Amarna, XVIII Dinastia

IL VERO VOLTO DI AKHENATON

Nelle mie ricerche sui documenti di scavo dei primi del Novecento, ho trovato altri due calchi/maschere davvero eccezionali provenienti da Amarna. Si tratta di reperti importantissimi che consentono di fugare alcuni dubbi.

IL PRIMO CALCO

Calco del viso di Akhenaton
Gesso
CG 753, Museo del Cairo

Il primo calco di cui parlerò fu trovato da Flinders Petrie nel 1892 durante gli scavi ad Amarna, condotti assieme a Howard Carter. È attualmente conservato al Museo del Cairo con il numero di inventario CG 753, ma non è in esposizione. Secondo Petrie si tratta senza ombra di dubbio del calco post-mortem del volto di Akhenaton.

Questo calco proverebbe che Akhenaton era un uomo (contraddicendo alcune teorie che vogliono Akhenaton di sesso femminile) e che aveva dei tratti assolutamente normali, a riprova del fatto che i ritratti esasperati del primo periodo di Amarna sono soltanto una scelta stilistica.

Ecco il suo avvincente racconto:

IL SECONDO CALCO

Ed eccoci all’ultima maschera del gruppo Akhenaton/Nefertiti.

Maschera in gesso da Tell el Amarna
H 17 cm
Inv JE 59289. Museo del Cairo

Anche questa maschera o calco proviene degli scavi a Tell El Amarna nel 1932/33 dell’egittologo britannico J.D.S. Pendlebury e fu trovata assieme al calco (probabile) del volto di Nefertiti, nr inv. JE 59288 (ne parlo qui: https://laciviltaegizia.org/…/il-vero-volto-di-nefertiti/)

Trovata nelle abitazioni 0.47.16a e 0.47.20, questa maschera-modello presenta molti tratti in comune e un’estrema somiglianza con i ritratti di Akhenaton. Si tratta sicuramente di un modello che serviva da base per dei ritratti successivi.

Secondo Pendlebury e altri studiosi, questa maschera rappresenta Akhenaton.

Fonti:

  • J.D.S. Pendlebury “PRELIMINARY REPORT OF THE EXCAVATIONS AT TELL EL-‘AMARNAH, 1932-1933”.

Approfondimenti:

Amarna, Nefertiti, XVIII Dinastia

IL VERO VOLTO DI NEFERTITI

Studiando dei documenti relativi agli scavi ad Amarna dei primi del Novecento, mi sono imbattuta in una foto eccezionale che non avevo mai visto prima.

Ebbene questo dovrebbe essere il calco del volto (probabilmente post-mortem) della bellissima regina Nefertiti.

È proprio questo quindi il vero volto della Regina più famosa della storia egizia? Il calco mostra sicuramente una fortissima somiglianza con i vari ritratti della Regina a noi pervenuti, tra cui il busto di Berlino.

Il calco si dovrebbe trovare al Museo del Cairo, il numero di inventario è il J59288 (grazie a Nico Pollone per l’aiuto).

La foto proviene dalla pubblicazione degli scavi a Tell El Amarna dall’egittologo britannico J.D.S. Pendlebury.

Ecco cosa scrive Pendlebury in merito alla scoperta di questo reperto eccezionale:

Fonte:

Donne di potere, Hatshepsut, XVIII Dinastia

LA “DAMNATIO MEMORIAE” DI HATSHEPSUT

Horus e Thot purificano Hatshepsut (la sagoma è stata cesellata), Karnak

La questione della presunta damnatio memoriae di Hatshepsut è molto interessante e le posizioni espresse dagli egittologi non sempre sono concordi.

Dopo l’uscita di scena di Hatshepsut ed in particolare con Thutmosis III ed Amenhotep II le sue statue di Deir el-Bahari furono frantumate ed i blocchi gettati in una cava, le sue immagini vennero erase o sostituite con altre di oggetti ed i suoi cartigli furono parzialmente scalpellati dai monumenti e dai testi relativi ad eventi ufficiali del suo regno o sostituiti con quelli dei suoi successori o dei suoi predecessori Thutmosis I e II.

Rilievo di Hatshepsut cesellato, Deir El Bahari 

Non sono stati rinvenuti documenti ufficiali che spieghino il motivo di tale proscrizione, e per risolvere questo enigma gli studiosi hanno elaborato diverse ipotesi, che vedono come principali indiziati Thutmosis III o il suo successore Amenhotep II, od ancora il clero di Osiride.

La più suggestiva di esse, seguita da Gardiner, da Cimmino e dagli egittologi più risalenti è quella che attribuisce la responsabilità di tali devastazioni a Thutmosis III, il quale, vissuto per anni all’ombra della matrigna usurpatrice, dopo essersi liberato della sua presenza ingombrante si sarebbe vendicato di lei cancellandola dalla storia.

Rilievo di Hatshepsut cesellato, Deir El Bahari 

Altri, tra i quali lo studioso canadese Donald Redford, ritennero più semplicemente che egli, figlio di una moglie secondaria di Thutmosis II, avesse voluto ribadire la sua legittimazione al trono ricollegandosi direttamente ai thutmosidi che lo precedettero ed escludendo la grande Hatshepsut dalla linea dinastica, tanto che il nome di lei non compare nella lista degli antenati che egli fece realizzare nel tempio di Karnak.

In realtà dalle fonti si apprende che Hatshepsut non prevaricò mai il giovane sovrano ma ne rispettò sempre il ruolo regale esercitando con saggezza le sue mansioni di reggente e facendosi carico dell’educazione politico-militare di costui per prepararlo a svolgere al meglio i suoi compiti di governo.

Ella lo fece rappresentare sui monumenti da solo o accanto a lei ma in posizione assolutamente paritetica (si vedano, ad esempio, i rilievi della Cappella rossa) e con il tempo gli attribuì incarichi non puramente rappresentativi ma di grande responsabilità, tanto che come comandante supremo delle forze armate guidò l’esercito egizio in vittoriose campagne di conquista dimostrando in seguito notevoli doti militari che gli sono valse l’attuale soprannome di “Napoleone d’Egitto”.

Statua di Hatshepsut a cui è stato scalpellato il volto. Met Museum 

Un’altra ipotesi, proposta come la più verosimile dall’egittologa Christiane Desroches Noblecourt, individua il principale artefice del tentativo di damnatio memoriae di Hatshepsut nel clero di Osiride, il quale, nulla opponendo Thutmosis III, avrebbe punito la sovrana per aver ridimensionato il plurimillenario culto del dio dei morti (e di conseguenza il potere dei suoi sacerdoti), rivalutando in particolare quello di Amon, al punto da identificarsi come sua divina figlia.

Infine alcuni studiosi ritengono che il vero fautore della damnatio memoriae di Hatshepsut fu Amenhotep II, anch’egli figlio della sposa minore Merira Hatshepsut, che si sarebbe trovato a misurarsi con un pretendente al trono che rappresentava gli Ahmosidi, alla quale Hatshepsut era legata per parte di madre (della cui esistenza, peraltro non v’è prova alcuna).

I cartigli di Hatshepsut, un tempo affiancati a quelli di Thutmosis III sono stati scrupolosamente abrasi (Tempio di Deir El Bahari)

Per confermare il proprio ruolo di erede si sarebbe sostituito alla matrigna in molte raffigurazioni, tagliando ogni legame con tale linea dinastica, scegliendo al di fuori della famiglia le spose reali (delle quali non è pervenuto neppure il nome) e ridimensionando il loro potere per evitare che potessero esercitare la reggenza.

La dottoressa J. Tyldesley, infine, e così altri, hanno più semplicemente spiegato che i successori di Hatshepsut ne avrebbero oscurato il ricordo per evitare che altre donne, seguendo il suo glorioso esempio, si sentissero legittimate ad esorbitare dal ruolo attribuito loro dalle regole dinastiche per attribuirsi prerogative reali, senza rispettare la Maat ed infrangendo una tradizione che prevedeva che il sovrano fosse un uomo, al limite affiancato da una grande sposa reale.

FONTI:

  • Christiane Desroches Noblecourt, La regina misteriosa, Milano 2003
  • Matteo Rubboli per Vanilla Magazine, Hatshepsut, la regina che divenne faraone
  • Federica Ruggero per Historicaleye.it, Hatshepsut figlia del re, sorella del re, sposa del dio, grande sposa reale.
  • Alan Gardiner, La civiltà egizia, Torino 1997
  • Franco Cimmino, Hasepsowe e Tuthmosis III, Milano 1994
  • Christian Jacq, Le donne dei Faraoni, Milano 1996
Tombe, XVIII Dinastia

LA TOMBA DI KHONSU EM HEB, BIRRAIO DI MUT

Nel dicembre 2007 un team di archeologi giapponesi guidati dal prof. Jiro Kondo della Waseda University di Tokyo, ha scoperto sulla riva occidentale del Nilo, nella necropoli tebana di El Khokha, la splendida tomba dell’alto dignitario Khonsu Em-Heb, che durante il regno di Amenhotep III (1387-1348 a.c.) era a capo dei depositi di grano e produttore di birra per il culto di Mut, la dea madre egizia.

La scena che si offrì agli archeologi una volta penetrati nella tomba
Nel registro inferiore Khonsu Em Heb, defunto, alla presenza di alcune nobildonne, riceve le offerte posate sultavolo davanti a lui e purificate dal sacerdote, che effettua fumigazioni e versa acqua lustrale.
Nel registro superiore è Khonsu Em Heb, probabilmente con la moglie, che fa offerte agli dei: a sinistra ad Osiride, dietro il quale , in piedi, vi sono Iside e Nephtis, a destra ad Anubi.
Nel terzo registro vi è il classico fregio kekheru sormontato dal disco solare, tipico dell’età ramesside.

Gli scavi sono stati effettuati in una zona ove sorgevano moderne abitazioni del villaggio di Gurnah, poi demolite, e l’entrata della tomba è venuta alla luce casualmente, mentre veniva ripulita la zona circostante la sepoltura denominata TT47, appartenente ad Userhat, Sovrintendente dell’harem reale sotto Amenhotep III.

