Arti e mestieri

GLI ANELLI-SIGILLO

A cura di Luisa Bovitutti

L’anello era per gli Egizi un oggetto particolarmente significativo, in quanto è un cerchio senza principio e senza fine e rappresentava l’eternità intesa come incessante flusso del tempo; il suo uso si affermò nel corso della III dinastia ed in breve divenne il supporto ideale per i sigilli, che, come si è visto, avevano una valenza sfaccettata.

Esso infatti poteva portare inciso un ankh, un pilastro djed, uno scarabeo, un occhio di Ra, un falco o addirittura scorpioni e vipere, ed allora veniva utilizzato come amuleto contro le forze ostili e misteriose che minacciavano l’uomo.

I sovrani e gli esponenti del clero usavano portare anelli con l’immagine di una divinità per essere protetti, proprio come ancora oggi si fa con le medagliette sacre o crocifissi.

Il Faraone, gli alti sacerdoti ed i nobili indossavano pesanti anelli in oro con il sigillo del proprio nome, come segno distintivo della loro posizione sociale e della propria ricchezza e come si è già visto se ne servivano per apporre la propria firma con un’impronta sulle tavolette e sui papiri.

Il sovrano era solito distribuire anelli con il proprio nome ai più fedeli collaboratori, tant’è che nella Bibbia, in Genesi 41-42, si legge che il Faraone diede a Giuseppe uno di questi anelli come simbolo del potere e del suo favore:

“Preso l’anello con sigillo dalla sua mano, il Faraone lo mise sulla mano di Giuseppe; lo mise in abiti di lino fino e gli mise al collo una catena d’oro”.

Il marito egizio lo metteva al dito della moglie come attestazione di fiducia, affidandole così la custodia della casa e dei suoi beni, e pare che questa usanza abbia poi dato origine agli odierni anelli matrimoniali.

L’ANELLO-SIGILLO DI HOREMHEB

Molti anelli sigillo sono pervenuti fino a noi, recanti il nome dei più grandi faraoni della storia: oggi vi mostro quello di Horemheb, custodito al Louvre.

Si tratta di un anello in oro massiccio che misura 3,85 cm di diametro, il che indica che non era stato progettato per essere indossato ma, più verosimilmente, per essere usato come sigillo ufficiale.

Esso ha un castone a quattro facce che possono ruotare, sulle quali compaiono il cartiglio con il nome di incoronazione del re (Djeser-kheperu-re Setep-en-re), un leone maestoso, simbolo del potere reale, insieme ai geroglifici “Neb khepesh”, che significa “Signore della forza”, un coccodrillo e uno scorpione, che, come si è detto, secondo gli egizi avevano qualità apotropaiche.

LE DUE FACCE DELL’ANELLO DI ASHBOURNHAM

Questo anello in oro, esposto al British Museum fu rinvenuto a Sakkara ed ha una lunetta girevole rettangolare che reca inciso su di una faccia il prenome di Thutmosis III ed altri epiteti: “Menkhperra amato da Ptah dal bel viso”, sull’altra il “nome delle due signore” del re: “Grande del terrore in tutte le terre”.Esso è noto come “anello di Ashburnham” e faceva parte del corredo funerario del generale Djehuty, la cui tomba fu scoperta nel 1820 a Saqqara e della quale parleremo in seguito.

https://www.britishmuseum.org/collection/object/Y_EA71492

ANELLO DI CHEOPE

Questo anello in oro puro a più di ventuno carati, esposto al museo di Brooklin, reca il cartiglio di Cheope, per cui in passato si credeva che fosse il sigillo del costruttore della Grande Piramide.

La traduzione completa dei geroglifici incisi sulla lunetta, peraltro, chiarisce che in realtà apparteneva ad un sacerdote di nome Neferibre, addetto al culto di Iside e di Cheope divinizzato, che visse nel periodo tardo, sotto la XXVI o XXVII dinastia.https://www.brooklynmuseum.org/opencollection/objects/4094

ANELLO DI SHESHONQ

Questo massiccio anello d’oro (la lunetta è lunga ben 3,40 cm.), ritrovato a Tebe e custodito al British museum, risale al 575 a. C. circa ed ha la forma che nel Periodo Tardo sostituì quasi del tutto il precedente tipo fuso in un unico blocco, in quanto la lunetta stata realizzata separatamente e poi saldata all’anello vero e proprio.
Essa è incisa con il nome di Sheshonq e con il suo titolo “Sovrintendente capo della divina adoratrice” e, oltre che per sigillare documenti e oggetti, serviva per mostrare lo status e la ricchezza del proprietario.
Il nome Sheshonq appartenne a diversi faraoni di origine libica, ma divenne popolare anche tra gli egizi. Le fonti ci hanno restituito la memoria di due uomini con quel nome, che furono entrambi assistenti della divina adoratrice, ma le informazioni limitate su questo anello non permettono di stabilire se appartenne al più noto dei due, titolare di un’imponente tomba nell’Assasif a Tebe, che operò nella prima metà del VI secolo a. C. con la divina adoratrice Ankhnesneferibre, figlia di Psammetico II, oppure al suo omonimo, che visse nella seconda metà dello stesso secolo.
https://www.britishmuseum.org/collection/object/Y_EA68868

