Iconografia, Medio Regno

LA MUCCA PIANGENTE

Dal sarcofago di Kawit

Nelle immagini una lacrima scende dall’occhio della mucca mentre viene munta e mentre ha vicino il suo vitellino.

Che significato avrà questa scena?

La scena è presente sui sarcofagi di almeno due regine, Kawit (JE47397) e Aashyt (JE47267), entrambe mogli di Montuhotep II (XI Dinastia).

Dal sarcofago di Kawit

Una delle spiegazioni avanzate (per la scena di Kawit) è che la mucca pianga per essere costretta a dare il suo latte all’uomo anziché al suo vitellino. Secondo Dietrich Wildung, invece, il vitellino nel sarcofago di Aashyt rappresenta Horus in fuga dal pericolo e in cerca di protezione presso la sua divina madre Hathor, che mostra la sua preoccupazione attraverso la lacrima.

Sarcofago di Aashyt

La prima spiegazione non può essere considerata valida perché la mucca con la lacrima è rappresentata in questo modo anche quando non viene munta e anche quando è senza il vitellino.

La rappresentazione delle mucche nei vari contesti dei due sarcofagi ha certamente una funzione rituale: non è una semplice rappresentazione della vita quotidiana e dell’’approvvigionamento di cibo per il defunto. Nel sarcofago di Aashyt è presente un altare di fronte alla mucca, un’indicazione certa di un contesto rituale.

Sarcofago di Aashyt

Un interessante parallelismo va fatto con le mucche e i vitellini in corteo nelle rappresentazioni del Nuovo Regno, dove i vitellini sono sovente rappresentati con una zampa amputata. Secondo un’interpretazione, si tratta di una rappresentazione di Horus a cui Iside amputa e poi sostituisce la mano che aveva toccato il seme di Seth, secondo il racconto della storia di Horus e Seth.

Il vitello con la zampa amputata da una tomba del Nuovo Regno

Il dolore della mucca è anche collegato al dolore per il proprietario della tomba. Il ruolo della mucca è quindi equiparato a quello di Iside che piange per suo marito Osiride e per il figlio Horus.

Anche se la scena dell’amputazione della zampa non è presente nei due sarcofagi, è ragionevole supporre che la mucca pianga per il destino che, all’interno di un noto rituale, sarà riservato al vitellino.

Tale rituale solo raramente viene esplicitato in immagini e lo sarà prevalentemente in età molto più tarda, (XVIII e XIX Dinastia).

Riassumendo:

  • La lacrima potrebbe rimandare al rituale del taglio della zampa non rappresentato sui due sarcofagi citati
  • La lacrima non ha collegamento con la mungitura
  • Il vitellino rappresenterebbe Horus

Questo tipo di rappresentazione fu molto limitata nel tempo e nello spazio (presente qui, nella zona di Tebe, un’invenzione iconografica limitata e accessibile a dei privilegiati).

Il motivo della mucca con la lacrima fu un’invenzione limitata quindi solo alla XI Dinastia e in seguito si preferì utilizzare il motivo della mucca e vitellino che muggiscono quando separati, secondo una tradizione già in voga nell’Antico Regno.

Fonte:

Perspectives on lived religions. Edited by N. Starling, H. Twiston Davies and L Weiss Palma 21, Papers on Archeology of the Leiden Museum, Sidestone Press, 2019

Arte, Medio Regno

BASSORILIEVO DI SEHETEPIBRA

Di Francesco Alba

Bassorilievi in calcare provenienti dalla cappella del Supervisore delle Truppe Sehetepibra

Dimensioni:
parete posteriore: cm 30,5 x 42,5 x 10,6
parete destra: cm 30,5 x 49,2 x 9,7
Luogo di probabile provenienza: Abido
Medio Regno, Tredicesima Dinastia (1802-1650 a.C. circa)
The Metropolitan Museum of Art, New York, Rogers Fund, 1965 (65.120.1, .2)

Nel corso del tardo Medio Regno divenne pratica comune includere nelle cappelle votive e nelle stele erette ad Abido, membri della famiglia e colleghi dei proprietari dei monumenti funerari.
È questo il caso delle due pareti superstiti di quella che probabilmente era una piccola cappella a tre lati eretta in favore del sorvegliante delle truppe Sehetepibra, figlio di Sitankhu, e della sua famiglia. Entrambi i pannelli superstiti presentano la figura di Sehetepibra seduto davanti a un tavolo delle offerte, che includono carne di manzo, volatili, frutta, verdura e pane. Sulla parete di fondo, una formula di offerta richiede queste e altre provvigioni agli dèi Osiride, Upuaut, Horus e Khnum e alle dee Heqet, Hathor e “le dee che risiedono in Abido”. Il testo sulla parete destra contiene un elenco di epiteti elogiativi di Sehetepibra e un appello per ricevere offerte da parte di coloro che avrebbero visitato la cappella.


L’angolo inferiore destro della parete posteriore e la metà inferiore della parete destra sono profondamente intagliati a formare una nicchia occupata da una fila di dieci figure mummiformi, ciascuna delle quali è identificata da un’iscrizione. Mentre le stele con figure presenti all’interno di nicchie sono abbastanza comuni nel tardo Medio Regno, il santuario di Sehetepibra è del tutto insolito per il fatto di includere un numero così elevato di figure, alcune delle quali presentano caratteristiche identificative peculiari. Gli uomini sono tradizionalmente raffigurati con la pelle rossa, il copricapo khat dalla forma caratteristica e la mano destra che afferra il polso sinistro. Le donne hanno la pelle gialla, indossano parrucche con estensioni sul davanti e hanno entrambe le mani nascoste sotto le bende.


Tutti gli individui possiedono orecchie grandi, occhi dalle palpebre pesanti e volti disegnati. Sia queste convenzioni artistiche che lo stile delle preghiere di offerta rendono consistente una datazione dei rilievi alla tredicesima dinastia.


La figura mummiforme più grande e più a destra è proprio Sehetepibra. Accanto a lui si trova la “Signora della casa”, Djehutyhotep, presumibilmente sua moglie. Alla sua sinistra si trova la figlia Sitankhu, seguita da Wahka, figlio di Sitmay, la cui relazione con Sehetepibra non è chiara. Seshemi, figlia di Sitankhu e quindi nipote di Sehetepibra, è la successiva, seguita da Senebes, figlia di Gifet, e dal “supervisore delle truppe” Khentikheti, figlio di Renesankh. Le ultime tre figure, sulla parete di fondo, sono Djehutyhotep, figlio di Ity; Gifet, figlia di Djedes; e Sehetepibra, figlio di Djedes. Mentre alcune di queste persone appartengono con sicurezza alla cerchia familiare di Sehetepibre, altre sono più difficili da identificare.

Sehetepibra in caratteri geroglifici


Nella cappella non compaiono né Sitmay, madre di Wahka, né Djedes, madre di Gifet e Sehetpibra; si ipotizza che fossero mogli di Sehetepibra raffigurate sulla parete sinistra, oggi perduta. Perciò, Senebes, figlia di Gifet, sarebbe un’altra nipote del nostro.
Khentikheti riveste particolare interesse, essendo l’unica persona, oltre a Sehetepibra, a essere identificata con un titolo e l’unico individuo maschile con le mani nascoste. La sua parrucca khat mostra segni di ritocchi: è possibile che si tratti di un apprezzato collega incluso nella cappella rielaborando una precedente figura femminile.

Alcune nozioni grammaticali – a cura di Livio Secco

L’occasione è valida per mostrare alcune regole grammaticali della lingua egizia. Il mio scopo è sempre lo stesso: incuriosirvi nella grafia egizia finché cederete alla tentazione di imparare la lettura e la scrittura del geroglifico!

Nella prima diapositiva trattiamo i verbi causativi e la metatesi onorifica. Lettura da destra a sinistra, dall’alto verso il basso.

Nella seconda diapositiva studiamo la scrittura piena e la scrittura difettiva. Lettura da destra a sinistra, dall’alto verso il basso.

Essendo un post appositamente didattico ho aggiunto la riga della traduzione letterale, oltre a quella consueta della fonetizzazione italiana con la codifica IPA.

