“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

LA STORIA DEL MUSEO EGIZIO DEL CAIRO

IL MUSEO DI BULAQ

Formalmente, il Museo Egizio del Cairo è stato fondato insieme al Servizio delle Antichità da Muhammad Ali Pasha nel 1835 ed ubicato nel palazzo del Ministero della Pubblica Istruzione presso la Cittadella, dove di tanto in tanto qualcuno si degnava di lasciare qualche oggetto che evidentemente non era riuscito a vendere. Narrerà poi Maspero basandosi sui racconti dei collaboratori che “tutto il Museo era racchiuso in una stanza dove gli impiegati del Ministero lasciavano appese le proprie giacche durante l’orario di lavoro”. Un brillante inizio.

A completare l’opera, Said Pasha presenta gli oggetti superstiti all’arciduca Massimiliano Giuseppe d’Austria-Este in visita in Egitto nel 1855, e pensa bene di donargli l’intera collezione (che fa ora parte infatti del Kunsthistorisches Museum di Vienna). Praticamente, dopo 20 anni dalla fondazione il Museo aveva, per dirla alla Mourinho, “zeru reperti”.

Quando nel 1858 Mariette viene nominato Maamour del Servizio delle Antichità Egiziane non ci mette molto a capire che tutte le opere che stava raccogliendo meritavano una sede adatta. Visto che il trasporto avveniva soprattutto via fiume, Said concede a Mariette l’uso di un magazzino a Bulaq, il porto del Cairo dove Said sta facendo affluire lavoratori ed imprese per modernizzare l’Egitto, e viene costruito un nuovo palazzo dedicato nei pressi, terminato ed inaugurato nel 1863. Per la prima volta, l’Egitto ha un museo degno di questo nome. Viene chiamato “Casa delle antichità” o Antikhana.

Il parco del museo di Bulaq. Si noti la vicinanza fatale del Nilo
Il cortile esterno del Museo, circa 1870

Il sito è pittoresco ma non un granché sicuro: la vicinanza con i magazzini dei cereali espone al rischio di incendi; spesso ci sono tra i visitatori serpenti e scorpioni ed il rischio di alluvioni incombe sul Museo.

Mariette è in primis un raccoglitore/conservatore; si occupa soprattutto della catalogazione e segna su un registro diviso in colonne i dati relativi a ciascun oggetto: numero progressivo di identificazione, provenienza e data di scoperta, materiale, descrizione e illustrazione, dimensioni, posizione, osservazioni.

Il “Journal d’Entrée” creato da Mariette

Si tenta anche una rappresentazione scenografica dei reperti (ma Belzoni, ahimè, rimane un punto di riferimento molto lontano…). Inoltre, la posizione di molti esperti era abbastanza ambigua (e per certi versi lo rimarrà a lungo): per i resti archeologici che non provenivano dal mondo greco-romano non era facile attribuire un valore artistico. Inoltre, la nascente egittologia era considerata una scienza storica; si trattava quindi di documenti che dovevano essere resi leggibili e intelligibili (iscrizione, iconografia) piuttosto che di modelli estetici da esaltare.

Pochi oggetti sono valorizzati nel catalogo; qui la nostra vecchia conoscenza Sheikh-el-Beled alias Ka’aper,
E non poteva mancare la splendida statua di Chefren in trono
Il primo catalogo di Mariette
La scarsa importanza data al valore artistico degli oggetti è data anche da queste rappresentazioni “collettive” del catalogo; qui una denominata semplicemente “Pantheon”
Un altro “Pantheon” messo insieme alla rinfusa

Nel 1872 viene comunque pubblicato il primo catalogo del Museo Egizio e nel 1883 Maspero pubblicherà la prima guida ufficiale del Museo.

Come pratica comune all’epoca si preparavano delle “cartoline” 18×8 cm che potevano essere utilizzate come cartoline postali o portate a casa come souvenir e regalate ai conoscenti – oppure semplicemente conservate con le loro schede descrittive.
Per il Museo di Bulaq esisteva una serie di 25 cartoline preparata niente meno che da Emile Brugsch, all’epoca collaboratore di Mariette (e che re-incontreremo presto, coinvolto in una delle più grandi scoperte in Egitto…); Più avanti verrà preparata una seconda serie, migliore dal punto di vista fotografico, da Edwards. Entrambe hanno errori di interpretazione che oggi ci fanno sorridere. Qui a confronto la statua di Chefren nelle due serie
Le schede di Rahotep e Nefer recitano: “Il principe Ra-Hotep e la “sposa reale” Nefert. Il fatto che questi due personaggi sarebbero vissuti sotto il regno di Snefrou, ultimo re della III dinastia, darebbe alle loro statue un’antichità superiore a quella del re Chefren e alla costruzione delle grandi piramidi. L’esecuzione e lo stato di conservazione di queste sculture sono sorprendenti e la loro importanza
è grande dal punto di vista etnografico. La differenza di razza delle dinastie successive da quella di cui le due statue ci offrono la tipologia, è facile da cogliere…Nell’acconciatura si distinguono i capelli naturali che ricoprono la fronte, finti capelli che, disposti in sottili trecce, compongono una voluminosa parrucca
Sempre dalle note esplicative originali: “Barca dorata con il suo equipaggio, montata su un carro a quattro ruote in bronzo e legno; al centro, la figura che regge un bastone e un’accetta sembra rappresentare il defunto che attraverserà i fiumi e le varie stazioni celesti, fino al momento in cui la sua anima entra nella zona dei giusti.
Dietro il timoniere c’è una piccola scatola sulla parete della quale è inciso un leone che porta il nome del re “Kames”. La barca è stata trovata a Tebe nel 1859, con la mummia della regina A AH -H OTEP, madre del re Ahmose, il primo re della XVIII Dinastia.”. Una completa descrizione della barca di Ahhotep fatta da Grazia Musso è disponibile qui: https://laciviltaegizia.org/2020/12/22/la-regina-ahhotep/

Abbiamo visto la sua mastaba in dettaglio qui: “Statua di Ti, un importante funzionario pubblico che ha vissuto sotto uno dei regni della V dinastia, e che ha dato il suo nome ad una delle più grandi e famose tombe della necropoli di Memphis. Ti è in piedi; la sua testa è coperta da una parrucca e il suo corpo vestito con una camicia tirata in avanti come un grembiule. Nel marzo 1860, una ventina di statue dello stesso personaggio furono trovate nel Serdab della sua tomba (camera segreta per le effigi del defunto), ma questa copia era l’unica intatta.” 

Prima però della pubblicazione di Maspero, il Nilo ricorda a tutti che sono state le sue inondazioni a rendere così fertile la sua Valle; nel 1878 rompe gli argini ed allaga il Museo. Tutta la documentazione di Mariette va praticamente persa insieme ad un numero imprecisato di documenti e reperti.

Il Console Generale di Spagna Edoardo Toda i Güell, che sarà poi il padre dell’egittologia spagnola, “vestito” da mummia nel Museo. 1885 Mostra meno

L’inondazione mette in luce le criticità del Museo di Bulaq, che cominciava ad essere molto piccolo per la quantità di reperti raccolti. Verrà deciso un primo spostamento a Giza nel palazzo di Ismail Pasha nel 1891 e poi dal 1902 nella sede storica di Piazza Tahrir che sta per essere abbandonata.

IL PALAZZO DI ISMAIL PASHA

Come abbiamo visto la grande alluvione del 1878 decreta la fine del Museo di Bulaq…ma con grande calma. Passano quasi 10 anni prima che si decida finalmente di spostare la collezione in un posto più sicuro, e la cosa viene fatta in stile molto arabo.

I reperti vengono spostati nel 1887 (insieme a salma e mausoleo di Mariette) niente meno che nel palazzo di Ismail Pasha a Giza e lì ci rimangono per ben tre anni prima che ci si decida a riaprire al pubblico. Almeno questa volta la sede è degna: nel 1890 si aprono ben 45 stanze al pubblico. Del lavoro si occupa principalmente Victor Loret, allievo di Maspero e che diventa nel 1897 il nuovo Direttore Generale delle Antichità. Come si può capire dal numero delle sale aperte, Loret praticamente nel Museo ci vive; lo lascia solo per sovrintendere alcuni scavi a Saqqara e a Tebe, dove trova la famosa tomba di Amenofi II (la KV35) le cui due mummie femminili ignote denominate “Younger Lady” e “Elder Lady” sono tuttora oggetto di studio (e di liti).

Loret alle prese con Amenofi II

Loret è uno studioso serio, ma con un senso diplomatico degno di Hulk in una giornata di luna storta. È in lite perenne con le autorità egiziane che vorrebbero sotto sotto un inglese al suo posto; per questo motivo pubblica pochissimo delle sue scoperte (anche la KV35 verrà “riscoperta” solo con Howard Carter) e lascerà il suo incarico dopo pochi anni.

Il palazzo di Ismail Pasha a Giza è ampio a sufficienza per l’epoca; ha però anche qualche difettuccio: le cronache dell’epoca riportano che abbia le pareti dipinte in blu, oro e arancio, mentre i soffitti barocchi con stucchi in sovrabbondanza e lampadari a goccia sfoggiano Veneri prosperose e Cupidi paffutelli. Il che sarebbe stato il meno: il palazzo è a rischio di incendio e senza nessuna caserma dei pompieri nelle vicinanze. Pare inoltre che la servitù del palazzo avesse la brutta abitudine di arrotondare il magro salario rubando i reperti minori e rivendendoli a turisti compiacenti.

