Di Ivo Prezioso
MA’AT

Come spesso ho rimarcato, il concetto di Ma’at è il pensiero fondante che ha caratterizzato la Civiltà Egizia per tutta la sua lunghissima storia e le cui influenze e reminiscenze avrebbero riverberato anche oltre. Su un pensiero così sofisticato, e probabilmente ancora ben lungi dall’essere pienamente chiarito ed esaurito, vorrei (in punta di piedi e con la massima umiltà, vista la complessità dell’argomento e dell’enorme mole di implicazioni etiche e sociali che sottintende) proporvi qualche mia considerazione nell’intento di stimolare qualche spunto di riflessione sull’impatto determinante che ha avuto sul modo di agire e sentire degli Antichi Egizi. Pertanto, questo post, a differenza di altri che ho pubblicato, non sarà particolarmente “rigoroso”, nel senso che è sviluppato non riferendosi esclusivamente alle fonti. Esporrò, come in un classico tema di scolastica memoria, anche valutazioni del tutto personali, scaturite durante la non facile (almeno per me) – e ancora in fase di approfondimento – lettura del testo di Jan Assmann “L’Égypte pharaonique et l’idée de Justice sociale”. Ovviamente, le conclusioni a cui sono giunto, possono ampiamente essere dibattute (anzi, sarebbe auspicabile) sia per la delicatezza dell’argomento, sia (e a maggior ragione) perché frutto di quanto assimilato alla luce della mia pressoché assoluta ignoranza in materia di filosofia. Inoltre sarà l’occasione per esprimere, nel corso dell’esposizione, alcune personali considerazioni sul confronto tra l’etica religiosa egizia e quella occidentale moderna.
Sappiamo che gli egizi erano considerati ancora in epoca ellenistica il popolo più pio della terra. Tralasciando ogni discorso su cosmogonie, divinità miti e credenze, ciò che si evidenzia con estrema chiarezza è che avevano elaborato un sistema religioso che, a parte la brevissima parentesi amarniana, si mantenne, ovviamente con evoluzioni, sincretismi e assimilazioni, stabile per tutta la durata della loro civiltà. Caratteristica fondamentale della loro visione fu la fiducia incrollabile in un’esistenza ultraterrena che, inizialmente riservata ai sovrani e ad una ristretta élite, divenne universale a partire dalla caduta dell’Antico Regno grazie a quel processo conosciuto come “democratizzazione dell’aldilà” (Assmann preferisce il termine “demotizzazione”) che ritroviamo ormai perfettamente compiuto nel Medio Regno*. Chiaramente l’accesso a questo “paradiso” (che ricordiamolo per gli egizi, così innamorati della vita, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, ne era una esistenza migliorata e beata nei “Campi di Ialu”o “Campi Hotep”) era subordinato ad un giudizio che il defunto (più precisamente il suo cuore, sede della coscienza) doveva sostenere di fronte a 42 giudici**. Qui entrano prepotentemente in gioco alcuni degli aspetti di Ma’at: equilibrio, verità, giustizia. Sui due piatti della bilancia venivano posti rispettivamente il cuore e una piuma, emblema della divinità. In pratica il defunto affermava di non aver compiuto azioni che ne trasgredivano i precetti. L’equilibrio dei piatti avrebbe sancito la veridicità delle affermazioni, la proclamazione del defunto come mꜣꜥ ḫrw (lett. “giusto di voce”)e l’accesso all’aldilà.
Sono aspetti di Ma’at che incidono profondamente sui comportamenti morali. E’ fatto obbligo, infatti, di “fare la Ma’at”, “dire la Ma’at”; in altre parole, di porre in essere tutta una serie di comportamenti che fossero in perfetta armonia con l’ordine cosmico sancito dal demiurgo all’atto della creazione (che è, tra l’altro, anche il preciso istante in cui nasce Ma’at) e che, sulla terra, sono alla base dell’ordine sociale, politico e persino, del buon funzionamento dell’apparato statale. Vi ritroviamo una serie di norme che hanno punti in comune non solo con i molto posteriori Comandamenti Biblici (non ho rubato, non ho ucciso, ecc.), ma perfino con precetti a noi molto familiari. Infatti, già nelle antiche biografie scolpite sulle pareti delle tombe, o nei testi incisi nei sarcofagi del Medio Regno ritroviamo espressioni come “ho vestito gli ignudi”, “ho dato pane a chi aveva fame”, “ho dato acqua (i più generosi birra) a chi aveva sete”, che dimostrano come certi concetti legati all’idea di misericordia fossero già ben presenti nella mentalità egizia oltre duemila anni prima che andassero a costituire alcuni degli elementi distintivi del Cristianesimo.