ANELLO DI AKHENATON

Questo anello in oro, oggi conservato al British Museum, venne realizzato con il metodo della cera persa; la lunetta è incisa con il nome di intronizzazione di Akhenaton (Neferkheperure Waenre) e con un rebus scritto in modo incompleto che significa “tutto l’Egitto è in adorazione” (del nome).
Il curatore del museo evidenzia che esso è stato quasi certamente indossato e utilizzato dallo stesso Akhenaton, che aveva concentrato nelle sue mani i poteri che in passato il faraone era solito delegare ad alti funzionari, affidando loro il proprio sigillo perché potessero agire in suo nome e per suo conto.
https://www.britishmuseum.org/collection/object/Y_EA37644

ANELLO DI AMENHOTEP II

Questo anello in oro massiccio reca un cartiglio con il nome di Amenhotep II affiancato dagli dei del Nilo.

https://www.britishmuseum.org/collection/object/Y_EA54549ha

ANELLO CON UN FARAONE BAMBINO ACCOVACCIATO

Questo anello in oro massiccio è inciso con la rappresentazione stilizzata di un bambino-re accovacciato (riconoscibile dalla treccia dell’infanzia), che indossa un indumento a piccole pieghe ed un alto copricapo adornato con un ureo.

Egli siede sopra i segni geroglifici di “Signore delle due terre” e ha in mano una grande piuma, simbolo di Maat; sopra di lui c’è un disco solare.

La descrizione del sito del British segnala anche un flabello Shu dietro di lui, un segno ankh davanti, e due cobra affiancati al disco solare, ma sinceramente io non riesco a vederli!

I fianchi larghi di questa figura suggeriscono lo stile di Akhenaton, che forse è il sovrano qui rappresentato.

Il curatore del museo evidenzia che l’immagine del re da bambino sottolineava il suo ruolo nel ciclo di rigenerazione e rinascita come figlio degli dei. Questo simbolismo era particolarmente importante alla fine della XVIII dinastia, sotto Amenhotep III, Akhenaton e Tutankhamon.

https://www.britishmuseum.org/collection/object/Y_EA32723

ANELLO CON IL CARTIGLIO DI TUTANKHAMON

Questo anello con sigillo orizzontale venne indossato per lungo tempo, tant’è che mostra segni di usura. È iscritto al centro con il prenome di Tutankhamon, Neb-kheperu-re, che reca sulla destra e sulla sinistra degli epiteti: “amato di Amon”, “signore dell’eternità”.

Il disco solare nella parola “eternità” appare con il segno pendente che significa “vita”, secondo una grafia comune durante il regno di Akhenaton.

L’ANELLO DI RAMSES II

Questo anello sigillo d’oro, custodito nel Museo statale di arte egizia di Monaco di Baviera (SMAEK) reca il prenome di Ramses: “È il dio del sole Re che lo ha dato alla luce, amato da Amon” ed è l’unico anello sigillo d’oro del grande faraone ad essere giunto fino a noi.

Il grande diametro suggerisce che fosse indossato sopra un guanto in lino come quello trovato nella tomba di Tutankhamon, che il re indossava quando teneva le redini guidando il carro o tirava con l’arco.

https://www.bavarikon.de/…/bav:SMA-OBJ-0000000000000013…

ANELLO DI AMENHOTEP II

Questo anello in oro massiccio ha una lunetta rettangolare girevole incisa su un lato con il nome del trono del faraone Amenhotep II e con gli epiteti: “il dio perfetto, figlio di Amon, potente signore” e sull’altro con gli epiteti: “colui che combatte contro centinaia di migliaia, figlio di Ra, Amenhotep, sovrano divino di Eliopoli”.