È tempo di un nuovo, fondamentale trasferimento.

Il Museo di Giza
Il Museo di Giza
Il Museo di Giza – La veranda
Il Museo di Giza
Il Museo di Giza – La “Sala delle mummie”
Saluti da Giza
Il Museo di Giza – l’ingresso del settore dedicato al Nuovo Regno

PIAZZA TAHRIR

Jacques de Morgan, subentrato a Loret, fa la voce grossa ed ottiene lo spazio delle ex-caserme dell’esercito britannico in quella che diventerà Piazza Tahrir. Questa volta il governo egiziano fa le cose in grande: dopo molti tentennamenti (la spesa per costruire un nuovo museo era più del doppio rispetto alla ristrutturazione del museo di Giza) lancia una gara internazionale per il progetto del nuovo museo e riceve tra il 1893 ed il 1895 ben 116 progetti; sorprendentemente diversi a forma di piramide…

Jacques de Morgan, il “papà” del Museo Egizio di Piazza Tahrir

Vincerà la gara con un progetto molto classico un altro francese (che novità!), Marcel Dourgnon. La cosa però non passa inosservata: di tutti i progetti, in “finale” ne arrivano 9, tutti francesi, e ben 4 vengono premiati con assegnazione finale promessa a chi avesse offerto il maggiore ribasso sulla base d’asta.

Marcel Dourgnon con la fascia da sindaco del IX Arrondissement di Parigi
Il progetto originale di Dourgnon. Ben visibile la “plafoniera” che doveva dare luce al salone principale del museo
Publié dans Concours pour le musée des Antiquités égyptiennes du Caire 1895. La participation française. Marie-Laure Crosnier Leconte. P. 91, fig. 22. Edition Picard, 2010.

L’architetto Ernesto Basile, che doveva essere nella commissione giudicante, viene escluso all’ultimo momento. Volano parole grosse (“l’arte in Egitto serve a far vento allo sfruttamento politico d’influenze alte…ha dato il suo giudizio finale su progetti, alcuni dei quali faticosi, pesanti, imbarazzati nelle linee, nel concetto, nell’estetica, gonfi, vani, rimpinzati di retorica artistica, malfermi nella grammatica delle linee, non sicuri del carattere, spropositati nell’unità concettiva, duri nell’insieme; perché quella crestomazia di Commissione si è bollata, si è timbrata, si è notariata di ignoranza”) ed interviene anche il Primo Ministro italiano, Crispi.

Il progetto di Dourgnon è talmente banale che perfino i francesi lo criticano severamente (“il carattere generale della costruzione ricorda più una prefettura di provincia che un museo”); il lucernario del progetto originale per dare luce all’interno viene chiamato amichevolmente “la plafoniera”.

Il fatto che De Morgan e Dourgnon fossero amici non aiuta sicuramente a dissolvere i sospetti. A completare l’opera, qualcuno fa sparire misteriosamente molti dei progetti scartati (a tutt’ora non ancora rinvenuti). Si decide quindi di modificare il progetto di Dourgnon utilizzando elementi degli altri progetti premiati, anche per abbassare il costo previsto di 120,000 £.

Il progetto definitivo dopo le modifiche apportate (vista frontale e pianta)
Il progetto definitivo dopo le modifiche apportate – sezione longitudinale

Per sventare l’incidente diplomatico, Dourgnon affida l’appalto per la costruzione dell’edificio ad una ditta italiana, Garozzo-Zaffrani, che in quattro anni completa l’opera ma si “vendica” sui francesi facendo lievitare il costo a ben 160,000 £. De Morgan non farà in tempo a vedere il nuovo edificio: troverà nuove avventure e fama imperitura in Mesopotamia, dove troverà il Codice di Hammurabi.

Il verbale della posa della prima pietra il 1° aprile del 1897
Lavori in corso per l’impresa Garozzo-Zaffrani
Schizzo di una delle due statue di Cleopatra previste ai lati dell’ingresso principale

Maspero, nuovo Direttore, si ritrova a spostare ben 5,000 casse di reperti; Mariette imita le mummie di molti Faraoni del Nuovo Regno, migra una seconda volta e finisce anche lui in Piazza Tahrir. Nel 1902 la grande inaugurazione del Museo in quella che è stata la sua sede storica.

L’interno del museo, circa 1910
All’inizio del ‘900 l’attenzione è ancora rivolta alle mummie, non al valore storico ed artistico delle opere esposte. L’Antico Egitto è ancora una curiosità dai risvolti un po’ macabri

SI TORNA (PIANO PIANO) A GIZA

Alla fine del XX secolo appare evidente che anche l’edificio di Piazza Tahrir è diventato insufficiente; le vetrine in legno, lo scarso spazio a disposizione ed un numero sproposito di reperti che si accumulano (e spariscono…) nei sotterranei del museo sono segnali inequivocabili che ci voglia una nuova sede.

Sotto la guida (e l’ego) di Zahi Hawass viene deciso di portare avanti il progetto del Grand Egyptian Museum di nuovo a Giza, nella zona delle grandi piramidi. Viene indetta una nuova gara internazionale nel gennaio 2002, in cui vengono presentate più di 1,500 progetti con nuove idee bislacche (tra cui una piramide rovesciata). In maniera molto pittoresca, viene posata la prima pietra del nuovo museo prima ancora che venga indetta la gara…

La gara per il progetto viene vinta dagli architetti Roisin Heneghan e Shi Fu Peng nel giugno 2003, con un costo totale previsto superiore ai 500 milioni di dollari, di cui 300 provenienti da un prestito dal Giappone (che in cambio avrà l’appalto per il trasferimento dei reperti dagli altri musei). Da notare che nel frattempo il costo stimato ha abbondantemente superato il miliardo di dollari.

Il nuovo Grande Museo Egizio (GEM) nei primi rendering pubblicati
Il rendering originale degli spazi interni del GEM

Ci vogliono ben 7 anni prima che nel 2010 venga assegnato il primo appalto per la costruzione del nuovo museo, che dovrà avvenire ad un paio di chilometri dalle grandi piramidi, dove nel frattempo viene spostata una statua colossale di Ramses II nel 2006. Ramses aspetterà lì fuori, paziente, ben dodici anni prima di essere messo al coperto nella grande sala del museo in costruzione. Ma cosa sono 12 anni per una statua che ne ha già più di tremila sulle spalle?

L’ingresso del GEM oggi. Foto Hannah Pethen
L’esterno decorato con i cartigli dei principali Faraoni (in un ordine un po’ confuso…)
La statua colossale di Ramses II nella grande sala del GEM. Foto Hannah Pethen

Il progetto prevede una struttura a triangolo tronco, con le pareti nord e sud allineate con le piramidi di Cheope e Micerino – struttura ripresa dal logo ufficiale del GEM, sinceramente orrendo e immediatamente perculato dagli stessi egiziani.

Una veduta aerea del GEM con la pareti nord e sud allineate con le piramidi di Cheope e Micerino. Foto: Heneghan Peng Architects
Il logo del GEM, che riprende la pianta dell’edificio – sinceramente anonimo e discutibile
…e una delle libere “interpretazioni” del logo stesso, vista la somiglianza con i cartocci dei vari fast food per patatine, fritti e compagnia

Non si fa in tempo a partire con i lavori che avvengono i disordini contro il regime di Mubarak (che porterà parecchi danni anche al vecchio museo), iniziando una fase di ritardi cronici della costruzione che si protraggono tuttora. Ritardi nell’assegnazione degli appalti per le varie fasi della costruzione, un incendio nel cantiere, il Covid e probabili questioni di politica interna hanno di fatto spostato la data di inaugurazione via via nel tempo, tanto da non essere ad oggi fissata.

Il cortile esterno ad oggi. Foto Hannah Pethen
L’obelisco di Ramses II, originariamente a Tanis, che domina il cortile esterno. Foto Hannah Pethen

Nel frattempo, diverse migliaia di reperti (dei 100,000 previsti) sono già stati trasferiti nella sale via via completate del museo, inclusa la collezione completa di Tutankhamon e la barca solare di Cheope, nonché appunto la statua colossale di Ramses II che ha costituito di fatto l’immagine iconica del nuovo GEM fino ad ora. Tutti reperti sottratti per anni alla vista dei turisti ed appassionati in attesa di un’apertura attesa fina dal 2018.

Ad ottobre 2024, solo la grande sala di ingresso e la scalinata principale del museo (e ovviamente l’area commerciale…) sono visitabili. Speriamo di poter visitare anche le altre sezioni al più presto.

