. Nella parte superiore della scena sono raffigurate le quarantadue divinità che raccoglieranno un’ulteriore dichiarazione di innocenza. A presiedere il giudizio è ovviamente Osiride rappresentato a sinistra nel suo tabernacolo e assiso sul trono con il simbolo “sma-tawy, classica iconografia che rappresenta l’ unione delle Due Terre (ricordiamo che, mitologicamente, Osiride è considerato il primo sovrano dell’Egitto).

Un’ultima considerazione: il “rou nu peret em heru” non deve essere visto come un libro secondo la nostra visione, vale a dire come un susseguirsi di capitoli a partire dal numero uno a seguire. In realtà, in base alle proprie necessità, convinzioni, e soprattutto possibilità economiche, si acquistavano le sezioni che avrebbero fatto parte del corredo funerario. C’è anche da dire che in molti casi i vari papiri rinvenuti danno dei capitoli una versione che può variare per aggiunte o per omissioni se non, talvolta per veri e propri mutamenti. Talvolta la correttezza del testo è piuttosto trascurata. Ciò è dovuto in parte al fatto che le copie erano preparate quasi industrialmente e per un uso esclusivamente oltremondano, in parte alla fiducia che gli stessi egizi nutrivano nel loro potere magico-religioso, tanto più efficace in quanto misterioso e incomprensibile, indipendentemente dalla correttezza o meno delle iscrizioni. E’ pur vero, però, che questa mancanza di precisione, rispetto ad esempio ai testi epigrafici antichi o ai Testi delle Piramidi, ponga problemi interpretativi forse anche più complicati.

CONSIDERAZIONI

A conclusione della parziale e sommaria, descrizione di questo importantissimo capitolo del Libro dei morti, mi sembra opportuno aggiungere alcune riflessioni. Illuminanti mi sembrano, in proposito le considerazioni di Jan Assman estrapolate dal suo Maât l’Egypte pharaonique et l’idée de justice sociale. Ne riporto qualcuna che a me è sembrata particolarmente incisiva per una migliore comprensione del testo. La cosa che mi ha sempre creato un certo disagio, fin da quando ho avuto il mio primo approccio con questa formula, è stata proprio la doppia dichiarazione di innocenza.

Perché discolparsi due volte da una serie di peccati che, grosso modo appare del tutto simile? In realtà, Assman afferma che, piuttosto che sovrapporsi, le due liste si completino. Egli nota che il principio di composizione segue uno schema secondo il quale un tema specificato attraverso una serie di peccati in una dichiarazione, è trattato in maniera solamente sommaria nell’altra e viceversa. Sicché laddove una lista (le indicherò in avanti con A e B è chiaramente articolata, l’altra enumera una serie di peccati mescolati insieme, senza alcuna struttura apparentemente riconoscibile. Ad esempio: “A” comincia con una decina di colpe gravi di ordine generale, di cui “B” riprende solo il primo, il più universale di tutti: (A) Non ho commesso iniquità contro gli uomini, (BNon ho commesso iniquità. Questa prima enunciazione sintetizza praticamente il cardine della nozione di Maat (non praticare il male, Isefet); si elencano poi una serie di peccati (si entra quindi nel dettaglio) che differiscono nella dichiarazione (B, ma che riguardano azioni criminose verso gli uomini o la divinità, finché si arriva alla enunciazione “Non ho danneggiato un servo presso il suo padrone”, che introduce un’altra caratteristica fondamentale del concetto di Maat: il tema della solidarietà che viene sviluppato nella lista B in maniera estremamente precisa.

Ricapitolando e facendo un’estrema semplificazione, possiamo inquadrare i due principali aspetti comportamentali che ogni uomo deve rispettare al fine di perseguite Maat. Il primo riguarda l’agire (fare la Maat), il secondo la solidarietà sociale e comunicativa (dire la Maat, intesa nel senso più ampio di parola pronunciata e ascolto).Nella lista A sono più particolarmente focalizzate le colpe relative all’agire: Non ho causato dolore, Non ho fatto piangere, non ho ucciso, non ho dato ordine di uccidere, non ho avvelenato, non ho causato pena ad alcuno, non ho tolto il latte ad un bambino ecc. Di contro nella dichiarazione (B sono, in maniera molto singolare, ben dettagliati i peccati contemplati nel campo della parola/ascolto, in chiave spiccatamente sociale e che mostrano con chiarezza l’importanza che la mentalità egizia attribuiva al comportamento etico fin in aspetti che ai nostri occhi parrebbero di non primaria rilevanza. Così ritroviamo regole che impongono di non sparlare, calunniare, tormentare, vantarsi, parlare a vanvera, incutere terrore (irretire), spiare qualcuno, strizzare l’occhio (per imbrogliare qualcuno), adirarsi (la violenza verbale), aver intentato processi contro qualcuno, in definitiva, di essere stato sordo alle parole di Maat.