* L’affermazione che a godere della vita ultramondana durante l’Antico Regno fossero solo i re ed una ristretta schiera lascia adito a diversi dubbi e, a mio avviso, è forse troppo limitativa. Altrimenti non si spiegherebbero le cure talvolta davvero impressionanti con cui si eseguivano le inumazioni già in epoca predinastica. Forse, ma è solo una mia considerazione, ai sovrani era garantito un aldilà celeste, “tra le stelle che non tramontano mai” e agli altri, o perlomeno a chi si poteva permettere una tomba, comunque una sopravvivenza in una dimensione decisamente più delimitata ai pressi della tomba, un persistenza “mortale” che possiamo considerare in qualche simile all’Ade greco o allo Sheol dell’Antico Testamento .
** Per una dettagliata descrizione di questo giudizio che va sotto il nome di “psicostasia” (pesatura dell’anima) si veda in proposito https://laciviltaegizia.org/2021/05/15/ib-il-cuore/
INCONOSCIBILE

Verrebbe a questo punto quasi spontaneo andare alla ricerca di affinità tra queste religioni. In realtà i punti in comune si esauriscono praticamente qui.
A parte l’ovvia e banale considerazione che siamo di fronte ad un politeismo in opposizione a dei monoteismi, sono proprio le premesse ideologiche ad essere completamente diverse.
Consideriamo, innanzitutto, che quella egizia non è una religione “rivelata”, vale a dire fatta conoscere da Dio stesso e sancita da un patto di assoluta fedeltà tra l’ Essere Supremo e il suo popolo cui era fatto obbligo assoluto di osservarne i Comandamenti (“ordini”).
Per gli Egizi (che non erano stati così fortunati a fare di persona la conoscenza con Dio), il divino è stato (ed è rimasto) semplicemente inconoscibile, ma non per questo meno percepibile. Attenti osservatori della natura e delle sue infinite manifestazioni, è attraverso queste che hanno letteralmente costruito la loro devozione.
La testimonianza del lungo percorso religioso, che va fatto risalire a molti secoli prima dell’unificazione del paese, ci è senz’altro fornita dalle consuetudini funerarie (seppellire i morti in determinate posizioni e accompagnati da ricchi corredi) e anche dall’iconografia. Divinità femminili dall’aspetto bovino, per esempio, erano collegate alla monarchia come testimonia la Tavolozza di Narmer o anche, al cielo, come dimostra un’altra Tavolozza rinvenuta a el-Gerza nella tomba 59, risalente al periodo Naqada II, che potrebbe essere la più antica rappresentazione nota della dea Hathor (o meglio della sua antesignana Bat).
Inoltre, le rappresentazioni di imbarcazioni, di grandi figure femminili con le braccia sollevate, piante, animali del deserto e segni indicanti l’acqua, appaiono collegate a credenze sull’esistenza di un mondo oltremondano e sulla fiducia in una rinascita. Sempre durante questo periodo, le rappresentazioni di santuari dimostrano che già esistevano centri cultuali e finanche una sorta di specialisti della religione che più tardi sarebbero andati a formare una vera e propria casta sacerdotale***.
Ad unificazione avvenuta si sviluppano, nei più importanti centri di culto, ed assumono caratteristiche ben definite, svariate “teogonie” nelle quali, per lo più, un demiurgo (un’entità divina generatrice) crea il cosmo e origina tutta la pressoché infinita serie di divinità****.
A sostanziale differenza con l’enunciato biblico, però, il mondo del divino egizio non è mai relegato esclusivamente alla sfera del trascendente. Tutt’altro: esso occupa indifferentemente e contemporaneamente il piano cosmico e sovrannaturale, e quello terrestre, umano, naturale nel quale rimane sempre immanente. Il piano terrestre, secondo la visione negativa arcaica, però, corre naturalmente, verso Isefet (il caos, il disordine, l’ingiustizia, la violenza; in definitiva, la legge del più forte).
“Il corso naturale delle cose è la rovina, la decomposizione, la disintegrazione” (Jan Assmann, Maât, L’Égypte pharaonique et l’idèe de justice sociale, pag.123).