Apparteneva in origine alla collezione di manufatti egizi raccolta da Henry Salt durante la sua permanenza al Cairo come console generale britannico, protrattasi tra il 1815 ed il 1824; fu scoperto da Salt in una tomba memfita e la mummia che lo indossava fu venduta al re d’Olanda, che la espose al Museo Reale.

https://www.liverpoolmuseums.org.uk/…/signet-ring-of…

ANELLO DELLA REGINA AHHOTEP

Questo anello con sigillo in oro, ora al Louvre, apparteneva alla regina Ahhotep, vissuta tra il 1570 e il 1540 a.C. e considerata la madre della XVIII dinastia.

Esso misura quasi 2,5 cm di larghezza. La lunetta è incisa con i segni geroglifici del suo nome, che significa “La luna è soddisfatta”.

http://historiarrc.blogspot.com/…/06/anillos-egipcios.html

ANELLO DI SA-NEITH

Questo anello sigillo in oro, ora al museo di Barcellona, risale alla XXVI dinastia ed apparteneva a un importante sacerdote di nome Sa-Neith, che si fregiava dei seguenti titoli: “Profeta e padre divino”, “Direttore delle cappelle (della dea Neith)”, “Sacerdote di Horus”, “Colui i cui due diademi sono grandi”, “Sacerdote wen-ra di Ptah, che lo ama”, “Signore della città di Letópolis”, nel delta del Nilo, che forse era la sua città di origine.

https://www.museuegipci.com/ca/la-colleccio/la-joieria/

ANELLO DI AKHENATON E NEFERTITI

Questo anello in oro del diametro di cm. 2,5 è stato trovato ad Amarna ed è esposto al MET di New York.

Le due figure sedute sulla lunetta sono probabilmente Akhenaton (a sinistra) e Nefertiti (a destra) raffigurati come le divinità Shu (aria come indicato dalla piuma che tiene in mano) e Tefnut (umidità), padre e madre della terra e del cielo, simbolicamente rappresentati dal geroglifico che indica la terra, sul quale sono appoggiati e dal disco solare affiancato da due cobra sacri sopra di essi.

https://www.metmuseum.org/art/collection/search/544679

Oltre alle fonti già citate, per la redazione del post ho consultato i seguenti link:

Arti e mestieri

I SIGILLI NELL’ANTICO EGITTO

A cura di Luisa Bovitutti

Indagando sui sigilli della tomba di Tutankhamon mi sono incuriosita, e ho raccolto un po’ di materiale sulla loro storia, scoprendo che nell’antico Egitto essi avevano non solo un ampio utilizzo amministrativo ma esprimevano anche una gamma più ampia di aspetti religiosi e culturali della società.

Tecnicamente i “sigilli” sono le impronte prodotte premendo su di un materiale morbido come l’argilla la cosiddetta “matrice”, ossia una superficie dura recante incisioni e realizzata in legno, osso, pietra o faience; nel linguaggio comune, tuttavia, il termine viene usato indifferentemente per designare sia la matrice che l’impronta.

Essi nacquero in Mesopotamia attorno al 4.000 a. C. con funzioni certificative e permettevano di stampare rapidamente e per molteplici volte scritte o immagini senza doverle tracciare a mano; in origine le matrici avevano forma cilindrica e venivano ruotate sull’argilla ancora umida della tavoletta scrittoria per lasciare l’impronta.

Sigillo cilindrico in oro massiccio di Isesi, faraone della V dinastia che regnò tra il 2381 ed il 2353 a. C., custodito al Museum of Fine Arts di Boston.

Sulla superficie sono visibili il serekht con il suo nome di Horus “Djed-ja-u”, ossia “E’ stabile nelle apparizioni” e il cartiglio con il suo nome di intronizzazione, ossia Djedkara, cioè “Lo spirito stabile di Ra”.

In Egitto comparvero in epoca predinastica (3600 a. C. – Naqada 2); essi erano realizzati in ceramica e venivano usati soprattutto come amuleti da portare al collo con inciso il nome del titolare, che doveva essere protetto in quanto assicurava la rinascita nell’Aldilà: un’iscrizione della tomba di Petosiris, il sommo sacerdote di Thoth a Hermopolis, recita: “Un uomo è sopravvissuto quando viene pronunciato il suo nome”.

Nel corso delle prime dinastie vennero progressivamente sostituiti dal tipo a base piatta (simile ai nostri timbri) più adatto per stampare anche sul papiro; nell’Antico Regno e nel Primo periodo intermedio essi assumono forma ovale, tonda o rettangolare e recano scolpiti segni geroglifici, nomi di re e divinità, motivi geometrici o floreali, simboli sacri come il pilastro Djed, l’Ureaeus, l’Udjat, sfingi, figure umane o animali.