Particolare della scena in cui il defunto e sua moglie ricevono offerte sulle quali il sacerdote versa acqua lustrale


La tomba di Khonsu Em-Heb ha l’architettura comune alle tombe tebane: a forma di T, con due corridoi corrispondenti ai due bracci della T e la camera sepolcrale costituita dal tratto verticale della lettera, ed ha mantenuto intatti gli splendidi dipinti che raffigurano scene di culto e di vita quotidiana.

Particolare di un gruppo di dolenti e di prefiche che manifestano platealmente il proprio dolore per la morte di Khonsu Em Heb. Le prefiche erano solite portare con sé delle bambine per insegnare loro “il mestiere”.
Sulla sinistra la mummia di Khonsu Em Heb è stata collocata in piedi davanti alla cappella antistante la tomba scavata nella montagna tebana. La cappelle è sovrastata da una piccola piramide e segnalata da una grande stele, di solito in onore di Osiride. I parenti, accanto alla mummia, si disperano, ed il sacerdote officiante si appresta ad iniziare il rito dell’apertura della bocca.
Nel registro inferiore la barca che trasporta il catafalco con i resti mortali del defunto e la moglie in lacrime, che viene trainata da un’imbarcazione più piccola fin sulla riva occidentale del Nilo.

Il ruolo rivestito da Khonsu Em Heb era di grande rilievo, perchè nell’antico Egitto la produzione di birra era importantissima: essa, infatti, essa era di largo consumo presso ogni strato sociale, veniva utilizzata anche nelle cerimonie religiose come bevanda “sacra” e costituiva parte del corredo funebre degli appartenenti alle classi più ricche.

Il registro superiore reca un fregio kekheru, del quale ho già parlato; in quello intermedio il defunto e la moglie, seguiti da tre uomini e quattro donne rendono omaggio e fanno offerte a Ra Horakhti, dietro il quale si intravede Maat, la cui immagine è andata quasi completamente distrutta.
Nel registro inferiore Thot, che ha preso parte al giudizio di Khonsu Em Heb ed alla pesatura del suo cuore annotandone l’esito positivo, presenta il defunto ormai “giustificato” ad Osiride, dietro il quale ci sono Iside e Nephtis.

FONTI:

Kemet Djedu, Nuovo Regno, XVIII Dinastia

LE PRINCIPESSE DI KHERUEF

Principesse nella tomba di Kheruef a Luxor (TT192).

In questa foto di dettaglio, ecco un magnifico rilievo proveniente dalla tomba incompiuta di Kheruef, un potente maggiordomo della regina Tiye.

Lo stile inconfondibile della XVIII Dinastia appare in tutta la sua raffinatezza nella rappresentazione di otto principesse (in questo dettaglio se ne vedono quattro) che offrono libagioni durante la festa del Primo Giubileo (heb Sed) di Amenhotep III.
Le ragazze sono probabilmente figlie di sovrani stranieri cresciute alla corte del faraone.

Il testo che si trova davanti e sopra le principesse dice:

E, davanti a ciascuna ragazza, si legge:

Il verbo “irt” [iret] è espresso all’infinito come spesso accade nelle titolazioni didasaliche.
Il sostantivo “Ꜥbw” [abu] possiede un plurale inventariale oppure un finto plurale per far pronunciare la “w”. Non è un plurale grammaticale.
“fdw (ny) sp” è la costruzione per la numerazione di una quantità che va ripetuta.

Sopra l’intera scena si annuncia:

La gigantesca tomba di Kheruef fu per qualche motivo lasciata incompiuta. Scavata nella roccia del deserto, si trova sul lato ovest di Tebe, ai piedi della collina nota come Al-Assasif.

  

L’immagine panoramica sulla quale lavoriamo non è perfettissima. Si tratta di un assemblato panoramico con una certa serie di errori che compromettono parzialmente la perfetta lettura dei geroglifici. Qui, tra l’altro, precisiamo che la traduzione dei testi epigrafici fatta usando delle immagini fotografiche è difficoltosa perché le immagini aiutano piuttosto gli archeologi e gli egittologi non certo i filologi.

Come al solito è stata aggiunta anche la codifica IPA per far pronunciare i geroglifici a chi non li ha studiati.

Per chi si deciderà elenco uno strumentario completo:
Grammatica primo livello: https://ilmiolibro.kataweb.it/…/guida-pratica-alla…/

Grammatica secondo livello: https://ilmiolibro.kataweb.it/…/guida-pratica-alla…/

Grammatica terzo livello: https://ilmiolibro.kataweb.it/…/guida-pratica-alla…/

Dizionario egizio – italiano 12000 lemmi in geroglifico (primo volume) https://ilmiolibro.kataweb.it/…/dizionario-12-egizio…/

Dizionario egizio – italiano 12000 lemmi in geroglifico (secondo volume) https://ilmiolibro.kataweb.it/…/dizionario-22-egizio…/

  

Photo Mick Palarczyk and Paul Smit.

Fonti e approfondimenti:

C'era una volta l'Egitto, Nuovo Regno, XVIII Dinastia

ERNESTO SCHIAPARELLI  –  LA  TOMBA DI KHA E MERIT

Di Piero Cargnino

Sull’argomento vedi anche: LA TOMBA DI KHA E MERIT

La XVIII dinastia è finita, prima però di addentrarmi nella XIX vorrei parlare, con una sorta di campanilismo, di un gioiello che possediamo qui al Museo Egizio di Torino, l’unica tomba egizia mai saccheggiata nell’antichità, (quella di Tutankhamon era già stata profanata nell’antichità), la tomba di Kha e di sua moglie Merit, (TT8).

Già scopritore della tomba di Nefertari, moglie di Ramses II nel 1904, considerata tra le tombe più belle della Valle delle Regine, l’egittologo piemontese, allora direttore del Museo Egizio di Torino, Ernesto Schiaparelli,  nel 1906, scavando nella necropoli di Deir el-Medina, scopre la tomba dell’architetto reale Kha, perfettamente intatta e con un ricco corredo funerario che fu portato interamente a Torino dove si trova tutt’ora.

L’architetto Kha era di umili origini anche se parlare di umili origini in quel tempo è perlomeno improprio. Nell’antico Egitto non esisteva una vera e propria distinzione in classi sociali ed economiche, pare che i cittadini vivessero sì su livelli diversi ma con una numerosa classe media.

Grazie ai suoi meriti divenne prima scriba (come riportato su due dei suoi bastoni da passeggio), arrivando a ricoprire l’incarico di supervisore alla costruzione delle tombe reali nella necropoli di Tebe.

Prestò servizio principalmente alla corte del faraone Amenhotep III ma aveva già svolto incarichi sotto Amenhotep II e Thutmosi IV (circa vent’anni prima di Tutankhamon). Direttore dei Lavori Reali, certamente non apparteneva ad un livello molto basso nella scala sociale, basta pensare che a quei tempi il costo di un semplice sarcofago era pari al costo di una mucca e nella tomba di Kha i sarcofagi erano ben cinque (inseriti gli uni negli altri), si deduce che doveva godere di una certa agiatezza.

Certo che alcuni di questi sarcofagi sono dorati ma la doratura è talmente sottile (10-11 micron) che tutto l’oro che li ricopre complessivamente è pari a quella di un dente d’oro. Stessa cosa si può dire per il lino che era un materiale costoso, nella tomba di Kha ne erano contenute grandi quantità oltre a numerosi abiti e biancheria, quasi tutta ricamata con il suo monogramma.

Parlando della scoperta, Schiaparelli racconta che la porta era così ben conservata che, al momento di entrare chiese la chiave al suo domestico il quale molto seriamente gli rispose: “Non so dove sia signore”. Lo spettacolo che si presentò all’interno lasciò l’egittologo senza fiato.

Due enormi sarcofagi in legno laccati di nero e coperti da teli per ripararli dalla polvere, uno lungo la parete di fondo e l’altro, un po’ più piccolo lungo la parete di destra.

Dai suoi attrezzi, trovati nella tomba, si nota che sono tutti piuttosto consumati, da ciò si deduce che oltre che supervisore fosse anche lui un lavoratore che si mescolava agli altri artigiani, forse fu per una forma di “rispetto professionale” che la sua tomba non fu mai violata dai suoi contemporanei.

Sicuramente era una persona molto scaltra poiché costruì la sua tomba in un luogo nascosto a circa 25 metri dalla cappella funerari di famiglia sotto la quale ci si aspettava che si trovasse. Talmente nascosta che neppure alcuni secoli dopo, quando le violazioni erano un fatto quotidiano, la sua tomba era ormai dimenticata ed introvabile.

Kha iniziò a costruire la sua tomba con il relativo sarcofago parecchio prima di morire, disgraziatamente sua moglie Merit gli premorì, fu così che Kha gli cedette il suo sarcofago.

Il fatto che per Merit sia stato usato il sarcofago giù predisposto per Kha e riadattato è così evidente che essendo Merit parecchio più piccola, onde evitare che il corpo potesse spostarsi, vennero posti dei rotoli di bendaggio sopra il capo della mummia (vedere la foto).

Una volta aperto il sarcofago di Merit apparve un secondo sarcofago antropomorfo in legno stuccato, bitumato e con doratura a foglia. Secondo Schiaparelli Merit era collocata sul fianco sinistro, tesi che cozza con le foto dell’epoca che la mostrano distesa sulla schiena e con il fatto che la mummia non presenta malformazioni, che si sarebbero prodotte col tempo, che denotino la sua collocazione sul fianco.

Meravigliosa la maschera funebre di Merit in lino stuccato con doratura a foglia e con inseriti di pietre preziose e vetro colorato.

Il sarcofago esterno di Kha è simile a quello di Merit ma molto più massiccio.

Al suo interno si trova un secondo sarcofago antropomorfo in legno dorato e bitumato. Il secondo sarcofago ne conteneva un terzo, sempre antropomorfo ed anch’esso in legno stuccato e dorato, bitumato all’interno.