La solidarietà, dunque, non è connaturata al cuore degli umani, che tende “istintivamente” all’egoismo e all’avidità*****.
E’ per questo motivo che nel piano cosmico, già all’atto della creazione, fa la sua comparsa Ma’at, l’entità che si oppone alla “gravitazione naturale verso il caos” per garantire giustizia, verità, solidarietà: in definitiva, il bene. Partendo dall’imprescindibile considerazione che nell’Antico Egitto non v’era alcuna distinzione tra Religione, Stato, politica e etica sociale, si comprende bene come l’applicazione e il compimento di Ma’at dovesse essere delegato, affinché fosse trasferita al mondo, ad un tramite, un garante intermediario tra la sfera cosmica degli dei e quella terrestre umana.
Questo tramite è il sovrano (più tardi designato come “faraone”) che assume caratteristiche divine proprio nell’esercizio di questa funzione. A lui gli dei danno il potere necessario affinché trionfi Ma’at e si scacci Isefet, che si compiano il buon funzionamento dello Stato e il benessere dei suoi sudditi; in cambio assicurerà che essi vengano onorati attraverso le offerte. E durante tutto il corso della storia egizia (ce lo dicono chiaramente i testi che sono giunti sino a noi) lo scopo rimane sempre quello: Ma’at deve essere compiuta affinché il mondo possa essere reso abitabile (lo stesso deve accadere anche, a livello cosmico, per permettere, ad esempio, che il sole sorga ogni mattina, rinascendo vittorioso dal suo pericoloso viaggio notturno)******. Con queste premesse appare chiaro che lo Stato faraonico non può affatto inteso come un’istituzione di forza, violenza e assoggettamento così come è dipinto nell’Esodo, ma piuttosto come un’istituzione di liberazione dell’uomo attraverso la mano dell’uomo. L’oppressione, secondo la visione egizia, non è un fatto politico, ma naturale e bisogna contrastarlo proprio attraverso la politica e grazie alla presenza dello Stato. In definitiva, lo Stato esiste per garantire Ma’at e non accada che homo homini lupus******* (Jan Assmann, Maât, L’Égypte pharaonique et l’idèe de justice sociale, pag.124)
*** Per approfondire l’argomento potete consultare I paragrafi relativi a “ L’ EGITTO: NASCITA DI UNO STATO UNITARIO al seguente link https://laciviltaegizia.org/kemet-lalba-delleternita/ “
**** Illustrare in questa sede le numerose cosmogonie che sono state elaborate nei vari centri di culto sarebbe troppo lungo e, tutto sommato, neanche necessario allo scopo di questo post. Basti ricordarne qualcuna per sottolineare come la diversità, per gli Egizi, avesse valore inclusivo (nel senso che una possibile ”verità” non ne escludeva un’altra). Così ad Heliopolis fu elaborata una cosmogonia che pone al centro della creazione Atum, Menfi vede come creatore Ptah, Hermopolis ricorre a un ogdoade (otto divinità), mentre l’antichissima Sais pone al centro del mito la dea Neith.
*****Un passo tratto dai “Testi dei Sarcofagi” e rinvenuto su sei sarcofagi del Medio Regno provenienti da El Berscheh, illustra perfettamente la naturale tendenza umana all’ineguaglianza e all’ingiustizia: (è il dio creatore che parla) << Ho compiuto quattro buone azioni dentro il portico dell’orizzonte: ho creato i quattro venti affinché ogni uomo possa riempirsene i polmoni, così come ognuno dei suoi contemporanei: è il mio primo beneficio. Ho fatto la grande inondazione perché il povero abbia diritto (ai suoi benefici) così come il ricco: è la mia seconda azione. Ho fatto ogni uomo simile al suo compagno; mai ho ordinato loro di fare il male, ma sono i loro cuori che hanno infranto i miei precetti: è la mia terza azione. Ho fatto che i loro cuori cessino di obliare l’Occidente, affinché le offerte divine siano date da essi agli dei nòmi (le provincie dell’Egitto). Trad. Edda Bresciani in “Letteratura e Poesia dell’Antico Egitto, pagg.60-61)
****** anche la brevissima, e per molti aspetti, infelice parentesi amarniana, spesso indicata come primo esempio di monoteismo, non può essere considerata come tale, ma piuttosto, come “enoteismo”. Si tratta in pratica di un atteggiamento religioso che tributa il culto ad una sola divinità, pur non escludendo l’esistenza delle altre.