Spero di avervi incuriosito a sufficienza. Prima o poi cederete!

Riferimenti
A. Oppenheim, D. Arnold, Dieter Arnold, K. Yamamoto
Ancient Egypt transformed – The Middle Kingdom
The Metropolitan Museum of Art, New York – Yale University Press, New Haven and London. 2015

G. Miniaci, W. Grajetzki
The World of Middle Kingdom Egypt (2000-1550 BC) – Vol. I
Middle Kingdom Studies 1
Golden House Publications, London. 2015

The Metropolitan Museum of Art – New York
https://www.metmuseum.org/art/collection/search/558084

Medio Regno

PLACCA DI AMENEMHAT IV

Di Ivo Prezioso

Placca d’oro traforata raffigurante Amenemhat IV

Sotto la barretta superiore, simboleggiante il cielo, il motivo decorativo è rappresentato da una scritta in geroglifico. Un cartiglio posto al di sopra della figura del re contiene il nome di intronizzazione di Amenemhhat IV, M3′-ḫrw-R'(Maatkherura, lett. “La voce di Ra è Maat”) subito seguito dall’epiteto nṯr nfr (netcher nefer, vale a dire “il dio perfetto”). I simboli dopo il cartiglio (il testo si legge da destra a sinistra) recitano Tm nb ‘Innw. (Tem neb Innw, cioè “Atum Signore di Heliopolis”). Tra le due figure i simboli si traslitterano in: dỉt m(ḏ)t (dit medjet, “dare, offrire unguento”). ©Foto The British Museum, Masterpieces of Ancient Egypt, pag. 96

Medio Regno, XII Dinastia. Circa 1795 a.C.

Londra, The British Museum, inv. 59194

Oro. Altezza: 2,90 centimetri. Larghezza: 3,10 centimetri. Spessore: 0,10 centimetr. Peso: 8 grammi.

Provenienza incerta, inizialmente acquistata a Beirut.

Dono della Birmingham Jewellers’ and Silversmiths Association nel 1929.

Sebbene questo oggetto sia stato definito un pettorale, ci sono poche ragioni per supporre che lo fosse. La mancanza di anelli di sospensione e i suoi perni rendono più probabile che si tratti della copertura di un amuleto cilindrico. Tre piccole spille sul retro lasciano pensare che potesse essere incastonata su un altro supporto. Esempi più elaborati di questo tipo, prodotti per la prima volta durante il Medio Regno, prendevano la forma di trafori dorati, con le cavità dell’oro riempite con pietre semipreziose secondo la tecnica cloisonné. Il disegno è stato ritagliato da una lamina di metallo, utilizzando uno scalpello per tracciare il contorno; gli artigiani egiziani non possedevano cesoie o seghe sottili. L’oggetto fu realizzato con estrema cura e sono visibili i più piccoli particolari delle figure, dai tratti del viso, alla muscolatura delle gambe.

©https://www.britishmuseum.org/collection/object/Y_EA59194

La placca consiste in una cornice quasi quadrata, con il bordo superiore che assume la forma del geroglifico del cielo (pt). In basso è raffigurato il re Amenemhat IV che presenta un vaso d’unguento al dio Atum, “Signore di Eliopoli”. Atum è in piedi, impugna uno scettro nella mano sinistra e indossa la doppia corona dell’Alto e del Basso Egitto. Nella mano destra regge il geroglifico della vita (ankh), che conferisce al re in cambio delle offerte che questi gli presenta. Sotto la giara presentata dal sovrano, sonopresenti dei simboli geroglifici che recitano “dare unguento”.

La provenienza di questo pezzo non è documentata, ma è probabilmente fenicia.

Fonti:

C'era una volta l'Egitto, Medio Regno, XII Dinastia

NEFRUSOBEK – LA PIRAMIDE SETTENTRIONALE DI MAZGHUNA

L’AGONIA DELLA XII DINASTIA E LA FINE DEL MEDIO REGNO

Di Piero Cargnino

Veniamo ora a quello che può effettivamente essere considerato l’ultimo faraone della XII dinastia e quindi del Medio Regno, era una donna, Nefrusobek, (Sobekneferu, Sobekkara Sobekneferu/Nefrusobek), sorella, (e forse moglie?), di  Amenemhat IV, regnò dopo di lui per circa 4 anni come citato nel Canone Reale di Torino.

Nefrusobek, “Bellezza di Sobek”, viene citata da Manetone come sorella di Amenemhat IV e noi la prendiamo così anche se non esiste conferma in nessun rilevamento archeologico. Si sa che ebbe una sorella, Neferruptah (“Bellezza di Ptah”)  che forse si associò al trono, nel tempio di Medinet Madi è stato ritrovato un cartiglio, prerogativa regale recante il nome di Neferuptah inscritto all’interno.

Si suppone comunque che Neferruptah sia morta in giovane età, ad Hawara esiste una piramide a lei destinata. Di Neferruptah abbiamo già parlato trattando il faraone Amenemhat III, suo padre.

In assenza di riscontri che attestino la reale esistenza della regina Nitocris, personaggio semi-leggendario, possiamo ritenere che  Nefrusobek sia stata il primo faraone donna della storia egizia anche se lei però non indossò mai il Pschent (la doppia corona).

Prima di succedere al fratello, Nefrusobek, come si può intuire dal nome, fu sacerdotessa di Sobek, il dio coccodrillo di Shedet. C’è da dire inoltre che fu anche il primo personaggio di stirpe regale ad attribuirsi il nome teoforo di Sobek. usanza che si consoliderà con l’imminente XIII dinastia.

Trascrizione di Flinders Petrie del sigillo cilindrico recante la titolatura di Nefrusobek

Sul regno di Nefrusobek e del fratello Amenemhat IV c’è molta incertezza, Percy E. Newberry ipotizzò che Amenemhat III avesse nominato coreggenti sia il figlio Amenmenhat IV che la figlia Nefrusobek e che quest’ultima, alla morte del fratello, avrebbe regnato da sola. L’egittologo italiano Franco Cimmino ha però fatto notare che numerosi ritrovamenti del solo cartiglio di Amenemhat IV invalidano la teoria di Newberry del regno congiunto.

Nel 1988, l’egittologa Biri Fay identificò, nella foto di un busto in grovacca andato perduto durante la seconda guerra mondiale, quello che oggi viene chiamato “ritratto di Nefrusobek” e che oggi è possibile ammirare solo in fotografia.

Veniamo ora alla piramide settentrionale di Mazghuna che viene comunemente attribuita alla regina Nefrusobek, questa si presenta più grande di quella di Amenemhat IV, ma si ritiene che la sovrastruttura non venne mai iniziata.

L’accesso alla parte ipogea è situato sul lato nord, da qui si poteva accedere a un passaggio ad U, che attraversava due sale con annesse saracinesche in granito, in fondo al corridoio era ubicata l’anticamera dalla quale si accedeva alla camera funeraria. La camera ripeteva quella di Amenemhat IV con la sola differenza che in essa, oltre al sarcofago era anche contenuta la cassa dei canopi, una pesante lastra di granito, (42 ton.), non fu mai calata a coprire il tutto.

Sorpresa, oltre la camera funeraria si presentava un’altra sala, la cui funzione rimane tuttora incompresa.

Con la morte di Nefrusobek possiamo dichiarare ufficialmente chiusa la XII dinastia e con essa il glorioso, seppure con tutte le sue contraddizioni, Medio Regno.

Statua frammentaria di Nefrusobek, dove si notano il corpo femminile e parte della corona regale. Museo del Louvre, Parigi.

Non esistono documenti o reperti archeologici in grado di spiegare a quali eventi possa imputarsi la caduta di una dinastia quale la XII che fu anche molto importante con alcuni faraoni tra i più saldi e prestigiosi che l’Egitto abbia mai avuto. L’Egitto si trovava in un momento di grande potenza e supremazia rispetto ai paesi vicini per cui è da escludere che la causa di quella che sarà, per le Due Terre, una strisciante decadenza sia da imputare ad eventuali invasioni straniere, che si verificheranno poi centocinquanta anni dopo con gli Hyksos, Cimmino pensa che il collasso possa essere stato provocato:

<<……. dall’improvvisa carenza di personalità di grande levatura e, forse, da discordie per la successione…….>>.