Sigillo in legno della necropoli reale (con soli quattro prigionieri invece di nove).
Altezza: 5,7 cm; Lunghezza: 11,5 cm; Larghezza: 4,4 cm, al Louvre

Il fatto che siano stati rinvenuti soprattutto nelle sepolture femminili e infantili, infilati in collane insieme a perline e ad altri amuleti, ha indotto gli studiosi ad ipotizzare che fossero destinati a propiziare la fertilità, a proteggere le madri durante il parto ed i neonati.

Essi assunsero funzione certificativa non prima dell’inizio del Medio Regno, quando cominciarono ad essere utilizzati anche dagli uomini, che li portavano al collo come segno del loro status; uno dei ruoli di rilievo nell’amministrazione statale era rivestito dal ”Portatore del sigillo reale”, e un sacerdote di alto grado con il titolo di ”Portatore del sigillo del dio”, presiedeva ai riti della mummificazione ed era secondo solo al sacerdote che impersonava Anubi.

Si sigillavano lettere, giare, cesti, sacchi, gli ingressi dei magazzini o delle tombe per attestarne la titolarità e difenderne il contenuto, in quanto l’effrazione del sigillo avrebbe rivelato qualsiasi manomissione non autorizzata; anche i rotoli di papiro venivano assicurati con un filo bloccato da un sigillo d’argilla o semplicemente con un sigillo all’estremità.

Amuleto sigillo della necropoli reale in faience turchese – Nuovo Regno – Altezza: 6,2 cm; Larghezza: 3,4 cm; Spessore: 1,4 cm. – Louvre. Questi amuleti sigillo hanno nella parte posteriore un anello che permette di appenderli al collo con una collana

Questi sigilli ed in particolare le “etichette” apposte sulle giare, che recano indicazioni sul Faraone regnante e sull’anno di regno, forniscono elementi importantissimi per datazione del contesto archeologico nel quale furono rinvenute.

L’apposizione di sigilli ad un luogo gli conferiva una particolare sacralità perché lo rendeva inaccessibile per chiunque, compreso il sovrano, ed infrangerli era considerato un crimine gravissimo, punito da Ra con la distruzione del Ba, senza il quale la persona non poteva aspirare alla rinascita nell’aldilà.

Il patrono dei sigilli era Thot, “l’abile scriba”, dio della saggezza, della magia ed inventore dei geroglifici, al quale l’incantesimo n. 8 del Libro dei morti attribuiva il compito di “sigillare la testa del defunto”, ossia, probabilmente, di dotarlo della conoscenza, degli incantesimi e dei segreti che lo avrebbero aiutato ad entrare nell’Oltretomba e a compiere il suo pericoloso viaggio verso la rinascita.

La relazione tra i sigilli e il dio Thot è confermata non solo dai testi, ma anche dal rinvenimento di molti sigilli ed impronte con i simboli o il nome del dio.

Sigillo proveniente da Amarna, per stampare l’etichetta sulle giare di vino – Louvre

Oltre alle fonti già citate, per la redazione del post sono stati consultati anche questi link:

Arti e mestieri

LA COSTRUZIONE DELLE TOMBE REALI

A cura di Nico Pollone

la costruzione delle tombe reali della Valle dei Re può essere considerata una vera e propria industria edile dell’antichità tanto da formare un villaggio dove i lavoratori risiedevano stabilmente: Deir El Medineh.

La comunità di operai specializzati che risiedeva nel villaggio di Deir el-Medineh era incaricata della costruzione delle tombe reali. Questa comunità viveva praticamente in “ isolamento” a causa della necessità di discrezione e segretezza imposta dalla costruzione delle tombe reali. Per questo motivo, la comunità rispondeva direttamente al visir ed era controllata dal Medjay, il corpo di guardie che custodiva la necropoli reale.

La durata della giornata lavorativa variava a seconda delle dimensioni della tomba. Iniziava all’alba e durava circa otto ore, con una breve pausa per il pranzo. Gli operai erano organizzati in squadre che lavoravano sotto la supervisione di un architetto. La squadra era suddivisa in due gruppi che lavoravano simultaneamente sotto gli ordini di due capisquadra. Il caposquadra, nominato dal faraone stesso o dal visir, era responsabile del lavoro, controllava le ragioni delle assenze degli operai dal lavoro e trattava con il visir attraverso uno scriba. I capisquadra dovevano controllare la distribuzione del materiale immagazzinato nei magazzini e fare una lista dei lavoratori presenti e assenti. Il numero di membri del gruppo non era fisso, ma in media variava tra le 30 e le 60 persone, anche se questo numero poteva essere aumentato.