******* Lett. “l’uomo è lupo per l’uomo”
DIFFERENZE E SOMIGLIANZE

Dopo aver dato una fugace descrizione di alcuni aspetti di Ma’at, e dei principi etici che sottintende, ritorno a un discorso più squisitamente di tipo spirituale.
Come dicevo in precedenza, è forte la tentazione di accostare aspetti della religione egizia ad altre a noi sicuramente più familiari. Le differenze, a mio avviso, sono così macroscopiche che i vaghi punti di contatto non possono assolutamente autorizzare una siffatta seduzione.
Partiamo dal più noto dei comandamenti: “Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di Me”. E’ la più esplicita ed inequivocabile dichiarazione di monoteismo******** che, ovviamente, è del tutto estraneo alla mentalità degli egizi. Le implicazioni, di conseguenza, sono completamente diverse. Nell’Antico Egitto, ad esempio, concetti come integralismo e fondamentalismo, con i conseguenti dolorosi atteggiamenti di fanatismo religioso che avrebbero generato, erano del tutto inconcepibili dal momento che ogni divinità era una possibile e diversa emanazione del dio (o degli dei) creatore. Nelle Due Terre, pertanto, potevano trovare accoglienza, senza alcun ostilità di sorta, anche numi provenienti da paesi stranieri. E’ illuminante in tal senso, la richiesta da parte di Amenhotep III, di una statua della dea Ishtar al re di Mitanni Tushratta.
Stesso discorso possiamo farlo per i seguenti comandamenti:
“Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra.”
“Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano,
ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.”
Una simile perentoria (e, diciamolo pure, intimidatoria) imposizione di prescrizioni, non mi sembra di averla mai incontrata nei testi egizi che mi è capitato di consultare. Permane, fondamentalmente, il rapporto di scambio, un “do ut des”, per dirle in breve, ma nella mentalità egizia si risolve molto più semplicemente nell’obbligo di onorare con le offerte (e con il comportamento etico, ovviamente) la divinità qualunque essa sia. Nessun egiziano,di conseguenza, doveva temere di essere maledetto fino alla terza generazione per aver venerato un nume piuttosto che un altro. In realtà, il popolo, che ben poco poteva comprendere delle sofisticate speculazioni teologiche che avvenivano nei Templi, praticava una religiosità molto più semplice e spontanea, limitandosi per lo più a seguire le tradizioni locali della città o regione in cui dimorava e ad attenersi, ovviamente, ai precetti di Ma’at che erano uguali per tutti.
Altri comandamenti, invece, come:
“Onora tuo padre e tua madre, affinché si prolunghino i tuoi giorni sulla terra che il Signore Dio tuo ti dà”
“Non uccidere”
“Non commettere adulterio”
“Non rubare”
“Non fare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.”
“Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie di lui, né il suo schiavo e la sua schiava, né il suo bue né il suo asino né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”
sembrano essere di chiara ispirazione egizia, e di gran lunga antecedenti, oltre che perfettamente rispondenti alle regole etiche e morali di Ma’at. É presumibile che ciò sia dovuto all’influenza esercitata dalla cultura faraonica. Ma non solo da quella, ovviamente, dal momento che le varie tribù nomadi del Vicino Oriente che molto più tardi sarebbero divenute Israele, assimilarono elementi culturali e cultuali dei paesi in cui di volta in volta stanziavano. Un’etica del soccorso e della protezione, infatti, la ritroviamo nella Bibbia, nei Vangeli e più tardi, nel Corano.