La grande scalinata già aperta al pubblico. Foto Hannah Pethen
La grande scalinata già aperta al pubblico. Foto Hannah Pethen

I PROGETTI SCARTATI

Una carrellata dei progetti scartati per il GEM

ll progetto (scartato) a piramide rovesciata. Si dice che Imhotep sia risorto e li abbia presi a sberle.
ll progetto (scartato) a piramide rovesciata. Sicuramente scenografica, però.
Uno strano insetto sulla sabbia?
Museo o aeroporto con i finger?
Visioni dal futuro
Visioni dal futuro
Questo era forse il più “integrato” nel paesaggio. Forse troppo
Questo era forse il più “integrato” nel paesaggio. Forse troppo
Altra visione futuristica
Questi erano stati chiaramente al Louvre ed hanno copiato…
Questo con il soffitto di vetro sarebbe stato divertente da climatizzare
Riciclaggio del concetto di mastaba
Qui l’architetto è stato al Sea World di San Diego secondo me
“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”, Sarcofagi, Teologia

IL SERAPEUM E I SUOI MISTERI

Di Andrea Petta

Si tratta di uno dei luoghi di sepoltura dei Tori Apis, simboli di fertilità, di potenza sessuale e fisica. Il Toro Apis era considerato l’incarnazione fisica di Ptah, quindi poteva esistere solo un toro sacro alla volta; quando il toro Apis moriva i sacerdoti cercavano la sua reincarnazione, identificando l’animale con la sua colorazione sacra: “bianco e nero con il ventre bianco, doveva avere un segno triangolare bianco sulla fronte, un’aquila con ali spiegate sul dorso, una falce di luna su un lato, un segno a forma di scarabeo sotto la lingua e una coda con lunghi peli divisi in due” (Plutarco). Era segno di buon auspicio che il toro portasse avanti la zampa sinistra (il lato del cuore) accettando il cibo dal sacerdote preposto, di norma il Sommo Sacerdote di Ptah a Menfi.

Il Toro Apis, statua attualmente al Louvre
Una stele con la rappresentazione della colorazione del Toro Apis
La pianta del Serapeum con i materiali di ciascun sarcofago in pietra

I tori Apis morti venivano sepolti nel Serapeum con sontuosi funerali. In Egitto ne esistevano uno a Saqqara, dove si adorava Apis, e l’altro ad Alessandria, dedicato a Serapis (sincretismo tra Apis ed Osiride) venerato in epoca ellenistica. Il nome Serapeum deriva proprio da Serapis.

Il complesso, situato sotto un tempio edificato da Nectanebo I (come il Viale delle Sfingi che vi conduceva), presenta una serie di gallerie sotterranee.

Nelle cosiddette “gallerie minori” erano presenti diversi sarcofagi in legno, contenenti tori mummificati risalenti al periodo tra la XVIII e la XXVI Dinastia. I vasi canopi hanno sempre sembianze umane. I primi tori hanno sepolture separate, dall’epoca di Ramses II sotto la responsabilità di Khaemvese vengono radunate come il loro rango richiedeva.

La Grande Galleria, la più famosa del Serapeum, è lunga più o meno 350 metri e contiene 24 nicchie, in cui Mariette ha ritrovato 24 sarcofagi, 2 in pietra calcarea (i più “tardi”) e 22 di granito di Assuan (granito rosa, granito grigio, diorite, gabbro e sienite), ciascuno del peso di circa 65 tonnellate, chiuse da coperchi che portano il peso complessivo di ciascun sarcofago ad un centinaio di tonnellate. Ogni sarcofago misura oltre 3 metri di altezza e 4 di lunghezza per 2 di profondità, ed è incastonato in una nicchia scavata nel pavimento; ognuno è apparentemente scavato da un blocco massiccio di granito. Le facce interne di ciascun sarcofago di ciascun sarcofago sono perfettamente lisce ed assolutamente in squadra.

Il sarcofago #3. Come abbiano fatto nell’antichità a spostare il coperchio mi rimane misterioso

La sequenza “ufficiale” dei sarcofagi in granito parte dall’anno 23 del regno di Amasis (XXVI Dinastia, circa 545 BCE) con la stele attualmente al Museo del Louvre (che vedremo in dettaglio a parte).È molto probabile che i sarcofagi di granito siano stati preparati vicino alle cave di Assuan, abbiano preso la direzione di Menfi via fiume e poi portati nelle rispettive nicchie. Su una stele in demotico viene riportato che il trasporto di un sarcofago di granito da Menfi al Serapeum (più o meno 8 km) richiese 19 giorni, di cui 5 giorni di riposo.

Auguste Mariette spiega nella sua relazione di scavi “Le Sérapeum de Memphis”, pubblicata da Gaston Maspero, che i sarcofagi (trasportati su rulli di cui si possono ancora riconoscere le tracce a terra), venivano trainati mediante un argano orizzontale a otto leve. Mariette ha trovato, durante gli scavi, due di questi argani in una delle nicchie. Le nicchie erano riempite di sabbia (sistema sperimentato con l’innalzamento degli obelischi) e la rimozione della sabbia dalla nicchia avveniva gradualmente, abbassando così dolcemente il sarcofago.

IL MISTERO DI KHAEMVESE

Uno delle gallerie conteneva un sarcofago con relativa mummia in forma umana, attribuita a Khaemvese (figlio di Ramses II e responsabile dello sviluppo del Serapeum) ma l’attribuzione è dubbia ed i reperti sono andati persi a parte una maschera funeraria in foglia d’oro conservata al Louvre.

La maschera d’oro di Khaemvese, ben diversa da quelle di Tutankhamon o Psusennes

Secondo Dodson: “nonostante il suo aspetto, la mummia si è rivelata una massa di resina profumata, contenente una quantità di ossa disordinate. Sebbene sia spesso dichiarata la mummia di Khaemweset, sulla base del possesso dei suoi gioielli, la massa di resina contenente frammenti ossei ricorda molto di più l’indubbia sepoltura di Apis delle tombe E e G. La sua formazione anche nel simulacro di una mummia umana trova eco nei coperchi della bara antropoide che coprivano le masse resinose all’interno dei sarcofagi di Apis VII e IX, non vi può essere quindi alcun dubbio che la sepoltura sia effettivamente quella del toro, Apis XIV”.

Sarà vero? Oppure il quarto figlio di Ramses II, Sommo Sacerdote di Ptah ed erede designato al trono, era sepolto proprio qui?

IL MISTERO DEI SARCOFAGI DI PIETRA

22 dei 24 sarcofagi erano perfettamente al centro di ogni nicchia. Solo due si trovavano fuori posto, decentrati; uno fu ritrovato (ed è lì tuttora) nel mezzo di una galleria laterale con il coperchio in un’altra. Perché?

I sarcofagi “abbandonati”

Solo tre di questi imponenti contenitori presentano delle iscrizioni in geroglifici ma molto povere, come appena sbozzate, con linee irregolari e malferme. Perché?

Solo uno era intatto. Una “leggenda metropolitana” racconta che Mariette, come moda all’epoca, lo fece saltare con una carica di dinamite ma non trovando nulla all’interno. La cosa è altamente improbabile, A parte che la dinamite verrà inventata una quindicina d’anni dopo e la nitroglicerina era ancora molto giovane ed instabile, Mariette stesso lamenta la fragilità del terreno calcareo e la quantità di polvere da sparo per far saltare 65 tonnellate di diorite avrebbero messo in pericolo tutto il sito; c’è invece la possibilità dell’uso di polvere da sparo per aprire la strada da una frana verso le gallerie minori.

Tutti i contenitori in granito sono stati trovati vuoti, il che ha creato dubbi e perplessità sul loro reale utilizzo come sarcofagi. Sono molto più lisci, praticamente perfetti, all’interno mentre l’esterno è più grezzo, a volte con cavità o protuberanze. Perché?

Il trasporto ipotizzato da Mariette sulla carta sarebbe plausibile, ma lo spazio a disposizione è veramente ridotto. Se la cosa fosse effettivamente possibile con un centinaio di tonnellate da trainare, onestamente non saprei. Mi è partita un’ernia a solo pensarci. È effettivamente plausibile?

Per dovere di cronaca sono state proposte da alcuni studiosi ipotesi alternative per la fabbricazione e l’installazione dei sarcofagi del Serapeum:

  • Margaret Morris, che sposa la teoria del Dr. Joseph Davidovitz e il suo cemento battezzato “Geopolimero” ricavato da una antica formula egizia rinvenuta nell’isola di Seel (Davidovitz la propone per la costruzione delle piramidi).
  • Christopher Dunn, secondo il quale sarebbe stata impiegata una tecnologia avanzata e macchinari andati in seguito perduti in un cataclisma. (OK, so cosa pensate adesso, ma ho trovato teorie anche più strane)

Comunque sia, rimane un luogo estremamente affascinante

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

LA STATUA DELLA VERGOGNA

La statua di Jean-François Champollion, opera di Frédéric Auguste Bartholdi. Foto: NonOmnisMoriar

Nel 1878 si tiene a Parigi la sesta “Esposizione Universale delle opere dell’industria di tutte le Nazioni”. Non è ancora quella del 1889, in cui verrà realizzata la Tour Eiffel, ma è comunque un grande evento. Monsieur Peugeot viene premiato, ma non ancora per le automobili bensì per le macchine da cucire.

Il Palazzo del Trocadero, il simbolo dell’Expo 1878 e poi demolito successivamente

Per l’occasione viene realizzato un “Parc Egyptian” per celebrare le scoperte nella Terra del Nilo in cui la Francia ha avuto e sta avendo un ruolo determinante. Si decide di celebrare ovviamente anche Champollion, morto da quasi 50 anni ma ormai universalmente noto come il decifratore dei geroglifici, e viene chiesto a Frédéric Auguste Bartholdi di scolpire una statua in marmo in cui Champollion è raffigurato in posa pensierosa su una pietra. La posa assomiglia un po’ a quella del più famoso “Pensatore” di Rodin; una sorta di moda in quegli anni.

Il bazar egiziano all’Expo 1878

Bartholdi, peraltro, espone anche la testa cava (visitabile all’interno per soli 5 centesimi!) di un’altra statua che diventerà enormemente più famosa al suo completamento nel 1886…

Solo 5 centesimi per visitare la testa cava di questa statua di Bartholdi. Chissà se riuscirà a finirla e dove verrà installata?