Programma di costruzione

Una volta scelto il sito per la costruzione della tomba, l’esecuzione del progetto era affidata all’architetto e agli artigiani di Deir el-Medina. Il primo passo era quello di disegnare la pianta della tomba, specificando le caratteristiche architettoniche così come la decorazione, i dipinti e i testi da raffigurare sulle pareti. I compiti dei lavoratori erano specializzati e complementari: scalpellini, stuccatori, scultori, disegnatori e decoratori lavoravano fianco a fianco e simultaneamente in una specie di catena di montaggio.

Gli scalpellini erano i primi ad entrare in azione. Man mano che gli scavi penetravano nella montagna, venivano rifiniti i muri a partire dalle zone più vicine alla entrata applicando uno strato di un tipo di intonaco fatto di argilla, quarzo, calcare e paglia schiacciata, sopra il quale veniva applicato uno strato più leggero di intonaco, fatto di argilla e calcare, e infine il muro veniva imbiancato con aljez (tipo di gesso) sciolto in acqua. La decorazione, che era scelta dai sommi sacerdoti insieme al faraone, era affidata ad artisti specialisti in questo settore. La superficie da decorare veniva suddivisa in numerosi quadrati utilizzando l’aceto e uno spago legato a un bastone, per posizionare correttamente le figure e i testi in modo che le proporzioni fossero rispettate secondo i canoni stabiliti. I disegnatori lavoravano sotto la supervisione di un capo disegnatore che controllava l’esattezza della bozza eseguita in colore ocra, faceva le correzioni necessarie in carboncino (nero). Poi era il turno degli scultori, che iniziarono a scolpire la parete per ottenere un bassorilievo che sarebbe stato poi colorato dai pittori.

Nell’immagine: Ostracon nel Museo di Luxor, che mostra un raro lavoro di costruzione.

Arti e mestieri

LO SCRIBA

A cura di Grazia Musso

Personaggio cardine della società burocratica egizia, lo scriba fu descritto, dalle immagini come dalla letteratura, come la colonna portante della società.

Gli scribi nella società egizia erano burocrati, ma il significato della professione era più profondo.

La scrittura era la “parola di dio”, per il suo magico potere creativo ; possederne il “segreto” dava grande importanza allo scriba.

Uno dei più importanti caratteri della società egizia fu il suo genio amministrativo, l’aver inventato, applicato e, a quanto sembra, aver fatto egregiamente funzionare, una complessa macchina burocratica, di cui lo scritturale o scriba, era a un tempo l’ingranaggio e il simbolo.

La scuola degli scribi era accessibile solo ai maschi, l’apprendimento consisteva nella memorizzazione del sistema di scrittura e poi negli interminabili esercizi di copiatura di testi che spesso contenevano insegnamenti morali.

Presso i maggiori templi si trovavano poi le “Case della Vita”, che in linea di principio non erano vere scuole, ma piuttosto centri in cui gli scribi templari copiavano i testi da rivendere a biblioteche private o da porre nei sepolcri ; tuttavia, dato che la copiatura era il sistema tradizionale di insegnamento, le Case della Vita, divennero di fatto delle scuole e dei centri di ricerca filosofica, scientifica, letteraria, ma soprattutto religiosa.

Fonte:

Dizionario Enciclopedico dell’antico Egitto e delle civiltà Nubiane – Maurizio Damiano – Appia – Mondadori.

Arti e mestieri

LA PRODUZIONE TESSILE NELL’ANTICO EGITTO

A cura di Luisa Bovitutti

La lavorazione dei tessuti risale agli albori della civiltà egizia infatti un vaso datato 5000 a.C. proveniente dal Fayoum conteneva dei semi di lino ricoperti da un brandello di lino grezzo.

Come ci ha detto Grazia qui e dai ritrovamenti nelle sepolture si deduce che il lino era la stoffa più utilizzata per realizzare abiti, bende per avvolgere le mummie, cinture, tappeti, tuniche o coperte. In modo sporadico furono lavorate anche la canapa, la lana (introdotta in Egitto in età romana per creare elaborati arazzi), la seta (usata in epoca greca per realizzare raffinate vesti femminili) ed il cotone, che fu utilizzato dal III secolo a.C. ma trovò il suo massimo utilizzo solo dopo la conquista araba del 640 d.C..

A seconda del trattamento cui era sottoposto il lino assumeva colorazioni che andavano dal grezzo al bianco splendente, che era la tinta più apprezzata ed utilizzata anche se sono stati ritrovati tessuti con colorazioni brillanti.