Guardando nello specifico alla tradizione Cristiana (o, per essere più precisi, paolina) si potrebbe pensare che i parallelismi siano più stringenti. In particolare, il celeberrimo “ama il tuo prossimo come te stesso” sembrerebbe in perfetta sintonia con i precetti di Ma’at. Ma anche qui la differenza è netta e sostanziale. Il Cristianesimo richiede un amore senza riserve: finanche verso il proprio nemico. Un egiziano non era affatto tenuto ad amare incondizionatamente, ma, invece, a porre in atto tutta una serie di comportamenti virtuosi affinché fosse amato: in pratica l’intento è letteralmente capovolto. A mio avviso, a dispetto di quanto possa essere (o sembrare) sublime il precetto cristiano, la concezione egizia, almeno dal punto di vista pratico sembra essere molto più efficace. Provate infatti a pensare ad un individuo che venga esortato ad amare anche chi gli arreca del male. A parte l’istintiva propensione a considerare ingiusta una simile richiesta, si può ben comprendere quanto sia difficile non arrivare al punto di reagire alle vessazioni, al sopruso e alla violenza. La storia, del resto, ben ci documenta, come il distorto ricorso a una simile idea abbia generato potere (nella peggiore accezione del termine) e oppressione soprattutto nei confronti dei più deboli. Comportarsi in modo da farsi amare, viceversa, responsabilizza, anzi obbliga, ogni essere umano che aspiri a guadagnarsi l’immortalità a muoversi in quella direzione. Questa unità di intento, almeno in teoria (ma in buona misura anche in pratica, a giudicare dalla lunghissima durata della civiltà egizia) ha garantito equilibrio e stabilità. Gli egizi erano ben consapevoli della naturale inclinazione umana alla sopraffazione, pertanto si può ben comprendere perché un altro celeberrimo versetto del Vangelo “porgi l’altra guancia”, non poteva trovare cittadinanza nella loro concezione etica, in quanto, a rigor di logica, del tutto contrario a quell’ideale di giustizia incarnato da Ma’at.
******** (da Enciclopedia Treccani) La credenza in un dio solo, propria delle religioni che si chiamano appunto monoteistiche. Queste sono, nell’ordine cronologico della loro formazione: il Giudaismo, il Cristianesimo e l’Islamismo, tra cui esiste anche un evidente nesso genetico, in quanto il secondo è sorto dal primo, mentre il terzo presuppone entrambi. Monoteistico è anche lo zoroastrismo (mazdeismo, parsismo) che si è formato in seno e in contrapposizione all’antico politeismo iranico, degradando le divinità di questo – a eccezione di Ōrmazd, proclamato dio unico – al rango di demoni. Oltre a queste grandi religioni, il monoteismo appare nella storia soltanto in dottrine o professioni di fede individuali (per es., in Grecia presso alcuni filosofi, tra cui Senofane nel 6° sec. a.C.) o in tentativi di riforma religiosa (per es., nell’Egitto antico sotto il faraone Amenhotep IV, meglio noto come Akhenaton, 14° sec. a.C.), senza arrivare a costituirsi in religione collettiva e duratura. Caratteristica del monoteismo è l’aspetto dottrinale che è sempre polemico nei riguardi del politeismo.
CONCLUSIONI

Un altro aspetto che mi ha dato molto da pensare è la funzione che aveva la religione nell’Antico Egitto. Come già rimarcato in precedenza, gli antichi sacerdoti svilupparono una serie di sofisticate cosmogonie intese a spiegare il funzionamento sia del mondo che del cosmo. Per la nostra mentalità sistematica una siffatta molteplicità è particolarmente difficile da comprendere. In realtà, per poterci immergere nella visione egizia è necessario calarci nel loro modo di pensare. Avevano un approccio di tipo cumulativo affiancato da un irriducibile conservatorismo. Sicché via via che si elaboravano nuove dottrine, queste non soppiantavano quelle precedenti, bensì le affiancavano, magari cercando di fonderle in un incessante lavoro di sintesi o di sincretismo. E questo ha fatto sì che, lungi dall’apparire loro in contrasto, andavano a costituire un complesso che, a dispetto della diversità, era sempre omogeneo e ben definito. Faccio un esempio, per chiarire meglio il concetto, riferendomi in questo caso a quella che impropriamente (secondo la mentalità egizia) chiamiamo arte. Una volta definiti i caratteri distintivi del loro modo di rappresentare (possiamo prendere come riferimento la celeberrima tavolozza di Narmer, ma già da molto prima certi elementi erano ben riconoscibili), questi si mantennero per tutti gli oltre tre millenni di storia di questa straordinaria civiltà. Trovandoci di fronte ad un opera egizia, ne riconosciamo immediatamente lo stile, il simbolismo, le caratteristiche. Anche l’osservatore più sprovveduto affermerà, con assoluta convinzione, di trovarsi al cospetto di un reperto della Terra dei Faraoni. E questo indipendentemente dal fatto che esso risalga all’Antico Regno, al Medio, al Nuovo, alla Bassa Epoca o perfino a quella ellenistica o romana. Eppure, le differenze ci sono, eccome: un occhio appena più esperto le coglie con immediatezza, ma tutto resta pur sempre rigorosamente, inequivocabilmente egizio. Anche questa commovente “stabilità” è da ricondursi a quel meraviglioso concetto di Ma’at che regolava ogni aspetto sia dell’esistenza terrena, sia di quella oltremondana.