Sul secondo sarcofago di Kha venne rinvenuto, piegato senza molta cura, il suo  libro dei morti. Un enorme papiro lungo 13,80 mt. contenente oltre 30 capitoli destinati anche alla consorte.

Le mummie sono in ottimo stato di conservazione all’interno dei loro sarcofagi e raramente vengono messe in mostra.

All’interno della tomba di dimensioni modeste trovavano posto, alla rinfusa (lo si vede dalle foto originarie), circa 500 oggetti che avrebbero dovuto servire a Kha e sua moglie Merit nell’aldilà.

Oltre agli immancabili vasi canopi, una serie di mobili, tra cui due letti con poggiatesta, vari cofanetti che risultarono pieni di biancheria di lino, tra cui 17 tuniche di Kha, alcune in lino leggero ed altre in lino più pesante, altri cofanetti  contenevano recipienti per profumi, balsami e creme oltre ad un paio di forbici, rasoi da barba e una pietra per affilare.

Vennero inoltre rinvenuti oltre 50 perizomi molti dei quali puliti e ben ripiegati mentre molti altri, consunti, sporchi e bucherellati erano conservati a parte.

Numerose brocche e vasi uno dei quali bellissimo in terracotta biancastra dipinta che reca ancora il tappo di tela che copre il collo sul quale spicca l’occhio udjat dipinto.

Numerosi pani impastati in varie forme alcuni dei quali su di un tavolino di canne.

Alcuni sgabelli tra cui uno pieghevole in legno di sicomoro con le quattro gambe incrociate che terminano in teste di anatra scolpite con intarsi in ebano ed uno sgabello che denuncia chiaramente la sua funzione (wc), una bellissima sedia ad alto schienale, posta di fronte al sarcofago di Merit, sulla quale era poggiata una statuetta lignea con una ghirlanda di fiori essiccati, due piccoli ushabti, una piccola zappa ed un modellino di sarcofago.

In un cofanetto era riposta con cura la stupenda parrucca di Merit di lunghi capelli arricciati, si tratta di capelli umani lunghi 54 cm., che formano lunghe trecce arricciate e intrecciate nella parte finale. Tre di esse, lunghe e spesse scendono sulla schiena mentre due più piccole incorniciano il viso.

Sono presenti tra l’altro vari doni tra cui un cubito rivestito di foglia d’oro che reca un’iscrizione del faraone Amenofi II (quello esposto è una copia) probabile dono del faraone al suo architetto, una coppa di bronzo con l’iscrizione del faraone Amenofi III, una situla di bronzo a forma di secchio recante il nome di un sacerdote Userhat, figlio dello scriba Sau, una tavolozza da scriba forse appartenuta ad un certo Amenmes.

Numerosi bastoni che pare non siano appartenuti tutti a Kha in quanto su alcuni si leggono nomi di altre persone tra cui Neferhebef e Khaemwaser. Il dono più strano è un bellissimo gioco della Senet probabilmente offerto da un suo operaio di nome Benermerit.

Sottoposto ai raggi X, sul corpo di Kha è evidente  un ampio collare e pesanti orecchini entrambe d’oro.

Fonti e bibliografia:

  • Eleni Vassilika, “La Tomba di Kha”, Scala, 2010
  • Anna Maria Donadoni Roveri, “Dal Nuseo al Museo, Passato e Futuro Museo Egizio di Torino”, 1989
  • Silvio Curto, Renato Grilletto, “Le mummie del Museo Egizio di Torino”, 1989
  • Beppe Moiso, “Ernesto Schiaparelli e la tomba di Kha”,  Ed. Adarte – 2008
  • Eleni Vassilika, “I capolavori del Museo Egizio di Torino, 2009
  • Ernesto Schiaparelli, “La tomba intatta dell’architetto Kha nella necropoli di Tebe”, Milano, 1927
  • Enrico Ferraris, “La tomba di Kha e Merit”, Bologna, Franco Cosimo Panini, 2019
  • Sergio Donadoni, “Tebe”, Milano, Electa, 1999
  • Mario Tosi, “Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto”, Torino, Ananke, 2005
  • Peis Luca, “Il papiro di Kha”, Monaco, LiberFaber, 2017) Le foto (ove non indicato diversamente) sono opera di Giacomo Franco Lovera, fotografo ufficiale
C'era una volta l'Egitto, Nuovo Regno, XVIII Dinastia

IL FARAONE HOREMHEB

Di Piero Cargnino

Il faraone Djeserkheperura Setepenra Horemheb Meriamon, generalissimo, già comandante in capo dell’esercito durante i regni di Akhenaton prima e di Tutankhamon poi, proveniva da Eracleopoli ed era probabilmente il figlio di un funzionario qualsiasi. In seguito al ritrovamento di una tomba dei nobili ad Amarna dove fu sepolto il generale Paatonenhab, il cui nome significa “Festosa presenza di Aton”, alcuni studiosi suppongono che il defunto sia lo stesso Horemheb, Nicolas Grimal lo esclude in quanto nessuna prova oggettiva supporta  tale identificazione.

Alla morte di Tutankhamon sicuramente avrà cercato di far valere i suoi diritti a succedere al trono in quanto poteva vantare il titolo di “Idnw” (Rappresentante del Signore delle Due Terre), che non era certo un titolo trascurabile, inoltre pare che Tutankhamon lo avesse già designato come “Iry-pat” (principe ereditario).

Proprio in base a ciò, Horemheb sicuramente era nelle condizioni di esercitare sul giovane sovrano un forte ascendente come si può rilevare da un’iscrizione sul pilastro posteriore di una sua statua, conservata al Museo Egizio di Torino, che rappresenta un faraone in piedi con il gonnellino shendit, a fianco del dio Amon di dimensioni maggiori perché è più importante del faraone. Nell’iscrizione viene precisato che era anche suo compito “…….calmare il faraone quando andava in collera…….”.

Secondo alcuni studiosi però la statua rappresenterebbe in realtà il faraone Tutankhamon e sarebbe stata usurpata da Horemheb. Purtroppo per lui l’astuto Ay decise di sposare la vedova di Tutankhamon, Ankhesenamon, assicurandosi un diritto ancora più importante. Alla morte di Ay caddero tutti gli ostacoli per cui la successione gli spettò di diritto.

Appena asceso al trono volle dimostrare la sua ferrea intenzione di tornare alle antiche tradizioni religiose, osteggiate durante il regno del faraone eretico. Dette subito l’avvio ad una profonda damnatio memoriae nei confronti di Akhenaton e dei suoi successori, tutto quello che era di Amarna venne destinato all’oblio, della città nessuno più si curò e questa cadde in rovina. Horemheb  è considerato come il restauratore della stabilità politica e religiosa dopo il caos creato da Akhenaton. Iniziò una serie di progetti costruttivi attingendo i materiali dalle demolizioni dei monumenti del faraone eretico e della moglie Nefertiti oltre ad usurpare parecchie opere di Tutankhamon e Ay sostituendo i loro nomi col proprio.

Sarà l’ultimo faraone della XVIII dinastia, anche se alcuni studiosi lo vorrebbero porre già nella XIX. La sua ascesa al potere, oltre ai diritti vantati che abbiamo citato sopra, la dovette in gran parte all’appoggio del clero di Amon di Tebe ed al fatto che sposò la sorella della regina Nefertiti, Mutnodjmet, forse figlia di Ay. Questo matrimonio gli servì solo per legittimare ancor più il suo diritto al trono, in precedenza Horemheb era già sposato con la nobildonna Amenia, morta prematuramente prima di diventare regina. Una magnifica statua dove è rappresentato con la sposa Amenia si trova oggi al British Museum di Londra (cat. EA36).

Non è chiaro per quanti anni governò le Due Terre, gli studiosi sono divisi nell’assegnare la durata, secondo alcuni regnò poco meno di quindici anni, secondo altri più si trenta, altri ancora gliene attribuiscono cinquantanove.  Dal punto di vista scientifico ci si rifà alle etichette di 168 giare di vino studiate dall’archeologo Geoffrey T. Martin nel 2006-2007 che si trovavano all’interno della tomba di Horemheb, la  KV57, otto di queste riportano il 14° anno di regno e nessun’altra riporta una data superiore. Da altre documentazioni si evidenzia che, mentre risultano documentati gli anni fino al 13°, altri riferimenti che citano una durata di 27, 33 e perfino 59 lasciano molto perplessi.

Viene spontaneo pensare che, dopo una damnatio memoriae così violenta nei confronti dei suoi predecessori, Horemheb si sia attribuito anche tutti i loro anni di regno. La cosa appare più evidente dalle iscrizioni e dalle statue così da far comparire che egli sia succeduto direttamente ad Amenhotep III, faraone ancora in un certo senso soggetto al clero di Amon.

Oggi la maggior parte degli studiosi propende per assegnargli tredici o quattordici anni di regno. Il suo regno vide la completa restaurazione del potere del clero di Amon, ogni riferimento all’eresia amarniana venne cancellato o distrutto, i nomi e le effigi vennero scalpellati. A parlarci di queste riforme sono la “Stele dell’incoronazione”, oggi al Museo Egizio di Torino, la stele del “Grande Editto” eretta ai piedi del decimo pilone a Karnak; oltre a queste stele, nella “Stele della Restaurazione”, usurpata da Horemheb a Tutankhamon, vengono resi noti tutti i provvedimenti presi per ripristinare il culto degli antichi dei dopo il periodo amarniano.

Horemheb avviò una rilevante attività edilizia che interessò il restauro e l’ampliamento dei templi di varie divinità, venne pure iniziata la costruzione della Grande Sala Ipostila a Karnak. Sempre a Karnak Horemheb fece edificare il IX ed il X pilone utilizzando gran parte del materiale recuperato dalle demolizioni di Akhetaton.

In politica estera cambiò poco tranne alcuni interventi per sedare rivolte in Nubia. Pare che Horemheb non abbia avuto figli; in realtà avrebbe forse potuto avere eredi ma la sorte gli fu avversa; quando venne ritrovata la mummia della sua Grande Sposa Reale Mutnodjemet nella prima tomba che si era fatto costruire a Saqqara prima di salire al trono, ceduta in seguito alla moglie, si scoprì che la mummia della regina conteneva i resti di un feto oltre a mostrare segni d’aver partorito varie volte, si può supporre che la regina Mutnodjemet sia morta di parto.