Per tingere le stoffe venivano utilizzate sostanze di origine vegetale e fra queste l’Isatis tinctoria (detta anche Guado o Gualdo) una pianta dai piccoli fiori gialli dalla quale si ricavava un rosso porpora e successivamente, attraverso la fermentazione delle foglie, il verde ed il blu. Dalla lavorazione della pianta Indigofera tinctoria si otteneva un colore blu intenso, dalla rossa radice della Rubia tinctorum (robbia) si otteneva il rosso, e dal Carthamus tinctorius (cartamo o zafferanone) dai grossi fiori arancioni si estraeva il giallo; c’erano tuttavia anche colori di origine animale come il rosso estratto da un parassita delle querce (Coccus ilicis)

Esistevano laboratori tessili annessi ai templi ed altri che producevano manufatti solo per il faraone, mentre la popolazione più povera lavorava il lino in piccole botteghe domestiche.

Gli annali del faraone Thutmosis III riferiscono l’impiego nelle botteghe tessili di prigionieri di guerra provenienti dalla Siria, che dovevano tenere dei registri dove annotare la quantità e qualità della produzione.

Nel testo letterario del Medio Regno chiamato “Satira dei mestieri” il lavoro del tessitore egizio viene così descritto: “Il tessitore è dentro nella sua bottega [..] sta peggio di una donna partoriente.. le sue ginocchia sono sulla bocca dello stomaco e non ha respiro. Se egli resta nella giornata senza tessere è punito con cinquanta frustate e deve dare una mancia al portinaio perché gli lasci vedere la luce..”

Abiti, Arti e mestieri

LA FABBRICAZIONE DEI TESSUTI

A cura di Grazia Musso

La materia primaria era il lino che si raccoglieva in diversi momenti dell’anno, per ottenere fibre di varia flessibilità e resistenza.

Le fibre venivano separate dalle parti legnose con la pettinatura, cui seguiva la bagnatura e la battitura. Poi si sbrogliavano le matasse per iniziare la filatura.

Esistevano tre tecniche di filatura : la prima consisteva nel far girare il fuso sulla coscia, attorcigliando la fibra mentre la si stendeva con l’altra mano; nella seconda il fuso veniva fatto girare tra le mani passando il filo attraverso una forcella; la terza tecnica prevedeva il passaggio della fibra attraverso un anello in una conca d’acqua, che la rendeva morbida e facile da lavorare. La fibra scivolava tra le dita di una mano e si arrotola a sul fuso, in tal modo si otteneva un filo molto sottile e uniforme.

Una volta ottenuto il filato, questo veniva lavorato nei telai. Il telaio orizzontale consisteva in due rulli appoggiati al suolo, sui quali venivano collocati fili paralleli dell’ordito. Separando i fili mediante due pettini lucci, si potevano passare perpendicolarmente quelli della trama, formando il tessuto a un’estremità del telaio.

Questo compito aspettava alle donne ma, con l’introduzione del telaio verticale, il lavoro di tessitore divenne un’attività maschile.

Il telaio verticale aveva una cornice rettangolare, che veniva posta in senso verticale, con due rulli agli estremi. I fili dell’ordito venivano fissati nella parte superiore e la tela si arrotola a nel rullo.

Il Tessitore si sedeva davanti al telaio, tirando i fili della trama verso il basso. Con questo lavoro si ottenevano vari tipi di tessuto, a seconda dello spessore del filo e della combinazione e densità della trama: ” lino reale” (il più sottile), ” tela sottile fina”, ” tela sottile” e “tela liscia”.

La trama poteva variate con l’inserimento a intervalli di fili più grossi, ponendo due fili di trama ogni due di ordito (tecnica del canovaccio), con strisce di trama più compatta unita ad altre più aperte.Per ornare le stoffe si usavano orli, sciolti o raccolti in fasci, che erano lavorati nella stesa tele tessuta o venivano cuciti in seguito ai bordi del tessuto, facendo delle nappine.

Infine il tessuto veniva lavato, gualcato e stirato. Quest’ultima fase aspettava a lavandai professionisti. Dalle fonti scritte si sa che esistevano laboratori tessili di proprietà dei templi e del faraone.

Nelle foto: gli indumenti di Kha che si trovano al museo egizio di Torino.

In questo disegno, ai piedi dei filato ( due donne e un uomo), vi sono alcuni contenitori pieni d’acqua, dove vengono messe in ammollo le fibre, che passano attraverso gli anelli posti alla base. I fili così ottenuti si arrotola o nei fusi con dischi all’insù. La donna al centro sta raddoppiando lo spessore dei fili da quattro ne ottime due per filato del gomitolo, aumentando la resistenza del tessuto.