Finita l’Expo, la statua dovrebbe essere trasportata a Figeac, paese natale di Champollion, ma non si trovano i soldi per il trasporto e la statua rimane a Parigi, collocata nella sua posizione attuale nel cortile del Collège de France, probabilmente il centro di ricerca principale in Francia in campo storiografico e filologico.

Vi rimane indisturbata per ben 138 anni, probabilmente accarezzata dalle mani di studenti in cerca di sorte favorevole e un po’ dimenticata dagli altri.

Fino a quando nel 2011, all’alba dell’era “social”, un musicista egiziano, Hicham Gad, in tournée a Parigi, si accorge che la “pietra” su cui appoggia il piede di Champollion è una testa di Ramses II abbattuta al suolo. Gad si indigna pubblicamente (“mi scandalizza in quanto essere umano”; “immaginate una statua di Ramses con il piede sulla testa di Champollion davanti all’ambasciata francese al Cairo”), pubblica un video su YouTube in cui accusa la Francia di “una visione razzista e coloniale, che vuole sottolineare con arroganza che i francesi sono passati di qui con le chiavi della civiltà”.

La “pietra della vergogna”

La statua viene ribattezzata “la statua della vergogna”. I francesi con la solita spocchia un po’ ci ridono su, un po’ prendono per i fondelli gli egiziani (“senza di noi non sapreste leggere i vostri stessi papiri”), poi i toni si alzano. L’ambasciatore egiziano a Parigi inoltra una protesta formale; il Ministro delle Antichità egiziano Mohamed Ibrahim minaccia di bloccare tutte le spedizioni di ricerca francesi in Egitto. La cosa va avanti un paio d’anni, poi torna “in soffitta” fino al giugno 2020 sull’onda antirazzista sorta sulla corrente di “Black Lives Matter” e la statua viene rispolverata in grande stile, con annessa la ricorrente pretesa di restituzione delle opere “trafugate” in passato (noi l’avevamo buttata un po’ sul ridere anni prima: “…e adesso ridacci la nostra Gioconda/perché siamo noi i campioni del mondo/Alé-oh-oh, Materazzi ha fatto gol!” ma tant’è anche da noi la Gioconda a Parigi non va giù – e se c’è perché è stata comprata direttamente a Leonardo poco importa).

Vedremo come andrà a finire.

Io personalmente considero ogni pretesa di estrapolare opere ed azioni al di fuori del loro contesto storico come insopportabili censure culturali, ma è, appunto, un’opinione personale, e molte questioni rimangono aperte.

Rimane l’eterno dubbio se sia giusto “obliterare” ogni riferimento a idee e azioni non più considerate legittime dalla nostra società attuale e se sarebbe “giusto” restituire le opere a quei Paesi che le hanno generate.

Forse non sono domande che abbiano una risposta univoca, ma costituiscono uno spunto di riflessione per chi, come noi, è appassionato o studia una civiltà antica

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”, Testi

LA STELE DI ROSETTA

La Stele e la sua ricostruzione nella forma originale

È una stele (o meglio, un frammento di stele) in granodiorite grigia di 112×75 cm con inciso lo stesso testo in demotico, in greco antico ed in geroglifico. È quindi una stele bilingue, in cui una lingua, quella egizia, è scritta con due grafie diverse.

Si tratta di un decreto, promulgato nel 197-196 a.C., in occasione dell’anniversario dell’ascesa al trono di Tolomeo V Epifane. Dopo aver elencato le innumerevoli imprese di Tolomeo V, decreta che statue in suo onore debbano essere erette in tutti i templi, e che si tengano celebrazioni in suo onore. Il paragrafo conclusivo dichiara “E questo decreto sarà inscritto su stele di pietra dura, in santo (geroglifico) e in nativo (demotico), e in lettere greche”.

Un particolare poco noto della stele: i suoi due lati, ancora con le scritte in inglese “Bottino dell’esercito inglese in Egitto, 1801” e “Donata dal Re Giorgio III”

Fu probabilmente eretta nei pressi di un tempio, presumibilmente a Sais, e spostata in periodo medioevale per essere utilizzata come materiale di costruzione per Fort Julien vicino alla città di Rashid (Rosetta). Ne sono sopravvissute 14 righe in geroglifico, 32 righe in demotico e 54 righe in greco.

La storia

Riemerge alla luce nel luglio 1799 nel corso della spedizione napoleonica ad opera di tale Boussard o Bouchard (non è univoco), ma è probabile che sia stato riportato solo il nome del caposquadra dei lavori. La scoperta viene riportata nel “Courriere de l’Égypte” (il giornale ufficiale della spedizione francese) a settembre e fin da subito viene vista come la chiave per decifrare i geroglifici.

L’edizione del “Courier de l’Egypte” con la notizia del ritrovamento. La data è 29 fruttidoro, anno 7° (15 settembre 1799).
La scoperta viene riportata come effettuata il 2 fruttidoro, anno 7° (19 agosto 1799).
Nella terza pagina c’è l’immediata percezione che sia la chiave per la decifrazione dei geroglifici. Ritrovare queste immagini è stato un tuffo nella Storia.

Alla sconfitta dei Francesi in Egitto scoppia però il pandemonio.

Gli Inglesi pretendono la consegna di tutti i monumenti, i papiri, le mappe, gli schizzi, i disegni. I Francesi si rifiutano.

Lo scienziato francese Etienne Saint-Hilaire dichiara al diplomatico inglese William Hamilton: “Bruceremo noi stessi queste ricchezze…farai i conti con la memoria della Storia. Avrai bruciato una nuova biblioteca di Alessandria“. Al che gli Inglesi ci ripensano e chiedono solo i monumenti.

Fourier in persona stila l’elenco: al n° 8 c’è la Stele di Rosetta. Poi ci ripensa e prova a nasconderla su una barca insieme alle vettovaglie per le truppe francesi. Come in un film d’azione, Hamilton la scopre sotto una panno; piuttosto che lasciarla ai nemici inglesi, Fourier ordina di gettarla nel Nilo ma viene fermato in tempo e la stele requisita.

Come abbiamo visto, calchi e copie di bassa qualità giunsero comunque in Francia, e nel 1822 finalmente la pubblicazione sulla “Description de l’Egypte” in quella che oggi definiremmo “alta risoluzione”.

L’esposizione della Stele al Secondo Convegno delle Scienze Orientali del 1874. Una copia della Stele è esposta in identico modo nella Biblioteca Reale del British Museum

Di lì in avanti la Stele non lascerà più l’Inghilterra nonostante ripetute e vane richieste di riportarla in Egitto come per altri reperti.

Nel 2002 numerosi musei quali il British Museum, il Louvre, il Museo di Berlino e il Metropolitan Museum di New York hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui dichiarano che “gli oggetti acquistati in tempi precedenti devono essere visti in alla luce di sensibilità e valori differenti che riflettono quell’era” e che “i musei non servono solo ai cittadini di una nazione ma il popolo di ogni nazione“, chiudendo di fatto ogni porta alle pretese di restituzione degli antichi reperti.

La Stele è quindi rimasta al British Museum (inventario EA24) dove, normalmente, bisogna scostare una massa oceanica di giapponesi per riuscire a fotografarla.

La traduzione completa della Stele di Rosetta, a cura di Nico Pollone, è invece molto più facile da cercare perché è pubblicata sul nostro sito ed è disponibile QUI.

La riproduzione gigante a Figeac, paese natale di Champollion, realizzata per il bicentenario della nascita

Riferimenti:

  • Weissback MM, Jean Fracois Champollion and the true story of Egypt, 21st Century Science and Technology, 1999
  • Champollion, Jean-François (1824), Précis du système hiéroglyphique des anciens Égyptiens. Paris
  • Champollion, Jean-François Lettres et journaux écrits pendant le voyage d’Égypte, (H. Hartleben, ed.).
  • Ernest Leroux. (2001), Egyptian Diaries: How One Man Solved the Mysteries of the Nile, London: Gibson Square Books
  • Nasser N, What Caused Jeanne-Francoise Champollion, Decipherer of the Ancient Egyptian Scripts, Premature Death? Medical Case Report, 2015
  • Gregorovicova E, The Fatal Error Of Champollion: “For Me, The Way To Memphis And Thebes Leads Through Turin”, Antropologie, 2018
  • Weissback MM, Unlocking the Civilization of Ancient Egypt: How Champollion Deciphered the Rosetta Stone. Fidelio, 1999
  • Robinson A. Cracking the Egyptian Code: The Revolutionary Life of Jean-François Champollion. Oxford University Press, 2012
  • Robinson A. The Last Man Who Knew Everything: Thomas Young, 2011
“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”, Papiri

IL CANONE REALE DI TORINO

Uno dei più importanti documenti della collezione di Drovetti è senz’altro il cosiddetto “Canone Reale” o “Papiro Torino”. È in pratica l’unica vera lista dei Faraoni compilata in Egitto prima dell’Età Tolemaica pervenuta fino a noi.