In quanto faraone Horemheb si fece costruire una nuova tomba nella Valle dei Re, la KV57. All’interno della tomba compare per la prima volta il “Libro delle Porte”, opera analoga al “Libro dell’Amduat”, si tratta del racconto del viaggio notturno della barca solare di Ra nella Duat. Il dio deve attraversare dodici porte fortificate e sorvegliate da serpenti giganteschi che sputano fuoco per poter rinascere all’alba. (per approfondire sul Libro delle Porte rimando a Mario Tosi, citato in fonte, pag. 187).

La tomba di Horemheb fu completamente spogliata intorno al quarto anno del governo di Herihor, primo profeta di Amon che dette origine ad una dinastia parallela che governò l’Alto Egitto durante il Terzo Periodo Intermedio (1066 a.C. circa).

Non si ha notizia della sua mummia. Senza eredi Horemheb decise di associarsi al trono il vecchio generale Pramesse, futuro Ramses I che designò quale suo successore. Questo gesto di Horemheb viene visto come una preparazione alla fortunata dinastia che seguirà in quanto Pramesse vantava una buona discendenza, fra questi il futuro faraone Seti I e, forse, anche del figlio Ramses II. Per questa sua rosea visione del futuro alcuni lo vorrebbero come iniziatore della XIX dinastia. 

Gebel el-Silsila, (Jabal al-silsila “Monte della catena), è una località situata 14 chilometri a sud di Edfu e 14 chilometri a nord di Kôm Ombo. Nell’antico Egitto il Nilo qui era conosciuto come Khennui e Gebel el-Silsila rivestiva una notevole importanza in quanto rappresentava il confine con la Nubia.  A tal proposito Arthur Weigall afferma che il nome Silsila sia una corruzione romana del nome originale egiziano Khol-Khol, che significa appunto barriera o frontiera.

Sulla riva occidentale c’è un’alta colonna di roccia che è stata soprannominata “The Capstan” a causa di una leggenda locale che afferma che esisteva una volta una catena (Silsila in arabo) che andava dalle Est alle West Banks. Li si trovavano importanti cave di pietra che vennero sfruttate dai costruttori egizi principalmente durante il Nuovo Regno e poi fino al periodo greco-romano.

Durante la XVIII dinastia, i viaggiatori presero l’abitudine di intagliare piccoli santuari nelle scogliere, dedicandoli a una varietà di divinità del Nilo e al fiume stesso. Tra la stele di Horemheb a nord e la stele Ramesside del Nilo a sud, sono state rinvenute trentadue cappelle scavate nella roccia, le cui pareti sono interamente ricoperte da graffiti ed iscrizioni. I proprietari dei santuari, per quanto si possa accertare, erano alti ufficiali della XVIII dinastia.

Lo Speos di Horemheb

Piccoli santuari furono tagliati da Tuthmose I, Hatshepsut e Tuthmose III, prima che Horemheb costruisse qui il suo tempio scavato nella roccia. Col tempo Gebel Silsila divenne un importante centro di culto e ogni anno all’inizio della stagione dell’inondazione venivano praticate offerte e sacrifici agli dei associati al Nilo per garantire il benessere del paese per il prossimo anno. Horemheb, ultimo re della dinastia XVIII si fece scolpire nella roccia una cappella molto più grande, o Speos, fuori dalla collina all’estremità settentrionale del sito.

La cappella era dedicata ad Amun-Re e ad altre divinità collegate al fiume Nilo. Il monumento consiste in una facciata di cinque porte separate da pilastri di diverse larghezze, all’interno si trova una lunga sala trasversale con tetto a volta e una camera più piccola oblunga sul retro, il santuario.

Tutte le pareti sono ricoperte di rilievi e iscrizioni, in alcuni punti  parecchio danneggiate, ma in altri ci sono alcuni rilievi di altissima qualità. Horemheb però non ha mai completato lo Speos, e la decorazione è stata successivamente completata da re e nobili che hanno scolpito le loro stele e iscrizioni sui muri.

Molti dei re della XIX dinastia lasciarono il segno in qualche modo. Le divinità raffigurate sulle pareti, oltre ad Amun-re, sono Sobek nella forma di un coccodrillo, il dio a testa di ariete Khnum della prima cataratta, Satet di Elefantina, Anuket, dea di Sehel, Tauret come un ippopotamo e Hapi, dio del Nilo. Oltre a quelli di Horemheb, nei rilievi appaiono i cartigli di Rameses II, Merenptah, Amenemesse, Seti II, Siptah e Rameses III.

Fonti e bibliografia: 

  • Alessandro Roccati, “L’area tebana, Quaderni di Egittologia”, n. 1, Roma, Aracne, 2005
  • Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bologna, Bompiani, 2003
  • Mario Tosi, “Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto”, vol. I, Torino, Ananke, 2004
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
  • Margaret Bunson, “Enciclopedia dell’Antico Egitto”, Melita edizioni, 1995
  • Alfred Heuss et al., “I Propilei. I, Verona, Mondadori, 1980
  • Christian Jacq, “La Valle dei Re”, traduzione di Elena Dal Pra, Milano, Mondadori, 1998 
  • Alberto Siliotti, “La Valle dei Re”, Vercelli, White Star, 2004
  • Elio Moschetti, “Horemheb. Talento, fortuna e saggezza di un re”, Torino, Ananke, 2001
  • Erik Hornung, “La Valle dei Re”, traduzione di Umberto Gandini, Torino, Einaudi, 2004
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IL FARAONE AY

Di Piero Cargnino

Come abbiamo ampliamente spiegato la morte di Tutankhamon fu sicuramente prematura, si parla di ragioni di salute, si parla di infezioni, qualcuno ha azzardato parlare di omicidio, chissà, penso non lo sapremo mai. Quello che è certo è che la sua morte giovò al funzionario Ay.

Nato a Akhmin (Panopoli) si intrufolò alla corte di Akhenaton dove, grazie alla sua abilità ed alle sue doti, ricoprì incarichi di  notevole importanza, fu “Portatore del flabello alla destra di sua maestà”, “capo di tutti i cavalli del re”, “primo degli scribi di sua maestà” e  “padre del Dio”. Le sue origini sono del tutto o quasi oscure, secondo alcuni, con sua moglie Tey, era il padre di Nefertiti, moglie di Akhenaton, e di Mutnodjemet, moglie di Horemheb. Tesi respinta da altri in quanto Tey godeva del titolo di “Nutrice della Grande sposa Reale” (Nefertiti) e come nutrice non poteva essere la madre. Vi sono altre teorie che però non spiegherebbero come Ay riuscì ad ottenere tutto quel potere durante il regno di Akhenaton. Con la fine dell’eresia amarniana la sua abilità di trasformista lo portò a non subire conseguenze, anzi, da quel grande statista che era, riuscì ad ottenere ancora altri vantaggi. L’esperienza maturata in 25 anni sotto i regni di Akhenaton e Tutankhamon, lo portò a succedere a  quest’ultimo al momento della sua morte prematura.

Secondo molti studiosi Ay avrebbe sposato la moglie di Tutankhamon, Ankhesenamon, assicurandosi in tal modo il diritto alla successione. Questa è una teoria basata solo sul fatto che su di un anello, noto anche a Carter, compaiono i nomi di Ay e di Ankhesenamon affiancati. Ovviamente la questione non è del tutto condivisa dagli studiosi.

NOTA: per maggiori informazioni sull’anello di Ay e Ankhesenamon vedi QUI

Sicuramente avrebbe avuto maggiori diritti alla successione il generale Horemheb che vantava il titolo di “Rappresentante del Signore delle Due Terre”, diritti non certo trascurabili. Certo è che l’astuto funzionario, potrebbe aver ordito l’ipotetico matrimonio con la vedova reale, argomento più che valido  per garantire la sua successione a discapito del capo dell’esercito, Horemheb. Infatti nella tomba di Tutankhamon troviamo Ay che, indossando la corona blu khepresh, esegue la “cerimonia di apertura della bocca” alla mummia del faraone defunto.

Anche per il regno di Ay non ci sono eventi di rilievo come per il suo predecessore Tutankhaton tranne l’annosa discussione sulle modalità di successione al trono sia di Ay che di Horemheb che gli succederà. Quando salì al trono Ay si trovava già in età avanzata, per l’epoca, 69 anni, e regnò per soli quattro anni. Il suo indubbio equilibrio lo portò a continuare la moderata restaurazione religiosa iniziata dal suo predecessore, ma ovviamente da lui guidata, sarà poi Haremheb a dare la sferzata decisiva.

Dal punto di vista costruttivo si fece edificare il suo  tempio funerario a Medinet Habu. Con la prima moglie, Iuy, “Adoratrice di Min” e “Cantante di Iside” pare che abbia avuto un figlio, il generalissimo Nakhtmin, erede designato al trono. Su di una statua danneggiata del generale, conservata presso il Museo Egizio del Cairo, viene chiamato “Figlio della carne del re”, Nakhtmin vantava inoltre i titoli di “Principe della corona” e “Figlio del Re”. Non è chiaro se morì prematuramente ma alla morte di Ay subentrò Horemheb.

Ay si fece costruire una tomba nella Valle Occidentale nota come WV23 denominata “Bab el-Gurna” (Tomba delle scimmie) a causa dei numerosi babbuini in essa raffigurati sulle pareti. Fu scoperta da Giovanni Belzoni nel 1816 e Lepsius compì rilievi epigrafici nel 1824.

Nel 1908 Haward Carter, su disposizione di Gaston Maspero iniziò una campagna di scavi durante i quali riuscì a recuperare i numerosi frammenti del sarcofago di granito rosso che permisero di ricostruirlo integralmente per esporlo nel Museo Egizio del Cairo dove, recentemente il Supreme Council of Antiquites egiziano, lo ha fatto prelevare per rimetterlo nella tomba originaria.