In questo disegno due donne tessono la Stoffa usando un telaio orizzontale, formato da due rulli fissati a terra, sui quali passano i fili dell’ordito. Una donna con due pettini licci separa i fili per passare la trama; l’altra, con un pettine, li stringe a un’estremita’ e il tessuto terminato viene avvolto su uno dei rulli.
La rappresentazione verticale del telaio è la realizzazione della prospettiva nell’arte egiziana.

Riparazione eseguita su un pezzo di lino risalente alla prima dinastia egizia
LA COLORAZIONE DEL TESSUTO

Durante l’antico Egitto i tessuti colorati erano molto scarsi.

La Stoffa di lino bianco era la più comune. Alcune piccole matasse (nella figura sopra) venivano tinte con colori rossiccio o marrone e servivano per creare decorazioni come quella illustrata nell’altra immagine (sotto), di tessuto copto di lino, o per orli che ornavano il collo e le maniche delle tuniche.

L’esplosione del colore si ebbe durante l’epoca copta ( III – VII secolo d. C.), con la diffusione della lana che, più sensibile al mordente ( agente chimico che fissa la tinta al tessuto), permetteva una grande varietà di colori di origine vegetale, per esempio il giallo del cardamomo o dello zafferano, o animale.

Fonte: Egitto – Gli Egizi straordinari artigiani – De Agostini.

Arti e mestieri

I PORTI DEI FARAONI SUL MAR ROSSO

A cura di Sandro Barucci

Si conoscono più porti dei faraoni sul Mar Rosso, possibili basi di partenza per le spedizioni verso sud.

Parliamo qui di due scali che precedono Hatshepshut e di uno suo contemporaneo.

Il più antico porto al mondo, inteso nel senso moderno , con diga foranea, magazzini, locali equipaggi, è Wadi Al Jarf (vedi pianta qui allegata) cui dette grande impulso Snefru attorno al 2600 a.C. Snefru è lo stesso che la Pietra di Palermo cita per l’importazione di legname dal Libano con 40 navi (una rotta di 500 Km da Byblos al Delta). Non sappiamo di quanto si siano spinti verso Sud nel Mar Rosso gli equipaggi di Snefru o del suo successore Cheope, cui appartengono le ultime testimonianze regali in questo porto. Come dice Tallet “siamo autorizzati a domandarci se da qui partirono spedizioni più ambiziose…forse anche verso il lontano paese di Punt “.

Successivamente il porto dei Faraoni diviene Ayn Soukna, più vicino alla capitale Menfi. La prima testimonianza scritta di una spedizione a Punt è ancora dalla Pietra di Palermo e riguarda il faraone Sahura della V Dinastia. La datiamo attorno al 2480 a.C. Sono anche noti i bassorilievi della rampa di accesso alla Piramide di Abusir che commemorano l’evento. L’importanza dei beni esotici arrivati è esplicita nella raffigurazione di Sahura accanto all’albero trapiantato nel suo giardino (nell’immagine).

Le spedizioni nel Mar Rosso verso Sud divengono poi più frequenti. Il porto di partenza per la XII dinastia è Mersa/Wadi Gawasis con svariate testimonianze. Un periodo in cui sembrano arrestarsi è il Secondo Intermedio, finchè il dinamismo di Hatshepsut non rinnova dopo molto tempo questa avventura.

Mersa/Wadi Gawasis è probabilmente il porto di partenza per la spedizione ordinata dalla Regina, anche se in seguito, durante il Nuovo Regno questo scalo è soggetto ad un progressivo insabbiamento e verrà abbandonato. Da qui era semplice raggiungere la capitale Tebe.

Abiti, Arti e mestieri

L’ABITO A RETE IN PERLINE

A cura di Patrizia Burlini

Al Petrie Museum di Londra è conservato uno splendido abito a rete in perline di faïence della V Dinastia (circa 2400 a.C).

L’abito fu scoperto da Guy Brunton nella necropoli di Qau-El-Kebir (un tempo chiamata Tjebu, o Djew-Qa o Antaepolis) nel 1923-1924. Nel 1994-1995 due Conservatrici del Petrie hanno ricomposto le perline (il filo che le teneva insieme era andato perduto), ricostruendo l’abito. Nella parte inferiore è presente una frangia composta da ben 127 conchiglie che contengono al loro interno un sassolino che , con il movimento, produce un suono ritmico. Ciò ha indotto gli studiosi ad ipotizzare che si trattasse di un abito destinato ad una danzatrice, bella e sensuale come suggerisce l’immagine del post. Guy Brunton notò come questo abito riportasse alla mente un famoso racconto del papiro Westcar, un papiro del 1800 a.C. circa che racconta vari episodi di alcuni faraoni dell’Antico Regno, tra cui Snefru.