Viene considerata unica in quanto riporta (o meglio, riportava) tutti i regnanti a partire dalle divinità e dall’era pre-dinastica e riporta gli anni di regno di ciascun Faraone (le liste di Abydos e di Saqqara sono state “tagliate” e non riportano la durata dei singoli regnanti).Purtroppo il documento è oggi diviso in più di 300 frammenti – ma il papiro (come dimostrato dall’analisi delle fibre) è stato rovinato in tempi moderni, presumibilmente dopo l’acquisto da parte di Drovetti a Tebe intorno al 1820. Maspero sostiene nella sua “Histoire Ancienne” che fosse intero al momento dell’acquisto; un altro storico, Winlock, racconta che fu distrutto durante una cavalcata a dorso d’asino di Drovetti con il papiro inserito in un vaso (forse un’anforetta per il vino). Probabilmente veniva dalla tomba di uno scriba, ma non ci sono certezze.

Il papiro in sé è “strano”: da un lato riporta un registro tributario dell’epoca di Ramses II che ne fu il suo primo utilizzo; il papiro fu poi riusato sul verso per la lista dei Faraoni ma l’ultima parte fu strappata via nell’antichità, forse per prendere degli altri appunti.

Il testo è scritto in ieratico ed è diviso in 11 colonne (13 in origine). La disposizione del testo fa pensare che fosse stato copiato da altre fonti più antiche (per alcune parti lo scriba scrive “mancanti” ad indicare delle lacune nello scritto originale) con un lavoro non proprio preciso ed un po’ svogliato; fa pensare ad un esercizio di un giovane scriba scritto sul retro di un papiro ormai obsoleto.Il papiro fu oggetto di numerosi tentativi di restauro. Ci provò per primo Champollion nel 1824; seguirono Farina nel 1938 (con le prime foto del papiro) e Gardiner nel 1959. Il confronto tra foto e primi disegni dei frammenti conferma che il papiro si è ulteriormente rovinato negli anni.

Il papiro originale era alto 42 cm e lungo più o meno 1,75 m. La lista riporta inizialmente le divinità e i semi-dei che regnarono sull’Egitto (tra cui Seth, Horus e Thoth), i cosiddetti “spiriti” o “re spirituali” (probabilmente i sovrani pre-dinastici) ed i re storici a partire da Menes fino alla XVI Dinastia (le altre sono state perse nel frammento strappato nell’antichità). La formula per ciascun Faraone è: “Il Sovrano delle Due Terre (nome). Ha regnato per x anni, x mesi e giorni”. Per i regnanti più antichi, del periodo arcaico, viene riportata anche quanto vissero. Non ci sono Faraoni “maledetti” esclusi dalla lista; non si menziona la provenienza o il sesso (Nofrusobek viene menzionata senza alcun accenno al fatto che fosse donna). Solo per la XV Dinastia non viene usata la formula classica ma vengono menzionati come “Hyksos”.A seconda delle Dinastie vengono usati i nomi nebty, il nomen o il prenomen (o insieme).

Alcune scritte sono in inchiostro rosso, per lo più i titoli delle sezioni e le somme degli anni di regno dei periodi; l’unico Faraone marcato in rosso è Djoser, a testimoniare l’importanza datagli più di mille anni dopo la sua morte.

Perché è stato conservato nell’antichità – e quindi è arrivato fino a noi? Non lo sappiamo.Il papiro non è di eccelsa qualità. Conservare il registro tributario non ha un gran senso, visto che era stato già riciclato all’epoca. Quindi si è voluto tenere proprio la lista dei re, che però è un lavoro scadente, una copia di altri documenti su un papiro ulteriormente riciclato dopo.

E allora, lasciamo la storia ed entriamo nella fantasia…

“Figlio mio, perché la malattia ti ha portato via così presto? Avevi ancora tanta strada da percorrere. I sacrifici fatti per farti studiare, per farti entrare nella Casa degli Scribi…tutto perduto ormai.Lascio nella tua tomba i tuoi pochi scritti. Falli vedere a Thoth, invoca la sua benevolenza e chiedi a Seshat di continuare ad insegnarti l’arte delle parole. Il tuo cuore non può essere impuro, ti aiuteranno sicuramente. Ed aspettami, verrò a riabbracciarti se gli dei me lo permetteranno”

Riferimenti:

  • Kim Ryholt The Turin King-List Or So-Called Turin Canon (Tc) As A Source For Chronology. Ancient Egyptian Chronology, 2006
  • Alan Gardiner The Royal Canon of Turin Review by John A. Wilson Journal of Near Eastern Studies, 1960
“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

JE TIENS L’AFFAIRE!

Jean François Champollion

Traditore della Patria!

Della campagna napoleonica in Egitto faceva parte anche Fourier, matematico e fisico che condurrà i suoi studi prevalentemente sulla conduzione del calore (e genererà una marea di parolacce degli studenti). Terminata la campagna, Fourier si trasferisce a Grenoble, dove diventa membro del consiglio comunale e durante un’ispezione scolastica conosce un giovane di colorito più scuro dei compagni e che dimostra un grande interesse per l’attività di Fourier. Questi lo invita a casa sua e gli mostra i reperti che aveva portato a casa dall’Egitto. Il giovane chiede se le iscrizioni fossero leggibili, ed avendo ricevuto una risposta negativa, afferma: “Io le leggerò”.

Quel ragazzo è un giovanissimo Francois Champollion.

Il ragazzo conosce già il greco, il latino e l’ebraico; non contento, si mette a studiare l’arabo, il siriaco, il caldeo e il copto. Studia il parsi e il cinese antico per vedere se ha qualche correlazione con le antiche lingue mediorientali. A 17 anni, senza esserci mai stato, presenta un lavoro all’Accademia di Grenoble intitolato “L’Egitto sotto i Faraoni”, diventandone membro.

Nel frattempo, nel 1799 uno sconosciuto soldato francese aveva trovato e disseppellito una stele di basalto nero nei pressi dell’odierna Rosetta, divisa in tre parti con iscrizioni in geroglifico, in demotico ed in greco antico. Gli archivi riportano il nome di tal Boussard (o Bouchard), ma probabilmente si tratta del caposquadra dei lavori, non lo sapremo mai. La Francia capitola dopo Abukir, e la stele prende la strada di Londra. Il piccolo esercito di scienziati napoleonici ne aveva già fatto trascrizioni parziali e calchi in gesso, e questi ultimi finiscono a Parigi.

Anche Champollion va a Parigi, Pone le basi della sua opera, ma sono anni difficili. Complicato sbarcare il lunario (tornerà a Grenoble per insegnare, in una celebre lettera chiede al fratello di mandargli dei libri e culottes di ricambio…), Napoleone in trionfo, poi battuto ed esiliato, poi il ritorno dall’Elba. Champollion conosce personalmente Napoleone a Grenoble proprio mentre questi torna dall’Elba e marcia verso Parigi. In qualche modo ne viene affascinato come è già successo per Drovetti e nel giugno 1815 pubblica un quanto mai inopportuno articolo dove sostiene che “Napoleone è il nostro unico principe legittimo”.

La Stele di Rosetta
La notizia del ritrovamento della stele sul “Courier de l’Egypte”. La data è 29 fruttidoro, anno 7° (15 settembre 1799) e la scoperta viene riportata come effettuata il 2 fruttidoro, anno 7° (19 agosto 1799)

Il mondo accademico non lo perdona. La pubblicazione dei suoi lavori viene rifiutata, Dopo Waterloo Champollion viene dichiarato “Alto traditore della Patria” e proscritto per due anni. E gli va anche di lusso, salvato dalla notorietà che i suoi studi sull’Egitto gli stavano già portando.

In esilio a Figeac, Champollion riprende alcune idee del passato e le integra con i documenti che può trovare sulla Stele: individua una base “fonetica, se non alfabetica” dei geroglifici e sfrutta l’intuizione di uno studioso danese, Georges Zoega, che aveva indicato come gli ovali che si ritrovavano di tanto in tanto nei testi egizi rappresentassero “Re o divinità”. Un altro francese, Silvestre De Sacy, intuisce che i cartigli nella parte demotica abbiano una lettura fonetica.

E, come in molte storie, appare un “cattivo” nella persona di Thomas Young, un fisico inglese a cui, appena accettato nella British Royal Society, nel 1804 viene affidato il pesante fardello di decifrare i geroglifici. Young vede i francesi come nemici, tutti. Nega a Champollion l’accesso a molti documenti, tra cui la trascrizione di un doppio testo egizio/greco dell’obelisco di Philae recuperato da Belzoni. Anche De Sacy, forse invidioso dei progressi di Champollion, invita Young a non fornire alcun supporto al collega.

Sir Thomas Young. Fece progressi notevoli inizialmente, ma la sua rigidità mentale e il tentativo di applicare modelli matematici alla filologia furono i suoi principali limiti.

È una rivalità aspra, uno scontro di metodi, di personalità, perfino di culture.

Scriverà Champollion al fratello: “Quindi il povero dottor Young si offende se lo correggo? Perché rispolverare vecchie questioni già mummificate? Ringrazia M. Arago (un amico di Young) per essersi battuto per l’onore dell’alfabeto franco-faraonico. Il Britannico può fare come gli pare – l’onore sarà nostro: e tutta la vecchia Inghilterra imparerà dalla giovane Francia a leggere i geroglifici con un metodo completamente diverso”.

Young viene deriso, è un “Britannico, un “Dottore” in spregio a quel mondo accademico che lo aveva sempre mal accettato.