Forse in origine la WV23 non era destinata ad Ay bensì ad Akhenaton o Smenkhara o addirittura a Tutankhamon che sarebbe poi stato trasferito nella KV62. E’ ancora oggetto di dibattito se, nonostante la presenza di suppellettili intestate ad Ay, questi sia mai stato sepolto in questa tomba. Va detto però che, la damnatio memoriae verso l’eresia amarniana ordinata da Horemheb, potrebbe aver colpito anche Ay  perché nella tomba WV23 risultano quasi completamente danneggiati cartigli e immagini e, come detto sopra, il sarcofago fu ridotto a pezzi ed il coperchio rovesciato.

Fonti e bibliografia:

  • Alessandro Roccati, “L’area tebana, Quaderni di Egittologia”, n. 1, Roma, Aracne, 2005
  • Franco Cimmino, “Dizionario delle dinastie faraoniche”, Bologna, Bompiani, 2003
  • Alan Gardiner, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
  • Alfred Heuss et al., “I Propilei. I, Verona, Mondadori, 1980
  • Christian Jacq, “La Valle dei Re”, traduzione di Elena Dal Pra, Milano, Mondadori, 1998 
  • Alberto Siliotti, “La Valle dei Re”, Vercelli, White Star, 2004 Erik Hornung, “La Valle dei Re”, traduzione di Umberto Gandini, Torino, Einaudi, 2004
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IL FARAONE FANCIULLO  TUTANKHAMON

Di Piero Cargnino

E siamo arrivati al più famoso ma insignificante faraone, non solo della XVIII dinastia, ma poverino, era un bambino o poco più, per governare l’Egitto ci vuole ben altro. Questo lo aveva capito benissimo il marpione Ay che riuscì a salvarsi dalla persecuzione dei seguaci di Aton e non solo, ma riuscì a portare la situazione a proprio vantaggio. Personaggio molto potente oltre a staccarsi dall’Aton riuscì a mantenere il diritto alla successione al trono all’erede di Akhenaton, Tutankhamon ovvero “Immagine vivente di Amon”, nonostante questi avesse tra i nove e i dieci anni.

Il prenomen con cui era maggiormente conosciuto Tutankhamon era Neb-Kheperu-Ra. Poche fonti ci parlano di questo faraone fanciullo, Flavio Giuseppe, in un’epitoma di Manetone, parla di un certo Rahotis che regnò 9 anni, mentre Sesto Giulio Africano lo chiama Rathos.

Sicuramente, durante l’eresia amarniana, la parte teofora del suo nome era riferita all’Aton, quindi il suo nome era Tutankhaton, ma di questo ne abbiamo già parlato.

L’esatta genealogia di Tutankhamon non è chiara, per alcuni sarebbe figlio di Amenhotep III e della regina Tye, e quindi fratello di Akhenaton, ma potrebbe anche essere figlio di Akhenaton e Nefertiti o di quest’ultimo re e di una regina minore, altri suggeriscono che potrebbe essere figlio di Akhenaton e della propria figlia Maketaton.

Data la tenera età con la quale ascese al trono certamente non avrebbe potuto assolvere a tutti i compiti che competevano al sovrano, non solo la “normale” amministrazione dello Stato ma in quanto re era il capo dell’esercito ed inoltre doveva presenziare alle funzioni religiose. Venne quindi costituito un “Consiglio di Reggenza” che avrebbe assolto a tutti i compiti che competevano al sovrano.

Capo del Consiglio fu il “Padre Divino”, cioè Ay, altri componenti furono: Maya, sovrintendente reale e poi sovrintendente della necropoli reale tebana ed il generale, comandante dell’esercito Horemheb. Assistito dalla ferrea reggenza di Ay, Tutankhaton intorno ai 10 anni viene fatto sposare con Ankhesepaaton “Che lei possa vivere per Aton”, più o meno coetanea.

La decisione di abbandonare Amarna per Tebe non la prese certamente lui, questa venne presa dal “Consiglio di Reggenza”, sicuramente ad opera dei due più potenti a corte, Ay e Horemheb anche per fornire al clero di Amon un segnale forte di distacco dall’eresia amarniana.

Abbandonata Amarna sia Tutankhaton che la moglie Ankhesepaaton mutarono subito i loro nomi in Tutankhamon e Ankhesenamon e il sovrano aggiunse alle sue titolature anche quella di “Sovrano di On del sud” con chiaro riferimento a Tebe dimostrando, seppure non in modo esplicito, il riconoscimento della stessa quale capitale del Regno.

Non ci sono eventi di particolare rilievo durante il regno di Tutankhamon, pare abbia regnato 9 o 10 anni e data anche la giovane età non commissionò grandi opere, si fece costruire una sua statua di granito nero che lo ritrae in posa offerente (oggi al British Museum) oltre ad un’altra dove compare come Amon (oggi al Metropolitan Museum of Art di New York).

Nell’enfasi  di rendere omaggio al dio Amon, spodestato dal suo predecessore, fece ripristinare l’antica “Festa di Opet”, soppressa durante l’eresia amarniana. Festa che consisteva nel  ricreare la trinità alla base della religione egizia, il dio Amon e la dea Mut concepivano annualmente il divino figlio Montu.

Fece inoltre costruire nel grande tempio di Luxor un monumento dove compariva assiso con la sua Grande Sposa Reale Ankhesenamon. Il monumento verrà in seguito usurpato da Ramses II che farà sostituire i cartigli dei due sposi con quello suo e della regina Nefertari.

Nulla si sa sulle cause della morte del faraone fanciullo, dalle analisi ed esami clinici effettuati sulla mummia è stato possibile evidenziare alcuni problemi che lo affliggevano. Oltre ad avere il piede destro equino aveva malformazioni anche al piede sinistro, soffriva della Malattia di Kohler che colpisce i bambini (generalmente i maschi) dai 3 ai 5 anni d’età e si verifica su un solo piede. Questo gonfia e provoca dolore che aumenta più si carica il piede camminando, facendo tenere un’andatura claudicante, per questo il sovrano necessitava di appoggiarsi ad un bastone. Nella sua tomba sono stati rinvenuti ben 130 bastoni da passeggio, tutti con evidenti tracce di usura.

E’ stato accertato che si trattava di un ragazzo molto fragile al quale tutti quei disturbi potrebbero aver generato delle infiammazioni cumulative che in un soggetto così debilitato avrebbero portato ad un’infezione malarica che avrebbe potuto essergli fatale. Gli esperti inglesi, che hanno eseguito ulteriori indagini con l’aiuto di periti legali si sono indirizzati sulla morte per cause traumatiche. Questo in base al fatto che la mummia si presenta frammentaria con molte lesioni sul lato sinistro, stranamente è priva del cuore che non veniva mai asportato, perché era considerato la sede dell’anima. Le lesioni gravi sul lato sinistro del corpo indurrebbero a pensare che sia stato asportato in quanto troppo danneggiato dall’evento traumatico. Evento che fa pensare ad uno schiacciamento del corpo, le lesioni sono compatibili con l’essere parzialmente travolto dalla ruota di un carro.

Certamente dopo 3000 anni, completamente impregnata da resine e oli essenziali che la tenevano incollata al sarcofago, non hanno giovato alla sua integrità le operazioni di estrazione dal sarcofago messe in atto da Carter e dal dottor Douglas Derry. 

Tuankhamon fu sepolto nella Valle dei Re nella tomba KV62 dove venne trovato da Howard Carter nel novembre 1922 mentre lavorava ad una missione per conto di George Herbert, V, Conte di Carnarvon. Fortunatamente la tomba era sfuggita ai profanatori in quanto l’ingresso rimase sepolto sotto le macerie prodotte durante la costruzione della tomba di Ramses VI, la KV9, costruita  oltre 200 anni dopo, cosa che dimostra che già a quell’epoca della tomba di Tutankhamon si erano perse le tracce.

La tomba si presentava quasi inviolata ed ha restituito una ingente quantità di oggetti che non sto qui a citare, cosa che richiederebbe un tempo enorme, per chi fosse interessato esistono parecchie pubblicazioni a riguardo sicuramente molto dettagliate. Vorrei però evidenziare un ritrovamento decisamente interessante, in due piccoli sarcofagi vennero rinvenute le mummie di due feti di sesso femminile, con ogni probabilità figlie di Tutankhamon e della regina Ankhesenamon.

La mummia di Tutankhamon venne sfasciata da Carter che rinvenne tra le bende oltre 150 oggetti. Per quanto riguarda la tomba c’è ancora da dire che rimangono aperte alcune ipotesi circa la possibilità che esistano altre camere oltre quelle scoperte, nel marzo 2016 vennero eseguite indagini con il georadar, secondo il ministro delle antichità egiziano Mamdouh al-Damati esiste il 90% di probabilità che esistano altre due camere non ancora scoperte. Notizia che a quanto pare sarebbe stata smentita da ulteriori indagini col georadar nel maggio 2018.

Come faraone da vivo non ha molto da dirci, ma da morto ci ha fornito un’ingente quantità di reperti che ci illustrano parecchie cose sugli usi e costumi di quell’epoca. La sua tomba scoperta quasi intatta da Carter ne ha fatto il faraone per eccellenza grazie ai tesori in essa contenuti. E’ stata sicuramente la scoperta del secolo che ha catturato l’attenzione del mondo intero ma anche alimentato l’immaginazione dei tanti appassionati di storia egizia e non solo. Sono stati scritti montagne di libri ed ancora oggi questo piccolo faraone cattura l’attenzione di tutti. Ma la scoperta della sua tomba non ci ha solo fornito un gran numero di informazioni, oltre a porci diversi interrogativi  ha anche fatto in modo che attorno ad essa si creassero numerose leggende più o meno vere. Il più delle volte vere e proprie speculazioni per vendere un libro o esaltare un documentario ingenerando confusione e diffondendo false notizie alle quali la gente crede.

Una di queste, che è forse la più conosciuta e diffusa è quella della “maledizione del faraone”.