Al riguardo, osserviamo, innanzitutto, che gli egizi furono i primi ad immaginarsi un aldilà. L’idea di un “altro mondo” nel quale i defunti si trasfigurano in spiriti e condividono l’esistenza degli dei e degli immortali è assolutamente unica tra le religioni dell’antichità, come quelle della Mesopotamia, dell’antica Grecia e di Roma ed anche della teologia dell’Antico Testamento. Lo Sheol ebraico, l’Ade greco, l’ Orco Romano, il Paese Senza Ritorno dei babilonesi sono tutti “regni dei morti popolati da morti”. Solo l’Egitto ha prodotto, oltre questo universo di morti, che pure gli è noto*********, una terza sfera dell’esistenza umana: un paradiso che non è altro che il mondo divino. Pure la mitologia greca (e anche quella romana) perverrà all’identificazione di un regione di beatitudine noto come Campi Elisi (denominazione che sembra derivare direttamente dall’ egiziano antico) che ha notevole somiglianza, soprattutto ambientale, con i Campi Ialu (o Iaru), ma resta pur sempre un luogo privo della presenza della divinità. Inoltre, l’accesso non è vincolato ad un giusto comportamento sulla terra, ma può avvenire per un atto di eroismo, ad esempio, o per motivi che possono apparire del tutto estemporanei come nel caso di Menelao, per aver subito il rapimento della moglie da parte di Paride.
La devozione egizia è, invece, profondamente e tenacemente ancorata ad un’ idea di redenzione dalla morte che è del tutto assente nelle altre antiche religioni (fatto salvo qualche esclusivo culto misterico greco e orientale) e che diventerà comune, solo molto più tardi, presso i nuovi monoteismi come Cristianesimo, Giudaismo Rabbinico e Islam.
Ciò che è sorprendente e rimarchevole è la funzione svolta da questa rivoluzionaria idea, viste le ripercussioni che ha avuto sull’esistenza quotidiana dell’egiziano Antico.
Pur essendo il “popolo più pio della terra”, così come fu definito dai greci, gli egizi erano al contempo estremamente pratici e razionali; anche la religione, perciò, doveva assolvere ad un suo scopo “utilitaristico” (mi si passi l’orribile termine). In buona sostanza, il fine era quello di generare ottimismo, una coesione di intenti che fosse perfettamente funzionale al buon andamento dello Stato e, di conseguenza, al benessere dei sudditi. La tanto strombazzata definizione di Erodoto (“L’Egitto è un dono del Nilo”) è vera solo in parte. Le piene fertilizzanti del lungo fiume andavano irreggimentate per massimizzarne l’effetto e questo richiedeva unione delle forze e una perfetta organizzazione delle masse lavorative; un’organizzazione, che sarà una caratteristica imprescindibile in qualsiasi campo di attività (costruzione di tombe, monumenti, ecc.). In quest’ottica, appare evidente che la fiducia nei confronti del sovrano (il garante di Ma’at) e quella nel premio di un’esistenza oltremondana nei paradisiaci Campi di Giunco, costituivano un deterrente decisamente importante. Inoltre, non avendo l’egizio dogmi da seguire, una divinità esclusiva e “gelosa” a cui obbedire e a cui eventualmente offrire la sua stessa vita, né alcuna esortazione al misticismo (anzi l’isolamento era proprio ritenuto contrario a Ma’at), ci si spiega bene come l’antica società faraonica non abbia lasciato tracce di martiri, eremiti, predicatori e via discorrendo (almeno a me non è mai capitato di incontrare personaggi simili nelle mie, seppur non numerose, consultazioni di testi pervenutici). Ma quest’ottimismo non era solo relegato alla sfera oltremondana e cioè all’attesa di un premio nell’aldilà; esso ha generato un atteggiamento nei confronti della vita lontanissimo da certi convincimenti tipici, ad esempio, del Cristianesimo. Per l’egizio, migliorare la propria esistenza, “passare un giorno felice senza stancarsene”, aspirare ad una crescita sociale, godere dei piaceri della vita (compresi quelli legati alla sessualità, vivaddio, dal momento che la mortificazione della carne non era ancora considerata una virtù, ma piuttosto un comportamento contro natura) era del tutto lecito e auspicabile, a patto che tutto ciò avvenisse in maniera onesta e non arrecando nocumento ad altri (ritorniamo sempre al rispetto delle regole di Ma’at). Tutto ciò contrasta in maniera lacerante con l’ insegnamento Evangelico. Esortazioni ed ammonimenti del tipo:
“Beati voi che ora avete fame, perché un giorno sarete saziati”
“Beati voi quando gli uomini vi odieranno, vi metteranno al bando, vi insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato a causa del Figlio dell’uomo”
“Guai a voi ricchi perché avete già la vostra consolazione”
“Guai a voi che ora siete sazi perché un giorno avrete fame”
“Guai a voi che ridete perché sarete afflitti e piangerete”
avrebbero senza dubbio terrorizzato i poveri egizi, cui simili sacrifici non erano affatto richiesti, ma che anzi si auguravano di vivere l’esistenza terrena nel miglior modo possibile.