Quello che affronteremo ora è un periodo che va dal 1790 al 1543 a.C. e comprende cinque dinastie, caratterizzato da lotte di potere interne che vedranno coinvolti numerosi faraoni quasi del tutto insignificanti che porteranno il paese verso una situazione di debolezza tale che culminerà con l’invasione degli Hyksos. 

Fonti e bibliografia:

  • Cimmino Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano 2003
  • Nicolas Grimal, “Storia dell’antico Egitto”, Roma-Bari, Biblioteca Storica Laterza, 2011
  • Cimmino Franco,”Storia delle piramidi”, 1^ edizione, Milano, Rusconi Libri, 1996
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Oxford University Press 1961, Einaudi, Torino 1997
  • Miroslav Verner, “Il mistero delle piramidi” Newton & Compton editori, 2002 Mark Lehner, “The Complete Pyramids”, London, Thames & Hudson, 1997 
C'era una volta l'Egitto, Medio Regno, XII Dinastia

AMENEMHAT IV – LA PIRAMIDE MERIDIONALE DI MAZGHUNA

L’AGONIA DELLA XII DINASTIA E LA FINE DEL MEDIO REGNO

Di Piero Cargnino

Amenemhat III muore dopo circa mezzo secolo di regno, la XII dinastia riesce ancora ad esprimere un paio di sovrani che però non riusciranno ad evitare il crollo del Medio Regno. Gli successero i suoi stessi figli Amenemhat IV e Nefrusobek.

Di loro si conosce poco e spesso vengono considerati insignificanti. Dopo una breve coreggenza, (forse), Amenemhat IV, (Hor Kheperkheperu), successe al padre e regnò probabilmente per una decina di anni.

Il suo regno è poco documentato e quello che sappiamo di lui ci è pervenuto tramite alcune iscrizioni presenti nelle cave di Uadi Maghara che testimoniano di una notevole attività di estrazione che lascia supporre che qualcosa sia ancora stato edificato, alcuni gli attribuiscono la costruzione del piccolo tempio di Medinet Maadi nel Fayyum.

Alcuni reperti di fabbricazione egizia, risalenti all’epoca di Amenemhat IV, sono stati rinvenuti in tombe di principi palestinesi dal che si deduce il perdurare di buoni rapporti con i popoli di quelle regioni.

Non ci sono pervenute notizie su eventuali spose reali né se abbia avuto figli, cosa che pare improbabile poiché alla sua morte gli successe la sorella, (e sposa?), Nefrusobek.

Il suo complesso funerario Amenemhat IV se lo fece costruire nei pressi di Dashur, a Mazghuna, a circa 5 chilometri dalla piramide romboidale di Snefru. Il sito fu oggetto degli scavi dell’egittologo Flinders Petrie, con la collaborazione di MacKay e Wainwright che, nel 1911 si trovarono di fronte ai resti di due piramidi pesantemente danneggiate. Basandosi su alcune affinità con la piramide di Amenemhat III, le attribuirono ai suoi figli, Amenemhat IV ed a sua sorella Nefrusobek.

Oggi tale attribuzione è ormai consolidata tranne che per l’egittologo americano William Hayes che, confrontando somiglianze strutturali con la piramide di Khendjer, XIII dinastia, suggerisce di posticipare la datazione. Su una cosa però sono tutti concordi, in queste due piramidi non fu mai sepolto nessuno.

Della sovrastruttura di entrambe non rimane quasi nulla, permangono invece le parti ipogee nelle quali proveremo ad introdurci. Iniziamo con la piramide situata a meridione che venne attribuita ad Amenemhat IV. Alla base doveva misurare circa 52 metri di lato, il nucleo in mattoni è appena riconoscibile mentre il paramento è del tutto mancante, cosa che non permette una valutazione dell’inclinazione e di conseguenza dell’altezza.

Da un attento esame della sottostruttura emergono affinità con quella di Amenemhat III ad Hawara. L’ingresso era situato al centro della parete meridionale dal quale partiva un corridoio scalinato discendente, con barriere formate da tre blocchi di granito, dopo la barriera il passaggio si interrompeva a causa di un crollo, superato l’ostacolo si presentava una sala dalla quale si accedeva ad un’anticamera e quindi alla camera funeraria situata sull’asse verticale della piramide.

Come quella del padre nella piramide di Hawara, anche la camera funeraria di Amenemhat IV era costituita da un enorme monolite in quarzite nel quale era stata ricavata un’incavatura contenente il sarcofago. Era anche stato predisposto un massiccio blocco in granito che avrebbe dovuto sigillare la camera ma che non fu mai impiegato. Nel corso del corridoio erano previsti anche dei pozzi per scoraggiare i violatori di tombe. Il tempio funerario presenta solo alcuni resti, si pensa che in origine doveva avere tre grandi ambienti oltre a molti più piccoli, e un santuario. L’intero complesso era circondato da un muro in mattoni in buona parte rinvenuto.

Fonti e bibliografia:

  • Cimmino Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano 2003
  • Nicolas Grimal, “Storia dell’antico Egitto”, Roma-Bari, Biblioteca Storica Laterza, 2011
  • Cimmino Franco,”Storia delle piramidi”, 1^ edizione, Milano, Rusconi Libri, 1996
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Oxford University Press 1961, Einaudi, Torino 1997
  • Miroslav Verner, “Il mistero delle piramidi” Newton & Compton editori, 2002 Mark Lehner, “The Complete Pyramids”, London, Thames & Hudson, 1997
C'era una volta l'Egitto, Medio Regno, XII Dinastia

AMENEMHAT III

L’ULTIMO GRANDE FARAONE DEL MEDIO REGNO

Di Piero Cargnino

Il Medio Regno volge al termine, prima dell’inevitabile collasso, la XII dinastia riesce ancora ad esprimere un grande faraone, Amenemhat III, (Hor-Abau), figlio di Sesostri III.

In realtà non fu l’ultimo faraone della XII dinastia la quale si protrasse ancora per circa 15 anni durante i quali governarono un paio di sovrani insignificanti in un clima di anarchia che preparerà la strada al Secondo Periodo Intermedio.

Amenemhat III successe al padre e regnò intorno al 1800 a.C. approfittando della tranquillità assicurata dalle campagne militari paterne. Quanto tempo regnò è un po un enigma (come per la maggior parte dei faraoni), secondo Manetone avrebbe regnato 18 anni mentre il Canone Reale di Torino ne riporta 40, dai ritrovamenti archeologici pare che ne abbia regnati 45. Fu un grande faraone, seppe dare alle Due Terre il momento di massimo splendore e potenza del Medio Regno. Favorì il commercio, in particolare con l’estero, intraprese notevoli scambi con le città di Biblo e Ugarit, si pensa che i suoi commerci siano giunti fino a Creta, di ciò però non esistono prove.

Secondo alcuni si può pensare, con una certa ragionevolezza, che sul finire della XII dinastia la stessa Fenicia fosse amministrata da un governatore filo-egiziano. Numerose furono le spedizioni nel Sinai alla ricerca di materie prime e nella terra di Punt. Intensificò l’attività edilizia e molte furono le spedizioni alla ricerca della pietra da costruzione, tanto che, dalle iscrizioni rinvenute nelle varie località dove sorgono le cave, è stata ritrovata una notevole quantità di informazioni su questo periodo. Sulle orme di Sesostri II, intraprese un’opera di grande rilevanza continuando la bonifica del Fayyum utilizzando il lago Qarun come bacino di controllo delle acque del Nilo. Nonostante i lavori eseguiti dai suoi predecessori, l’opera di Amenemhat III fu così grandiosa che ancora in epoca romana nel Fayyum si praticava il culto in suo onore.