Vedi anche su questo argomento: LA MALEDIZIONE DI TUTANKHAMON e MORTE E MALEDIZIONE

Tutto ebbe inizio la sera stessa dell’apertura della tomba quando Carter, rientrato a casa, scoprì che un cobra si era mangiato il suo canarino dorato che si era portato appresso dall’Inghilterra. Il cobra nella religione egizia rappresenta il dio che doveva difendere la tomba appena profanata. Immaginatevi cosa non successe appena la notizia si diffuse, a diffonderla ci pensò la scrittrice, Mari Corelli, che, sentita la notizia della morte del canarino di Carter, mise in guardia sulla possibile maledizione del faraone.

Ma per capire bene occorre sapere che Carter e lord Carnarvon avevano concesso l’esclusiva della diffusione delle notizie riguardanti le operazioni che si sarebbero svolte all’interno della tomba di Tutankhamon al Times e questo aveva irritato non poco tutti gli altri giornali ma in modo particolare l’egittologo e giornalista Arthur Weigall, corrispondente da Luxor del Daily Mail. Cogliere al volo una simile notizia e costruirci sopra un significato simbolico e nefasto fu per lui una manna. Non è certo che il fatto del canarino sia realmente accaduto ma diffuso da uno studioso del calibro di Weigall diede credibilità alle tesi di eventi sovrannaturali.

Ma il tutto non era finito lì, tre mesi dopo la scoperta della tomba lord Carnarvon venne punto da una zanzara sulla guancia sinistra. Forse li per li non ci fece caso ma la puntura gli causò un’infezione che si trasformò in setticemia ed il lord, che già da anni si trovava in precarie condizioni di salute, il 5 aprile 1923 muore. Apriti o cielo, Weigall e altri giornalisti, esclusi come lui dalla diffusione delle notizie, non aspettavano altro, ci si mise pure lo scrittore Arthur Conan Doyle, creatore di Sherlock Holmes, sostenitore dello spiritismo, il quale scrisse che la morte del lord era causa della maledizione del faraone. Se ne scrissero di tutti i colori, Sui giornali comparve una notizia secondo la quale all’interno della tomba si trovava una scritta che Carter avrebbe ignorato, la scritta diceva:

Non era vero, lo testimoniano le foto fatte da Harry Burton, ma la diffusione di una notizia del genere riscosse un’eco mondiale innescando così una violenta campagna denigratoria nei confronti della scoperta.

Vennero riportati fatti sempre più incredibili che richiamavano la maledizione del faraone,  pare che anche il cane del conte morì in Inghilterra nello stesso momento del suo padrone, (le versioni riportate dai parenti sono dubbie anche in presenza di  incongruenze enormi). Si parlò di frequenti ed inspiegabili blackout al Cairo (cosa del tutto normale per l’epoca); altri asserirono che era comparsa una macchia scura sulla guancia della mummia di Tutankhamon nello stesso posto in cui era stato punto Carnarvon, (non esiste nessuna macchia).

La cosa prese una brutta piega in quanto si diffuse la notizia che tutti i partecipanti alla scoperta, in quanto colpiti dalla maledizione del faraone, sarebbero morti entro breve. Nulla di più falso in quanto i membri della spedizione morirono anni dopo la scoperta della tomba e per ragioni più che plausibili: Arthur Cruttenden Mace morì sei anni dopo, Arthur R. Callender, quattordici, Howard Carter, diciassette, Harry Burton, diciotto, Alfred Lucas, ventitre, Percy Newberry, ventisette, la figlia di lord Carnarvon, anch’essa presente morì nel 1980, ben cinquantotto anni dopo e il medico D.E. Derry, che eseguì la prima autopsia sul corpo di Tutankhamon, morì quarantasette anni dopo. Di tutte le altre persone presenti all’apertura della tomba o all’apertura del sarcofago o allo sbendaggio della mummia, solo sei morirono per cause naturali prima di dieci anni successivi alle operazioni cui avevano assistito.

Veniamo ora ad uno dei presunti misteri che circondano il nostro giovane faraone, quello della stupenda maschera d’oro massiccio che tutti conosciamo. Così la definì l’egittologo Nicholas Reeves:

Bene, circa la proprietà della maschera sono state effettuate ricerche nel 2001 che hanno portato alcuni a ritenere che questa non fosse all’inizio destinata a Tutankhamon in quanto presentava dei fori per le orecchie, insolito per un faraone in quanto venivano praticati solo per i principi e le donne. Da un cartiglio parzialmente cancellato e quasi illeggibile sul retro della maschera, qualcuno azzarda a leggere Ankhtkheperura nome regale di Neferneferuaton, nulla è provato. Nella parte posteriore della maschera si trovano 10 colonne verticali e 2 orizzontali in geroglifico che riportano il capitolo CLI del “Libro dei Morti”, cosa già in uso su altre maschere dal Medio Regno. Il testo richiama la protezione delle divinità ed è espressamente dedicato a Tutankhamon.

Ma proseguiamo ora con altre curiosità o misteri che ci riserva la tomba di Tutankhamon. Durante lo sbendaggio della mummia del faraone, Carter rinvenne tra le bende che avvolgevano il faraone un pugnale. Sulle prime parve un normale pugnale ma poi analizzandolo meglio ci si accorse che la lama era di ferro.

E’ noto che a quell’epoca gli egizi non conoscevano il ferro ed, anche qualora avessero trovato quello strano metallo non avrebbero saputo come lavorarlo, i loro forni non erano in grado di raggiungere le alte temperature occorrenti anche solo per batterlo. Poi con cosa lo avrebbero battuto? Con i loro mazzuoli di legno o con delle pietre per farne cosa poi?

Le analisi svolte sul pugnale sono state molte ed hanno rivelato che quel ferro conteneva una percentuale di nichel del 10% e di cobalto dello 0,6%, concentrazioni tipiche delle meteoriti metalliche, il nichel è praticamente assente negli oggetti di ferro fuso. Ma, se come abbiamo detto gli egizi non conoscevano il ferro e per di più non possedevano una tecnologia in grado di lavorarlo, allora da dove proveniva quel pugnale e chi lo aveva forgiato?.

Gli studiosi, sulla scorta delle tavolette di Amarna, hanno supposto che il pugnale provenisse dalla Mesopotamia dove pare che già si lavorasse il ferro. In una di queste, che il re di Mitanni Tushratta inviò a Tiy, sposa di Amenofi III (nonno di Tutankhamon), si menziona, tra i tanti doni ricevuti dalla corte egizia, un pugnale di ferro con caratteristiche identiche a quelle di Tutakhamon. Questo sarebbe stato regalato ad Amenhotep III, nonno di Tutankhamon, da Tushratta re di Mitanni. Questa potrebbe essere la prova che il pugnale proviene dai territori situati sulla sponda sinistra dell’Eufrate, oggi la Siria.

Ovviamente non finisce qui, vediamo ora i sarcofagi che racchiudevano questo giovane faraone. Quello che vide Carter, dopo aver aperto tutte le quattro cappelle di legno dorato, fu un grande sarcofago in quarzite gialla lungo 274 cm, largo 147 cm e alto 147 cm, del peso di oltre 430 kg. Il coperchio si presentava fratturato e riparato con una colata di gesso cui era stato applicato del colore per rendere simile la tonalità all’intera struttura.

Il sarcofago in quarzite conteneva al suo interno altri tre sarcofagi antropomorfi di cui due erano in legno laminato d’oro mentre il terzo era in oro massiccio dello spessore di di 2-3 millimetri. Ai lati del primo sarcofago le dee Iside e Nefti ricoprivano con le loro ali il sottostante sarcofago. Sotto il primo si trovava un secondo sarcofago antropomorfo sempre di legno dorato, un drappo di lino lo ricopriva con sopra ghirlande di fiori, un ramoscello d’ulivo e petali di fiori di loto blu e fiordaliso. Sull’ultimo sarcofago ora stendevano le ali il cobra Uadjet e l’avvoltoio Nekhbet, Dieci tenoni d’argento bloccavano il coperchio e riportavano il prenome del faraone, Kheperu-Ra.

L’ultimo dei tre sarcofagi antropomorfi, in oro massiccio del peso di circa 110 kg., ad esclusione del capo tutto il sarcofago era ricoperto da un telo di lino rosso. Sul torace si trovava un ampio collare in perline di vetro blu, oltre a foglie, fiori e frutti di vario genere. Il faraone è rappresentato con le braccia  incrociate sul petto con flagello e bastone ricurvo a simboleggiare Osiride. Rimosso quest’ultimo sarcofago comparve la mummia con la famosa maschera d’oro.

Poiché in questa sede intendo trattare solo le cose che hanno un che di misterioso, alcuni di voi si chiederanno: ma nei sarcofagi cosa c’è di misterioso?  C’è, c’è, alcuni studiosi hanno rilevato che il viso dei tre sarcofagi presenterebbe delle differenze, l’espressione del volto non sarebbe la stessa per tutti e tre, come se non appartenessero tutti a Tutankhamon. La questione è ancora dibattuta.

Passiamo ora ad un altro particolare che forse a molti non è noto, si tratta di uno dei pezzi più belli e affascinanti che adornavano il faraone, il famoso Pettorale di Tutankhamon. E’ realizzato con lapislazzuli, turchese, vetro azzurro, ossidiana e oro e faceva bella mostra sul petto del sovrano durante le manifestazioni ufficiali. Ma perché l’ho chiamato famoso? La particolarità di questo Pettorale risiede nel grande Scarabeo centrale di colore giallo verde che sta a simboleggiare il dio Khepri. 

Quando è stato rinvenuto assieme a tutti gli altri gioielli una volta aperta la tomba del faraone venne messo in un angolo, poco considerato dagli studiosi e dai visitatori che avevano molto altro da guardare. Gli esperti dell’epoca che esaminarono lo scarabeo classificarono lo stesso come normalissimo calcedonio, e quindi scarsamente interessante sotto ogni punto di vista. Invece lo scarabeo riservava una storia “magica” assolutamente unica rispetto alle altre pietre preziose del tesoro. Fu durante una visita al Museo Egizio del Cairo nel 1996 che due italiani, il geologo Giancarlo Negro e il conservatore emerito del Museo di storia naturale di Milano e direttore dell’Istituto gemmologico italiano, Vincenzo De Michele si chiesero perché su di uno stupendo pettorale il pezzo più evidente era fatto con un materiale di così poco valore. Subito si convinsero che lo scarabeo di Tutankhamon non poteva essere solo una pietra dura, la loro esperienza li portò ad ipotizzare che in realtà si trattasse di “Silica Glass”.