Tutto ciò, paradossalmente, avveniva in un Stato che più autocratico non si può e per di più teocratico. Ma il tutto, come abbiamo visto, era governato dalle leggi di Ma’at cui ognuno era tenuto al rispetto, dal faraone al più umile dei servi e quindi quanto di più lontano si possa immaginare da certe aberrazioni ancor oggi riscontrabili in Paesi che adottano questa forma di governo.
Per contro, a partire dal momento in cui il Cristianesimo divenne religione di Stato, sappiamo bene quanto potere la sua Chiesa abbia acquisito e quanto questo potere sia stato fatto pesare. Si passò dalle persecuzioni subite (soprattutto per motivi politici, piuttosto che religiosi, ché i romani lasciavano solitamente ampia libertà di culto a patto che non minacciasse le loro Istituzioni), ad un’accanita e feroce lotta al paganesimo e all’acquisizione di un potere temporale ecclesiastico che schiaccia, opprime, oscura e diventa sempre più invadente e capillare. Ben diverso, mi appare, il concetto di “potere” che intendevano gli egizi. Quello faraonico era auspicato, lo apprendiamo dalle Lamentazioni successive al crollo del Antico Regno, quando la frantumazione politica dell’Egitto aveva gettato nel caos (Isefet) il paese per la prima volta, e si deplorava la mancanza di sovrani energici che avessero la forza e il “potere” per riportare Ma’at nella Terra degli Dei. A noi questo termine, provoca più che qualche malessere; per gli egizi era una garanzia di benessere e stabilità.
Concludo questa necessariamente breve disamina (l’argomento trattato avrebbe richiesto ben alto approfondimento), con un passo dell’Asclepius (un’opera che ci è giunta solo in traduzione latina) straordinario in quanto illustra perfettamente la drammatica consapevolezza che il tardo paganesimo egizio ha sia della sua altissima valenza etica, sia della sua fine imminente.
“ o forse non sai, o Asclepio, che l’Egitto è un’immagine del cielo, o – il che è più vero – un trasferimento e una discesa di tutto quel che è governato ed è esercitato nel cielo? E se bisogna dire con più verità il nostro Paese è il tempio del mondo intero.
Eppure, poiché bisogna che il savio tutto preveda, non vi è lecito ignorare questo: tempo verrà in cui apparirà che invano l’Egitto abbia con instancabile religiosità onorato piamente la divinità; e tutta la santa venerazione degli dei cadrà vanificata. Dalla Terra, infatti la divinità si ritirerà nel cielo ed abbandonerà l’Egitto: e quella terra che era stata la sede della religione perderà la sua gloria, vedovata dalla presenza dei numi…
Allora questa terra santissima sede di sacrari e di templi sarà pienissima di sepolcri e di morti. O Egitto, Egitto! Della tua religione solo sopravvivranno le favole ed anche quelle incredibili ai tuoi posteri e, solo, avanzeranno le parole incise sulle pietre che narreranno le tue pie imprese.”
(Testi religiosi egizi a cura di Sergio Donadoni, pag. 412)
********* ricordo che l’estensione dell’immortalità celeste a tutti gli uomini meritevoli, la cosiddetta “democratizzazione dell’aldilà”, si definisce compiutamente a partire dal Medio Regno.





























































