Nota: uno svarione colossale di Young lo porta a sbagliare la traduzione dei cartigli di una tomba scoperta da Belzoni – e Sethi I diventa Psammetico…

Champollion, privato di molti documenti, attende con trepidazione la pubblicazione di ogni nuovo volume della “Description de l’Egypte”. Ogni volume, ogni disegno con dei testi viene usato per allargare la visione della lingua. Una riproduzione del “Libro dei Morti” fornisce nel 1821 un’altra scintilla: lo ieratico è solo la semplificazione dei geroglifici. Champollion individua 166 “caratteri” e capisce che questi caratteri hanno sia un valore fonetico che uno ideografico.

L’illustrazione della stele pubblicata in tre parti sulla “Description de l’Egypte” per garantirne la leggibilità.

Nel 1822 nella “Description de l’Egypte” appare la Stele di Rosetta e, incredibile a dirsi, è la prima volta che Champollion ha a disposizione una trascrizione chiara e leggibile della Stele completa. Decifra i cartigli di Tolomeo e Cleopatra, come sappiamo, ed inizia a collegare altri simboli usando i cartigli di Ramses e di Tuthmosis.

La famosa traslitterazione dei simboli dei cartigli di Tolomeo e Cleopatra che fu uno dei cardini della decifrazione dei geroglifici

La strada è finalmente aperta, anche se sarà ancora lunga da percorrere.

Il “Précis du système hiéroglyphique”

Lo scontro a distanza tra Champollion e Young continua. Si accusano a vicenda di aver sfruttato l’uno il lavoro dell’altro. Young pubblica prima i suoi risultati, Champollion ribatte di essere arrivato alle stesse conclusioni senza aver letto il lavoro di Young. La verità non la sapremo mai.

Young sembra fare progressi, utilizza metodi matematici per trovare le ripetizioni dei simboli nei testi ma non va oltre questa corrispondenza, incaponendosi sul fatto che solo i nomi stranieri fossero traslati foneticamente in egizio.

La padronanza assoluta delle lingue orientali è l’arma vincente di Champollion, richiamando alla mente associazioni e costruzioni delle frasi che Young non poteva avere. Quando si rende conto di aver mosso un passo decisivo, Champollion esce in strada, urlando “Ce l’ho fatta” (“Je tiens l’affaire”) e sviene, primi segnali di una patologia che probabilmente lo ucciderà nel 1832.

Per arrivare alla soluzione, Champollion ha dovuto fare a pezzi anche le sue stesse convinzioni. Per un periodo era ossessionato dall’idea che gli Etruschi discendessero dagli Egizi, e che la lingua etrusca fosse un riferimento per decifrare i geroglifici.

Scriveva al fratello qualche anno prima: “Sono totalmente immerso nella lingua, nelle monete, nelle medaglie, nei monumenti, nei sarcofagi, tutto quello che posso trovare, le tombe, i dipinti sugli etruschi. Perché? Perché gli Etruschi provengono dall’Egitto”.

Aver saputo riconoscere i suoi errori di valutazione e ripartire da capo è uno dei grandi meriti di Champollion.

I primi dettagli della decifrazione nella “Lettre à M. Dacier” del 1822

Pubblica i primi risultati in una lettera (“Lettre à M. Dacier”) nel settembre1822 e nel 1824 pubblica infine il suo trattato “Précis du système hiéroglyphique des anciens Égyptiens” che rimane la pietra miliare della decifrazione dei geroglifici.

Finalmente nel 1828 riesca a visitare l’Egitto grazie ad una spedizione effettuata in collaborazione con il Granducato di Toscana. Viaggia con Ippolito Rosellini, professore di lingue e culture orientali a Pisa, ed insieme conoscono in Egitto Giuseppe Acerbi, console d’Austria al Cairo.

L’inedito Champollion egizio, molto “belzoniano”

Raccolgono numerosi reperti, che andranno ad incorporarsi nel nucleo della sezione egizia al Louvre. Qualcuno della spedizione “firma” al solito modo un pilastro di Karnak, incidendo “Champoleon”, ad indicare il conquistatore della lingua misteriosa.

La “firma” della spedizione franco/toscana a Karnak

Champollion è entusiasta; finalmente il suo sogno si realizza; scrive entusiasta di Abu Simbel: “Mi sono spogliato quasi completamente, fino alla mia camicia araba e ai mutandoni di lino, e mi sono spinto a pancia in giù attraverso una piccola apertura nel corridoio che, se sgombrato dalla sabbia, sarebbe di almeno 25 piedi in altezza. Dal caldo, pensavo di entrare nella bocca di una fornace e, quando sono scivolato finalmente nel tempio, mi sono ritrovato in un ambiente surriscaldato a 52 gradi: abbiamo attraversato questo incredibile scavo, Rosellini, Ricci, io e uno degli arabi che teneva in mano una candela.” La differenza forse era proprio questa: per Young decifrare i geroglifici era un esercizio accademico; per Champollion uno scopo di vita.

Il quadro dipinto da Angelelli che raffigura Champollion (seduto con la barba) durante il suo viaggio in Egitto del 1828. Al suo fianco Ippolito Rosellini il grande pittore egittologo italiano che lo accompagnò e ricopio’ con grande maestria moltissime pitture egizie trovate nei templi e nelle tombe.

Uno stato di salute precario lo porta via ancora troppo presto nel 1832, probabilmente per un aneurisma cerebrale nel Circolo di Willis. Si è ipotizzato che una malformazione dell’Area di Broca (che sovrintende al linguaggio) abbia consentito la fantastica capacità di Champollion di imparare le diverse lingue, ma che abbia potuto avere conseguenze sullo sviluppo vascolare cerebrale causandone la morte prematura.

Gli appunti di Champollion in Egitto, in cui ricerca costantemente conferme delle sue intuizioni ed espande il “vocabolario”

Non lo sapremo mai con certezza, gli eredi si opposero all’autopsia. Ma se tutti noi oggi possiamo cimentarci con la comprensione dei geroglifici il merito è suo, di un “traditore della Patria” che tanto ha regalato a quella stessa Patria ed al mondo.

Uno strano destino da reietto continuerà però ad accompagnare Champollion. Nessun biografo, nemmeno in Francia, proverà a scrivere della sua vita. Pochissimo sappiamo degli anni travagliati prima del successo accademico. Una tedesca, Hartleben, si cimenterà nell’impresa solo alla fine del secolo, quando tutte le testimonianze di prima mano saranno andate perse. Breasted, nella prefazione del libro scriverà: “L’uomo Champollion è morto da tempo, e lo studioso Champollion è conosciuto poco meglio dell’uomo”.

Una parte degli appunti di Champollion verrà in seguito pubblicata dal fratello, anche lui ottimo disegnatore

Una parte dei pochi dettagli che conosciamo verrà proprio dalla corrispondenza tra Rosellini ed Acerbi, che sono rimasti in contatto dopo la spedizione in Egitto.

Adesso quegli strani segni si possono finalmente leggere. Ora bisogna imparare a conservarli, organizzarli e catalogarli.

Riferimenti:

  • Robinson A. The Last Man Who Knew Everything: Thomas Young, 2011
  • Weissback MM, Jean Fracois Champollion and the true story of Egypt, 21st Century Science and Technology, 1999
  • Champollion, Jean-François (1824), Précis du système hiéroglyphique des anciens Égyptiens. Paris
  • Champollion, Jean-François Lettres et journaux écrits pendant le voyage d’Égypte, (H. Hartleben, ed.).
  • Ernest Leroux. (2001), Egyptian Diaries: How One Man Solved the Mysteries of the Nile, London: Gibson Square Books
  • Nasser N, What Caused Jeanne-Francoise Champollion, Decipherer of the Ancient Egyptian Scripts, Premature Death? Medical Case Report, 2015
  • Gregorovicova E, The Fatal Error Of Champollion: “For Me, The Way To Memphis And Thebes Leads Through Turin”, Antropologie, 2018
  • Weissback MM, Unlocking the Civilization of Ancient Egypt: How Champollion Deciphered the Rosetta Stone. Fidelio, 1999
  • Robinson A. Cracking the Egyptian Code: The Revolutionary Life of Jean-François Champollion. Oxford University Press, 2012
“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

FACCIAMO VEDERE AI FRANCESI CHI SIAMO!

BERNARDINO DROVETTI

Di Andrea Petta

“Promosse colà il progresso e vi raccolse preziosi monumenti onde si creò il Museo Egizio…”

Piemontese ma di mentalità francese, francese ma di cultura italiana, italiano ma vicino all’Egitto, Drovetti è stato forse il primo a pensare ad un Egitto libero da tutti i Paesi colonizzatori, anche dalla Francia.

Bernardino Michele Maria Drovetti era nato nel 1776 a Barbania, vicino a Torino. Figlio di un notaio, si era laureato in Legge a Torino ma si era presto rivelato un figlio ribelle, arruolandosi nell’esercito napoleonico. Drovetti è affascinato dalle idee rivoluzionarie francesi e dalla figura carismatica di Napoleone. Nella battaglia di Marengo si era distinto a tal punto da essere promosso capo di stato maggiore facendo scudo a Murat e perdendo alcune dita della mano. Lo stesso Murat l’aveva segnalato a Napoleone, che nel 1802 gli diede l’incarico di sottocommissario alle Relazioni commerciali ad Alessandria d’Egitto.

L’incarico è altisonante ma lontano da Parigi; il Console Generale De Lesseps, che del caldo egiziano non ne può più, gli molla l’incarico e torna sulla Senna. Drovetti vorrebbe seguirlo, ma si innamora di tale Rose Ray Bathalon (cherchez la femme, sempre…) che, ahimè, è sposata. Chiede il divorzio, ma i documenti tardano ad arrivare dalla Francia. Per “colpa” del cuore e della burocrazia francese, Bernardino rimane in Egitto e sarà uno dei padri fondatori dell’egittologia.