Alcuni suppongono che, ferma restando la capitale a Ity Tawy, (el-Lisht), abbia fatto costruire il suo palazzo e si sia trasferito a Shedet da dove esercitò il potere. Il luogo del suo riposo eterno ci crea non pochi problemi, Amenemhat III si fece costruire non una ma due piramidi, la prima a Dashur la seconda a Hawara. Per la costruzione della sua prima piramide, “Amenemhat è potente”, scelse Dashur, e per ultimarla furono impiegati 15 anni, dopo di che fu immediatamente abbandonata. Oggi è ridotta ad un ammasso di rovine grigio scuro, da cui prende il nome di “Piramide Nera”, derivato dalla presenza di basalto nel nucleo molto scuro e dal colore del pyramidion in diorite grigia.

Il Pyramidion, alto in origine 1,3 metri, fu scoperto nel 1900, semisepolto dai detriti, sul lato orientale della piramide, recuperato, venne trasferito al Museo Egizio del Cairo dove è possibile ammirarne la bellezza.

Fra tutti i pyramidion conosciuti è il più famoso perché presenta su una delle facce il disco solare alato, (“colui che si solleva”), simbolo che risulta dalla fusione tra il sovrano, Ra e il falco Horus e tra le iscrizioni si legge il nome di Amon.

Il Pyramidion di Amenamhat III ha suscitato numerose domande tra gli egittologi che a tutt’oggi non hanno ancora trovato risposte soddisfacenti. Vediamole:

  1. Come poteva essere rimasto quasi intatto dopo il distacco dalla cima della piramide?
  2. Il nome di Amon pare essere stato aggiunto dopo Akhenaton, il che significa che il pyramidion giaceva già a terra in quel tempo?
  3. Fu effettivamente eretto in cima alla piramide?
  4. Oo si trattava solo di un pyramidion votivo che giaceva già in origine di fronte alla piramide?

Nel 1839 Perring visitò la piramide senza però riuscire ad approfondirne lo studio perché il suo accampamento venne assalito dai beduini ed egli dovette fuggire. Ancora minore attenzione gli dedicò Lepsius quando la visitò nel 1843.

Passò mezzo secolo prima che giungessero Jéquier e Legrain ma, malgrado il loro lavoro, utilizzando spesso mezzi un po rozzi, come era consuetudine a quei tempi, l’indagine non venne ultimata.

Finalmente nelle campagne 1976-79, la spedizione dell’Istituto archeologico del Cairo, sotto la direzione di Arnold e Stadelmann portò a termine l’indagine.

La piramide si presenta con un nucleo a gradoni interamente in mattoni senza scheletro in pietra. Il rivestimento esterno è stato eseguito con blocchi di calcare fissati gli uni con gli altri per mezzo di grappe di legno per dare una maggiore tenuta e  stabilità.

La parte ipogea della piramide, a differenza delle precedenti della XII dinastia, presentava due ingressi scalinati, uno ad est ed uno ad ovest, uno per il faraone e l’altro per due sue spose reali. I due ingressi sono collegati tra di loro da un corridoio. L’ingresso alla parte destinata al faraone si trovava ad oriente, vicino all’angolo sud-est della piramide, a circa quattro metri sotto il livello del terreno, in modo da poterlo successivamente nascondere con la sabbia, da qui per mezzo di una scala si accedeva al corridoio di accesso scalinato e discendente, interrotto da un sarcofago. Proseguendo si entrava in un groviglio di passaggi, pozzi, barriere e camere, di cui una con sarcofago, situati a diverse altezze ed interamente rivestiti in calcare. Dopo circa 20 metri il corridoio piegava a nord verso la camera del re. Nel punto in cui il corridoio piegava sbucava da ovest un corridoio proveniente dalle camere delle regine. Alle camere delle regine si accedeva attraverso un’entrata situata ad ovest della piramide.

La camera del re risultava spostata dall’asse verticale della piramide, orientata est-ovest ed era completamente rivestita con blocchi di fine calcare bianco. Lungo la parete occidentale si trovava un sarcofago monolitico in granito rosa con coperchio arcuato, i bordi dei lati decorati con modanatura a stuoia di papiro, sul lato orientale, all’altezza della testa si trovano gli occhi udjat che guardano verso il sole nascente, lo zoccolo su cui poggia è decorato a facciata di palazzo.

Per quanto riguarda le spose regine, nella piramide di Amenemhat III si raggiunge il massimo dell’evoluzione di un’usanza già iniziata da Sesostri I, per loro non più una piccola piramide a parte bensì all’interno della piramide stessa del sovrano, in appartamenti destinati a loro, con tutto il corredo funerario, i propri vasi canopi e del loro Ka. All’interno di questi appartamenti sono stati rinvenuti due sarcofagi in granito rosa appartenuti, uno alla regina Khnemet-nefer-hedjet che si presenta con decorazioni, l’altro grezzo di una regina ignota.

Questi appartamenti accoglievano anche alcuni famigliari tra cui la principessa Sithathor, erano raggiungibili attraverso un corridoio discendente scalinato interrotto da un sarcofago di una principessa posto di traverso. Questa parte si presenta in uno stato molto degradato con i corridoi molto stretti in pietra e mattoni, vi sono numerose travi a sostegno dei soffitti. E’ stato inoltre rinvenuto un ulteriore complesso sotterraneo collegato agli altri sotterranei ma che si snoda all’esterno della base della piramide sul lato sud, alcuni vedono in questo l’inizio di grandi cambiamenti religiosi con l’introduzione di nuovi dogmi relativi alla destinazione delle anime.

In effetti questa è la parte più misteriosa, ricca di simbologie destinata al culto del Ka dei defunti. Si compone di tre cappelle per il Ka del faraone e cinque nicchie oltre alle cappelle per il Ka delle regine ed una nicchia non terminata, all’interno di una cappella vennero rinvenuti dei vasi canopi.

Come detto sopra dopo aver impiegato 15 anni a costruirla, la piramide venne immediatamente abbandonata. Per quale, inspiegabile, mistero la Piramide Nera fu abbandonata non ci è dato a sapere. Secondo fonti storiche qualcosa, forse di volontario, destabilizzò la struttura poco prima che venisse ultimata. E’ stata avanzata l’ipotesi che si siano verificate piene del Nilo superiori a quelle che solitamente si verificano causando grandi esondazioni, a causa di ciò le acque, infiltrandosi nelle fondamenta, avrebbero minato la stabilità della piramide. Si obietta però che il Nilo, che durante la stagione estiva riceve l’80-90% dell’acqua dal Nilo Azzurro, è un fiume regolare e calmo e come tale prevedibile, appare dunque sminuente, riduttivo e limitato, nei confronti degli architetti egizi, la cui esperienza è decisamente provata, attribuire loro errori di calcolo così madornali la cui causa sia stata lo sprofondamento della piramide.

A questo punto si è scatenata una ridda di ipotesi che tentano di spiegare il fenomeno giungendo anche alla fantarcheologia. Secondo alcuni potrebbe essere intervenuta una causa improvvisa, indotta da un fattore a noi sconosciuto ed al quale non siamo in grado di dare una spiegazione, magari anche voluta, per camuffare dell’altro?

Purtroppo la piramide di Dashur, come quella di Hawara con relativo labirinto, (di cui parleremo in seguito), si presentano estremamente complesse. Entrambe in completa rovina, pongono agli studiosi numerosi enigmi, chi fu realmente Amenemhat III? Perché la Piramide Nera di Dashur non è mai realmente ferma al suo posto ma, pare, compia degli spostamenti che non possono essere attribuiti alle esondazioni del Nilo? Forse per nascondere un fenomeno che non doveva essere conosciuto ai più?

A queste domande risulta oggi molto difficile dare una risposta in quanto la zona che circoscrive la piramide è sotto sorveglianza militare e non è possibile effettuare ricerche approfondite se non con concessioni speciali riservate a pochi ed è interdetta al turismo. Il perimetro del complesso piramidale era delimitato da un doppio recinto con mura in mattoni intonacati che include il tempio funerario, la cinta muraria più interna è decorata a facciata di palazzo. Sul lato rivolto a nord, tra le due mura, al centro della piramide si trova una fila di dieci tombe a pozzo appartenenti a membri della famiglia reale.