In questo racconto il faraone Snefru, trattato in modo sarcastico come un personaggio piuttosto tonto, per combattere la noia, si avvia ad una gita in barca sul lago regale e chiede quanto segue: “Portatemi venti donne dagli ampi seni rigonfi e dai capelli intrecciati che non abbiano ancora dato nascita; portate 20 reti e fatele indossare a queste donne, quando siano state posate le loro vesti”.

Il racconto mette in evidenza l’aspetto seducente ed erotico di quest’abito e allo stesso tempo l’atteggiamento mellifluo del sovrano.

Erano davvero usati normalmente questo abiti? Non lo sappiamo con certezza. Al MFA di Boston è conservato un abito simile della IV Dinastia, regno di Cheope (Khufu). Una ricostruzione dell’abito del Petrie ha mostrato che questo, a causa delle perline in faïence, risulta abbastanza pesante da portare e decisamente poco confortevole.

Sappiamo che la maggior parte delle tuniche a rete a noi pervenute erano destinate ad un uso funerario. Le tuniche per le mummie sono riconoscibile grazie ai simboli che recano, come l’Horus alato e i suoi 4 figli. Si può ipotizzare che questi abiti, se usati in vita, fossero riservati ad occasioni particolari. Il MFA di Boston ipotizza che fossero cuciti sopra ad una tunica aderente in lino.

Un sincero grazie a Nico Pollone per avermi trasmesso la sua traduzione del testo originale del Papiro Westcar che ho leggermente rielaborato.

L’abito è conservato al Petrie Museum di Londra con il Nr identificativo UC17743-1.

Arti e mestieri, Materiali

IL BRONZO E LO STAGNO

A cura di Sandro Barucci

Trascorrendo i secoli , il bronzo assume sempre più le caratteristiche di composizione che ha ai giorni nostri.

Pubblichiamo qui come esempio lo studio fatto da ricercatori egiziani su 10 statue del Museo del Cairo, datate fra l’ottavo ed il primo secolo a.C. L’immagine in alto raffigura Nefertem, qui sotto il sommario delle altre statue con le analisi metallografiche (eseguite con moderne tecniche senza toccare i manufatti).

La percentuale di Stagno rispetto al totale riveste un ruolo importante nei risultati che si vogliono ottenere: come già detto , a partire dall’ 1% aumenta la durezza e la tenacia della lega ; mediamente ai nostri giorni i risultati sono ottimizzati con una percentuale di 9-10 % circa. Questa proporzione ha anche il risultato di abbassare il punto di fusione , e l’aggiunta di piombo che si nota, ha l’ulteriore effetto di aumentare la fluidità della colata , due dati importanti per chi realizza una statua. Si vede nella tabella come i capimastri fossero già ben consapevoli del da farsi.

Aumentando ulteriormente la percentuale di stagno oltre il 15% , la lega diventa più dura ma più fragile , e si arriva al sonoro “bronzo per campane” ; si vede in tabella che questo effetto viene giustamente evitato.

Arti e mestieri, Materiali

IL BRONZO NEL NUOVO REGNO

A cura di Sandro Barucci

Come detto parlando del Rame arsenicale, durante il Nuovo Regno si diffonde in Egitto l’uso del Bronzo , inteso nel senso odierno come lega di Rame e Stagno.

La prima testimonianza di una scultura regale in Bronzo ci arriva grazie al Metropolitan Museum of Art di New York (the “MET”) . Questa Istituzione ha scelto di condividere molto della sua collezione e documentazioni a favore della comune Cultura.

Vediamo la statua in Bronzo di Tutmhosis III dal MET, in una lega particolare, il “Bronzo nero” , che è ottenuto aggiungendo argento o oro alla lega . Mediante un trattamento finale si riesce a scurire il manufatto, così da far risaltare ad esempio gli occhi o le palpebre in oro di questa statua (datazione ca. 1479–1425 a.C. ).

Il MET pubblica anche lo studio citato nei riferimenti, dal quale si desume anche l’esatta composizione della statua:

  • Rame Cu 88,5%
  • Stagno Sn 4,3 %
  • Arsenico As 0,5 %
  • Oro Au 6,1 %
  • Argento Ag 0,4 %
  • Ferro Fe 0,2 %

Come per l’Arsenico, anche per lo Stagno una percentuale sopra l’1% è per convenzione definita come volontaria, e già migliora le caratteristiche della lega. Vediamo che l’oro è in una percentuale di ben il 6,1% , per ottenere poi l’effetto estetico di annerimento finale.

Rif.:

Hill, Marsha, and Schorsch, Deborah (1997), A Bronze Statuette of Thutmose III, Metropolitan Museum Journal, v. 32.