Drovetti in realtà ha anche un ruolo nello spionaggio francese e diventa grande amico del Pasha d’Egitto Muhammad Ali dopo avergli salvato la vita da un attentato inglese (evidentemente è la sua specialità). Questa amicizia gli verrà molto utile nelle relazioni locali, ma sarà fonte di invidia e di astio soprattutto nei confronti degli Inglesi.

Stampa tratta dal volume “Voyage dans le Levant” di Louis De Forbin, stampato nel 1819 a Parigi. È rappresentato al centro Bernardino Drovetti con intorno il suo gruppo di scavo: l’ex-militare Antonio Lebolo, lo scultore Jean-Jacques Rifaud, il mineralogista Frédéric Caillaud, l’artista Louis De Forbin, Giuseppe Rosignani

Dopo Waterloo perde il suo incarico, e si reinventa commerciante di antichità, in diretta concorrenza con Salt e Belzoni, con cui all’inizio era anche in buoni rapporti. Come abbiamo visto Il “furto” di un obelisco da parte di Belzoni terminerà l’amicizia tra i due, e si rischia l’incidente diplomatico con Salt.

Drovetti è un carattere molto “moderno”; credeva negli ideali della rivoluzione, nella liberazione dei popoli. Approfittando dell’amicizia del Pasha organizza una specie di Erasmus in Francia per gli studenti egiziani meritevoli, convince il Pasha della necessità della vaccinazione antivaiolosa per tutti e sovrintende la costruzione del Canale che collega Alessandria al Cairo. Fa arrivare delle pecore merinos dal Piemonte; per ricambiare, il Pasha dona ai Savoia un elefante indiano (Fritz) che farà mostra di sé a Stupinigi ed avrà una storia tragica. I suoi meriti gli fanno riconquistare il Consolato di Francia (e di Russia, misteri dell’epoca), ma lo stipendio da Parigi arriva a singhiozzo.

Ci aveva provato Drovetti ad Abu Simbel prima di Belzoni, “firmando” anche lui il sito; ma niente bakshish, niente operai… Un altro episodio che alimenterà la rivalità tra i due

Drovetti decide allora di mettere in vendita la sua collezione di più di 8000 pezzi che comprende 169 papiri. 102 mummie, 95 statue di grande valore. Tra i papiri spicca il Canone Reale, che è alla base della cronologia egiziana e che vedremo con l’attenzione che merita. La offre ovviamente al Louvre, ma non se ne fa niente; troppo cara. Inoltre, pare che i nuovi reali francesi, già indispettiti dalla “fede” napoleonica di Drovetti, temano le ire del Vaticano che considera le antichità egizie in contrasto con cronologia e storia biblica.

Un viaggiatore piemontese, Carlo Vidua, vede la raccolta (non è chiaro se in Egitto o già a Livorno) e ne parla a Torino come “la più copiosa e la più ricca raccolta di antichità (…), pensando alla rarità e al merito di questa Collezione affinché il Piemonte non sia defraudato da un museo riunito da un Piemontese”.

Una pietra miliare dell’egittologia moderna: il frontespizio del catalogo su cui verterà la contrattazione con Carlo Felice ed il regno sabaudo

Il re Carlo Felice ne è entusiasta; nel clima del suo regno, profondamente avverso ai vicini francesi dopo le vicende napoleoniche (“facciamo vedere ai francesi chi siamo!”) nel 1823 acquista la collezione per una cifra enorme: 400 mila lire, pari a circa 700 milioni di euro attuali. Per fare un paragone, equivalgono a 8 volte il prezzo pagato da Soane per il sarcofago di Sethi I. La collezione approda a Genova, poi viene trasportata via terra a Torino. Si narra che sul passo dei Giovi si sentano ancora le “benedizioni” di chi trasportava il colosso di Sethi I.

Il colosso di Sethi II sano e salvo a Torino. E’ la statua più alta del Museo, ed ha una gemella al Louvre. Arenaria – ritrovata nella prima corte del tempio di Karnak. Altezza cm 516 (!)
Una delle statue più famose della Drovettiana, Ramses II. Basanite nera, altezza (senza basamento) 194 cm, larghezza 70 cm – da Karnak, tempio di Amon. In piccolo il sesto figlio Amonherkhepeshef, dall’altra parte è rappresentata Nefertari.
“Re guerriero, con un elmetto, di grandezza naturale, che esige delle ristorazioni per riunire i pezzi staccati. Questa statua in granito è curiosa per i suoi accessori e lo stile”

Il Canone Reale si frantuma nel viaggio, sarà oggetto di restauri e polemiche. I reperti vengono accolti nella Reale Accademia delle Scienze che diventa il primo museo al mondo interamente dedicato all’antico Egitto, l’8 novembre 1824.

La “Drovettiana” nelle illustrazioni dell’epoca
Ricostruzione del primo allestimento del Museo Egizio di Torino

Tra i primi visitatori Champollion che vuole verificare i suoi progressi nella traduzione dei geroglifici.

Drovetti morirà nel 1852, povero in canna e alle prese con una malattia mentale che rese penosi i suoi ultimi anni di vita. Dispone l’autopsia sul suo corpo nel testamento per essere certo di non essere sepolto vivo.

Sulla sua tomba le parole:

La tomba di Drovetti al Cimitero Monumentale di Torino. Busto di Giovanni Albertoni, foto Paola Redemagni

A Drovetti dobbiamo il rispetto per chi, nonostante il pensiero coloniale dell’epoca, riuscì a contribuire allo sviluppo egiziano. I suoi metodi non furono dissimili dai suoi coevi: antiquario e collezionista più che archeologo, saccheggiatore più che conservatore. Ma alla sua raccolta ed a Carlo Felice dobbiamo il nucleo centrale del nostro Museo Egizio – che, ricordiamocelo, è secondo solo a quello del Cairo.

Il busto di Drovetti a Barbania, copia della busto in bronzo sulla tomba a Torino
Il busto di Drovetti a Barbania, copia del busto in bronzo sulla tomba a Torino

RIFERIMENTI:

– Zatterin M. Il gigante del Nilo, 2002

– Accademia delle Scienze di Torino

– Silvio Curto, Storia del Museo Egizio di Torino, 1976

– Giorgio Caponnetti, Drovetti l’Egizio. Utet 2022

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

LE MONETE DI BELZONI

Una curiosità sul nostro amico Belzoni: visto il clamore delle sue scoperte ed il successo della mostra sulla tomba di Seti I fu coniata in Inghilterra anche una moneta commemorativa per celebrare l’apertura della Piramide di Chefren

Questa medaglia, anche se datata 1818, fu coniata da Edward Thomason a Birmingham probabilmente durante la prima metà del 1821.

La medaglia originale in bronzo del 1821

Il dritto dovrebbe basarsi sullo studio a matita di Brockedon conservato alla National Portrait Gallery di Londra e mostrato nella mostra tenutasi a Padova in occasione del bicentenario. Lo studio di Brockedon non è datato, ma sotto il busto di Belzoni ci sono deboli schizzi di piramidi, inclusa una all’interno di un cerchio, presumibilmente prove per il verso. Il ritratto sul dritto è straordinariamente accurato (come testimoniato da un amico di Belzoni, R. H. Norman).

Lo studio a matita di Brockedon – © National Portrait Gallery di Londra

Il rovescio non è così preciso; la piramide mostrata ha una parte superiore troncata e manca del residuo rivestimento esterno della Piramide di Chefren, rappresentando quindi la Piramide di Cheope. Ovviamente né Brockedon né Thomason avevano visto dal vero le Piramidi di Giza e furono indotti in errore da qualche altro dipinto dell’epoca, o forse dallo stesso Belzoni che, rientrato in Italia, usava un timbro con la sagoma della piramide di Cheope (!) e la scritta “APERTA 2 MAR 1818 DA G.B-“.

Ne esiste anche una versione in argento, di cui fu donato un esemplare al Museo Civico di Padova nel giugno 1821 dallo stesso Belzoni.

La versione in argento, sempre del 1821

Se vi trovate una di queste monete in casa avete un piccolo gruzzolo da parte: alle ultime aste quella in argento è stata battuta a 2,400 $ mentre quella in bronzo intorno ai 1,000 $

Nel frattempo anche Padova aveva dedicato una medaglia commemorativa realizzata nel 1819 da Luigi Manfredini, incisore della Zecca di Milano, forse anche come “riparazione” per lo sdoganamento assurdamente lungo delle due statue di Sekhmet donate alla città e rappresentate sulla medaglia. Di questa fu fatta solo la versione in bronzo (poi dicono di noi genovesi…).

Per non smentirsi, però, anche qui le operazioni andarono per le lunghe. Il contratto con l’artista, al quale fu attribuito un compenso di 120 lire, fu firmato il 6 giugno 1820. La moneta sarebbe stata ultimata soltanto nel febbraio del 1821.