La prima tomba da est venne più tardi usurpata da un insignificante faraone della XIII dinastia, Auibre Hor, del quale parleremo più avanti. Nella seconda tomba da est fu sepolta la principessa Nubhetepet-Ikhered, (la giovane), probabile figlia di Amenemhat III o di Auibre Hor. Inutile precisare che Amenemhat III non fu mai sepolto in questa piramide. Per delle ragioni che ignoriamo, Amenemhat III abbandonò la necropoli di Dashur e decise di far edificare la sua tomba nel Fayyum, scelse per questo un luogo non lontano dalla piramide di Sesostri II vicino all’odierna Hawara el-Matka.

LA PIRAMIDE DI AWARA

Veniamo ora alla piramide che Amenemhat III, lasciata la necropoli di Dashur visto la stabilità precaria della “piramide nera”, si fece costruire nel Fayyum, vicino all’odierno villaggio di Hawara el-Matka.

Interamente costruita con mattoni, in origine era alta 58 metri con una lunghezza per ciascun lato di 105 metri, oggi le sue rovine raggiungono a malapena i 20 metri. Nonostante tutto la piramide di Hawara suscita ancora notevole interesse tra gli studiosi per le tecniche innovative che presenta le quali influenzeranno le successive piramidi.

La costruzione della piramide rispetta i canoni della XII dinastia, mattoni crudi con paramento di fine calcare bianco. Dopo numerosi tentativi di Lepsius, Vassalli, Perring ed altri di penetrare all’interno della piramide, andati però a vuoto in quanto si pensava che l’ingresso si trovasse sul lato nord della piramide, come lo era per molte altre, l’impresa riuscì a Petrie che, con la collaborazione di Wainwright e Mackay, individuarono l’ingresso.

Questo era situato sul lato meridionale direttamente nel paramento, da qui partiva un corridoio scalinato discendente verso nord, interamente rivestito in calcare con barriere di granito. La camera funeraria costituisce un’innovazione del tutto inedita, dopo aver scavato sul fondo roccioso una fossa rettangolare, che rivestirono con blocchi di calcare, calarono al suo interno un enorme monolite di quarzite del peso di oltre cento tonnellate che riempì completamente lo scavo sigillandola come una cassaforte. Nel monolite venne ricavato un vano rettangolare dove fu alloggiato il sarcofago sempre in quarzite, il tutto fu ricoperto con tre enormi lastroni sempre in quarzite poggianti sul monolite a chiusura della camera. Sulla stessa venne costruito il tetto formato da enormi lastroni di calcare, ciascuno del peso di circa 15 tonnellate, sistemati a doppio spiovente.

Più in alto venne costruito un triplo arco in mattoni che si elevava per sette metri. Tutte queste precauzioni, oltre al fatto di celare l’ingresso della camera nel pavimento dell’anticamera situata più in alto, non valsero a scoraggiare i predatori che riuscirono ugualmente a penetrare all’interno ed a saccheggiare la tomba bruciando il sarcofago ligneo. Da tener presente che quando Petrie cercò di entrare dovette ricorrere a manodopera specializzata che impiegò ben 21 giorni per riuscire ad aprire un varco nelle lastre di quarzite.

A questo punto allora sorge un mistero, come hanno fatto i saccheggiatori ad entrare nella camera se questa era protetta dalle enormi lastre di quarzite che Petrie trovò ancora intatte? Una spiegazione potrebbe essere che la camera sia stata saccheggiata già in fase di chiusura grazie al fatto che gli addetti alla chiusura siano stati corrotti permettendo il saccheggio prima di chiudere definitivamente la camera.

Ormai esperto di scavi, non era certo la prima camera funeraria che scopriva, di fronte a questa Petrie rimase esterrefatto, la camera era interamente realizzata in quarzite, misurava 7 metri di lunghezza per 2,5 metri di larghezza ed era alta circa 2 metri, Petrie stimò che il suo peso era di circa 100 tonnellate. All’interno della camera che, al contrario di quella di altre piramidi precedenti, si presentava con le pareti completamente spoglie e prive dei Testi delle Piramidi, non presentavano giunture ed erano talmente lisce da riflettere la luce delle torce, Petrie rinvenne i resti di due sarcofagi lignei oltre ad un altare sacrificale in alabastro sul quale compariva il nome della principessa Neferruptah (“Bellezza di Ptah”), figlia di Amenemhat III e sorella della futura regina faraone Sobekneferu (“La bellezza di Sobek”).

Il suo nome era iscritto all’interno di un cartiglio pur non avendo alcun titolo di “moglie del re”, molto probabilmente deve aver rivestito un ruolo particolare, forse era ritenuta una futura sovrana. Con tutto vantava i titoli di “Membro dell’élite”, “Grande di favore, grande di lode”, e “Amata figlia del Re del suo corpo”. Nulla di strano visto che durante la XII dinastia, ma in alcuni casi, anche nell’Antico Regno questa usanza non era inconsueta. La cosa strana fu che negli anni 50 l’egittologo Nagui Farab riportò alla luce, circa due chilometri a sud-est della piramide, un ammasso di detriti che si rivelò essere una piramide completamente distrutta, già localizzata nel 1936 dall’archeologo egiziano Labib Habashi.

Nella camera funeraria si trovava un sarcofago in granito rosa sul quale era scritta una breve formula di offerta, gioielli, tre vasi d’argento e altri oggetti e su alcuni di essi era riportato il nome della principessa Neferruptah.

All’interno del sarcofago non vi era traccia della sepoltura ma solo alcuni resti del bendaggio sui quali si rinvennero tracce di resti umani. Ma allora la principessa fu veramente sepolta qui? Se così non fosse cosa ci facevano il sarcofago e i resti del suo corredo funerario nella piramide del padre?

L’ipotesi che è stata avanzata è che inizialmente venne predisposta la tomba della principessa nella piramide di Amenemhat III, in seguito, alla morte del faraone, la sua piramide sia stata chiusa impedendo la successiva sepoltura della figlia per cui si rese necessario erigerle un’altra tomba.

Nel tempio di Medinet Madi la principessa Neferruptah compare raffigurata con suo padre Amenemhat III e di lei è stata ritrovata anche una sfinge di granito nero e il frammento di una statua ad Elefantina.

Per quanto riguarda la piramide di Amenemhat III oggi è completamente abbandonata al suo destino che sembra quello di sprofondare nelle acque e nelle sabbie con tutti i suoi segreti. In assenza assoluta di opere a tutela del sito e completamente ignorati, la piramide e il labirinto sono preda delle infiltrazioni di acqua che ha interamente sommerso la parte ipogea della piramide rendendo impossibile ogni esplorazione. Le acque sotterranee stanno ancora sommergendo il fondo e l’ingresso della piramide da oltre 20 anni, fino ad ora nessun soggetto responsabile, che sia l’Autorità per le Antichità o il Ministero dell’irrigazione, è stato in grado di pompare quest’acqua. 

L’abbandono di questo sito costituisce una perdita inestimabile di un pezzo di storia dell’umanità. Recentemente è stato realizzato un filmato dove un team specializzato, con il supporto di Zahi Hawass, è riuscito a filmare, per la prima volta dopo Petrie, la camera sepolcrale allagata, grazie all’ausilio di un drone subacqueo, speriamo che qualcosa si stia muovendo. Il tutto è ancora avvolto nel mistero e le domande non hanno ancora ricevuto una risposta.

La località è pure celebre per il ritrovamento da parte di Flinders Petrie, nel 1888, di 146 ritratti dipinti, usati come maschere funerarie, oggi al Museo Egizio del Cairo, noti come i “Ritratti del Fayyum”. 

IL “LABIRINTO DI MERIDE”

Quando iniziò a scavare nel sito di Awara, l’egittologo William Matthew Flinders Petrie, forte della sua esperienza di scavi che lo contraddistingueva si dedicò alla ricerca del famoso “Labirinto” di  Amenemhat III che gli indizi storici collocavano in quella zona del Fayyum.

Passò in secondo piano l’esplorazione della piramide decidendo di dedicarsi dapprima alla ricerca del “Labirinto”. Sul lato meridionale della piramide di Amenemhat III Petrie scoprì un impianto templare molto vasto che presentava un’articolazione assai complessa, questa fu subito associata al famoso “Labirinto” citato da numerosi viaggiatori e storici del passato.