Sono poi elencati altri tipi di peccato che riguardano aspetti più rituali e misterici, probabilmente derivati dall’iniziazione sacerdotale, ma mi è sembrato opportuno concentrare l’attenzione sul chiaro messaggio etico/sociale che erompe (direi fragorosamente) da questo testo. Quello che colpisce maggiormente è che, oltre agli ovvi crimini contro la persona (uccidere, rubare, usare violenza ecc. ecc.), emerge prepotente il poderoso accento che viene posto sull’aspetto comunicativo. In pratica nella mentalità egizia anche il semplice calunniare, usare un linguaggio offensivo, la prevaricazione verso il debole e l’indifeso, la presunzione, la vanagloria, l’indurre sentimenti di odio o insofferenza verso il prossimo erano considerati comportamenti contrari alla Maat e quindi deprecabili. Viene, di conseguenza, sottolineata l’importanza della correttezza, sobrietà, disponibilità, autocontrollo (anche nei confronti dei sottoposti, degli umili e dei più fragili). Questo ovviamente, non significa che questi “peccati” non si commettessero, ma semplicemente che anche da questi ne derivavano un giudizio ed una punizione in questa o nell’altra vita (che veniva preclusa in caso di non superamento della prova). L’aspetto da tener presente è senz’altro quello universale, cosmico del concetto. Vale a dire alla Maat erano tenuti ad attenersi tutti: dagli dei, al faraone (che ne era garante in terra), al più umile dei servi. Azzardando a dirla in termini moderni, era da considerare una vera e propria Istituzione e, pertanto la regola unica, immutabile da seguire: perfetta (perché nata all’atto della creazione), immodificabile, imprescindibile. Non c’era posto, in materia, per altra corrente di pensiero.

A voler fare un confronto con ciò che tante classi dirigenti odierne si affannano a propagandare, bisogna prendere atto che da quella magnifica esperienza etica, molto, troppo è cambiato. E di certo non in meglio: forse Maat bisognerebbe insegnarla a scuola fin da bambini. Non ho alcun dubbio che ce ne avvantaggeremmo tutti.

Libro dei Morti di Any (foglio n. 2) Nuovo Regno, XIX Dinastia, 1275 a.C. circa. Provenienza: Tebe. Londra, British Museum.

Questa sezione del papiro è la naturale prosecuzione del foglio n. 1 (non molto ben conservato) che mostra Any e sua moglie Tutu in adorazione del dio Ra. La parte a sinistra dell’illustrazione appartiene logicamente al testo precedente, ma fornisce anche un collegamento al contenuto di questo foglio. Ci mostra il disco solare (Ra) tenuto elevato al cielo da un segno Ankh ed adorato da due gruppi di babbuini simboleggianti il sole nascente. L’ankh è sostenuto da un pilastro Djed, emblema di Osiride ed è una simbolica raffigurazione della rinascita del sole dopo il suo passaggio notturno attraverso il regno dei morti. Il tutto si svolge sotto lo sguardo protettore di Iside e Neftis. Seguono le figure di Any e Tutu davanti ad un tavolo d’offerte, mentre il testo scritto in geroglifico “corsivo” è l’Inno ad Osiride.

Fonti:

  • Sergio Donadoni,Testi Religiosi Egizi, (a cura di)
  • Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino
  • Edda Bresciani, Letteratura e poesia dell’Antico Egitto
  • Jan Assmann, Maât l’Egypte pharaonique et l’idée de justice sociale

Filosofia

IL “REN” – IL NOME

A cura di Ivo Prezioso

Anche il nome costituisce una componente fondamentale dell’individuo sia che si tratti di un dio, re, uomo o animale. Nella nostra mentalità il linguaggio è inteso come un codice di comunicazione per cui pronunciando il nome di un oggetto anche in idiomi diversi, abbiamo la consapevolezza di alludere univocamente ad esso. Per gli egizi le cose non stavano esattamente così: per loro tra il nome evocato e ciò che era nominato esisteva una precisa identità. Ne conseguiva che anche la scrittura assumeva un carattere di sacralità in quanto dava vita alle entità scritte. E così, pronunciare o scrivere il nome di una persona, equivaleva a farla vivere (o rivivere) esercitando su di essa un notevole potere. Questo spiega ampiamente perché gli dei stavano ben attenti a non permettere che si conoscesse il loro nome vero (segreto): rivelarlo significava dare ad altri dei la possibilità di assoggettarli al proprio volere. Per precauzione utilizzavano una serie infinita di nomi che insieme costituiscono quello completo. E’ noto il mito di Iside che, per conoscere il vero nome di suo padre Ra, lo fa mordere da un serpente da lei creato e rifiuta di guarirlo finché non gli abbia rivelato il suo nome segreto. Già a partire dai Testi delle Piramidi dell’Antico Regno, sono menzionate serie di formule magiche che hanno lo scopo di permettere al defunto di venire a conoscenza del nome segreto delle varie divinità, al fine di poter trattare da pari a pari e diventare uno di loro. Al momento della nascita ciascun egiziano riceveva un nome denso di significati magico-religiosi. Ad esempio Padiaset significava “Colui che Iside ha donato” (probabile antenato, attraverso il greco, del nostro Isidoro), Ramesse “Ra lo ha generato” e così via. Poiché perdere il proprio nome comportava l’annientamento dell’identità, il proprietario della tomba lo faceva scrivere ossessivamente sia sulle pareti che sugli oggetti del corredo funebre. Gli egizi erano convinti che la cancellazione del nome fosse una condanna peggiore della morte stessa e riservavano questa punizione ai peggiori malfattori, come i violatori di tombe i cui nomi venivano cancellati o persino cambiati dopo il processo. Anche il nome di un re poteva subire questa sorte, come nell’arcinoto caso di Akhenaton, il cosiddetto “faraone eretico”.