Dopo studi ed analisi, autorizzate in via del tutto eccezionale dal Museo Egizio del Cairo, venne accertato che si trattava proprio di Silica Glass. Ma cos’è il Silica Glass? Si tratta di una pietra verde, già nota fin dalla preistorica, sono stati trovati reperti di questo vetro lavorati mediante scheggiatura, probabilmente con strumenti litici, provenienti dal Pleistocene. Non vorrei sembrare pignolo ma io mi chiedo con che cosa lo hanno lavorato gli egiziani.

Sul come si è formato esistono due teorie, secondo la più accreditata si tratterebbe del risultato di un violento impatto di un enorme meteorite che generò un forte calore che fuse enormi quantità di sabbia silicea producendo questa specie di vetro che si trova disseminata su una vastissima area del Deserto Libico Orientale ed in parte del territorio egiziano. Un’altra teoria, meno accreditata, ipotizza invece che si sia trattato di un enorme meteorite siliceo che sia esploso in aria spargendo ovunque questi frammenti fusi. L’evento è stato datato a 26-28 milioni di anni fa. Una leggenda egiziana racconta che queste pietre erano un “dono degli Dei”, un vero dono piovuto dal cielo per il faraone fanciullo

Vediamo ora il corpo del faraone ragazzo che si trovava nel sarcofago d’oro più interno, le sue condizioni non erano delle migliori a testimoniare un’imbalsamazione poco accurata.

Il corpo era praticamente incollato al sarcofago a causa della solidificazione degli unguenti e delle resine versati, aderiva saldamente alla cassa. Ovviamente l’intenzione era quella di estrarlo per essere più comodi a sbendarlo ma nel fare questo Carter ed il prof. Douglas Erith Derry fecero solo dei disastri.

Dapprima il sarcofago fu esposto al calore del sole, non ottenendo risultati si provò con forti lampade per poi arrivare a scaldare direttamente il sarcofago col fuoco, poco mancò che il calore sciogliesse l’oro. Carter si avvalse quindi di coltelli arroventati con l’esito che estrasse sì il corpo ma sezionandolo a pezzi. Ovviamente l’egittologo evitò di citare queste operazioni nella sua pubblicazione.

Come prima operazione si cercò di stimare l’altezza, la mummia misurava 163 cm, per cui si stimò che fosse alto circa 167 cm., esattamente l’altezza delle due statue di colore nero che si trovavano ai fianchi della porta della camera funeraria. In quanto all’età, sulla base della struttura ossea ed alla mancata fusione delle epifisi delle ossa lunghe, venne stabilito che il re doveva avere intorno ai 17-19 anni all’atto della morte.

Le radiografie cui venne sottoposta la mummia da Harrison nel 1968 scartarono l’ipotesi, fino ad allora suggerita, che Tutankhamon fosse morto di tubercolosi, da queste emerse pure che all’interno della scatola cranica era presente un frammento osseo, cosa dovuta forse alla scarsa attenzione degli imbalsamatori durante l’estrazione del cervello.

Si riscontrò inoltre una evidente frattura al femore della gamba sinistra, anche qui non fu possibile stabilire se la frattura esisteva già all’atto della morte o se era dovuta agli imbalsamatori se non addirittura allo stesso Carter. A quanto pare non era possibile stabilire le ragioni della morte del sovrano finché nel 1998 il noto egittologo Bob Brier suggerì che a suo parere il re doveva essere morto di una morte violenta. Brier notò che il cranio presentava una grave lesione alla base, nella zona occipitale rilevabile da un ispessimento dell’osso, il classico callo osseo o ematoma subdurale cronico, dovuto a una frattura. Secondo Brier questo non sarebbe dovuto ad un incidente ma piuttosto ad un atto violento volontariamente inferto.

Omicidio? Questo non è possibile stabilirlo dalla semplice analisi dei raggi X per cui non si può né confermare né smentire queste congetture. Nel 2005 la mummia fu sottoposta ad una TAC il cui esito venne esaminato da esperti egiziani, italiani e svizzeri e diffuso dal Supremo Consiglio delle Antichità egiziano. Si leggeva che la TAC non aveva evidenziato alcuna prova fisica di omicidio ed escludeva che la causa della morte potesse derivare da una lesione del cranio o da un trauma toracico, Qualcuno avanzò l’ipotesi che la causa avrebbe potuto essere un’infezione mortale dovuta alla rottura del femore, ipotesi però contraddetta da altri esperti.

Le cause della morte del faraone fanciullo forse rimarranno sepolte con la sua mummia. Poiché ritengo che Howard Carter sia una figura ormai indissolubile da Tutankhamon vorrei parlare delle vicende che seguirono la scoperta e che qualcuno chiama la “Cospirazione di Tutankhamon”.

Pare ormai assodato che Carter e lord Carnarvon entrarono di nascosto nella tomba ben prima dell’apertura ufficiale e, secondo alcuni asportarono oggetti all’insaputa delle autorità e tra di questi pare ci fossero alcuni rotoli di papiro. Sorse poi una disputa tra Carter e lord Carnarvon da una parte ed il Ministero delle Antichità egizie dall’altra circa la già citata esclusiva della diffusione delle notizie sui lavori che si effettuavano nella tomba, concessa da Carter e Carnarvon al Times, accresciuta poi dal fatto che il Ministero egiziano decise che non ci sarebbe più stata la spartizione degli oggetti della tomba come era uso che avvenisse. La disputa originò una causa legale che portò il Ministero egiziano a minacciare di dichiarare decaduta la concessione di scavo a Carter.

La vicenda che si protrasse per un certo tempo è complicata e lunga per cui cercherò di condensarla in poche parole (per approfondire leggere il libro di Andrew Collins e Chris Ogilvie-Herald, “La cospirazione di Tutankhamen”). Indispettito ed irritato pare che Carter abbia minacciato che se non gli veniva rinnovata la concessione avrebbe reso pubblico il contenuto di alcuni papiri trovati nella tomba di Tutankhamon i quali conterrebbero notizie esplosive circa l’Esodo degli ebrei dall’Egitto. Ci si trovava in un periodo molto delicato per la diplomazia inglese che stava cercando di permettere la costituzione di uno stato israeliano in Palestina. Gli Israeliani rivendicavano quella terra che sarebbe stata conquistata da Giosuè dopo l’Esodo. Se fossero emerse notizie che provassero che Giosuè ed il suo esercito non avevano mai conquistato Canaan, questo avrebbe indebolito notevolmente il legame storico sionista con quel territorio. Non si poteva permettere che si insinuassero dubbi in proposito in quanto questo avrebbe indebolito il valore politico ed economico del futuro stato di Israele.

Fantasia? Questo non ci è dato a sapere, quello che sappiamo è che, con l’assassinio del governatore generale britannico del Sudan, nonché comandante dell’esercito egiziano, avvenuto il 19 novembre 1924 al Cairo ad opera di terroristi che si ritenne vicini al nazionalista Zaghlul, che governava in Egitto, le autorità britanniche colsero l’occasione per destituire Zaghlul e il suo governo sostituendolo con un governo filobritannico guidato da Ahmad Pasha Ziwar che era anche conoscente di Carter. Dopo di ciò a Carter venne concessa nuovamente l’autorizzazione ad esplorare la tomba di Tutankhamon. Cosa in realtà contenevano e dove siano finiti i papiri nessuno lo sa, forse in un cassetto nello scantinato di un museo e più nessuno li troverà. Certamente Carter non li diffuse mai, lo avesse fatto non ci avrebbe guadagnato nulla ma avrebbe messo a repentaglio la sua  onorata carriera.

COLUI CHE NASCONDE LE ORE

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Vorrei ancora segnalare una curiosità sulla tomba del faraone fanciullo, non sono molti quelli che ne parlano in quanto i tesori contenuti nella tomba sono talmente interessanti che qualcosa passa inevitabilmente in secondo piano.

Come sapete quando Carter entrò nella camera funeraria non si imbatté subito nel sarcofago del faraone, questo era racchiuso entro quattro cappelle, o sacrari, in legno dorato che occupavano quasi interamente la camera. La prima cappella era dotata di porte a due battenti ancora chiuse e con i sigilli della necropoli. Ciascuna cappella si presentava decorata e nell’intercapedine tra una e l’altra erano contenuti numerosi oggetti.

Quello di cui voglio parlarvi è una scena rappresentata su di una parete della seconda cappella occupandola per intero. Prendo da un articolo dell’egittologo francese di origini russe, Alexandre Piankoff dal titolo “Une Reprèsentation rare sur l’une des chapelles du Tutankhamon”, pubblicato sua J.E.A. 35 del 1949 e tratto dal suo libro “Il libro del giorno e della notte” dove descrive, tra l’altro, la scena di cui vi parlo. L’articolo fa riferimento ad una rappresentazione unica nell’iconografia egizia, anche se figure analoghe si ritrovano nelle tombe di Ramesse VI e Ramesse IX.

Al centro della scena il faraone defunto è rappresentato imbalsamato in forma osiriaca con due grossi cerchi che racchiudono: quello superiore la testa fino alle spalle mentre quello inferiore si estende dalle ginocchia fino in fondo ai piedi. In ciascuno dei due cerchi sono racchiusi dei serpenti nell’atto di mordersi la coda. Esaminando il cerchio che racchiude la testa nel suo interno si trovano due iscrizioni identiche contrapposte formate da tre segni il cui significato è “Colui che nasconde le ore”.

Sopra il capo del Re una breve iscrizione indica che il serpente è Mehen, lo stesso che nel “Libro dell’Amduat” e nel “Libro delle Porte” protegge la cabina del Dio sulla barca solare. Il serpente-tempo, simbolo del non esistente, del caos che circonda il mondo creato e che si rigenera da solo.