Parlando di Amenemhat III Manetone scrive:

<<…….egli costruì il Labirinto nel nomo di Crocodilopoli, (Arsinoe), come tomba per se……>> .

Il “Labirinto di Meride” come viene comunemente chiamato, ricorda quello di Cnosso. Occupava un’area di circa 70.000 metri quadrati, (28.000 secondo Miroslav Verner), e comprendeva, secondo i greci che sicuramente hanno esagerato un po le stime, 3.000 stanze disposte su due piani, uno dei quali sotterraneo, oltre a dodici cortili. Venne descritto già nell’antichità dalla maggior parte degli storici i quali gli attribuirono un ruolo prevalentemente religioso.

Pitagora ne parla a proposito del suo viaggio in Egitto:

<<………il mio interprete mi condusse nel labirinto all’estremità del lago Meride…….. ricchissimo concepimento fu quello di riunire in un solo luogo gli oggetti più sacri e più cari al popolo, e di rendere, per così dire, visibile e palpabile la potenza politica di una società di parecchi milioni di uomini………il labirinto dell’Egitto contiene altrettanti templi, quante ha il Nilo divinità; altrettanti palazzi, quanti vi sono governi, o vi dovrebbero essere stati: giacché questo immenso edifizio, nell’origine del suo disegno, doveva essere considerato come il geroglifico materiale dell’impero……..>>.

Anche Strabone racconta meravigliato:

<<……….una grande reggia composta da numerosi ambienti, tanti quanti erano un tempo i nomoi; altrettanti sono i cortili circondati da colonne, l’uno dietro l’altro e tutti allineati in un’unica fila su uno solo dei muri, quasi si trattasse di un lungo muro che rechi dei cortili appoggiati sulla facciata……….si aprono numerose e lunghe gallerie sotterranee, collegate fra loro da tortuosi passaggi………..senza guide per nessun visitatore è possibile entrare e uscire dallo stesso cortile……..>>.

Scriveva Erodoto:

<<…….Stabilirono, poi, anche di lasciare un monumento a ricordo del comune dominio e, quando l’ebbero deciso, costruirono il Labirinto, che si trova un po’ sopra il lago Meri……..già le piramidi erano al disopra di ogni possibile descrizione………. ma il Labirinto vince il confronto anche con le piramidi……..Le stanze superiori le abbiamo viste noi stessi………di quelle sotterranee abbiamo solo informazioni per sentito dire; poiché quelli degli Egiziani che vi sovraintendono non hanno voluto assolutamente farcele vedere, dicendo che ci sono le tombe dei re che fin dall’inizio costruirono questo labirinto e dei coccodrilli sacri……..>>.

Secondo Plinio la sua costruzione è da attribursi all’architetto Petesuchos Pnepheros del quale è stato rinvenuto un tempio a Karanis, oggi Kom Aushin. Dagli scavi di Petrie emersero i resti di pavimenti e pareti di un edificio dalle dimensioni enormi; il recinto sacro era lungo 304 metri e largo 244, al suo interno ci sarebbero entrati la grande sala di Karnak ed i templi successivi, il grande cortile, i piloni, il tempio di Mut, il tempio di Khonsu, i due templi di Luxor ed il Ramesseum.

Si ritiene che il labirinto di Hawara, come qualsiasi complesso di templi in Egitto, rispecchiasse l’aldilà. C’erano 42 sale in tutta la struttura che Strabone associa al numero di nomoi dell’Egitto ma che corrispondono anche ai quarantadue giudici che presiedono al destino della propria anima, insieme agli dei Osiride, Thoth, Anubi e Ma’at, al giudizio finale nella Sala della Verità. Il Labirinto avrebbe dovuto condurre il defunto attraverso un luogo confuso, verso uno stato illuminato, proprio come il paesaggio dell’aldilà descritto nei Testi delle Piramidi e dei Sarcofagi oltre che nel Libro dei Morti.

A questo punto mi piace riportare un commento della Dott.ssa Stefania Tosi, docente di materie umanistiche, ricercatrice indipendente, che da più di dieci anni si occupa di storia dell’Antico Egitto e dei testi sacri egizi:

<< Certamente la piramide e il Labirinto appartengono a un bagaglio simbolico così antico da perdersi nella notte dei tempi e di cui restano tracce nelle pitture rupestri paleolitiche e neolitiche, soprattutto per quanto riguarda labirinti, meandri e losanghe. La parte superiore e quella inferiore del Labirinto riproducevano la perfetta simbiosi di cielo e terra, morte e rinascita, luce e tenebra >>.

Nel complesso furono rinvenute due statue colossali di Amenemhat III assiso, delle statue oggi rimangono solo più i piedistalli che sono noti come i “Colossi di Biahum”, dal nome del sito in cui si trovavano, da non confondere con i “Colossi di Memmone”. Non si sa con precisione quando questo meraviglioso complesso cadde in rovina, si sa solo che venne smantellato per riutilizzare le sue pietre in altri progetti di costruzione.

Del labirinto oggi sono presenti solo poche rovine ed alcune parti di colonne poiché ancora in epoca romana venne utilizzato come cava di pietra, inoltre dal 1888 i blocchi restanti sono stati utilizzati per le costruzioni nel Fayyum. Va comunque detto che il sito di Hawara ha influenzato a lungo molte civiltà nel corso della storia. I misteri che racchiude hanno lasciato un’eredità e hanno avuto un impatto sull’archeologia, sulla storia dell’arte, sull’architettura e sulla cultura popolare.

Fonti e bibliografia:

  • Stefania Tosi, “L’Enigma della piana di Awara”, articolo del 2 luglio 2021
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Oxford University Press 1961, Einaudi, Torino 1997
  • Cimmino Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano 2003
  • Miroslav Verner, “Il mistero delle piramidi” Newton & Compton editori, 2002
  • Edda Bresciani, ““Grande enciclopedia illustrata dell’antico Egitto”, De Agostini, 2005
  • Mario Tosi, “Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto”, Ananke, 2004
  • Corinna Rossi, “Piramidi”, Edizioni White Star, 2005
  • Stefania Pignattari, “Due donne per il trono d’Egitto: Neferruptah e Sobekneferu”,  La Mandragora, 2008
  • Nagib Farag, “La scoperta di Neferwptah”, Cairo, 1971
  • Riccardo Manzini, “Complessi Piramidali egizi” – Vol. III – Necropoli di Dahshur, Ananke, 2009
C'era una volta l'Egitto, Medio Regno, XII Dinastia

LA TOMBA DI DJEHUTIHOTEP

COME GLI EGIZI TRASPORTAVANO I COLOSSI

Di Piero Cargnino

Nei pressi del villaggio copto di Deyr el-Bersha, sulla riva orientale del Nilo nel Governatorato di Minya, nella primavera del 1915 venne scavata, a cura del Museum of Fine Arts di Boston, la tomba classificata come 10A. La tomba era appartenuta al nomarca Djehutihotep, “Grande Signore del nomos della Lepre”. Djehutihotep era il governatore egizio, del 15° nomos dell’Alto Egitto con capoluogo Hermopolis Magna nel corso della XII dinastia.

La tomba, ancorché saccheggiata fin dall’antichità, rivelò subito l’altissima qualità delle decorazioni al suo interno; è l’unica a non aver subito gravi danni dagli esplosivi usati dai cavatori. In base a come si presenta la tomba si suppone che Djehutihotep fu sepolto prima che il faraone Sesostri III adottasse dei provvedimenti atti ad abolire i distretti provinciali le cui continue tendenze indipendentiste minavano l’autorità centrale.

Gli scavi hanno portato alla luce gli straordinari sarcofagi del nomarca e di sua moglie, oggi conservati, con gli altri oggetti ritrovati, presso il Museum of Fine Arts.

Su due stipiti in calcare, acquistati da Ernesto Schiaparelli nel 1891-92 ed oggi conservati al Museo Archeologico Nazionale di Firenze (inv. n. 7596 e 7597), sono elencati i numerosi titoli civili e religiosi di Djehutihotep, tra i quali: tesoriere del faraone, “Unico amico” e soprintendente dei sacerdoti; (nella foto di uno stipite sono visibili grosse croci rosse frutto di vandalismo d’epoca cristiana).