La medaglia di Padova con le due statue di Sekhmet

Le iscrizioni:

Dritto: OB. DONVM. PATRIA. GRATA A. MDCCC. XIX.

sotto: L. MANFREDINI

nel campo del rovescio: IO. BAPT. BELZONI = PATAVINO = QVI. CEPHRENIS. PYRAMIDEM = APIDISQ. THEB. SEPVLSCVM = PRIMVS. APERVIT = ET. VRBEM. BERENICIS = NVBIAE. ET. LIBYAE. MON = IMPAVIDE. DETEXIT

Se avete questa in casa, non correte a cambiare l’auto: viaggia purtroppo sui 120 € di quotazione solamente

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

COPIARE PER PROTEGGERE

Oggi abbandoniamo per un attimo la storia degli uomini per un aspetto “tecnico”, legato comunque alle tecnologie a disposizione degli eredi degli scopritori che stiamo seguendo.

Il sarcofago di Sethi I è probabilmente il reperto più famoso delle esplorazioni di Belzoni in Egitto. Se ne è già parlato diffusamente sul Gruppo, e mostrato in quasi tutte le salse.

L’utilizzo di candele accese all’interno del sarcofago per creare atmosfera esoterica e dimostrarne la traslucenza ha contribuito al suo decadimento prima dell’avvento di luci più adatte

Giusto come memo, è lungo 284 cm, largo 112 e alto 81, ed è in alabastro egiziano traslucido spesso da 4.5 a 11.4 cm. Originariamente bianco, è diventato col tempo di color miele scuro a causa dell’inquinamento londinese e della cattiva conservazione al Soane Museum dove è arrivato dopo le peripezie che abbiamo visto.

La collocazione originale del sarcofago al Soane Museum

È inciso sia sulla parte interna che su quella esterna con brani del Libro delle Porte, incisioni un tempo riempite con il cosiddetto “blu Egitto” ora quasi del tutto scomparse anche a causa della pulizia impropria del sarcofago negli anni (ma la candeggina su un sarcofago egizio???). L’interno del sarcofago è decorato con un’immagine splendida della dea Nut che sta diventando via via sempre meno visibile.

Nut riprodotta all’interno del sarcofago

Nel 2017 è stata effettuata una copia del sarcofago in occasione di una mostra sul bicentenario della scoperta della tomba. È stata utilizzata una tecnica di imaging detta “fotogrammetria” che unisce immagini ad altissima risoluzione alla loro posizione spaziale. Sono state necessarie 4500 immagini scattate con una fotocamera Canon 5D (lo scrivo solo perché sono un canonista…) su una slitta motorizzata su 3 assi.

Fotogrammetria in atto. Sono stati utilizzati 2 flash a 45° per mantenere l’illuminazione costante ed evitare aberrazioni cromatiche dovute al bilanciamento del bianco
La scomposizione del sarcofago in settori per la sua ricostruzione 3D

Lo “scheletro” del sarcofago riprodotto è in poliuretano modellato roboticamente e coperto da migliaia di strati di inchiostri acrilici fotosensibili sviluppati dalla Océ – ciascuno strato di 2-40 micron – fino ad ottenere uno “strato” di 1.5 cm assolutamente fedele all’originale. Visto che la “stampa” è stata fatta a settori, i giunti sono stati rifiniti a mano con vernici acriliche ed il tutto ricoperto da uno strato di cera per simulare la lucentezza del materiale originale. Lo stesso procedimento è stato applicato ai frammenti del coperchio ritrovato da Belzoni.

Per quanto possa sembrare incredibile, questo è il “facsimile” ottenuto di Nut all’interno del sarcofago da fotografia digitale e stampa multistrato
Forse nella ricostruzione dei frammenti del coperchio del sarcofago si vede ancora meglio l’incredibile livello di dettaglio ottenuto
Il “blu Egitto” del sarcofago originale agli infrarossi. E la luce (infrarossa) fu…

La copia fisica è stata usata per la mostra; la copia digitale è stata invece conservata per verificare nel tempo lo stato di conservazione del sarcofago originale e cercare di prevenire ulteriori danni.

Non solo: dulcis in fundo, il “blu Egitto” ha una caratteristica peculiare: è composto prevalentemente da un raro minerale naturale, la cuprorivaite (CaCuSi4O10) che ha la proprietà di assorbire la radiazione visibile riemettendo una radiazione infrarossa (IR). Con la fotocamera modificata per rilevare gli infrarossi, sono state ottenute immagini straordinarie delle iscrizioni che saranno utilissime sia per studiare in maniera organica le iscrizioni che per intervenire sul restauro dell’originale, ove possibile.

Quando si dice che copiare può servire per proteggere…

E il risultato finale della “ri-materializzazione”, come è stata definita, alla mostra di Basilea del 2017

“COSE (ANCORA PIÙ) MERAVIGLIOSE”

IL REGALO DI DROVETTI

Drovetti in un disegno dell’architetto Franz Gau

Abbiamo già incontrato più volte la figura di Bernardino Drovetti, console francese in Egitto. Il “rivale” di Salt, quasi un supercattivo della storia di Belzoni. Ma non è proprio così. Lo approfondiremo più avanti, perché anche Drovetti avrà un enorme impatto sulla nostra comune passione.

Inizialmente Drovetti vede in Belzoni un alleato: viene dall’Italia anche lui, seppur molto inglesizzato ormai; non è un superstizioso mistico come Caviglia; riesce ad arrivare dove Drovetti non può e non riesce.

Drovetti gira in divisa, Belzoni in abiti arabi. Uniti dall’ammirazione per la cultura egizia, divisi dalla provenienza, dall’estrazione sociale e dal carattere.

Sono anche quasi amici: Drovetti, infatti, subito dopo il recupero del “Giovane Memnone” offre a Belzoni il coperchio di “un sarcofago stupendo”, basta che riesca a tirarlo fuori dalla tomba in cui giace. L’amicizia con il viceré d’Egitto permette a Drovetti di gestire molti reperti come se fossero cosa sua; oggi potrebbe sembrare incredibile se non fosse che, come abbiamo visto, personaggi come Zahi Hawass si prestano a visite private in siti non aperti al pubblico, tanto per fare un esempio…

Belzoni ovviamente accetta la sfida. La tomba è la cosiddetta “Tomba di Bruce”, quella che abbiamo visto descritta per la prima volta con le immagini degli arpisti quasi 50 anni prima (https://laciviltaegizia.org/2024/04/23/james-bruce/). Quello che Belzoni non sa è che Drovetti in quella tomba ci è già entrato, ma è stato nuovamente ingannato dai locali che lo hanno fatto entrare da un passaggio da loro stessi scavato e che non consentirebbe di estrarre il sarcofago o il suo coperchio.

Il nostro eroe entra quindi in una delle tombe più lunghe della Valle (125 metri in totale) attraverso lo stesso passaggio percorso da Drovetti, tanto da descrivere “lo non potei comprendere come un sarcofago siccome mi era stato descritto avesse potuto essere introdotto in quella cavità che l’arabo mostrava a dito”.

L’impresa pare impossibile, ma visto che la fortuna aiuta gli audaci, Belzoni vede una delle sue guide precipitare in uno dei pozzi e ferirsi gravemente. Recuperando il malcapitato, scopre il corridoio principale e l’ingresso “vero” della tomba. Diventa quindi possibile estrarre il coperchio (in fondo pesa “solo” 7 tonnellate…) ma immediatamente viene accusato di furto da un solerte funzionario locale. Interverrà personalmente Drovetti per confermare il “regalo” del coperchio e prendere possesso del sarcofago.

E così il coperchio dello splendido sarcofago di Ramses III (perché sua era la tomba, la KV11) finirà al Fitzwilliam Museum di Cambridge, donato da Belzoni in persona, e il sarcofago al Louvre, donato da Drovetti.

Il coperchio è di una bellezza stordente (la descrizione è sotto la sua foto), probabilmente i due pezzi meriterebbero di essere riuniti.

Ma poco dopo l’amicizia di Belzoni con Drovetti svanirà dietro ad un obelisco conteso. Anzi, affonderà, letteralmente.

Riferimenti:

  • Webster D, Giovanni Belzoni: Strongman Archaeologist, 1990
  • Belzoni GB, Narrative of the recent discoveries in Egypt and Nubia, 1835
  • De Andrade-Eggers, Discovering Ancient Egypt In Modernity: The Contribution Of An Antiquarian, Giovanni Belzoni. Herodoto, 2016
  • Zatterin M. Il gigante del Nilo, 2002
  • Sevadio G, L’italiano più famoso del mondo, Bompiani 2018
  • Dodson, Aidan. Rameses III, king of Egypt: his life and afterlife. American University in Cairo Press, 2019


Il coperchio del sarcofago di Ramses III (XX Dinastia, regno 1183-1152 a.C.). Fitzwilliam Museum – Cambridge

In granito rosso, dal peso di circa sette tonnellate e scolpito a forma di cartiglio, fu danneggiato nell’antichità dai tombaroli.

Il Faraone indossa la corona Atef ed è affiancato da Nephtis a sinistra e da Iside a destra, oltre che da due figure con corpo di serpente e testa di donna rappresentanti Nekhbet e Wadjet, protettrici dell’Alto e del Basso Egitto.


Il particolare della figura di Ramses III divinizzato. Fitzwilliam Museum – Cambridge

Ramses III fu vittima della cosiddetta “Congiura dell’harem” e fu assassinato tagliandogli la gola.

La sua mummia fu ritrovata nella DB320 a Deir El Bahari

Il sarcofago di Ramses III al Louvre.

Riporta capitoli del Libro dell’Amduat e del Libro delle Porte ma, benché attentamente scolpito, i testi non sono corretti – come se fossero stati copiati malamente da un artigiano non in grado di comprenderli.