Al centro della figura del Re, racchiuso in un cerchio con le braccia alzate in atto di adorazione, un uccello con la testa di ariete, il ba di Ra. A destra della figura di Tutankhamon si trovano tre registri sormontati da una scritta che inneggia a Ra.

Il primo registro contiene il capitolo 17 del Libro dei Morti con alla sua destra otto divinità sormontate da un testo che dice: “Questi Dei sono così nelle loro caverne che sono nella Duat. I loro corpi sono nelle tenebre”. Ancora più a destra Iside e Nephti adorano un bastone con la testa di ariete di RA. Il secondo registro di tre righe orizzontali contiene il cap. 92 del Libro dei Morti seguito da sette rappresentazioni simboliche. Il terzo registro riporta il cap. 1 del Libro dei Morti seguito da un gruppo di otto divinità. Ancora più a destra due Dee adorano il collo di Ra, un bastone con la testa di sciacallo sormontato da un disco solare contenente il ba di Ra. Sulla sinistra del Faraone altri tre registri, nel primo sette divinità racchiuse nei loro tabernacoli (naoi). Ancora più a sinistra un testo di 4 colonne che contiene un’invocazione alle due Enneadi divine. Nel secondo registro una corda che esce dal disco che contiene il ba di Ra e passa su 7 personaggi rivolti al Faraone con le braccia alzate in adorazione, accanto a ciascuna è riportato il proprio nome meno che alla settima. Alle loro spalle è riportato il cap. 29 del Libro dei Morti. Nel terzo registro si trovano due Dei stanti con al centro la figura di un lunghissimo serpente dalla testa umana, Tepy, che racchiude due cartigli, in uno pare esservi Osiride mentre l’altra figura non è identificabile. A destra un contenitore che racchiude un braccio, quattro mani e la testa di un ariete, il significato è incomprensibile. Il testo sulla scena descrive gli Dei sottostanti. La restante parte del registro riporta il cap. 26 del Libro dei Morti.

Fonti e bibliografia:

  • Franco Cimmino, “Tutankhamon. Un faraone adolescente al centro di una questione dinastica”, Rusconi, 2002
  • Andrew Collins e Chris Ogilvie-Herald, “La cospirazione di Tutankhamen”, Newton & Compton, 2003
  • Philipp Vandenberg, “Tutankhamon, il faraone dimenticato”, Sugar, 1992
  • Henri T. James, “Tutankhamon. Gli eterni splendori del faraone fanciullo”, White Star, 2000
  • Thomas Hoving, “Tutankhamon”, Milano, Mondadori, 1995
  • Bob Brier, “L’omicidio di Tutankhamon. Una storia vera”, Corbaccio, 1999
  • Haward Carter, “The Tomb of Tutankhamon”, Barrie & Jenkins, 1972
  • Christian Jacq, “L’affare Tutankhamon”, Milano, RCS, 2001
  • H.V.F. Winstone, “Alla scoperta della tomba di Tutankhamon”, Grandi tasc. econ. Newton, 1975
C'era una volta l'Egitto, Nuovo Regno, XVIII Dinastia

IL CREPUSCOLO DELLA XVIII DINASTIA

Di Piero Cargnino

Con la morte (o l’Esodo) di Akhenaton si chiude quella parentesi storica che alcuni chiamano “Rivoluzione religiosa”, tornano gli dei che fin dagli albori della civiltà hanno vegliato sul popolo egizio. Chi siede sul trono delle Due Terre dopo il faraone eretico è un enigma che ancora oggi fa scervellare molti studiosi.

Secondo alcuni sarebbe Smenkhara ma altri obiettano che varie fonti antiche parlano di una regina che però non è identificata, potrebbe trattarsi di Nefertiti, Grande Sposa Reale di Akhenaton o più probabilmente si tratterebbe di Merytaton (Ankhtkheperura Meri-Neferkheperura), prima figlia di Akhenaton e Nefertiti. Su di un monumento è citata come “l’unica figlia del Re”, anche se in realtà dopo la costruzione del monumento, Akhenaton ebbe molte altre figlie.

Merytaton “Colei che è amata da Aton”, sarebbe stata in seguito la “Grande Sposa Reale” di Smenkhara, fratellastro o figlio dello stesso Akhenaton. Il condizionale è d’obbligo in quanto la quasi totale assenza di dati storici, dovuta alla “damnatio memoriae” voluta principalmente dal faraone Horemheb, non permette una ricostruzione delle sequenze degli immediati successori di Akhenaton.

Smenkhara viene a volte confuso da alcuni con la stessa Nefertiti o con Merytaton con la quale condivide la prima parte del suo nome, Ankheperura Smenkhara-Djeser-Kheperu. Nel 1845, durante l’esplorazione della tomba di Merira II, sovrintendente della regina Nefertiti, scriba reale, maggiordomo, sovrintendente dei due tesori e sovrintendente dell’harem reale di Nefertiti, venne trovata una rappresentazione di Smenkhara e Merytaton nelle vesti di faraone e di “Grande Sposa Reale”, sovrastati dai raggi dell’Aton mentre premiano Merire.

Oggi i nomi non compaiono più ma quando li vide Lepsius, nel 1850, erano ancora ben visibili e l’egittologo li copiò. Non mi dilungo a raccontarvi la grande confusione che si venne a creare, cercherò di spiegarla in poche parole. I due nomi erano: <<“Ankhtkheperura meri” [amato da] “Neferkheperura” >> e << “Neferneferuaton meri” [amato da] “Uaenra” >>, ma sia  Neferkheperura che Uaenra erano i nomi reali di Akhenaton, (li amava tutti e due?).

Nella stele di Berlino (cat. 17813) compare un rilievo dove è raffigurato Akhenaton con un altro re in un atteggiamento che parrebbe affettuoso se non addirittura intimo. Di conseguenza per tutta la seconda metà dell’800 e fino agli anni ’70 del novecento si pensava che lo stesso Smenkhara fosse nominato con svariati epiteti femminili in quanto tra i due ci sarebbe stato un rapporto omosessuale.

Gli egittologi Marc Gabolde e James Peter Allen esaminando alcuni oggetti provenienti dalla tomba di Tutankhamon che recavano il nome di Neferneferuaton, appellato come “desiderato/a da Akhenaton”, in origine erano iscritti come Akhet-en-hyes “utile al suo sposo”; mentre il primo epiteto potrebbe anche riferirsi a Smenkhara, il secondo, che parla di uno sposo, non può che riferirsi ad una donna.

Va detto inoltre che per quanto riguarda Merytaton il suo sesso è confermato dalle forme femminili presenti nel suo cartiglio e dal suo epiteto “Akhet-en-hyes” (Utile al Suo Sposo). Nella foto n. 4 sono riprodotti tre cartigli esplicativi. <<Ankheperura nella versione femminile (93, 94) e in quella maschile (95). 93: Ankheperura desiderata da Neferkheperura (Akhenaton). 94: Ankhteperura desiderata da Uaenra Akhenaton). 95: Ankheperura desiderato da Uaenra >>.

Che Smenkhara abbia sposato Merytaton non ci dovrebbero essere dubbi in quanto viene chiamato da Akhenaton “suo genero”, questo porterebbe a pensare che, almeno nell’ultima parte del suo regno sia stato nominato coreggente con il faraone. Unico indizio archeologicamente testato di cui disponiamo circa la durata del regno di  Smenkhara è la data dell’anno 1 che compare su una giara di vino proveniente “dalla casa di Smenkhara”.

Secondo Aidan Dodson Smenkhara non avrebbe mai regnato ma sarebbe stato solo coreggente di  Akhenaton a partire dal tredicesimo anno di regno di quest’ultimo. James Allen pensa che sia stato un effimero successore dell’altrettanto effimera Neferneferuaton (Merytaton). Altri ipotizzano che abbia regnato due o tre anni perché su alcune giare di vino trovate ad Amarna compare la dicitura “anno 2, “anno 3” sebbene il nome del faraone non compaia.

Capite in che terreno ci stiamo muovendo? Se poi ci rivolgiamo agli epitomi di  Manetone la confusione nella conoscenza di questo periodo sale alle stelle, essi riportano che ad Akhenaton successe:

Secondo l’egittologo Marc Gabolde Achencheres sarebbe Neferneferuaton (Merytaton) e a causa di un  errore di trascrizione sarebbero stati riportati 12 anni e 1 mese anziché  2 anni e 1 mese. In un simposio tenutosi al Metropolitan Museum of Art, venne affermato che:

Bene, mentre questi due “effimeri sovrani” spariscono nel nulla, forse seguendo le sorti di Aketaton, qualcuno già pensava al dopo e si stava organizzando per lasciare la città e tornare a Tebe. Questo era Ay, un personaggio molto influente alla corte di Akhenaton, maestro dei cavalli imparentato con Nefertiti, alcuni pensano che fosse addirittura il padre. Da quello statista potentissimo che era, con un’esperienza di 25 anni riuscì a staccarsi dal credo di Aton divenendo il primo reggente al trono durante il regno di Tutankhamon, cosa che gli permise di succedere a quest’ultimo al momento della sua morte prematura.  

Fonti e bibliografia:

  • Elio Moschetti, “Akhenaton storia di un’eresia”, Torino, Ananke, 2009
  • Margaret Bunson, “Enciclopedia dell’antico Egitto”, La Spezia, Melita Edizioni, 1995
  • Alfred Heus et al., “I Propilei”, vol. I, Verona, Mondadori, 1980
  • Alan Gardine, “La civiltà egizia”, Torino, Einaudi, 1997
  • Franco Cimmino, “Akhenaton e Nefertiti, Storia dell’eresia amarniana”, Milano, Bompiani, 2002
  • Federico Arborio Mella, “L’Egitto dei faraoni”, Milano, Mursia, 1976
  • Aidan Dobson e Dyan Hilton, “The Complete Royal Families of Ancient Egypt”, Thames & Hudson, 2004
  • Cyril Aldred, “Akhenaton il Faraone del sole”, Newton & Compton, 1979