Bene, ma ora vi chiederete perché ho scelto di trattare proprio questa tomba fra le migliaia presenti in Egitto. C’è una ragione molto particolare, la tomba di Djehutihotep è nota soprattutto per la celebre decorazione dell’interno che rappresenta il trasporto di una statua colossale il cui  peso si stima in circa 60 tonnellate.

Quattro file composte da 172 uomini, con l’uso di corde, trascinano l’enorme colosso di pietra posto su una slitta di legno. La statua è l’immagine seduta di Djehutihotep,  misura quasi 7 metri di altezza, e si pensa fosse fatta di alabastro. Sappiamo che a scolpire questo colosso, irrimediabilmente distrutto nel 1890 e del quale non è mai stata trovata traccia, è stato uno scriba, Sipa figlio di Hennakhtankh.

I disegni che rappresentano la scena sono basati su una singola foto scattata nel 1889 dal maggiore Brown. La scena, che per millenni è rimasta chiusa nella tomba di Djehutihotep, ha sorpreso non poco quanti si sono sempre chiesti come facessero gli antichi egizi a trasportare attraverso le sabbie del deserto massi così pesanti come quelli che troviamo nei vari monumenti. Questa sorprendente rappresentazione, unica nella storia dell’arte egizia, ci autorizza a pensare che quello era il modo utilizzato dagli antichi egizi per spostare blocchi di pietra che a volte superavano le 1.000 tonnellate.

NEL DETTAGLIO: IL COLOSSO DI DJEHUTIHOTEP

Osservando attentamente la rappresentazione si nota un uomo ritto sulle ginocchia della statua che probabilmente dirige le operazioni ma, soprattutto quello che attira l’attenzione è che, ai piedi della statua, sul basamento si trova un altro uomo intento a versare acqua sulla sabbia dove transita la slitta. Per lungo tempo si è ritenuto trattarsi di un rituale a scopo purificatorio. Nel 2014 alcuni ricercatori, sotto la direzione di Daniel Bonn dell’Università di Amsterdam, ha ripetuto la scena constatando che inumidire nel modo appropriato la sabbia si riduce l’attrito della slitta fino al 50% agevolandone così il trasporto.

Fonti e bibliografia:

Percy Newberry, “El Bersheh, parte I: La tomba di Tehuti-Hetep”, London, 1891 James Henry Breasted, “Antichi documenti d’Egitto”,  The University of Chicago, 1906

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NOFRET II, LA REGINA CHE SORRIDE

Di Piero Cargnino

Dato che abbiamo appena parlato del faraone Sesostri II, non possiamo fare a meno di ammirare una delle sue mogli, Nofret II, la regina che sorride.

Tra le sue diverse mogli, tre delle quali potrebbero essere state Khenementneferhedjet I, Khnumit e Itaweret ci fu anche Nofret II, figlia di Amenemhat II, il cui nome significa “La Bella”, tutte e quattro erano sue sorelle. Ma io voglio parlare in particolare di Nofret II che poteva vantare i titoli di “Figlia del Re”, “Grande dello Scettro”, “Signora delle Due Terre”.

Due sue statue, rinvenute da Auguste Mariette durante i suoi scavi negli anni 1860-1861 nel sito di Tanis e che, in origine, erano collocate forse nel tempio di Amon., si possono ammirare oggi al Museo Egizio del Cairo. Entrambe le statue raffigurano la regina Nofret II seduta sul trono, una di esse, catalogata col codice JE 37487, in granodiorite è alta 165 cm, rappresenta la regina con la mano destra posata sulla coscia sinistra e la mano sinistra sul braccio destro mentre nella seconda, Nofret ha entrambe le mani aperte sulle cosce con la scollatura del vestito che lascia intravedere due serpenti che circondano il nome di Sesostri II.

Quello che più colpisce è che la regina è rappresentata con la capigliatura divisa in due parti da un nastro e cade sul petto con due grandi riccioli e circonda un disco, si tratta della stessa acconciatura esibita dalla dea Hathor e da tutte le regine della XII dinastia. Sulla base della statua si trova un’incisione che recita: “La nobile, la prediletta, la graziosa, l’amata di Sesostri II, Nofret”. Particolarmente bello ed interessante è il viso della regina, scolpito secondo i canoni della bellezza tebana, che lascia trasparire, con regale eleganza, uno splendido sorriso.

Fonti e bibliografia:

  • Zahi Hawass, “Inside the Egyptian Museum”,  Il Cairo, American University in Cairo Press, 2010
  • Aidan Dodson e Dyan Hilton, “The Complete Royal Families of Ancient Egypt”, Thames & Hudson, 2004
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LE FORTEZZE NUBIANE PERDUTE PER SEMPRE

SEMNA E KUMNA

Di Piero Cargnino

Siamo nel periodo in cui governò in Egitto il faraone Sesostri III, Khakaura, Senwosre, Horo Netjerkhepru, XII dinastia, (1877-1843 a.C.).

Sesostri III è considerato il più grande e potente re della XII dinastia, proseguì l’azione dell’avo Sesostri I mirante a limitare il potere dei nomarchi, abolì la carica e sottopose l’intero paese direttamente ad un visir che si avvaleva di tre “uaret”, ovvero ministeri, uno per il Basso, uno per l’Alto Egitto e il terzo per la “Testa del sud”, ovvero Elefantina e la Nubia.

Sesostri III, nell’ottavo anno di regno, risalì il Nilo “per annientare il vile Kush”, ordinò di scavare un nuovo canale vicino all’isola di Sehel nella prima cateratta per far passare le proprie navi, ma le iscrizioni presenti a Semna, risalenti allo stesso periodo, dimostrano che erano state prese le più severe misure per impedire il passaggio dei Nubiani in direzione opposta. La località si prestava ad istituire una postazione doganale che avrebbe regolato il traffico tra l’Egitto e la Nubia che si svolgeva sul fiume.

La, dove oggi si estende l’immenso Lago Nasser, nel Sudan del Nord, a Semna, Sesostri III fece costruire la più importante fortificazione su quello che, allora, era il confine con la Nubia in una stretta gola. Semna è una località del Sudan che si trova a circa 40 chilometri a sud della seconda cateratta del Nilo, sulla sponda occidentale nella Bassa Nubia.

L’opera difensiva di Sesostri III si compone di tre importanti fortezze, Semna Est, in egizio Itnw-pedjawt, e Semna-Sud, in egizio Dair-khaset, allo scopo di assicurare il controllo del confine dai possibili attacchi militari provenienti dal regno di Kush.

Di fronte a Semna, sulla sponda orientale si trova Kumna, sede di un’altra fortezza egizia. Le fortezze, che da lui presero il nome, “Potente è il (re) Khakaura”, insieme proteggevano le vie terrestri e fluviali, ce lo conferma lo stesso Sesostri sulla grande stele dove rivela i propri timori attraverso la sprezzante descrizione dei Nubiani, egli cosi conclude:

“Tra i miei figli, colui che difenderà questo confine stabilito dalla Mia Maestà, quegli è il figlio mio e nato da me……… colui che lo distruggerà e non combatterà per difenderlo, quegli non è mio figlio e non nacque da me”.

La presenza delle fortezze doveva scoraggiare i tentativi delle popolazioni della Nubia di spostarsi verso nord. A tale proposito si legge in un decreto: “A nessun lavoratore nero è permesso di superare questo confine, tranne se porta con sé bovini, capre o pecore”. Semna e Kumma svolgevano anche il ruolo di porto militare ed entrambe rimasero attive fino alla XIII dinastia, fu solo nel Secondo Periodo Intermedio, con il sovrano Sobekhotep III che ebbe  inizio un lento declino nelle postazioni più remote del regno d’Egitto.

La fortezza tornò in uso durante il Nuovo Regno quando venne ampliato il tempio locale dedicato al dio nubiano Dadùn. A seguito della costruzione della diga di Assuan ed alla conseguente formazione del lago Nasser entrambe le località sono state sommerse dalle acque del Nilo. A Semna si trovava anche un tempio che, onde evitarne l’inabissamento, è stato smontato e ricostruito nel museo di Khartum.

Fonti e bibliografia:

  • Miroslav Verner, “Il mistero delle piramidi” Newton & Compton editori, 2002
  • Nicolas Grimal, “Storia dell’antico Egitto”, Biblioteca Storica Laterza, Roma-Bari, 2011
  • Cimmino Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano 2003
  • Pierre Tallet, “Sesostris III et la fin de la XIIe dynastie”, Paris 2005
  • Riccardo Manzini, “Complessi Piramidali Egizi – Abu Roash, El-Lisht, Mazguneh”, Ananke, 2011 Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Oxford University Press 1961, Einaudi, Torino 1997
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IL COMPLESSO FUNERARIO DEL FARAONE SENOUSRET III (SESOSTRI)

Di Piero Cargnino

Il faraone Sesostri III fu il più grande e potente faraone della XII dinastia e forse dell’intero Medio Regno, durante il suo regno L’Egitto trascorse un periodo fiorente e di grande ricchezza, “una espressione politica di altissimo livello”, così lo definisce Franco Cimmino.

Senousret III, o Kakhaura Sesostri III, (“Il Ka di Ra ha preso forma”), regnò sulle Due Terre intorno al 1840 a.C. e fu un abile faraone guerriero, secondo Erodoto giunse a conquistare tutta l’Asia e parte dell’Europa, (anche se pare un poco eccessivo ma così ci dicono). Sul fronte interno proseguì la politica dei predecessori, portò ad una rinascita dell’Egitto avviando uno sviluppo urbano mai tentato in precedenza e ad una rinascita delle arti e dei commerci. Con maggior fermezza dei suoi predecessori, spense le ultime velleità di potere dei nomarchi rafforzando l’autorità centrale. Amato dal popolo, fu uno dei pochi faraoni divinizzati ancora in vita ed il suo culto personale proseguì ancora per molti secoli dopo la sua morte.

Figlio di Sesostri II e della regina Khenemetneferherdjet I detta Ueret, (la vecchia), prese per certo due altre mogli,  Khenemetneferherdjet II, (la giovane), e Neferthenut le cui sepolture sono attestate presso la sua piramide, altre sepolture nei pressi apparterrebbero forse alle figlie, Sithathor, Menet, Senetsenebtisi e Meret, come figli maschi forse ebbe solo il suo successore Amenemhat III.

Sesostri III praticò una politica di grande espansione verso la Nubia, contro la quale guidò personalmente ben otto campagne, e qui fece erigere nuove fortezze, Buhen, Semna occidentale e orientale, Toshka e Uronarti, questi ultimi sono un grande esempio di architettura militare. La mole che presentavano queste fortezze inducono a ipotizzare che le dimensioni delle stesse superassero le reali esigenze militari con il solo scopo di dare una dimostrazione della potenza dello Stato egizio. George Reisner studiò queste fortezze fino al 1964 prima che venissero sommerse dalle acque del Lago Nasser.

Una stele a Semna documenta le sue vittorie contro i nubiani e fa dire a Sesostri di aver reso sicuri i confini meridionali del Paese. Un’altra grande stele, sempre a Semna, commemora le sue vittorie in Nubia e nella regione di Canaan ed ammonisce i suoi successori di preservare i nuovi confini da lui stabiliti:

<<………Anno 16, terzo mese dell’inverno: il Re ha stabilito il Suo confine meridionale a Heh. Io ho stabilito il Mio confine molto più a sud rispetto a quello di Mio Padre. Sono un re che parla e agisce……… Vero figlio è colui che porta avanti l’impresa di suo padre, colui che custodisce il confine del suo genitore……….che la Mia Maestà ha stabilito, perché tu lo mantenga, perché tu combatta per esso…….. >>.

Intraprese anche campagne meno fortunate, nel diciannovesimo anno di regno le sue truppe furono catturate presso il Nilo e Sesostri dovette abbandonare l’impresa. Verso oriente Sesostri III, primo faraone, nella storia egizia, si recò in Siria per battere i popoli nomadi di Mentiju e Setjetiu, successivamente avvenne la presa di Sichem sul fiume Leonte in Libano. Nella sua tomba Sobek-Khu, comandante delle truppe di Sesostri, racconta orgoglioso di aver combattuto col faraone nella presa di Sikmen dove catturò un prigioniero:

<<…….. Sua Maestà mi compensò con un bastone di elettro che pose nelle mie mani insieme a un arco e a un pugnale di elettro lavorato, e mi donò anche le armi del prigioniero………>>.

Per quanto tempo abbia regnato Sesostri III è oggetto di dibattito, un papiro conservato a Berlino parla di 20 anni, secondo l’egittologo Josef Wegner, che ha esaminato un’iscrizione su un blocco di calcare dove si fa riferimento al 39° anno di regno, questo sarebbe da considerare un dato corretto ipotizzando una coreggenza col figlio Amenemhat III durante gli ultimi 20 anni. Altri egittologi, Tallet e Willelms, non concordano e ritengono probabile che tra padre e figlio non ci sia mai stata coreggenza.

Veniamo ora al complesso funerario che Sesostri III si fece erigere a nord-est della Piramide Rossa di Snefru a Dashur, questo superava decisamente i complessi dei suoi predecessori oltre che per le dimensioni anche per la concezione religiosa che ne era alla base. La piramide è larga 105 metri e alta 78 ed anche la sua costruzione differiva dalle precedenti, il nucleo era realizzato in mattoni senza lo scheletro interno in pietra mentre il paramento in calcare bianco rispecchiava quello tradizionale.

La ricerca dell’ingresso, anche in questo caso, creò non pochi problemi a Jacques De Morgan, che la studiò nel 1894-95, la cappella nord aveva solo la funzione di fuorviare gli eventuali saccheggiatori. L’ingresso si trovava sul lato ovest celato dal lastricato del cortile, da qui un pozzo immetteva in un corridoio discendente che conduceva alla camera sepolcrale. De Morgan però raggiunse la camera sepolcrale passando attraverso un tunnel scavato dagli antichi saccheggiatori.

La camera funeraria rivestita in blocchi di granito, stranamente ricoperti da un sottile strato di stucco bianco, presentava una volta a botte sopra la quale era stata ricavata un’altra camera ricoperta con cinque coppie di travi di calcare, ciascuna pesante 30 tonnellate. Sopra a queste ultime fu poi realizzata una volta in mattoni. La camera non si trovava in corrispondenza dell’asse verticale della piramide ma spostata verso nord-ovest. All’interno, contro la parete occidentale, un meraviglioso sarcofago in granito che presentava quindici nicchie, forse porte, il motivo della decorazione ed il numero delle porte non pare ricavato a caso, gli stessi elementi compaiono nella cinta muraria del complesso di Djoser a Saqqara.

A nulla servì l’ingegno dei costruttori per evitare saccheggi, la tomba fu violata forse già durante l’occupazione degli Hyksos ed i saccheggiatori non solo la svuotarono ma lasciarono addirittura incisi sulle bianche pareti i loro ritratti.

L’egittologo Lerner è dell’opinione che Sesostri III non fu mai sepolto nella piramide, che avrebbe svolto solo la funzione di cenotafio, bensì nel complesso architettonico di Abydo. Questa viene però considerata un’ipotesi vaga e poco probabile. Arnold ipotizzò invece che, essendo la camera sepolcrale molto semplice e posizionata in modo insolito, potrebbe trattarsi della camera di una regina, mentre quella del re potrebbe trovarsi sotto la verticale della piramide.

Fonti e bibliografia:

  • Miroslav Verner, “Il mistero delle piramidi” Newton & Compton editori, 2002
  • Nicolas Grimal, “Storia dell’antico Egitto”, Biblioteca Storica Laterza, Roma-Bari, 2011
  • Cimmino Franco, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bompiani, Milano 2003
  • Pierre Tallet, “Sesostris III et la fin de la XIIe dynastie”, Paris 2005
  • Riccardo Manzini, “Complessi Piramidali Egizi – Abu Roash, El-Lisht, Mazguneh”, Ananke, 2011 Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Oxford University Press 1961, Einaudi, Torino 1997